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Autore: Monique Namie    04/10/2015    2 recensioni
Dylia fa parte del dipartimento di trasposizione della E-Security, un ente pubblico che si occupa della sicurezza dei cittadini residenti sui pianeti di un nuovo sistema solare colonizzato dall'umanità. Un giorno le viene affidata una missione in solitaria per scongiurare un attentato a una importante stazione spaziale, ma qualcosa non va come previsto e da allora la sua vita prende una piega del tutto inaspettata...
Una storia d'amore e d'odio, di persone guidate dalla bontà e di altre accecate dal desiderio di vedetta. Una storia disseminata di ostacoli in apparenza insormontabili e intrighi legati allo spionaggio che portano i protagonisti del racconto a fare i conti con situazioni complicate, in cui i concetti stessi di "bene" e "male" tendono a confondersi.
{Il primo capitolo ha partecipato a "Boom! Il contest che vi lascerà con il fiato sospeso!" indetto sul forum di EFP}
Genere: Avventura, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Incertezze



Cap.6 - Tra leggenda e realtà


Si diceva che la culla dell’umanità fosse la Terra, terzo corpo celeste dal Sole, in un sistema planetario situato all’altro capo della galassia. Si diceva che il suo asse di rotazione fosse inclinato e che quindi la temperatura della superficie variasse nel corso dell’anno. Si diceva anche che attorno a essa ruotasse un satellite naturale chiamato Luna, la cui forza d’attrazione provocava talvolta l’innalzamento dei mari, talvolta il prosciugamento parziale di alcune zone sommerse. Sembrava che la sua geosfera fosse una specie di incubatrice primordiale in cui soggiornavano quasi due milioni e mezzo di specie diverse di esseri viventi.
Al pianeta Terra erano dedicate intere sezioni degli archivi della Biblioteca Mondiale. La sua storia si studiava anche a scuola, ma rientrava nella letteratura epica e nella mitologia. Era considerato un paradiso inventato dai sognatori per cercare un po’ di sollievo dalle avversità del presente.
La storia più recente vedeva come protagonista Devodos, quinto corpo celeste dalla stella Yris, abbandonato quando quest'ultima divenne una supergigante rossa
1 rendendo l’atmosfera tossica, l’acqua acida e il terreno radioattivo.
La migrazione di massa su altri pianeti del sistema era cominciata un secolo addietro, ma nei decenni a seguire le navette con a bordo i sopravvissuti avevano continuato senza sosta a fare scalo. Il pianeta più ambito era Terratre, le cui condizioni climatiche erano le più favorevoli. Dalle vecchie astronavi simili a catorci che riuscivano ad atterrare nel nuovo mondo, sbarcavano famiglie distrutte dai volti impolverati, con abiti sporchi e sgualciti. Il più delle volte tra loro c’era qualcuno in gravi condizioni di salute che necessitava di urgenti cure. I sopravvissuti di Devodos portavano con sé fame e malattie infettive. Di fronte alle prime epidemie, il Governo Mondiale si vide costretto a prendere la drastica decisione di negare loro l’accesso chiudendo la frontiera spaziale. Da allora, le navette che cercavano di atterrare su Terratre senza permesso venivano abbattute.

All’epoca Dylia aveva sentito i suoi genitori parlare spesso della barbarie che si stava compiendo; per un po' avevano fatto parte della coalizione di attivisti che si recavano a protestare davanti le sedi governative locali. Lei aveva solo otto anni e non poteva contribuire alle proteste, ma capiva meglio di certi adulti la gravità della situazione: aveva degli zii confinati in una base spaziale in attesa di un visto che non sarebbe mai arrivato. L’idea di lasciare delle povere persone a morire di fame e malattie nello spazio la faceva inorridire. In un tema assegnatole a scuola, aveva scritto che da grande avrebbe salvato la gente, forse avrebbe fatto il medico o l’operatrice di pace. Dieci anni dopo, il suo desiderio di salvare la vita delle persone era evoluto in un forte senso di giustizia e protezione verso i più deboli. Sulla soglia dei diciott’anni venne alle mani con un compagno di classe perché infastidiva un ragazzo più timido e incapace di difendersi: entrambi, lei e l’aggressore, erano stati sospesi da scuola per una settimana. Quando i suoi genitori tornarono a casa dal colloquio con il preside non erano poi tanto arrabbiati. Suo padre le aveva fatto l'occhiolino e aveva concluso dicendo che il preside era un deficiente. La madre in un primo momento aveva protestato contro l’uso scurrile dell’espressione del marito, ma poi gli aveva dato ragione. La sera andarono a mangiare fuori per premiare il carattere forte e determinato della figlia e si divertirono un sacco. Quella stessa sera, con un velo inspiegabile di malinconia, Dylia aveva guardato i suoi abbracciarsi e dentro di sé aveva ringraziato una qualche entità a lei sconosciuta per averle concesso dei momenti così felici in presenza delle persone che amava.
