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Autore: Florence    12/02/2009    5 recensioni
"Io, Carlisle Cullen, non avevo mai capito cosa significasse davvero cogliere un frutto proibito. Non fino a quando l'avevo incontrata di nuovo, dieci anni dopo e la dolcezza di quella mela mi aveva rapito. Quello che mi accadrà, sarà solo colpa mia, colpa dell'uomo che è sopravvissuto dentro al vampiro e di lei che, inaspettatamente, ha scaldato il mio cuore spezzato. Edward... perdonami..." E se a Volterra i Volturi si fossero comportati diversamente? Cosa è accaduto in dieci anni a Isabella Swan? E quale ruolo ha Carlisle in tutto questo? (What if... che prende l'avvio dalla fine di "New Moon" di S. Meyer)
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Carlisle Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Proibito' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Proibito-10

PROIBITO

 

Mie care lettrici (lettori?) questo capitolo è un po' *troppo* lungo, ma non voglio spezzarlo, perché si spezzerebbe l'atmosfera che ho cercato di creare... chiedo venia...!

10 –  Al pub - Carl


 

 

 

 

Non mi avrebbe aspettato. Sarebbe andata via delusa, perché non le avevo fatto capire niente.

Pensava che fossi anch’io all’ospedale... che ci voleva a dirle che, No, Bella, sono imbottigliato nel traffico dell’ora di punta, ma se mi aspetti corro da te!

Meglio Forks... oh quanto era meglio guidare a Forks, dove il rischio più grande era sorpassare il trattore dei Philips in curva, prima di arrivare a casa!

Stramaledettissimo traffico di Parigi!

Lei non mi avrebbe aspettato ed io sarei rimasto come un cieco a cercarla in una sala d’attesa gremita di gente.

Svoltai a sinistra, in Avenue de Doumesnil, certo che da lì sarei arrivato in pochi minuti e invece la strada era tutta bloccata.

L’autoradio,  dimenticata accesa, trasmetteva le note di una triste canzone di Edith Piaf.

L’ospedale era a poco più di un chilometro dal luogo dove mi trovavo, in coda, la musica graffiava l’aria pesante dell’abitacolo e, nota a nota, sprofondava nel mio petto, perdendovisi.

Era la prima volta che mi sentivo così: impotente, combattuto, disperato. Umano.

Sospirai profondamente, perché qualche riflesso aveva dato l’informazione al mio cervello, o a quel che avevo dentro la testa, che in quel momento, un uomo, avrebbe fatto così.

Avanzai di un metro soltanto, prima che l’auto avanti a me si fermasse di nuovo.

Chiusi gli occhi e mi costrinsi a visualizzare le immagini della mia famiglia. I loro volti sorridenti mi apparivano come catturati in un poster pubblicitario: sei modelli di varie età, elegantemente vestiti, in pose plastiche, con sorrisi bianchissimi e capelli in ordine.

Poi, in un angolo più buio del set fotografico, la mia mente creò l’immagine di un’altra persona: una ragazzina impacciata nei suoi jeans sformati, le mani nelle tasche della felpa col cappuccio di uno sbiadito color lavanda, lo sguardo basso, vergognoso, i capelli in disordine che ricadevano sulle spalle, tenute strette. Lei non era un’estranea. Due guance arrossate e le sue labbra vermiglie.

Bella...

 

Misi la freccia e fermai la mia BMW di traverso su un passo carrabile, scesi ed iniziai a correre sotto l’acqua, senza un motivo, senza giustificazioni, solo con una meta.

Bella...

Come pensavo: quando scorsi la sua figura, stretta nel cappotto scuro, che si allontanava dall’ospedale, proteggendosi con un ombrellino pieghevole rosso, mi bloccai.[i]

Illuso! Cosa mi aspettavo? Che rimanesse ad aspettarmi tutta la notte? Che mi telefonasse ancora? Le serviva un favore. Stop. Gliel’avrei fatto il giorno seguente e non mi sarei esposto ancora. I volti dei sei modelli, nella mia testa, si erano contorti in espressioni di rabbia.

