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Autore: Edith Edison    26/09/2015    5 recensioni
Newtmas||Long||AU!HighSchool
« Newt! » Newt roteò gli occhi e sbuffò scocciato, osservando Thomas che correva nella sua direzione. [...]
Era un tipo solitario, lui: non gli piaceva stare in compagnia, specie dei suoi coetanei. [...]
Eppure Thomas non si era mai lasciato intimorire, sembrava voler diventare suo amico a tutti i costi.
***
Il fatto che avesse lasciato entrare quel ragazzo sempre troppo pimpante e curioso nella sua vita non significava che improvvisamente fosse diventato socievole. Continuavano a piacergli la solitudine e la tranquillità, però adesso parlava con qualche compagno a scuola, persino con qualche femmina.
Eppure l'unico a cui faceva vedere i suoi disegni era Tommy. L'unico che avesse mai invitato a casa sua era Tommy.
L'unico a cui avesse mai fatto un regalo era Tommy.
***
Quando Thomas se n'era ormai andato da venticinque minuti esatti, Newt si accorse di sentire ancora la sensazione delle sue braccia intorno al proprio esile corpo; ce l'aveva marchiato sulla pelle, quell'abbraccio.
***
« Speravo... » Intervenne Thomas e Newt riconobbe un leggero accento americano. « ...che potessi chiudere un occhio per un tuo vecchio amico. » Concluse posando lo sguardo sul biondo.
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Minho, Newt, Teresa, Thomas, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Remember how we were, shuckface?



Capitolo 3: I’ll help you

Presente

Newt si stava guardando allo specchio da un bel po’ ormai.
Aveva scelto quello alla fine del corridoio, perché il suo obiettivo non era saggiare il suo fisico, sistemarsi i capelli biondi alla bell’è meglio, evitare di abbottonare la camicia storta.
Voleva guardarsi camminare.
A volte – ma solo a volte – il ragazzo si svegliava la mattina con la sensazione che fosse cambiato qualcosa, qualcosa di fondamentale importanza visto che gli sarebbe stato impossibile avvertire una variazione demenziale.
E lui, ogni singola volta, sperava di essere tornato come nuovo.
Eppure eccolo lì, davanti ad uno stupido specchio, un’effimera superficie riflettente, a far scivolare le iridi sulla propria figura.
Zoppicava.
Zoppicava come avrebbe fatto per il resto della sua vita.
Non era cambiato nulla, il suo corpo gli aveva teso per l’ennesima volta una trappola, lo aveva reso protagonista di uno scherzo di cattivo gusto.
Perché ci cascava sempre?
Perché non riusciva ad accettare la realtà?
Un battito di ciglia dopo era a terra, premeva forte le mani sulla gamba malandata e gemeva perché faceva male, faceva un male del diavolo.
Alzò gli occhi colmi di lacrime mai versate al cielo e chiese a se stesso se si trattasse di un promemoria.
Cosa stava esattamente tentando di dirgli quel dolore?
Ma Newt lo sapeva bene, conosceva quelle parole a memoria.
Non sarebbe mai guarito. Non c’era niente da fare.
Si sarebbe portato quel dolore dietro per sempre, senza se e senza ma, quella sensazione pungente, un viscido e strisciante ricordo di quel giorno infernale.
Non si sarebbe mai ripreso.
Semplicemente non era possibile.
Gettò nuovamente un’occhiata allo specchio, nel masochista ed insano desiderio di vedersi a pezzi, distrutto sul pavimento di casa, irrecuperabile nella propria sofferenza, ma quello stava riflettendo un’altra persona.
Stava riflettendo Thomas.


Newt si portò di scatto la mano destra agli occhi, come per asciugarsi il viso dalle lacrime salate, e lo avrebbe fatto se solo non si fosse accorto di non star piangendo.
Poi si sorprese a sorridere amaramente; lui non piangeva.
« Ridi di te stesso? » Per quanto assurdo potesse essere, Thomas aveva parlato.
Così il biondo si voltò, sicuro di trovarlo dietro se stesso; non avrebbe saputo descrivere il senso di vuoto e stranezza che lo colse quando si rese conto di essere da solo.
« Sono davanti a te, Newton. » Ed era strano, perché Tommy non lo aveva mai chiamato Newton, per l’amico c’era stato sempre e solo Newt.
« Come fai ad esser… »
« Sono davanti a te. Non ti basta? »
Lo guardò negli occhi e il cuore cominciò a battergli all’impazzata, sembrava stesse partecipando ad una gara di velocità. Quegli occhi ambrati erano così…assenti.
Perciò Newt avrebbe voluto urlargli che no, non gli bastava, perché non era materialmente possibile che lo specchio lo stesse riflettendo pur non essendo presente nel corridoio, avrebbe voluto avvicinarsi e provare a toccarlo e, nel caso in cui fosse stato reale e consistente, lo avrebbe spinto e graffiato e gli avrebbe detto che i suoi occhi privi di alcun sentimento, glaciali e distanti non avevano senso.
Gli avrebbe voluto sussurrare che quello sguardo lo stava lacerando dentro, che faceva male quasi quanto la sua gamba.
Ma rimase zitto ed in silenzio, il suo corpo non accennava al minimo movimento, la sua bocca pareva aver perso la capacità di articolare le parole.
« Rispondimi, Newton. Ridi di te stesso? »
Annuì piano, ripromettendosi di comporre una frase di senso compiuto alla prossima domanda che gli avrebbe rivolto – sapeva che lo avrebbe fatto.
Thomas sorrise; e nemmeno quello sembrava appartenergli, non era uno di quei sorrisi che Newt da piccolo aveva detestato con tutte le sue forze, uno di quelli che gli andavano da un orecchio all’altro e che – Newt aveva notato durante i giorni precedenti – non aveva mai smesso di fare.
Quello era un ghigno, crudele e derisorio.
Ebbe l’impressione che un migliaio di spilli gli avesse perforato la carne della gamba, provocandogli un ulteriore dolore che lo fece piegare su se stesso e lamentarsi senza riuscire a trattenersi, strizzando gli occhi e distendendo le labbra in una linea sottile.
« Perché ridi di te stesso? » Perfino il tono della voce era diverso: roco e grave, quasi bisbigliato, ironico e…sbagliato.
Già, era tutto sbagliato.
Quell’aura di malvagità stonava intorno a Thomas come una dissonanza.
Perché Tommy lo chiamava Newt, non Newton.
Perché Tommy lo riscaldava con una sola breve occhiata, non lo immobilizzava sul posto.
Perché Tommy non lo derideva e non ghignava, Tommy lo appoggiava e sorrideva.
Tommy non gli faceva del male.
« Chi sei? »
Quello scoppiò a ridere, quasi Newt avesse raccontato la battuta del secolo.
« Cosa intendi, Newton? »
« Non sei Thomas. Chi sei? » Replicò. Non percepiva più il dolore alla gamba, tutto ciò che i suoi sensi riuscivano a visualizzare era quella figura.
Figura che – il biondo continuò a chiedersi per l’intera durata del processo cosa stesse succedendo, come diamine fosse possibile una cosa del genere – stava uscendo dallo specchio e gli si stava avvicinando, la postura fiera e priva di insicurezza, lento ed impavido. Quando fu esattamente davanti a lui, si inginocchiò; era ad un palmo dal naso di Newt, i loro respiri si confondevano e il biondo sgranò gli occhi quando respirò il suo odore e si rese conto che si trattava dello stesso di Tommy.
« Sono il tuo peggior incubo. »

