PROIBITO
A chi legge: trovare i commenti è una soddisfazione e uno sprone per continuare ad andare avanti in una storia che, nella mia testa, esiste già... mi farebbe piacere una spinta sempre più sostanziosa per metterla per iscritto e... tramandarli ai posteri! ^__^
Ed ora... buona lettura! ^__^
11 – La caduta -Bella
Ebbi i miei sonniferi e per alcune notti riuscii a scappare agli incubi, ma non fui in grado di resistere ai sogni.
Scoprii immediatamente quanto questi, apparentemente ristoratori, fossero molto più subdoli degli incubi da cui volevo scappare, perché lasciavano dentro di me una sensazione di benessere e solo alcuni frammenti di ricordi, che si mischiavano ai parti della mia immaginazione. La mattina soffrivo a separarmi da quei pensieri, ai quali mi aggrappavo, senza essere sicura se fossero realmente frutto di Morfeo, oppure di quello che volevo ardentemente.
Carl. Tutto quello che volevo era Carl.
Mi sentivo assolutamente drogata di lui, del suo sorriso, del suo corpo perfetto, della sua compostezza, dei capelli che sembravano fili d’oro, dei suoi occhi magnetici, delle sue mani grandi, nelle quali avevo messo il mio cuore rattoppato, dopo essermelo strappato dal petto.
Sognavo i suoi abbracci, quelle mani che sfioravano il mio corpo, le sue labbra sulle mie, il suo cuore battere emozionato insieme al mio, i suoi occhi aprirsi al mattino solo per me.
La sveglia continuava a gracchiare sgarbata, strappandomi inevitabilmente dal quello che stavo sognando. Immagini confuse che si dissolsero non appena aprii gli occhi. La colpii in malo modo per farla tacere.
Mi sollevai stancamente dal letto, tirando fuori dalle coperte prima una gamba, poi l’altra ed infine alzandomi a sedere, con i capelli che calavano come una cortina sul mio volto depresso e stanco. La sensazione di benessere che sapevo mi stava cullando solo pochi istanti prima, stava scivolando via come acqua da un colabrodo, inesorabilmente.
Cercai con i piedi nudi le pantofole, pesticciando il parquet né freddo né caldo. Poi rinunciai e mi diressi scalza verso il bagno.
Sentivo che solo pochi istanti prima mi trovavo tra le braccia di Carl, anche se non potevo dire con certezza che lo stessi sognando.
Da quella sera, quando lo avevo trovato in mezzo alla strada sotto la pioggia ed eravamo stati insieme al Guerrine, Carl aveva occupato ogni istante della mia esistenza, era diventato la mia ossessione, una droga, dalla quale cercavo in qualche modo di tenermi alla larga.
Se solo avesse saputo quanto avevo bisogno di lui, quella sera! Di come la sua apparizione mi avesse confortata e la sua compagnia illusa.
Sì, illusa: perché era questo quello che stavo facendo. Mi stavo illudendo che un uomo del suo calibro potesse realmente essere interessato a me e alla mia sciattezza.
Lui aveva avuto il coraggio di confessare di essere stato la causa della fine del suo matrimonio, io mi ero nascosta dietro giri di parole pur di mascherare che se Jake non mi aveva voluta era solo perché io non ero alla sua altezza.
Lui aveva reagito con classe alle mie assurde supposizioni sul suo stato d’animo, senza dirmi di impicciarmi dei fatti miei ed era rimasto con me, senza farmi pesare la perdita di tempo.
Ma soprattutto, ne ero certa, aveva rinunciato a qualche impegno più importante solo perché si era imbattuto in me, che uscivo a quel’ora dall’ospedale. E io mi ero illusa che fosse venuto per me.
Non aveva fatto troppe domande circa i sonniferi: era ovvio che nessuno fosse interessato alle richieste di una pazza depressa, ma aveva prescritto dei farmaci meno pesanti di quelli che gli avevo domandato. Forse perché in fondo voleva che continuassi a passare notti insonni illudendomi che le visioni che io chiamavo incubi, sparissero.