Ma come era possibile che io, che ero vissuto per quasi quattrcento anni immobile, come una montagna, lasciando che il tempo scorresse mentre mi rintanavo nella mia tranquillità e, dopo, nella stabilità che avevo raggiunto con Esme, io che ero apprezzato da tutti per la mia temperanza, adesso stessi perdendo la ragione, seguendo un’impulsività che non sapevo di avere?

Una ventata scompigliò i miei capelli fradici, ribaltando alcuni ombrelli di passanti lontani e portando con sé l’odore meraviglioso di Bella, perso nell’aria. Chiusi gli occhi inspirando, senza accorgermene.

In pochi passi fui davanti a lei.

 

-Carl??-, domandò con un sussurro che mi bloccò i pensieri per un istante, per la sua melodia.

Rimasi a guardarla, annientato, sperando che la giovane fanciulla corresse in aiuto del vampiro immortale che aveva perso la lingua.

-Cosa... cosa ci fai qui?-, fu la prima domanda, alla quale non sapevo cosa dirle.

Ne seguirono molte altre, quella sera, e per tutte, tranne una, fu difficile rispondere.

-Sei tutto bagnato... ti verrà il raffreddore...-, e si avvicinò a me, alzando il braccio e coprendomi con il suo ombrellino rosso, attraverso il quale la luce del lampione mutava i colori e li rendeva irreali, come era lei.

Non ci eravamo mai trovati così vicini.

-Grazie...-, riuscii ad articolare, mentre mi imponevo di non respirare e di stare calmo. Montagna, mi ripetevo, Carlisle, sei una montagna!

-Prego. Allora... mi vuoi dire come mai sei tornato qua?-, sembrava divertita. Se avessi annusato il suo odore, sicuramente avrei scoperto sentori di agitazione. Era brava a nascondere le emozioni, però...

Frugai in tasca ed estrassi una penna.

-Ricetta medica a domicilio!-, risposi, imitando il suo modo di fare scherzoso, sebbene terrorizzato.

Rise, e le note di quella risata entrarono nel vuoto del mio petto e lo fecero traboccare come se fosse stata acqua cristallina, di fonte.

-E il ricettario dov’è? Se hai dietro anche quello, ormai è tutto bagnato!-, ma come faceva ad essere così vitale, così maledettamente diversa dalla solita, malinconica Bella che aveva conquistato prima Edward e dopo me. Non risposi subito.

Per un istante scorsi nei suoi occhi divertiti un lampo di paura, come se la maschera d’argilla che si sforzava di indossare avesse iniziato a dissolversi in polvere.

-L’ho dimenticato in macchina-, ammisi, sorridendo imbarazzato. Poi mi rilassai e costrinsi il vampiro a lasciare spazio all’uomo che non era mai morto e aspettava solo un bacio delle favole per svegliarsi dal sonno in cui era sprofondato.

-Potremmo andare a prenderlo e magari anche a bere qualcosa...-, disse quell’uomo, e il vampiro, seppur guardingo, se ne compiacque.

Bella arrossì violentemente e pensò che, sotto quella luce strana creata dal suo ombrello, non me ne fossi accorto. La vidi combattuta, per un attimo.

-D’accordo-, rispose e mi sorrise curiosa: forse voleva sapere dove volevo portarla.

Mi pentii immediatamente del mio invito avventato: non uscivo per locali o ristoranti, non avevo idea di dove andare.

-Perché non andiamo a quel pub in Rue de La Paix, dove suonano dal vivo?-, mi salvò.

-Perfetto-, poi la presi sottobraccio, sfilandole l’ombrello di mano e conducendola verso la mia auto abbandonata. Il suo cuore batteva all’impazzata e anche il mio, o meglio, nelle mie orecchie rimbombava il suo battito, ed era un po’ come vivere delle stesse emozioni, che pensavo di aver dimenticato.

Camminammo veloci: volevamo interrompere quel contatto al più presto. Era troppo pericoloso.