***

Newt quel giorno aveva seriamente considerato l'eventualità di rimanere a casa rannicchiato nel suo letto ed avvolto dalle lenzuola di cotone: si era svegliato alle tre e mezza di notte con il fiatone ed il sudore appiccicato alla pelle, il cuore in gola ed una sensazione di paura al petto che non si era dissolta facilmente.
Poi non si era più riaddormentato.
Aveva osservato la notte lasciare il posto al giorno, accarezzato con gli occhi la prima luce del mattino che entrava timida dalla tapparella.
E la gamba pulsava, come beffeggiandosi di Newt stesso, quasi suggerendogli che l'incubo non fosse stato solo tale, che ci fosse una parte di verità in quella visione terrificante alla quale aveva dato uno scorcio nel sonno.
Aveva pensato di prendersi una giornata per se stesso, di pensare alla sua salute.
Ma la verità era che Newt non aveva la minima intenzione di restare esclusivamente in compagnia dei suoi pensieri, l'idea lo faceva rabbrividire. 
Più volte quella notte aveva ardentemente desiderato una distrazione, pregato che il tempo trascorresse più rapidamente del normale, invece che continuare a scandire con esasperante continuità secondi e minuti.
Così aveva chiamato Minho per chiedergli un passaggio, ingoiato frettolosamente un paio di antidolorifici - e ne aveva infilato qualcuno nello zaino, non si sapeva mai - e salutato sua madre che lo aveva guardato con sospetto.
Il suo migliore amico era arrivato davanti casa del biondo in un battibaleno, a dispetto di tutto l'asiatico era un tipo estremamente puntuale, portava al polso un orologio digitale che non abbandonava mai, in particolar modo mentre correva e doveva calcolare i suoi tempi, verificando se fosse migliorato o peggiorato - anche se, in pratica, non succedeva mai.
Appena si era accomodato nella Toyota rigorosamente nera e tirata a lucido - teneva molto alla sua macchina -, Minho aveva messo in moto ed era partito senza alcuna esitazione.
« Che succede? »
Newt roteò gli occhi. In alcuni momenti odiava essere un libro aperto per i suoi migliori amici.
« Niente. Che intendi? »
L'asiatico fischiò. « Wow, Newt. Resto sempre più impressionato dalla tua capacità di raccontare stronzate. » Gli lanciò una breve e tagliente, quanto seria, occhiata. « Hai una faccia pessima. Cioè sei sempre brutto, ma oggi particolarmente. »
Newt si lasciò andare ad una risata divertita. Quel mucchio di sploff sarebbe riuscito a tirarlo su di morale anche nel suo giorno peggiore, anche quando avrebbe rischiato di affondare definitivamente. Minho - così come Teresa - era la sua ancora.
L'asiatico sorrise, deliziato dalla reazione del biondo. « Hai dormito? »
« Poco e male. Ho le occhiaie? »
« Già. » 
Newt maledisse mentalmente il proprio pallore, ogni qualvolta fosse stanco o particolarmente spossato, le occhiaie violacee si stagliavano sulla propria pelle focalizzando l'attenzione di chiunque lo osservasse. 
« Ti fa male la gamba? »
Il biondo borbottò qualcosa d'incomprensibile e si ostinò a far vagare lo sguardo fuori dal finestrino del passeggero.
« Cosa te lo fa pensare? »
Minho, per tutta risposta, sbuffò scocciato. « La smetti? Ti conosco, sei un rincaspiato che preferisce farsela a piedi ogni mattina, mi chiedi un passaggio solo quando ti fa male la gamba. » Gli spiegò tutto ad un fiato. « Anche se non ti dico niente, non vuol dire che non ci faccia caso. » Aggiunse poi più piano, come se temesse l'effetto che le sue parole avrebbero potuto sortire sul suo migliore amico.
Comunque fosse, solamente nell'udire quell'ultima frase, Newton decise di osservarlo, la bocca socchiusa a causa dello stupore. 
Non che non lo sapesse. Cioè, era consapevole delle occasioni in cui gli occhi di Minho indugiavano più del dovuto sul suo corpo, dei momenti in cui lo controllava, concentrandosi sulla sua camminata e tentando di comprendere se zoppicasse o no come il giorno precedente.
Sebbene si rendesse conto di tutti questi piccoli gesti, la cosa che lo sorprese maggiormente fu il timore che l'asiatico provava nei confronti della sua reazione: un sentimento talmente tanto presente da fargli mantenere il silenzio e farlo riflettere con cautela sui termini di cui servirsi. 
« Ho preso degli antidolorifici. » Bisbigliò solamente, sperando che l'argomento fosse esaurito.