Un getto più freddo nell’acqua della doccia mi sorprese ed emisi un gridolino: anche il suo respiro era freddo, anche le sue mani, che stringevano in un moto di pietà le mie.
Oh, Carl... perché hai accettato il mio invito quella maledetta sera?
Quando la musica, nella sala adiacente alla nostra, aveva iniziato a suonare rumorose note rock, lo avevo visto contrarsi: lui era tipo da ristoranti e musica classica, ne ero certa e invece l’avevo portato a vedere una parte del mio mondo, in modo che si disgustasse.
Forse anche il vino era cattivo, ma io che ne potevo sapere? Non sono un’intenditrice, ma lui certamente sì. Eppure l’aveva bevuto tutto.
Se fosse andato via lasciandomi là, ne sono certa, avrei avvicinato la mia bocca sul vetro del calice laddove lui aveva posato le sue labbra, come un’adolescente sciocca.
Invece aveva insistito per accompagnarmi a casa.
L’istinto mi aveva urlato di chiedergli di salire, la ragione mi aveva salvata.
Ma ero stata comunque graffiata sul cuore dalle parole che mi aveva sussurrato, aiutandomi ad uscire dall’auto.
-Sogni d’oro, Bella-
Sì, d’oro come i tuoi occhi, avrei voluto rispondere, ma lo avevo salutato stringendogli la mano energicamente.
Stringendogli la mano???? Parigi gridava ancora vendetta per quel gesto assolutamente inopportuno. Eppure non ero riuscita a fare di meglio.
I giorni seguenti, in ospedale, mi aveva evitata. Ne ero certa, perché, quando mi aveva vista arrivare in un reparto per i miei controlli, o mi aveva incrociato alla mensa, ogni volta mi aveva sorriso e si era dileguato, senza neanche aspettare che il mio cuore si rimettesse in moto e pompasse sangue al mio cervello, per rispondergli. Più volte mi ero trovata a sorridere al posto vuoto dove pochi attimi prima c’era lui, dandomi della deficiente da sola.
A lavoro stavo diventando sbadata. Più volte Bernard, il caposala, mi aveva inseguito fino all’uscita della struttura per comunicarmi che avevo dimenticato di visitare questo o quel paziente. I malati stavano iniziando a diventare numeri, nella mia testa, in fila per essere chiamati per la visita. Anche io avevo un numero stampato sulla testa, lo sapevo. Entro breve mi sarei messa anche io in coda e avrei atteso che qualcuno del reparto di psichiatria mi aiutasse.
Credo di aver raggiunto il punto più basso della mia carriera parigina nel momento in cui, scendendo le scale che collegavano il mio ufficio alla sezione visite, mi ero distratta a leggere della posta che era arrivata per me all’indirizzo di lavoro. Nella sinistra tenevo un bicchiere di caffè bollente, nella destra la lettera dell’Ufficio delle Imposte di Seattle, che mi richiedeva degli arretrati per un periodo di due anni prima. Mi ero distratta a contare mentalmente i mesi e stavo cercando di realizzare se quelle tasse mancate fossero relative al mio lavoro o a quello di Jacob, visto che all’epoca eravamo ancora sposati, quando la mia scarsa memoria motoria era andata in crash e avevo dimenticato l’ultimo scalino della rampa. Maledette scarpe col tacco e maledetto equilibrio!
Ero caduta come un sacco di patate versandomi sul tailleur nuovo e sul camice tutto il caffè bollente e schizzando anche la lettera delle tasse. Ma quel che è peggio è che mi ero slogata una caviglia.
Non c’è cosa più umiliante di essere trasportata su una barella nel proprio ospedale, davanti ai propri pazienti, sporca e puzzolente di caffè, e con le lacrime agli occhi per il dolore. Ora sapevo quale fosse il vero incubo di un medico!
Bernard, che guidava la mia barella più divertito che preoccupato, come farebbe un bambino al supermercato con un carrello della spesa, aveva voluto saltare la fila e passando davanti a tutti, mi aveva presentata ai visi incuriositi dei colleghi del pronto soccorso.
Quel mondo era totalmente diverso dal reparto calmo e pragmatico del terzo piano. Faceva montare allo stesso tempo l’angoscia e l’adrenalina.