-Complimenti per il parcheggio, dottor Maxwell!-, esclamò quando vide la mia auto con due ruote sul marciapiede. Sorrisi imbarazzato, passandomi una mano tra i capelli bagnati. Quella cosa faceva morire le donne... lo sapevo... non volevo farlo! Non volevo giocare in vantaggio!

Bella abbassò il viso e sparì dentro l’abitacolo che immediatamente profumò di lei e del sangue che era di nuovo affiorato alle sue guance.

 

Dieci anni fa non avrei mai pensato che avrebbe potuto succedere qualcosa di simile. Una volta avevo accompagnato Bella a casa, con la mia auto, ma c’era Edward, assieme a lei, e la stringeva forte a sé, impaurito per le minacce che si addensavano sul loro amore.

Dieci anni fa Bella era una ragazzina. Adesso, invece...

 

Misi in moto e svicolai rapidamente dal mio parcheggio improvvisato, infilandomi nuovamente nel serpentone di lamiere e luci che si snodava, lento per le vie di Parigi.

Ogni secondo in più in quella macchina era un secondo in meno che riuscivo a resistere prima di cedere alla tentazione che lei mi offriva. Fortunatamente il locale era vicino.

Quando spensi il motore e aprii la portiera, una ventata di aria fresca e leggera schiarì i miei pensieri: mi resi conto solo allora che né lei, né io avevamo parlato durante tutto il tragitto.

Entrammo nel pub dove l’aria stagnante di birra e fritto appestava l’ambiente scuro, ma accogliente e sedemmo ad un tavolo in un angolo della sala. Il silenzio non poteva durare ancora a lungo, pensai agitato.

Sfilai il cappotto e Bella lo prese prima che potessi trattenerlo: trotterellò fino al grande camino che si appoggiava ad una parete in pietra e lo sistemò su un attaccapanni là vicino, perché si asciugasse. Quel posto ricordava un rifugio alpino.

-I capelli si asciugheranno all’aria. Qua fa caldo-, disse, quasi a rassicurarmi, poi tolse il suo cappotto e anche la giacca del completo, rimanendo con un dolcevita color melanzana.

Sorridendo abbassai il viso e istintivamente avvicinai di nuovo la mano ai capelli. Bella mi guardava, dovevo fermarmi per evitare che le sue difese crollassero e la lasciassero esposta al vampiro che dormiva in me.

Incrociai per una frazione di secondo il suo sguardo, le sorrisi di nuovo e passai la mano tra i capelli, energicamente, scompigliandoli e facendo cadere qualche gocciolina d’acqua sulla tavola di legno scuro e lucido per l’età. Risi come un bambino che ha appena fatto una marachella per ricevere l’applauso dei suoi nonni. Non sapevo resisterle...

Non me ne importava più nulla di essere corretto! La volevo più di quanto potessi ricordare di aver mai voluto qualcosa. La desideravo più di quanto avessi sognato Esme, la giovane maestrina scappata dal matrimonio fallito, a cui avevo comunicato che suo figlio era morto: la vampira che poi era diventata mia moglie.

Cristo quanto desideravo Isabella Swan!

La roccia friabile sotto alla montagna stava iniziando a cedere, la lontananza dai miei simili mi aveva trasformato in qualcosa che non pensavo di poter essere! O forse era solo a causa sua, della sua spontaneità e della malinconia che, a tratti, appannava il suo sguardo e la rendeva nuda, davanti a me, che conoscevo meglio di lei quale fosse stata la sua vita dolorosa.

-Allora, questa ricetta?-, domandò ad un tratto, nascondendosi dietro al menù incrostato che teneva tra le mani. Era più coraggiosa di me. Ma questo lo avevo sempre saputo, me lo aveva detto Edward, quando si erano messi insieme.

Una fitta mi colpì laddove avrebbe dovuto esserci il mio cuore. Traditore.

-Carl...?-, aveva abbassato il menù, guardandomi perplessa.