Di fatti, non parlarono di nient'altro finché non arrivarono a scuola. 
Teresa li stava aspettando con il cellulare fra le mani, le dita che si destreggiavano freneticamente sul touch-screen e la schiena poggiata all'armadietto di metallo grigio di Newt. 
Li salutò nel vederli arrivare, ma il biondo notò distintamente come il sorriso che le era nato sulle labbra si stava spegnendo progressivamente. 
Così come osservò lo sguardo che si scambiarono lei e Minho, uno sguardo che sapeva benissimo cosa significasse. 
Si stavano accordando per tenerlo d'occhio per tutta la durata della giornata scolastica.
La ragazza dai grandi occhi azzurri gli si avvicinò e gli lasciò un dolce bacio sulla guancia. « Ciao, Newt. »
Eppure lui non rispose, non le sorrise. Si diresse semplicemente in direzione del suo armadietto e vi infilò dentro la testa, mostrandosi completamente assorbito dal proprio orario. 
Udii il sospiro rassegnato di Teresa e si sentì un po' in colpa, ma se c'era una cosa che lo infastidiva a tal punto dal fargli accelerare il respiro dalla rabbia, era l'essere trattato come un bambino.
Come una bambola di porcellana in procinto di rompersi in mille pezzi, una bomba ad orologeria che sarebbe potuta esplodere da un momento all'altro.
Stava bene. Perché dovevano trattarlo con quell'accortezza e delicatezza esagerate? 
Svitò il tappo della bottiglietta e bevve un sorso d'acqua con l'intento di rinfrescarsi le idee. 
Doveva pensare razionalmente; Minho e Teresa erano i suoi migliori amici, lo avevano visto nei suoi momenti peggiori, quando si era sentito così stanco da non parlare per giorni, quando aveva percepito una furia cieca e distruttiva montare in lui e diretta al mondo intero, a se stesso.
A se stesso che era così sbagliato.
Comunque fosse, era perfettamente normale che si preoccupassero per lui, non doveva fargliene una colpa, anzi, avrebbe dovuto ringraziare Dio, Buddha, Allah o chiunque stesse vegliando su di lui dall'alto per avergli donato delle persone del genere.
« Io... » Boccheggiò piano; un paio di occhi furono subito sulla propria figura. « ...mi dispiace, ragazzi. Ciao, Tess. » E le rivolse il miglior sorriso che fosse riuscito a mettere su. 
Lei ricambiò all'istante. « Non preoccuparti, Newt. Andiamo a lezione? »
Annuì. Letteratura inglese era l'unica materia che avessero loro tre in comune, insieme a storia, così si sedevano sempre vicini in modo da poter comunicare fra di loro ogni qualvolta le lezioni divenivano troppo noiose.
Afferrò frettolosamente l'occorrente - il libro, un quaderno per gli appunti ed il portacolori - e lo gettò alla rinfusa nello zaino, poi mise il lucchetto all'armadietto.
Percorsero il corridoio con estrema lentezza, come se possedessero tutto il tempo del mondo per raggiungere l'aula 72, ed, in effetti, non erano in ritardo. Come se non bastasse, l'intera scuola quel giorno pareva crogiolarsi in una calma strana ed apparente, futile e sfuggente; Newt avrebbe potuto palpare l'agitazione contenuta che vigilava nell'aria, se solo avesse provato. 
Se ne domandò il motivo. 
Prese posto al quarto banco, vicino alla finestra - immaginava che si sarebbe perso nell'osservare fuori da essa, magari nel definire i contorni dei nuvoloni grigi che non promettevano nulla se non pioggia - con Teresa alla sua destra e Minho davanti. 
Gli era sempre piaciuta letteratura inglese, certo, lo avevano sempre affascinato quegli scritti che nascondevano sempre un significato profondo, l'idea di scavare tra le righe, fra le ridondanze delle lettere lo aveva attratto come un falena con la luce.
Era come una passione innata, che non aveva mai saputo spiegarsi; negli ultimi tempi, aveva cominciato a credere che amasse a tal punto la letteratura perché la ritenesse una forma d'arte, pura ed incontaminata, e la vedesse molto simile a se stesso in primis e al disegno in secundis. 
Se non era capace di disegnare o pitturare, poteva rifugiarsi in mezzo alle pagine di un libro e farsi avvolgere dalle sensazioni inebrianti che gli provocava, giusto? 
In ogni caso, qualsiasi pensiero lo abbandonò di colpo quando i suoi occhi di posarono sulla persona che aveva appena varcato la porta della classe: Thomas. 
Indossava dei pantaloni neri ed una camicia blu scuro
, era affannato, come se avesse corso per arrivare in tempo, e aveva tutti i capelli disordinati.
Il suo sguardo si posò prima su Teresa, la quale gli sorrise e lo salutò con un cenno della mano – e da quando quei due si conoscevano? -, poi su Minho ed, infine, su Newt.

« Sono il tuo peggior incubo. »

Si voltò dal lato opposto restando impassibile, prima ancora che il biondino potesse fare la stessa cosa, nel vano tentativo di ignorarsi a vicenda.
Ma Thomas era come una calamita e sembrava richiamare gli occhi di Newt ogni secondo sempre di più, con costanza e determinazione, finché questi non decidessero di arrendersi e scivolare lenti sulla sua figura così nuova e, allo stesso tempo, così conosciuta.
Sospirò; quella sarebbe stata una lunga giornata.