Mi ero sentita solleticare la nuca, come se fossi stata avvezza a quel genere di incursione ospedaliera.
-Cosa abbiamo qua?-, aveva domandato una giovane e corpulenta infermiera che mi aveva preso in consegna.
-Anestesista con sublussazione del tendine del collo del piede, con sospetta lesione del legamento e accertato trauma cranico!-, aveva esordito Bernard, facendole l’occhiolino
- Non datele morfina, che se la intasca...-, aveva aggiunto, a beneficio di chi ancora non credeva che fossi realmente ferita.
-Come si sente dottoressa...?-
-Swan-, avevo concluso, -Ho solo male alla caviglia... niente trauma cranico!-, mi ero sforzata di sorridere. Bernard mi aveva lasciato alle loro cure ed era tornato su per avvisare i pazienti del mio ritardo.
Quando ero rimasta sola, ero stata assalita dal desiderio fisico di vedere Carl. All’inizio era stato solo un peso, da qualche parte sul cuore, che si era mosso, richiamando la mia attenzione; dopo, quando Eve, l’infermiera, mi aveva sfilato la scarpa e mosso la caviglia, era stato proprio necessità di qualcuno di forte a cui aggrapparmi per non urlare.
Mi sentivo mancare l’aria al pensiero che lui non sapesse niente di quello che avevo combinato.
Cazzo se mi faceva male il piede! Cazzo se mi ero sentita un’idiota e soprattutto cazzo se non volevo che lui mi vedesse in quelle condizioni, ma... avevo davvero bisogno del suo conforto.
Era l’unico appoggio che avevo trovato a Parigi...
Mi avevano portato a fare delle radiografie, ancora una volta passando davanti alla fila di pazienti con codice verde in coda. I loro sguardi di puro odio non mi furono d’aiuto.
Mi avevano domandato se ero incinta. Sapevo che era una domanda di routine, ma in quel momento avrei voluto levarmi anche l’altro tacco e colpire violentemente sulla testa la donnetta esile che faceva le radiografie e intanto masticava un chewing gum alla fragola rumorosamente.
Avevo battuto ogni record in astanteria e, dopo soli venti minuti, ero già stata dimessa con una prognosi di cinque giorni, una scarpa col tacco in mano, una vistosa fasciatura al piede e i moduli delle tasse in tasca.
Mi avevano scaricato su una sedia a rotelle mezza scassata, dalla quale, mentre stavo cercando di alzarmi, ero stata praticamente sollevata di peso da Bernard: qualcuno doveva averlo avvertito. In quel momento, mentre mi teneva tra le sue braccia, barcollando, in una parodia di staff medico e mi riportava al mio studio, mi era sorto il tiepido dubbio che lui ne fosse contento, che finalmente avesse avuto l’occasione di avvicinarsi a me e provarci.
–Vuole che le chiami un taxi, dottoressa?-, mi aveva domandato.
Avevo risposto che sarei rimasta a fare il mio turno, tanto, se stavo seduta, non c’era nessun impedimento al mio lavoro. Avevo preso una dosa doppia di antidolorifici e mi ero rimessa a lavoro.
–Dovrebbe curarla, quella gamba, invece che far finta di essere di acciaio-, aveva aggiunto prima di uscire, con un filo di rammarico nella voce.
–Ma io sono d’acciao, Bernard. Con tutte le storte e le cadute che ho preso nella mia vita, dovrei essere morta, se non fossi d’acciaio!-
–Esca e vada a casa, ne approfitti ora che c’è ancora questo splendido sole...-, mi aveva salutato con un sorriso più ampio del solito e poco dopo erano iniziati ad arrivare i pazienti, che erano stati deviati dall’ambulatorio al mio studio.
Per tre ore gli antidolorifici e quella routine che avevo acquisito avevano lavorato al mio posto. L’automa Bella Swan registrava le informazioni dei pazienti che si presentavano con tracciati dell’ECG pronti e vecchi referti clinici, compilando moduli e archiviando ogni caso, automaticamente, come un numero.