Mi colpii la fronte con la mano: -Accidenti... la mia borsa è ancora in macchina...-

Sorrise maliziosa socchiudendo gli occhi: -Ammettilo che non vuoi farmela!-

-Dipende da cos’è: la responsabilità me la prendo io. Forse dovrei accertarmi delle tue condizioni fisiche, prima...-, la conversazione era partita e ci stavamo via via sciogliendo.

No –raggelai constatando l’evidenza-, stavamo flirtando!

-So badare a me stessa, dottor Maxwell! Piuttosto... mi sa che un bel raffreddore la costringerà a letto per una settimana! Cosa stava facendo? Fred Astair in “Singin’ in the rain”?-, sembrava stupita lei stessa dalle sue parole, che uscivano fluide come se si fosse preparata la parte a memoria.

-Era tutta una scusa, dottoressa Swan... per portarla a cena fuori...-, risposi ricambiando il suo tono, ma qualcosa nel suo sguardo si sciolse, e non riuscì più a sostenere il mio.

Stava di nuovo arrossendo. O affondavo il colpo, o battevo la ritirata.

-Comunque, se stessi male, potrei contare su di lei, vero dottoressa? In cambio della ricetta che le serve...-, scelsi l’attacco e me ne pentii immediatamente.

Si ritirò sulla piccola panca di legno, portando le mani in grembo e torturandosele per qualche secondo.

-Carl... davvero... non scherzare, per favore... Io non riesco nemmeno a... -, la sua espressione era tornata seria, colpevole, la sua voce si era interrotta a metà di una frase che non aveva voluto proseguire. Ero io quello che avrebbe dovuto sentirsi colpevole.

 

Io, che avevo deciso di fare qualcosa di proibito...

 

Alzai le mani come a chiedere una tregua e le sorrisi, facendo appello al vampiro che faceva girare la testa alle donne mortali. Aspettai che fosse lei a parlare, e lei mi stupì.

-Chi sei, Carl?-, puntò gli occhi dritti nei miei, trafiggendomi. Mi fece paura. Stava cominciando a ricordare, o aveva intenzione di farlo?

-Cioè... intendo... cosa facevi a Victoria, dove lavoravi...-, gesticolò, per aiutarsi nell’esprimersi. Tirai un sospiro di sollievo. Voleva solo fare conversazione.

Ma io ne avevo il coraggio? Deglutii e sperai che lei non si fosse accorta di quel gesto sospetto.

-Facevo quello che faccio qua, solo che...-

L’arrivo della cameriera, che mi squadrò rapidamente e voracemente, mi interruppe.

-Volete ordinare?-, chiese cercando di modulare la sua voce in maniera sensuale. La vidi lanciare un fugace sguardo d’odio a Bella, seduta davanti a me, che cercava di ricordare quello che aveva precedentemente scelto.

-Per me un croque monsieur e una Heineken media, grazie-, poi mi guardò, interrogativa.

-No, no... niente per me, grazie-, mi affrettai a rispondere, abbassando lo sguardo su quegli occhi color cioccolato che mi fissavano stupiti.

-Dai, Carl, prendi qualcosa... hanno un ottimo...-

-Del vino rosso, per favore-, parlai interrompendola. Qualsiasi cosa fosse ottima per lei, a me avrebbe certamente provocato disgusto. Il vino, invece, riuscivo a berlo, ogni tanto. Me lo avevano insegnato in Italia i Volturi. “Sa di sangue, se annusi bene”; dicevano e in effetti, sforzandosi e usando una fervida immaginazione, il sentore di ossido e ferro misto alla sensazione di dolce bruciore quando scendeva in gola, poteva, lontanamente, ricordare un surrogato insipido e troppo liquido del sangue, utile per apparire umani in condizioni critiche.

Quella era una condizione critica...

Bella mi guardò con un filo di disappunto: forse pensava che non apprezzassi quel posto, che fossi troppo snob per un pub e una birra. Poi strizzò gli occhi, appena e si rivolse alla cameriera.