Poco tempo dopo ci fu l’incidente alla stazione sotterranea del quorm2 che portò via a Dylia entrambi i genitori mentre tornavano dal lavoro. Per questioni economiche dovette abbandonare l’idea di iscriversi alla falcoltà di Medicina e optare per un concorso pubblico di vigilanza. Distrutta dal dolore per la perdita dei suoi cari, reagì chiudendo le porte ad ogni contatto umano che non fosse per scopi professionali. Fu in quel periodo che sviluppò l’abilità di dimenticare i nomi delle persone che incontrava: forse inconsciamente sperava che dimenticandoli non avrebbe sofferto nel caso in cui, per un motivo o per l’altro, se ne fossero andati. Era una specie di rudimentale autodifesa istintiva.
Il concorso pubblico di vigilanza andò bene e cinque anni dopo, all’età di ventitré anni, fece domanda per essere trasferita nel dipartimento d’assalto della E-Security. Sapeva che i requisiti d’accesso prevedevano due anni di addestramento in un campo militare, ma la cosa non la spaventava. Tagliò i capelli corti, si fasciò il seno e iniziò a vestirsi con abiti maschili sperando, così, che la mattina guardandosi allo specchio l’immagine riflessa non fosse più quella di una fragile ragazzina, ma quella di un giovane combattivo. Le lunghe ciglia che incorniciavano i suoi graziosi occhi verdi e i lineamenti dolci del viso continuavano tuttavia a tradirla, così finì per tornare al suo solito stile. Quell’anno altre undici donne si erano presentate al campo militare oltre a lei. Solo cinque riuscirono a resistere fino alla fine: lei era una di quelle.
A ventisei anni intraprese la sua prima missione: casco e corazza anti-proiettili addosso, seguì la sua squadra a nord della regione. Il posto era costellato di vecchie industrie estrattive abbandonate da ormai qualche decennio. Dopo che i rari materiali presenti nel sottosuolo erano stati esauriti, mantenere in piedi un’attività in quella zona risultava altamente improduttivo, perciò gli imprenditori avevano cercato ripiego in città. La periferia era diventata una specie città fantasma, infarcita di edifici fatiscenti che ospitavano il rumore sinistro del vento.
Dylia rimase colpita dal fatto che sulle mura diroccate, sfidando i raggi ustionanti del sole, riuscissero a crescere certi tipi di piante rampicanti. Si sentì quasi commossa nel vedere che la natura cercava di adattarsi alle condizioni più impervie, animata da una silenziosa ma potente volontà di vivere. La vita per Dylia era qualcosa di magico, un prodigio del cosmo; distruggerla sarebbe stato sintomo di grande ignoranza e grave mancanza di empatia. Qualche minuto più tardi si ritrovò a premere il grilletto della pistola contro una persona: un criminale antigovernativo che aveva creato parecchi disordini in città provocando morti e feriti, ma pur sempre una persona. Le mani le tremavano, eppure non era riuscita a tirarsi indietro, non era riuscita a urlare i suoi ideali e gettare via l’arma. Avrebbe ricordato per sempre l’espressione sgomenta rimasta impressa sullo sguardo di quell’uomo anche dopo avergli sparato. I suoi colleghi si complimentarono per la freddezza, il che la fece stare ancora più male. Si sentì una stupida: non era una giustiziera di morte ciò che voleva diventare. Comprese che non poteva rimanere un minuto in più in quella falange di violenza mascherata sotto il nome di giustizia. Se sua madre fosse stata ancora in vita, era certa che le avrebbe ripetuto la solita frase, quella che usava per incoraggiarla nei momenti peggiori: prima trovare la strada giusta bisogna compiere per forza degli errori.
Così, decisa a non buttare via tutti gli anni di sacrifici che aveva compiuto per arrivare fin lì, Dylia fece domanda per entrare a far parte del neonato ramo operativo della
E-Security, evolutosi grazie all’ausilio della scienza: il dipartimento di trasposizione. Con il nuovo distintivo le consegnarono anche un taser e, impugnandolo, capì che stava finalmente imboccando il sentiero che l'avrebbe condotta al suo destino.