***


Non fece neanche in tempo a mettere piede in casa che subito sua madre gli si parò davanti, le mani sui fianchi ed un’espressione accigliata in volto.
Newt fece mente locale e rivisse rapidamente gli ultimi giorni, perché doveva aver fatto per forza qualcosa di sbagliato per meritarsi uno sguardo tanto severo da parte della donna.
In ogni caso, ostentò noncuranza e si chiuse la porta alle spalle, si sfilò la giacca e le sorrise visto che era certo di non aver fatto nulla di male.
« Non sorridermi in quel modo, signorino. » Incrociò le braccia al petto e lo guardò con disapprovazione, scuotendo leggermente il capo.
Newt inarcò un sopracciglio. « Che succede? »
Solo dopo qualche secondo si accorse che sua madre indossava un grembiule da cucina blu macchiato di farina e quello che sembrava cacao in polvere e che nell’aria aleggiava un buon profumino di torta che gli fece venire all’istante l’acquolina in bocca.
Il problema era che sua madre non cucinava mai dolci.
Mai.
Quindi doveva necessariamente esserci qualcosa che non andava.
« Non capirò mai voi adolescenti. Così riservati! » Borbottò la donna dai lunghi capelli biondi raccolti in un’alta coda di cavallo, dandogli le spalle e dirigendosi in cucina.
Il ragazzo la seguì.
« Mamma, per favore, non vuoi iniziare questo discorso. » Sospirò e si sedette su uno degli sgabelli sistemati intorno alla penisola in granito scuro. « Anche tu sei stata un’adolescente. » Newt avvistò la ciotola che sua madre doveva aver utilizzato per preparare la torta, così se lo avvicinò e raccolse un po’ della pastella rimanente con l’indice. « La nonna mi ha raccontato quanto fossi ribelle alla mia età. » L’assaggiò e si lasciò andare ad un gemito di puro piacere. Sua madre poteva anche cucinare dolci una volta ogni mille anni, ma che dolci!
Lei gli lanciò un’occhiataccia e schiaffeggiò la mano che stava nuovamente per avventarsi sulla ciotola in plastica, la quale si premurò di spostare nel lavello, insieme alle altre stoviglie sporche.
Lui mise su un broncio infantile. Come aveva potuto privarlo del suo unico vero amore?
E poi aveva avuto una giornata stressante, meritava quegli zuccheri!
« Mi dici cosa ho fatto? Sono in punizione? » Per un attimo lo sfiorò il pensiero che potesse aver scoperto che quella mattina aveva preso almeno quattro pillole di antidolorifici a causa del dolore alla gamba – del quale, ovviamente, non le aveva parlato.
La donna sospirò e controllò come stesse procedendo la cottura della pietanza al cioccolato. « La signora Dickinson… »
‘Classico’, si disse Newt. ‘Quando c’è di mezzo quella vecchia pettegola, non può trattarsi di buone notizie.’
« …mi ha detto che la famiglia Edison è di nuovo in città! »
Le sopracciglia di Newt si sollevarono in alto sulla fronte, in un chiaro ed eloquente gesto che voleva significare di arrivare al punto della situazione.
« E che Thomas frequenta la tua scuola. ‘Ma come, Madison, Newton non ti ha detto niente?’ » Concluse imitando l’anziana signora.
« Quindi? » Si specchiò negli occhi azzurri della madre e si domandò perché non li avesse come i suoi, perché doveva guardarsi allo specchio e riconoscere suo padre nelle due pozze scure che si ritrovava.
« Come ‘quindi?’?! » Borbottò lei. « Thomas è tonato! Perché non mi hai detto nulla? »
« Scusa tanto, la prossima volta affiggerò dei manifesti in giro per la città. » Rispose ironico, adocchiando una barretta ai cereali e afferrandola prontamente. 
La donna gliela prese dalle mani. 
« Mi vuoi far nutrire?! » Sbottò il biondino.
« No. » Ribattè quella telegrafica e glaciale come solo una madre sapeva essere. « Adesso tu verrai con me a casa degli Edison, porteremo loro la mia fantastica e prelibatissima torta e ci comporteremo da amabili vecchi amici. »
'No, no, no!' Si ripeté nella sua testa. 
Non poteva fargli questo, non sua madre almeno!
Thomas aveva trascorso l'intera giornata tentando di evitarlo senza alcun motivo apparente, sebbene - in generale - anche Newt si fosse comportato alla stessa maniera. Il fatto era che appena fissava quegli occhi ambrati, i quali, pur continuando ad essere incredibilmente caldi ed intensi, provavano a mantenersi distanti dalla sua figura, l'incubo vissuto con estrema nitidezza la notte precedente lo investiva con la stessa violenza di un treno in corsa. 
Era solo un sogno, frutto del suo subconscio, Newt lo sapeva bene.
Eppure non poteva fare a meno di riflettere costantemente sul suo significato, su Thomas che crudelmente derideva le sue debolezze ed, infine, gli sussurrava di essere il suo peggior incubo, sul dolore alla gamba che si era rivelato reale. 
Quell'incubo lo aveva scosso profondamente ed il biondo sperava di riprendersi velocemente, altrimenti non sarebbe più stato capace di guardare Tommy come faceva una volta.
Beh, sempre se Tommy avesse voluto far incontrare nuovamente i loro sguardi.
« Mamma, oggi pomeriggio dopo la scuola ha avuto gli allenamenti di atletica, sarà stanco. Poi hanno traslocato da poco, saremmo sicuramente di disturbo. »
« Quindi ci hai parlato! »
Newt roteò gli occhi. « Non è detto. »
« Per entrare nella squadra di atletica deve aver parlato con Minho e, se ha parlato con Minho, ha parlato anche con te. Tu e quel ragazzo siete una sola. »
« Continuo a sostenere che li disturberemmo. »
Sua madre lo studiò con sincera curiosità: non doveva aspettarsi un rifiuto. « Sono le sei, si sarà riposato abbastanza. E poi non vedo l'ora di rivedere Karen! » 
Lei e la madre di Thomas erano sempre state molto amiche, sin da prima che i figli stringessero amicizia - o meglio, che Newton finalmente accettasse gli innumerevoli tentativi di Thomas di diventargli amico. Probabilmente in quegli anni si erano telefonate più di una volta; non avevano completamente reciso i contatti a causa della lontananza. Non come lui e Thomas.
Diamine, non lo aveva nemmeno riconosciuto!
La donna spense il forno e si tolse il grembiule. « Vedrai che ne saranno felici. »