-Ho cambiato idea, mi scusi: prendo anch’io del vino rosso al posto della birra-, mi fissava. Non so perché, ma mi era parsa al contempo una tentazione e una sfida.

Aspettammo che la donna si allontanasse, ancheggiando e tornammo ai nostri discorsi.

-Dicevi?-, mi stuzzicò.

-Non ricordo...-

-Cosa facevi in Canada... –

-Sì... facevo il medico, come adesso. Solo che lavoravo in piccole cliniche di paese-, avevo risposto,  no? Perché continuava a fissarmi?

-Lavoravi... e?-

Aggrottai le sopracciglia e fui nuovamente grato alla cameriera che era tornata con due enormi calici di vino.

-Il croque monsieur sta arrivando-, disse senza entusiasmo a Bella, e si dileguò.

Ringraziammo e Bella sollevò il calice, tenendolo dalla coppa: il calore della sua mano faceva evaporare parte dell’alcool, diffondendo attorno a lei aromi di tannini e uva. Io lo presi per lo stelo, non perché sapevo come si degusta il vino, ma per non raffreddarlo. Più era caldo, più lo avrei sopportato. Bella osservò il mio gesto e alzò impercettibilmente le sopracciglia, forse considerando che per i suoi standard era già troppo quello che stava facendo.

-Allora... a cosa brindiamo?-, domandò imbarazzata.

Pensai un po’, ma non seppi darle una risposta che non fosse pericolosa, quindi strinsi le labbra e scossi leggermente la testa.

-A due medici soli e disperati, in una notte di pioggia a Parigi... ok?-

Mi aprii in un sorriso. Sì, era ok, Bella: esattamente quello che eravamo, esattamente la sensazione che provavo io, esattamente le stesse parole, sensuali e spaventate.

Ma sentirle dalle tue labbra rendeva dolce persino questo stupido vino e mi ubriacava di te.

Avvicinò il suo calice al mio e lo fece tintinnare delicatamente. Il suono riportò alla mia mente la risata cristallina di Alice, quando volteggiava nella nostra nuova casa di Forks, ancora spoglia e senza mobilia. Abbassai lo sguardo: una fitta di dolore mi bloccò per un istante. Non ce la facevo più a portarmi tutto dentro. Secoli di sofferenze mai esternate e soltanto pochi anni, a confronto, di pace.

-Lavoravo e avevo una famiglia-, ammisi, tornando alla sua domanda. Mi guardò contrita leggendo l’amarezza nei miei occhi.

-Carl...-, avvicinò la sua mano alla mia, abbandonata sul tavolo di legno. La ritrassi prima che potesse sfiorarmi.

-Adesso sono qui-, dissi sforzandomi di sorriderle e di apparire il più innocuo possibile.

Prese il calice con due mani e fece ondeggiare il vino al suo interno, osservandolo e pensando.

-Anche io avevo una famiglia-, disse piano, come se fosse un lamento, -Ma è andata male... e adesso sono qui anch’io-, sorrise come poco prima avevo fatto io, poi osservò la impercettibile riga lasciata dalla fede sulla sua pelle che stava perdendo del tutto la scarsa abbronzatura dell’estate.

-A due medici soli e disperati, in una notte di pioggia a Parigi... analisi perfetta!-, colpii delicatamente il suo bicchiere con il mio e vidi un sorriso nei suoi occhi.

-Com’è finita? ... se non fa troppo male parlarne...-, chiese cauta, sapendo che a domanda, avrei risposto con una uguale domanda.

-Preferisco ricordare com’è iniziata... lei era una mia... paziente e... siamo stati felici...-, quanto era duro parlare di Esme! Per un attimo pensai che i miei occhi scintillarono nel buio. –Poi io l’ho tradita. Ho tradito la sua fiducia lasciando che la nostra famiglia si sgretolasse-, abbassai lo sguardo.

Bella mi guardò: le sue labbra socchiuse, il fiato trattenuto, la fugace ombra di terrore sui suoi occhi... capii che aveva frainteso le mie parole e che mi credeva un libertino.