Il numero 8, tra gli altri, mi aveva particolarmente colpito: non ricordo il nome, ma il viso. Era un ragazzo di diciassette anni, con una malformazione congenita al cuore che gli impediva di divertirsi come i ragazzini della sua età. Era alto, ma gracile e aveva un sorriso triste sul volto. La madre gli aveva tenuto la mano, mentre parlavano con me e lui mi aveva trafitto con i suoi occhi verdi e profondi.
Aveva diciassette anni e stava affidandosi ai medici per tornare a viverli davvero.
Avevo riflettuto un attimo su di lui, il numero 8... io, dei miei diciassette anni, non avevo alcun ricordo.
Quando era finito il mio turno, sorridente come al solito, Bernard si era presentato al mio studio e mi aveva offerto un passaggio fino a casa sulla sua auto.
Avevamo parlato del più e del meno, mentre l’effetto dell’antidolorifico evaporava e una fitta di dolore arpionava sempre più rapidamente piede e stomaco. Arrivati sotto casa mia entrambi eravamo stati folgorati dallo stesso tragico pensiero.
–Ha l’ascensore, vero, dottoressa?-, mi aveva domandato.
–Merde, no! E poi, Bernard... dammi del tu!-, avevo preso le mie cose ed ero scesa goffamente dall’auto. Mi avevano voluto dare a tutti i costi un paio di stampelle e, tra quelle, la mia borsa, il cappotto, il sacchetto con la scarpa malefica e quel che restava delle mie calze e la mia proverbiale goffaggine, non sapevo come muovermi.
–L’aiuto... ti aiuto io, dottoressa-, Bernard era già al mio fianco. Gli avevo affibbiato stampelle, cappotto, borse e giacca del completo, ma gli avevo impedito di toccarmi.
Era una sfida con me stessa: se non riuscivo a vincere sulla mia natura instabile, avrei vinto sui miei muscoli inesistenti. Così, uno alla volta, lentamente, come se fossero frustate, avevo salito saltellando sul piede buono tutti i centoventotto scalini che portavano alla mia –adorabile…- mansarda. In quel momento avevo pensato che, se mai avessi dovuto cambiare ancora casa, nella mia vita, avrei certamente scelto un piano terra col giardino. E senza scale interne!
Bernard mi aveva seguito, trasportando le mie cose e sfiorandomi con la sua mano la schiena, nel timore che potessi di nuovo inciampare, cadere e morire sotto ai suoi occhi. Quel tocco inesistente mi aveva confuso... non volevo quelle mani addosso! Ma dove diavolo era finito Carl??
Quando
la porta si era chiusa dietro la schiena delusa di
Bernard, al quale non avevo permesso di controllarmi la fasciatura, di
prepararmi qualcosa per cena, di restare a casa mia per
cena e
soprattutto avevo vietato di disdire i miei appuntamenti per la
settimana in
corso, mi ero finalmente lasciata cadere sul divano, sfatta e sudata
come una bestia
dopo che è stata inseguita da un branco di lupi.
Quel pensiero folle e maligno mi aveva ricordato, nell’ordine: Jake --> il modulo delle tasse --> il caffè sul modulo --> il caffè su tutti i miei vestiti!
Mi ero alzata controvoglia, afferrando le due stampelle come fossero mitra e mi ero lentamente spogliata. A parte il camice che era sparito nelle lavanderie dell’ospedale, tutto ciò che indossavo era macchiato: la giacca, la camicetta che avevo sotto, anche la gonna non era stata risparmiata. Avevo messo tutto in un fagotto che avrei portato in lavanderia e avevo indossato la mia divisa da casa costituita da un paio di sdruciti pantaloni di pile, una vecchissima felpa di Jacob, che non avrei mai buttato per nulla al mondo, e dei calzettoni di lana. Un calzettone di lana, per l’esattezza: sull’altro piede spiccava la fasciatura bianca.
Una volta tornata al divano e iniziato nuovamente il rilassamento, avevo imprecato tra i denti, mi ero rialzata, ero tornata al sacchetto, avevo estratto la giacca macchiata e cercato, nella tasca, la lettera delle tasse. L’avevo rigirata tra le mani come fosse l’arma di un delitto, poi avevo afferrato il cordless, la lettera, una copertina imbottita che adoravo e avevo composto il numero di Jake. Là doveva essere mattina.