Newt, alla fine dei conti, era stato costretto ad accompagnare sua madre, ad indicarle la strada per giungere a casa di Thomas ("Non ci posso credere, sei anche andato a casa sua!", "No, mamma, io e Minho lo abbiamo solo accompagnato a casa" e "Cosa ho fatto di sbagliato con te?" seguito dall'ennesimo sbuffo scocciato del biondo) e - come se non fosse abbastanza - a reggere il vassoio verde mela sul quale aveva accuratamente sistemato la torta e ricoperta di zucchero a velo.
Ne avrebbe preteso come minimo una fetta. 
Avevano camminato per circa tre isolati, quando Newton sentì formicolare la calma e si rese conto che il dolore sarebbe ritornato di lì a poco. 
Fortunatamente la casa degli Edison distava solo cinque isolati da quella dei Richardson, così pochi minuti dopo si trovavano esattamente di fronte all'immobile indicato dal ragazzo.
Sua madre suonò il campanello, ma tutto ciò che riuscirono ad udire fu un rumore assordante seguito da una sfilza di finissime imprecazioni da parte di quello che doveva essere Tommy.
Newt lasciò le proprie labbra tendersi automaticamente in un sorriso. 
« HO DETTO CHE NON SONO INTERESS... » Il moro si interruppe sgranando gli occhi e boccheggiando almeno un paio di volte prima di riuscire a formulare una frase di senso compiuto. 
Newt si stava letteralmente trattenendo dal ridere, mentre sua madre era impegnata a squadrare Thomas dalla testa ai piedi con gli occhi che le luccicavano dall'emozione.
« Scusate, pensavo fossero...oh. »
La donna lo abbracciò - lo stritolò - esclamando parole sconnesse del tipo " Thomas!", "Mamma mia, quanto sei cresciuto!", "È passato così tanto tempo!", "Perché voi teenagers siete così alti?! Anche Newt è uno spilungone...non capisco come sia possibile!", "Che bello che siete tornati!" e cose del genere.
Il moro ricambiò l’abbraccio dopo un momento di esitazione, probabilmente dettata dalla sorpresa che aveva provocato in lui quel gesto d’affetto.
Newton spesse volte nella sua vita si era chiesto come potesse avere un carattere così introverso quando sua madre era un terremoto vivente, a dire il vero molto simile al piccolo Thomas che da bambino non lo lasciava mai in pace.
E il pensiero che fosse più simile a suo padre era bastato a scavargli una voragine nel petto, un doloroso segno che insieme alla promessa fatta al suo vecchio migliore amico lo avevano spronato ad uscire definitivamente dal suo guscio.
« Newt. » Si sentì chiamare. Alzando lo sguardo dalle sue scarpe, sulle cui punte si era incantato, incontrò gli occhi ambrati del ragazzo, il quale gli sorrise e gli rivolse un cenno con il capo in direzione dell’interno dell’immobile. Solo allora si accorse che sua madre era già entrata. « Entri? » Annuì.
La prima cosa che avvertì fu una terribile puzza del bruciato.
« Mia madre ha cucinato una torta per voi. »
« Dimmi che è al cioccolato. »
« E’ al cioccolato. »
« Dio, amo tua madre. » Thomas prese il vassoio e si beò del profumino che la pietanza emanava. Chiuse gli occhi con un sorriso birichino stampato sulle labbra e l’annusò soddisfatto e deliziato, come già a pregustare il momento in cui l’avrebbe assaggiata.
La seconda cosa che notò fu che il moro, a dispetto dell’impressione tranquilla e gioiosa che stesse tentando di dargli, era incredibilmente teso.
Newt lo vedeva: l’innaturale postura delle spalle, che a chiunque altro sarebbe potuta apparire perfettamente normale –ma non a lui che lo conosceva così bene -, le vene delle braccia e delle mani – mani grandi, dalle dita lunghe e affusolate – più evidenti del solito, la maniera in cui deglutiva regolarmente e nervosamente.
E Newt lo sentiva; come se fosse capace di percepire a pelle ogni emozione provata da Tommy, il biondo sembrava inalare particella per particella il suo turbamento; come se avesse potuto nutrirsi voracemente del suo stato d’animo, i propri sensi ne percepivano la forma, i contorni, la consistenza.
La terza cosa di cui fu improvvisamente consapevole, era che Thomas lo stava scrutando ormai serio e che sembrava essere a conoscenza dei suoi pensieri, doveva esserlo, perché Newton altrimenti non avrebbe saputo spiegare la sensazione che lo aveva invaso da capo a piedi: similmente al momento in cui tua madre ti coglie con le mani nel pacco dei biscotti o quando vieni scoperto a fare qualcosa di sbagliato, il biondino si era sentito nudo sotto quegli occhi dorati.
« Ho provato a cucinare. » Spiegò Tommy e Newt ci provò davvero a credere che fosse quella la muta domanda che era riuscito a cogliere con il suo sguardo indagatore; non riuscì in ogni caso a convincersene.
Si diressero in cucina in silenzio. Sua madre si era accomodata su una delle sedie in legno scuro sistemate intorno al tavolo da pranzo.
« I tuoi genitori non sono in casa, Thomas? »
Lui scosse la testa.
« E quando tornerà Karen? » Domandò con un sorriso luminoso ad illuminarle il volto, impaziente alla sola idea di rivedere l’amica di vecchia data. « Ho così tante cose da raccontarle! »
E fu come poco prima: il biondino fu investito da un’ondata di frustrazione e tristezza, tutti sentimenti che provenivano dall’altro ragazzo.
Thomas dal canto suo aveva poggiato il vassoio verde mela sul ripiano in granito della cucina ed aveva chinato la testa, i capelli arruffati gli coprivano gli occhi ed anche a Newt – il quale era in piedi vicino al moro – risultava impossibile vederli.
Stava per dire qualcosa, quando…
« Non credo sarà possibile. » Lui e sua madre si scambiarono un’occhiata confusa, le sopracciglia aggrottate e le labbra arricciate. Poi lo guardò e l’unico impulso che arrivò al cervello di Newton fu di tipo visivo: Tommy aveva gli occhi pieni di lacrime.
« Perché? » Lo spronò sua madre, nonostante sapessero di aver capito tutto.