-Ho lasciato che si prendessero i suoi figli...-, aggiunsi, quasi per discolparmi di accuse che in realtà speravo potessero diventare vere, con lei. In fondo quello che avevo detto era vero. Mi avrebbe guidato Bella verso la verità che voleva sentirsi dire.

Aggrottò le sopracciglia senza capire, poi strizzo i lati degli occhi, come se stesse intravedendo la risposta.

-Lei aveva dei figli suoi e... se li è ripresi il padre naturale?-, domandò esitante. Forse stava ricostruendo tutto un romanzo nella sua testa adorabile.

No, non era andata così: noi avevamo dei figli *nostri* e io avevo lasciato che i Volturi se li tenessero con sé. Loro hanno preferito rinunciare alla loro vita, piuttosto che perdere la tua, Bella!

-Più o meno...-, bevvi il primo sorso di vino. Non era poi così buono come mi ricordavo. Non sapeva più di tanto di sangue. Bruciava soltanto ed era troppo acquoso. Forse la mia espressione impercettibilmente disgustata arrivò a Bella come una richiesta di non fare altre domande, perché stavo soffrendo troppo.

-Ok... tocca a te. Domanda pure-, mi passò la palla, rassegnata, stringendosi nelle spalle. Sapeva cosa le avrei chiesto ed io mi limitai a guardarla un po’ più intensamente.

-Sono divorziata. Lui... io... non ero adatta per lui. Non ho saputo dargli quello che voleva-, chinò la testa, vergognandosi. Io sgranai gli occhi: non potevo credere che Bella pensasse davvero che fosse a causa sua che il suo matrimonio con Jacob Black era naufragato!

Fui io a sentire la necessità viscerale di prenderle la mano. La posai dolcemente sopra la sua e la sentii rabbrividire, ma non disse niente.

-Ho perso il nostro bambino... per due volte-,  si sentiva in colpa come se avesse confessato un efferato delitto. Strinsi la sua mano nella mia, delicatamente, finché non alzò lo sguardo e i suoi occhi lucidi mi dissero che stava meglio. Se le avessi detto che aveva torto, che non era colpa sua, si sarebbe di nuovo più rattristata.

-... e quindi siamo scappati entrambi a Parigi-, conclusi. Il ‘noi’ sottinteso in quella frase mi fece scorrere un brivido sulla schiena.

Poco dopo arrivò il suo panino, che sbocconcellò controvoglia, segno che le era passato l’appetito. I movimenti nervosi con cui portava il cibo alla bocca e le sue labbra rosse posate sul vetro del calice, il profumo che emanava, come una rosa che sboccia piano piano, i suoi occhi che si perdevano nei miei e dopo fuggivano, cercando un altro punto su cui fissarsi, il calore del suo corpo, così vicino al mio, tutto mi faceva lentamente impazzire.

Sapevo di esercitare su di lei un fascino arcano e non avevo più voglia di nascondere questo mio aspetto: più fosse stata convinta che non ero un uomo normale, più si sarebbe lentamente spaventata. Con Jacob era andata così, avrei potuto comunque salvarla, grazie al suo istinto di sopravvivenza...

-Sono contenta di averti incontrato, Carl-, la sua voce calda e bassa, quasi sonnolenta per il vino che stava annebbiando la sua mente stanca e il calore della sua mano, di nuovo stretta alla mia, mi colpirono come uno schiaffo. Il dolore che provai fu solo una carezza sulla mia anima masochista e fragile.

-Sono felice anch’io... sei una donna... speciale-

Le sorrisi dolcemente. Volevo baciarla. Volevo scoprire di cosa sapevano quelle labbra morbide, che in quell’istante stava mordendo, forse pentita dalle sue parole, che si schiudevano in un sospiro caldo, che sapeva di vino, che sapeva di lei.

Scrollai la testa, rassegnato: mi stavo uccidendo lentamente, perché a questa sofferenza doveva pur corrispondere una fine. In quel momento, rigido su una panca di legno di un vecchio pub di Parigi, non potevo pensare di vivere un’eternità senza di lei...