-Ciao Jake-, avevo detto quando aveva risposto al telefono, con voce un po’ lenta e stanca.
-Bella! Quanto tempo! Come stai?-
-Se non ti chiamo io tu non chiami mai...-
-Hai ragione è che... scusami...-
-Perdonato. Comunque non sto bene, ma ti chiamo perché lo Zio Sam vuole i miei soldi e io credo che invece debba richiederli a te...-
Era rimasto in silenzio, imbarazzato, senza capire. – Bells... se vuoi che ti paghi gli alimenti non hai che da cancellare quella ridicola clausola che hai imposto sul divorzio... io...-
-Piantala Jake!-, avevo tuonato, -Non hai capito niente, come al solito!-
-Cosa...?-
-Senti, ti mando per fax questa lettera e gli dai un’occhiata, ok? Credo si tratti di un conguaglio su quello che avevi versato quando hai aperto l’officina-
-D’accordo. Ma... hai detto ‘non sto bene’ ho sbaglio???-, la sua voce era allarmata.
-Stai calmo! Beh, sì... cioè... no... indovina?-
-Sei caduta di nuovo...-
-Bingo! Ma stavolta ho fatto davvero un casino... e poi è successo davanti a tutti i miei pazienti... che vergogna!-
-Che ti sei rotta a questo giro?-, cercava di scherzare, ma io lo capivo che era preoccupato.
-Niente, solo una distorsione fatta bene alla caviglia-
-Sempre la stessa?-
-Sempre la stessa...-, adoravo parlare con Jake... anche a migliaia di chilometri di distanza, ci capivamo ed eravamo in sintonia come se ci stessimo guardando negli occhi.
-Sei sola, adesso?-
Perché mi aveva fatto quella domanda? Era preoccupato o geloso?
-Sì, certo che sono sola... anche se ho dovuto mandare via Bernard, un infermiere, che oggi mi ha servita e riverita. Se non l’avessi scacciato sarebbe rimasto a dormire ai piedi del mio letto, pur di controllare che non rotolassi di sotto!-
Jacob aveva fatto una pausa. Era geloso! Gongolai tra me e me, perfidamente.
-Se vuoi che venga a Parigi, Bells, dimmelo, ok? Io posso chiedere a Frank di..-
-Jacob! Mi sono slogata una caviglia, non sto mica morendo di tubercolosi! E poi... c’è Bernard che mi aiuta...-
-Sei sicura che di lui ti puoi fidare?-, stava davvero facendo il geloso!
-Certo! Si prostrerebbe a terra per farmi camminare sul morbido!-, avevo riso per l’immagine che la mia mente stava creando, Poi ero stata sincera.
-Onestamente? Non vedo l’ora che Berbard si stacchi, perché sta cominciando a diventare appiccicoso. Mi ricorda Mike Newton!-
-Chi??-
Avevo deglutito e un brivido mi aveva percorso la schiena, senza che ne capissi il motivo.
-Mike Newton...-, avevo balbettato tremante.
-E chi è?-
-Non ne h o la più pallida idea...-, avevo ammesso sconcertata e avevo lasciato scivolare il telefono dalla mia mano.
I giorni seguenti al mio incidente
erano stati i
peggiori degli ultimi anni. Avevo avuto per la prima volta un ritorno
dal mio
passato perduto, segno che, sotto anni di polvere, i miei ricordi erano
ancora
lì. Dovevo capire cosa aveva scatenato quel flash nel mio cervello e
come
dovevo fare per non lasciarmi sfuggire di nuovo la verità che affiorava.
Ma la cosa più terribile e magnifica
di tutte era
stato quello che aveva fatto Carl per me.
La mattina dopo, la sveglia del mio
comodino aveva
gracchiato come un'ossessa per chissà quanto tempo prima che mi fossi
svegliata, tutta dolorante e ricurva, sul divano. Evidentemente mi ero
addormentata lì.