« Perché è morta. »

***

« Si chiama ‘morte cardiaca improvvisa’. » Prese una boccata d’aria. « In pratica, un momento prima sei sano e quello dopo il tuo cuore ha smesso di battere. »
Thomas raccontava, raccoglieva a sé una manciata di parole e tentava di metterle una dietro l’altra per formare delle frasi di senso compiuto. E Newt sentiva letteralmente il proprio cuore stringersi nel vederlo – sentirlo – in quello stato.
« È successo quasi due mesi fa. Papà si è messo in testa di ritornare qui a Londra ed io ho dovuto seguirlo. »
Non gli sfuggì di certo l'uso che fece del verbo 'dovere', né tanto meno l'accenno di rabbia che trapelò dalle sue parole. 
« Ben come sta? » Domandò cortesemente sua madre.
Thomas rise, ma Newt rabbrividì da capo a piedi perché non lo aveva mai visto ridere in quel modo: non ricordava di aver percepito tanta amarezza, tristezza e delusione provenire da quel moro tutto pepe. « Non lo sento dal giorno in cui è morta. » 
Il biondo pensò di aver sentito male; Ben era suo fratello, come poteva non essere stato vicino alla sua famiglia in un momento del genere? 
« Non è venuto al funerale? » 
« No. » Thomas aveva tenuto lo sguardo basso dal momento in cui quella difficile situazione era iniziata. « Però forse ha fatto bene a non partecipare. È stato terribile. Lei lo avrebbe odiato. » 
Newt sentì lo strano impulso di allungarsi sul tavolo e prendere fra le proprie le sue mani - le stesse che non smetteva di torturare da ormai innumerevoli minuti. Dovette trattenersi con tutte le sue forze dal non compiere quel gesto. 
« Thomas, non le ha detto addio. » Spiegò con calma sua madre e il biondino si scoprì a scrutarla affascinata. Sperava con tutto se stesso che non stesse psicoanalizzando il suo migliore amico - o il suo ex-migliore amico, o il suo amico d'infanzia, o il suo vecchio amico...quello che era. A Newt i titoli non erano mai piaciuti particolarmente - e che quella visita di gentilezza non si fosse trasformata in una vera e propria seduta. Nonostante ciò, ammise a se stesso che avesse una delicatezza invidiabile ed un'accuratezza decisamente consona alla situazione che stava affrontando: poneva le domande giuste, era misurata ed attenta, non appariva mai invadente o inopportuna. Pensò a quanto l'avesse odiata in quel periodo in cui tendeva a studiarlo a tempo pieno, non perdendosi una sua sola reazione, con la sola intenzione di comprendere suo figlio, di tirargli fuori dalla bocca quelle parole che sapeva bene non avrebbe mai pronunciato. Ma Newton non aveva saputo sfogarsi decentemente con lei, c'erano state urla e crisi e pianti - non avrebbe dimenticato le lacrime che sua madre aveva versato per colpa sua - per superare la sfiancate situazione che avevano vissuto. E, benché ne fossero usciti - non indenni, anzi con più cicatrici del previsto -, il ragazzo faceva ancora fatica a parlare con lei di certe cose. 
Non l'avrebbe mai superata, Newt ne era ben consapevole.
« Ed io l'ho fatto? Le ho detto addio? » 
In ogni caso, Thomas sapeva che sua madre fosse una psicoanalista, si stava sfogando con lei non solo perché si fidava, ma anche per via del suo lavoro. « Perché a volte ho la sensazione di sentire il suo profumo e...non lo so, mi fa sentire pazzo. » 

Mi fa sentire pazzo.

Mi fa sentire pazzo.

Mi fa sentire pazzo.


Quella semplice frase gli entrò dentro, a Newt sembrò di averla tatuata sulla pelle, a marchiarlo per il resto della sua vita. Poteva percepirne le lettere, era sicuro che avrebbe potuto seguirne i contorni con i polpastrelli delle dita se solo avesse tentato. 

« A volte ho l'impressione di poter camminare di nuovo come prima. Di poter ritornare a correre, magari nella squadra di atletica. È normale? Perché questa sensazione mi fa sentire pazzo. »

Scosse la testa nel vano tentativo di cancellare quel ricordo dalla sua mente; non poteva pensarci, non adesso che Thomas stava così male. 
« Tu le hai detto addio, Thomas. Te lo posso assicurare. Sei qui a parlarne adesso, giusto? »
Lui annuì.
« Era tua madre, è giusto desiderare che sia ancora qui insieme a te. »
Fu solo allora che Tommy alzò lo sguardo, fissando gli occhi - intrisi di un dolore che fu una pugnalata al petto di Newt - in quelli di sua madre Madison.
« Io l'ho abbandonata. » 
« Che intendi? » Newton quasi si chiese il perché il moro avesse spostato l'attenzione sulla sua figura; poi capì di essere stato proprio lui stesso a parlare, a porgli quella domanda. La sue corde vocali avevano finalmente trovato il coraggio di vibrare nuovamente.
Thomas mantenne il contatto visivo per l'intera durata della risposta. « La sua tomba è a Los Angeles. L'ho abbandonata, non capisci? Sono qui a Londra, adesso. Mio padre non riesce nemmeno a guardare una sua foto e Ben fa finta che non sia successo nulla. Chi andrà a trovarla? Chi le porterà un mazzo di girasoli al cimitero? » 
Newt si ritrovò a comprenderlo più di quanto credesse fosse possibile; sebbene non avesse mai affrontato una perdita del genere, i sentimenti che stava provando gli erano familiari.
« Tommy, ascoltami bene, okay? Anche se ti sembra di essere l'unico al quale importi qualcosa, devi cercare di comprendere che non è così: sai quanto tuo padre e Ben amassero tua madre. Tu devi aiutarli a superare questo rifiuto. » Si fermò, aspettandosi un'interruzione da parte del moro, il quale, invece, era tutto preso ad ascoltarlo e non osò aggiungere nient'altro. Percepiva gli occhi di sua madre su di sé, sapeva che lo stava valutando e non seppe se esserne lusingato od infastidito. Prese una boccata d'aria e continuò. « Tu non l'hai abbandonata. La sua tomba potrà anche essere a Los Angeles, il suo corpo potrà anche essere in Antartide, ma il suo ricordo, il suo sorriso, saranno per sempre dentro di te. Tua madre sarà per sempre con te, ti proteggerà come solo una madre sa fare, senza che neanche tu te ne accorga. Ti apparterrà per il resto della tua vita, Tommy. » 
E Newt in quel preciso istante fu sicuro del fatto che non sarebbe riuscito a cancellare dalla sua mente il modo in cui Thomas si asciugò una lacrima che era sfuggita al suo controllo. 
Si agitò sulla sedia; aveva peggiorato tutto, avrebbe fatto meglio a rimanere in silenzio e non pretendere di sapere come gestire un dolore simile. 
Ma poi Thomas gli sorrise ed ogni pensiero negativo lo abbandonò. 
La gioia per quel muto ringraziamento lo portò a ricambiare il sorriso e a provare una insolita soddisfazione, tutta rivolta nei propri confronti. Non era mai stato così fiero di se stesso, nemmeno quando aveva vinto una gara di atletica o preso un buon voto in matematica - materia scolastica in cui aveva non poche difficoltà. 
Furono entrambi distratti da sua madre, la quale si mise in piedi, le mani sui fianchi ed un'espressione impercettibilmente fiera stampata sul volto.
'Fiera di me, forse?' Newt fece una smorfia. 'Nah.'
« Hai l'occorrente per una bella teglia di lasagna? » 
Thomas sbuffò una risata. « Penso di sì. Perché? »
La donna adocchiò un grembiule da cucina abbandonato lì vicino e lo indossò senza pensarci due volte. « Perché hai bruciato la cena e si dà il caso che le mie lasagne siano il paradiso su questa terra. Diglielo, Newt! »
« Posso confermare. » Accordò quello.
« Poi oggi mi sento in vena di cucinare. Quindi su, smammate, Newt ti aiuterà a svuotare gli scatoloni. »
Il biondo si imbronciò. « Mamma, davvero, devi smetterla di decidere per me. » Lei, per tutta risposta, inarcò un sopracciglio.
« Non devi farlo se non vuoi. » Lo sorprese Thomas. 
« Certo che voglio. »
Ecco, era successo di nuovo; la sua bocca si era mossa, articolando frasi di senso compiuto senza che se ne rendesse conto. 
Arrossì - a quanto pare neanche il suo corpo voleva saperne di ascoltarlo e si perdeva in reazioni decisamente imbarazzanti - e si aspettò una risata da parte del moro che però non arrivò. 
Lo stava semplicemente osservando; dopo qualche secondo, gli fece un cenno e a Newt non restò che seguirlo.