-Eri come una montagna, vero, Carl? Ti sentivi sicuro nel tuo mondo e dopo... dopo il terremoto ha incrinato la roccia... giusto? Io mi sento così, a volte... anzi, io non sono mai stata una montagna, non sono mai stata forte abbastanza...-

Le sue parole mi avevano trafitto come lame incandescenti; la sua interpretazione della mia esistenza... della sua... ero sconcertato che potessimo realmente essere così in sintonia, ben oltre quello che fantasticavo durante la notte senza sonno.

Bella mi aveva letto dentro. Non conosceva i fatti, ma aveva messo a nudo la mia anima, la mia essenza.

-La montagna si sta ancora sgretolando...-, dissi in un soffio che riempii di significato, di sottintesi. Della voglia che avevo di lei.

Cambiò posizione e si appoggiò con le spalle alla parte dietro a lei, accavallando le gambe sotto al tavolo. Potevo vedere solo le sue ginocchia.

-Sonniferi-, bevve un altro sorso lentamente, -Voglio che tu mi prescriva dei sonniferi, Carl-

Lo avevo immaginato. Osservavo la sua vita da lontano da dieci anni e sapevo esattamente quale fosse il suo stato d’animo, anche se non avevo i poteri di Jasper.

-Incubi?-, domandai imitandola e bevendo.

-E’ sempre peggio... credo che sia perché sono così ad Est...-, la sua frase mi aveva colto impreparato. Sembravano le parole di un vecchio stregone di un romanzo fantasy. Poi capii cosa intendeva.

-Ho perso due anni della mia vita, sai Carl?-, un altro sorso. La sua voce si faceva sempre più sensuale, via via che il vino scendeva dalle sue labbra.

-Li ho dimenticati-, fissava un punto davanti a sé, senza guardarlo veramente. Mi sentii un vigliacco per non poterla aiutare...

-Un momento prima ero a Phoenix, con mia madre e il suo attuale marito, un secondo dopo in un letto d’ospedale in Italia, con postumi di una frattura alla gamba, una cicatrice in testa e questa-, fece scorrere la stoffa della sua maglia sul braccio fino a scoprire il punto dove spiccava una cicatrice che conoscevo bene. Avvicinò il braccio a me.

Rimasi immobile.

-Beh? Nessuna reazione? Ti sembra una cicatrice normale, questa? Sembra che sia stata marcata a fuoco come nel medioevo, ma quello che è assurdo è che è sempre fredda...-, spinse ancora di più il polso bianco e delicato sotto al mio naso, finché non lo sostenni con la destra e feci scorrere il dito sulla sua cicatrice.

La vidi provare tre diversi tipi di brivido: non pensavo si potessero catalogare.

Il primo, per il freddo, al tocco della la mia mano.

Il secondo, subito dopo, per l’emozione di quel contatto, delicato e intimo.

Il terzo, infine, che la percorse come una scossa elettrica partita dalle mie dita fino al cuore, dove si fermò, triturandolo. Lo stesso brivido che provai io, in direzione opposta.

Ci perdemmo l’uno negli occhi dell’altra per una piccola infinità. Poi Bella deglutì e ritrasse la mano.

-Tu che sei un chirurgo... pensi che si possa togliere?-, mi domandò come aveva fatto quella volta, nell’ospedale a Firenze.

-Teoricamente sì… ma sei proprio sicura di volerla cancellare?-

Ripetei le stesse parole di allora, e la vidi impallidire.

Volevo che ricordasse, che scappasse da me, che mi considerasse solo uno schifoso approfittatore. Volevo che mi scacciasse dalla sua vita una volta per tutte.

Dieci anni prima Bella non aveva risposto a quella domanda.

 

-Sì. E voglio che sia tu a farlo, Carl-, disse allora fissandomi con determinazione.



[i] Suggestione presa pari pari da Heroes, season 1…





***

 ... to be continued...

 

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

***

Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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