Avevo solo vaghi ricordi di quella
nottata
convulsa: quello che più di tutti ricordavo era un dolore fortissimo al
piede,
che, incurante di quello che i miei colleghi mi avevano detto, avevo
sforzato
troppo, andando e venendo per le due stanze che costituivano la mia
casa, per
cercare di collegare un volto al nome di Mike Newton. Avevo ripreso le
foto del
college, vecchie rubriche che non avevo mai buttato via, perché non
volevo che
parti del mio passato, di nuovo, andassero perdute. Avevo riesumato
persino le
foto dell'ultimo anno di liceo a La Push, e per ciascuno di quei volti
sorridenti avevo già un nome da assegnare.
Che non era ‘Mike Newton’.
Avevo provato anche a chiamare Carl...
in un
momento in cui mi stavo lasciando andare allo sconforto e la cicatrice
che
ornava il mio polso aveva preso a pizzicare, come se ci fossero stati
dei punti
che volevano essere rimossi, ma non aveva risposto.
Forse era stato allora, dopo che avevo
iniziato a
piangere da sola come una scema, sul divano, con una borsa del ghiaccio
sulla
caviglia e le mani nei capelli, che avevo preso i sonniferi: la mattina
dopo
avevo trovato solo il blister vuoto. Ne erano rimaste due dal giorno
prima,
quindi voleva dire che avevo assunto dose doppia.
Complimenti dottoressa, continua così, aveva detto una vocina nella mia
testa, che
voleva scoppiare per il dolore. Forse Bernard aveva ragione e avevo
davvero
battuto anche il capo...
Avevo dato la mia parola che niente mi
avrebbe
fermato dall'andare dai miei pazienti, seppur zoppa, visto che per tre
giorni
non avevo neanche interventi in programma e quindi mi ero fatta forza e
mi ero
alzata. Con le stampelle ero arrivata in bagno e mi ero fatta una
specie di
doccia, tenendo la gamba destra fuori, perché non si bagnasse la
fasciatura,
poi mi ero asciugata e vestita.
Quello che non sapevo come fare era
scendere le
dodici rampe di scale, che mi terrorizzavano.
Avevo chiuso la porta e percorso il
breve
pianerottolo che portava alle scale, quando avevo sentito il suono del
telefono
provenire da casa mia. Avevo lasciato squillare: chi mi voleva, mi
avrebbe richiamato
più tardi.
Avevo preso un grosso respiro e mi ero
affacciata
all'abisso e poi... il rumore di svelti passi provenienti dalla tromba
delle
scale mi aveva per un istante fatto trattenere il respiro, come se
avessi
saputo chi stava salendo. Poi, in
un
istante, avevo scorto i capelli biondi ed il viso preoccupato di Carl,
che mi
aveva guardato a lungo, fermo tre scalini sotto a me ed il mio cervello
si era
dimenticato di comandare ai polmoni di respirare.
Come l'avevo visto, avevo sentito il
pavimento
franare sotto a me e tutto farsi buio. Poi erano state le sue mani sul
mio
viso, il suo respiro così vicino al mio a riportarmi a galla.
Era seduto sull'ultimo scalino e mi
teneva stretta
a sé, disegnando effimere carezze sulla pelle della mia guancia, con il
pollice, mentre il resto della sua mano scivolava sotto al mento. Era
ghiacciato, come sempre e guardava lontano, oltre il muro che ci
divideva dal
palazzo vicino.
Ricordo di averlo chiamato per nome e
lui aveva
voltato i suoi occhi brillanti verso di me e mi aveva sorriso.
-Ciao...-, aveva detto piano,
graffiando l'aria con
la sua voce sensuale.
-Ciao...-, gli avevo risposto,
arrossendo.
-Cosa stavi facendo?-, lo aveva
domandato
sorridendo, come se mi avesse trovata con le mani nella marmellata.
-Dovresti
essere a letto... dammi le chiavi-, perché l'aveva chiesto? Che voleva
fare?
Mi aveva sollevata tra le sue braccia,
alzandosi,
come se pesassi due chili e mi aveva ricondotta dentro casa.
Il rumore della pioggia che aveva
ripreso a cadere
dalla notte ronzava sul tetto sopra a noi.