***

9 anni prima

Newton si era fiondato fuori da casa sua ed era schizzato dall'altra parte della strada, diretto verso casa di Thomas. 
Bussò, forse con fin troppa veemenza, ma lui doveva vedere come stava il suo migliore amico, ne aveva bisogno. 
Ad aprirgli la porta fu Karen, ma lui non le rivolse nemmeno un'occhiata di sfuggita, le passò sotto il braccio e salì rapidamente le scale, impaziente di entrare nella camera del moro. 
Sua madre gli aveva raccontato che il bambino quel giorno era tornato prima da scuola perché era svenuto durante l'ora di educazione fisica e, sebbene avesse insistito sul fatto che stesse bene e che fosse stato solamente un calo di zuccheri, il piccolo cuore di Newt aveva perso almeno due battiti prima che potesse precipitarsi fuori dal soggiorno con l'intenzione di verificare con i suoi occhi le condizioni di Tommy.
Lo trovò seduto sul suo letto, un lecca-lecca in bocca ed il joystick della PlayStation fra le mani, concentrato come al solito nel suo videogioco preferito, quello al quale non si sarebbe annoiato a giocare. 
« Newt! » Trillò Thomas tutto allegro, mettendo in pausa il gioco e voltandosi a guardarlo. « Cosa ci fai qui? »
Quello con due rapide falcate e gli prese il volto fra le mani, scrutandone ogni centimetro da vicino, intento a cogliere qualsiasi diversità all'istante. La sua espressione tramutò da gioiosa a confusa, una piccola ruga si formò in mezzo alle sopracciglia scure. 
« Si può sapere che caspio stai fac... »
« Zitto, testapuzzona. » E Thomas ammutolì, come se gli fosse stato impartito un reale ordine.
Solo quando Newton si allontanò, si sentì in dovere di parlare, seppure sotto il suo sguardo indagatore. « Che ti succede? »
« Che succede a te, rincaspiato. Perché sei svenuto? » 
Gli occhi di Tommy sembrarono diventare più chiari e brillare come non mai, mentre anche le sue labbra si stendevano in un largo sorriso. « Sei preoccupato. »
« No. » Rispose Newt, ma non risultò convincente persino a se stesso, la sua voce lo aveva tradito, risultando più alta almeno di un'ottava rispetto al normale.
« Sì. Sei preoccupato. Per me. »
« Ho detto di no! » Esclamò battendo un piede a terra, infervorato. 
Tommy rise e lo trascinò con sé sul letto, prendendo a scompigliargli i capelli biondi con la mano, in quel gesto che sapeva lo avrebbe infastidito da morire.
« Smettila, Tommy! » Piagnucolò, infatti, il biondino. « Lasciamiiii! »
« Non ci posso credere che il sempre-imbronciato-Newt si sia preoccupato per me. » 
Newt riuscì infine a divincolarsi dalla stretta del moretto, ma rimase seduto accanto a lui sul piumone blu notte, mentre il petto di quello continuava ad essere scosso dalle risate. 
Incrociò le braccia sul petto e sbuffò; lo odiava quando faceva l'idiota in quella maniera. Poi pensò che Thomas era un idiota a tempo pieno e che forse non gli dispiaceva così tanto quel suo lato demenziale. 
« Sei il mio migliore amico, per questo mi sono preoccupato. E smettila di ridere. » Ma la verità era che il bambino aveva smesso di ridere già prima che Newt gli dicesse di farlo. Non che non gli avesse mai rivelato che fosse il suo migliore amico, era solo che il biondino non era esattamente la persona più espansiva che esistesse al mondo ed era raro vederlo lasciarsi andare ad affermazioni del genere. Per questo, ogni volta che Thomas lo sentiva ammettere ad alta voce - beh, non proprio ad alta voce, erano più che altro borbottii o sussurri o grugniti seguiti da una smorfia infastidita, giusto per compensare il troppo affetto che quelle parole nascondevano - lo fissava con gli occhi da cerbiatto spalancati e smarriti e le labbra socchiuse, palesemente stupito. 
« E non sono "sempre imbronciato". » Si sentì in dovere di aggiungere.
Solo allora Thomas si riprese. 
« Oh, sì che lo sei. » Newt non si accorse nemmeno di aver messo di nuovo su un broncio infantile. « Vedi?! » Colse la palla al balzo il bambino. 
Il biondino roteò gli occhi. 
« Comunque stamattina non avevo fatto colazione, per questo sono svenuto. Il dottore ha detto che mi mancavano lo zucchero o qualcosa del genere. »
« Si dice che hai avuto un "calo di zuccheri". » Lo corresse Newton.
« Sì sì, quello. » Dissimulò la questione Thomas, agitando la mano destra in aria. « Comunque sto bene, quindi non devi preoccuparti. » 
E nonostante tutto, Newt si sentì davvero tranquillo solo dopo aver udito quelle parole provenire direttamente dal suo migliore amico; si fidava di lui più che delle sue capacità di osservazione e constatazione.
Si fidava di Tommy più che di chiunque altro.
Sebbene cercò di essere più silenzioso possibile, era sicuro che Thomas non si fosse lasciato scappare il sospiro di sollievo che gli scivolò fuori dalla bocca.
In ogni caso, gli sorrise e gli porse il joystick della PlayStation che stava utilizzando poco prima, andando a recuperarne un altro per sé.

« Comunque anche io al tuo posto mi sarei preoccupato. » Gli disse distrattamente dopo, non distogliendo lo sguardo dallo schermo del televisore. « Come farei senza il mio migliore amico? »

***

Presente

E Newt, mentre lo aiutava a svuotare i numerosi scatoloni in quella che avrebbe dovuto essere la sua stanza, si chiese davvero come avessero fatto l'uno senza l'altro.
Non poté fare a meno, avvolto nel confortevole silenzio che sapeva di familiarità e di casa, di chiedersi come sarebbe stata la sua vita se Thomas non si fosse mai trasferito. Cercò di immaginare cosa ci sarebbe stato di diverso in se stesso, nella sua personalità e cosa in quella del moro, cosa avrebbero fatto in quel momento. Sarebbero stati stravaccati sul divano a guardare una stupida commedia da quattro soldi oppure in macchina, con la musica a tutto volume, i finestrini abbassati, i visi sorridenti e i cuori leggeri? Avrebbe stretto amicizia con Minho e Teresa? Sarebbero stati così importanti - fondamentali - nella sua vita?
Erano davvero troppe le domande che affollavano la sua mente, nel frattempo che, con gesti meccanici e ripetuti, svuotava quelle trappole da trasloco.
Eppure tutto cessò quando i suoi occhi si posarono su un oggetto che conosceva bene: il cofanetto dei film di Star Wars.
« Non posso credere che tu ce l'abbia ancora. » Sorrise a trentadue denti e se lo rigirò fra le mani, incredulo, osservandone ogni particolare.
Thomas fu subito accanto a lui. « È il miglior regalo che abbia mai ricevuto. » 
Newton gli dedicò una delle sue migliori espressioni scettiche. 
« Ehi! » Si difese l'altro, mostrandogli i palmi delle mani in segno di resa. « È l verità. Amo ancora Star Wars e ho perso il conto delle volte in cui ho rivisto ogni film. » 
« Idem. » Gli passò il cofanetto. « Penso che non smetterà mai di piacermi. »
« Allora uno di questi giorni dobbiamo organizzare una maratona. Riesci a guardare tutti i film in un solo pomeriggio? » 
Il biondo colse la sfida e fece scoccare scaltro la lingua sul palato. « Ovvio. »
« Perfetto. » Replicò Tommy, dal canto suo, estremamente divertito.
Si alzò per riporre accuratamente il vecchio regalo sulla mensola posta poco sopra la scrivania e Newt non si perse – al contrario, si gustò, soddisfatto – la cura con cui il ragazzo lo maneggiava, quasi fosse un oggetto fragile e di inestimabile valore.
Forse lo considerava seriamente tale.

Terminò di svuotare l’ennesimo scatolone e lo ammucchiò insieme agli altri in corridoio, provando ad impilarlo dentro altri più grandi nel tentativo di occupare meno spazio e facilitarne il trasporto. Thomas gli aveva chiesto di tornare anche il giorno seguente perché suo padre lavorava davvero molto in quel periodo, probabilmente stava tentando di guadagnarsi con fatica la fiducia e la stima del capo e dei suoi colleghi, e mettere in ordine la casa era compito suo. Ma quegli scatoloni erano davvero troppi ed altrettanto numerosi erano gli oggetti da stipare al loro posto, per non parlare della sistemazione dei mobili che probabilmente avrebbe dovuto essere rivista. Newton aveva accettato, felice di potergli dare una mano.
Quando tornò nella stanza trovò Thomas impegnato ad osservare una pallina da baseball autografata fra le mani, immobile e pensieroso, corrucciato a tal punto che il biondo non poté fare a meno di avvicinarsi per domandargli cosa avesse.
« Tommy? » Bisbigliò solamente.
« Prima hai detto che il mio compito è quello di aiutare mio padre e Ben. » Cominciò cupo, assottigliando per qualche secondo lo sguardo, per poi puntarlo in direzione di Newt. Gli fu chiaro che non avrebbe mai e poi mai potuto abituarsi a quella esagerata quantità di sofferenza contenuta in quel mare d’ambra. Annuì leggermente, incitandolo ad andare avanti. « Ma, allora, chi aiuterà me? »
Il biondo in un primo momento sgranò gli occhi.
« Io. » Poi rispose e non vi era nulla di forzato in quell’affermazione. Non provò nemmeno a tenere a bada i propri istinti quella volta, gli sfilò la pallina da baseball e la posò sul comodino, dopodiché prese una sua mano fra le proprie. « Io ti aiuterò. »




 







Okay, questo capitolo è stato un parto.
Mi scuso davvero per il ritardo, ma a causa della scuola
non penso riuscirò ad essere sempre puntuale. In ogni
caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Ho tentato di non escludere totalmente
il lato divertente della fan-fiction – mi
piacerebbe strapparvi qualche sorriso -,
ma il capitolo doveva essere angst e così è stato.
Era necessario per poter raccontare cosa
fosse successo a Thomas e perché si fosse
trasferito nuovamente a Londra.
Vorrei tanto sapere cosa ne pensate della
storia, se vi incuriosisce, se vi piace il modo
in cui la sto portando avanti, la piega che sta
prendendo. Mi piacerebbe che lasciaste più
recensioni, ma non per la recensione in sé,
quanto più per il confronto che desidererei
instaurare con voi! :)
A presto!



 
 
   
 
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