Mi aveva fatta sedere sul divano, e si
era chinato
di fronte a me. Poi aveva aperto la zip dello stivale con cui avevo
coperto la
fasciatura e aveva mosso delicatamente la mia caviglia. Avevo sentito
male, ma
gli avevo sorriso.
-Posso levarla?-, aveva domandato,
prima di
iniziare lentamente a srotolare la fasciatura che mi imprigionava.
Poi aveva preso entrambe le sue mani e
le aveva
avvicinate alla zona gonfia. Che sollievo! Cento volte meglio del
ghiaccio,
perché erano le sue mani...
Eppure, sebbene sapessi che erano
fredde, nonostante
il mio corpo desse la conferma di ciò, io mi ero sentita avvampare.
Avevo mosso
il piede, perché lo lasciasse e, quando fu di nuovo in piedi davanti a
me, mi
ero mossa in avanti sul divano, abbracciandolo stretto. Forse gli avevo
macchiato di mascara un angolo del cappotto chiaro, ma le sue mani che
mi
accarezzavano dolcemente la testa stringendomi sulle sue gambe come
fossi stata
una penitente davanti ad un vescovo, mi avevano fatto dimenticare ogni
macchia
che poteva esistere nella mia esistenza. Poi si era chinato e
delicatamente
aveva asciugato le lacrime che mi scorrevano sul viso, con i pollici,
mentre
teneva il mio volto tra le mani.
-Grazie...-, ero riuscita a
sussurrargli, poi gli
avevo sorriso.
Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.
***
Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.
La
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narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a
Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è
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Ecco le risposte ai vostri commenti!
meredhit89: Mi fa piacere che tu capisca perfettamente la situazione dei vari personaggi della storia e i loro punti di vista... Chissà... forse la tua curiosità, prima o poi, potrebbe essere accontentata... :-P
Helen Cullen: Mi hai fatta morire!!!! :-P Ti ho colpita e affondata, con la posa da modello delle pubblicità di Carl? ^__^ Siamo in due, allora, perché prima di scriverle, me le vedo le scene! Sono strafelice che tu abbia compreso così profondamente la condizione contrastata di Carlisle che non sa come comportarsi e la sofferenza di Bella. Lei è stata ferita e ha paura del futuro... almeno io la vedo così... Continua a recensire, che mi piace molto leggere quello che scrivi!
Balenotta: Eheh! Desolata per farti stare sulle spine... prima o poi ti prometto che la situazione evolve... ma se uno ha... che ne so... ecco, una caviglia malandata, prima di tornare a correre, inizia a fare passettini e poi passi sempre più grandi... ci vuole tempo o l'equilibrio si spezza! Comunque resisti!!! Grazie!
VivianaRossa: Oddio... ç__ç Io non vorrei dare l'impressione che "Bella se la faccia con quello che era suo suocero"... mi deprime un po' questo punto di vista! Piuttosto posso dire che con l'età Bella scopre di gradire lati della famiglia Cullen che la portano ad apprezzare sempre di più il vino stagionato... o il pecorino... va meglio? ^__^;; Grazie x la recensione!!
eka: In effetti carl si sente un po' pedofilo, ma questo gli capita dal lontano millesettecentoventiquattro, quando conobbe quella biondina tutto pepe che stava all'osteria... Dopo si sentì pedofilo anche con la attempata signora americana nel milleottocentoquarantasei, perché anche se sembrava sua mamma, aveva già quasi due secoli meno di lui. Quando arrivò Esme si fece chiudere in una clinica psichiatrica, visto che la signorina, quando defunse aveva solo 26 anni... cosa che tuttora ha. Bella... beh, sì, ne ha due più di lei, ma ancora non è immortale, sicché di vissuto ne ha poco... Il problema è che il signore s'è un po' immandrillito, negli ultimi tempi, a forza di vedere il dottor house in tivvù... sicché ha deciso di comportarsi da trentenne e chissene! ^__^ Scherzi a parte, sono felicissima per i tuoi commenti e... dopo questa parentesi Bella/Carl riproporrò qualcosa sugli altri vampiretti... ma non ti eri scandalizzata con Eddie & Alice? ;-P
RECENSITE, RECENSITE, RECENSITEEE!!!