In quel periodo si sentiva più sola che mai. In centro, passando davanti a un negozio specializzato in robotica, notò un nuovo tipo di automa esposto in vetrina. Rimase colpita dall’impressionante somiglianza a un essere umano in carne ed ossa e provò subito simpatia nei suoi confronti. Spese lo stipendio di tre mesi di lavoro per comprarlo e, ancor prima dell’attivazione, gli aveva già trovato un nome: Oliwar. Poiché, secondo la Legge, i robot umanoidi dovevano essere annualmente coperti da un'assicurazione, Dylia finì per vedere la sua navetta privata in modo da stare dentro alle spese mensili. Per Oliwar, quindi, iniziò a usare il taxi per gli spostamenti regionali e le navette planetarie per i viaggi più lunghi.
Ora Dylia, a distanza di qualche anno, se ne stava di nuovo in quello stesso negozio, a braccia conserte davanti all’operatore che stava terminando di analizzare i circuiti del robot.
«È tutto a posto», disse l’uomo ricoprendo il dorso dell'automa con la placca che aveva staccato per eseguire i controlli. Oliwar riaprì gli occhi e, facendo leva con le braccia sul lettino, si rialzò.
«Quanto le devo?», chiese Dylia.
«Niente, si figuri. È la prima volta che mi portano a riparare un robot così in forma. C’era un solo malware nel programma decisionale, ma l’ho eliminato e sembra che non abbia intaccato gli altri circuiti interni. Chissà poi come c’è finito dentro un malware del genere.»
«Mi creda, è meglio che non lo sappia.»
L’altro rise, forse pensando che Dylia stesse cercando di impressionarlo. La ragazza lo lasciò fantasticare e si rivolse al robot: «Come va, Oliwar?»
«Inizializzazione completata. Riavvio cip istallati completo. Va alla grande, Dylia.»
«Perfetto. Allora, grazie mille!», disse. L’operatore la salutò con un cenno del capo.
Uscendo dal negozio Dylia si scontrò con una persona che stava entrando: era Saati, il ragazzo che aveva conosciuto qualche giorno prima in mensa. Trovandosi improvvisamente con il viso schiacciato contro il suo petto, per poco non perse l'equilibrio. Oliwar si preoccupò subito per la salute di entrambi, strappando a Saati un sorriso divertito. Dylia evitò di chiamarlo per nome per il semplice fatto lo aveva dimenticato e, dopo i convenevoli, cercò di rimediare scusandosi per il modo in cui l’aveva cacciato via l’ultima volta.
«Non ti perdono», disse lui, «a meno che tu non venga a bere qualcosa con me. C’è un buon locale a due passi da qui.»
Fu così che presero posto in un tavolo esterno del bar, sotto una capannina di vetro colorato, studiato apposta per bloccare le radiazioni solari dannose.
«Eri venuto a comprare qualcosa al negozio di robotica?», chiese lei rivolta al ragazzo.
«A dire il vero no. Ti avevo vista entrare e così dopo un po’ ho deciso di seguirti, ma ho scelto il momento sbagliato.» Rise e quel suo sorriso fece tornare a galla i rimorsi.
«Scusa per l’altro giorno. Di solito non aggredisco le persone in quel modo, dev’essere stato lo stress per il lavoro.»
«Smettila di scusarti, ok? Piuttosto hai risolto quel problema?»
«Quale problema?»
«Un problema che inizia con “S” e finire con “K”.»
Il volto di Dylia s’incupì. «Per essere un comune cittadino sei parecchio informato sugli identikit dei ricercati.»
«Ti avevo già accennato che sono un archivista. Agli archivisti passano tra le mani informazioni molto interessanti. Un giorno mi sono ritrovato a catalogare il caso di quel Shulik. È un caso triste, uno dei più tristi che abbia mai letto. Il Governo Mondiale cerca di nasconderle, certe cose. Prima di diventare archivista ho dovuto fare voto di silenzio su tutto ciò che avrei appreso durante il mio lavoro.»
Dylia si sporse sul tavolino. «Che cosa hai letto su di lui? Dimmelo.»
«Mi spiace, non posso infrangere il giuramento.»
In quel momento arrivò il cameriere e Saati ordinò un caffè shakerato alle mandorle. Dylia non aveva voglia di nulla, ma per mandare via il cameriere senza polemiche ordinò lo stesso di Saati. Poi frugò nella tasca interna del trench, ne tirò fuori un distintivo argentato e lo mostrò al ragazzo.
«Te lo chiedo in nome della legge: che cosa hai letto su Shulik? Potrebbe essere utile ai fini delle indagini che sto conducendo.»
L’altro sospirò. Davanti al distintivo di un agente della E-Security il suo voto di silenzio non era più valido. Si diede una rapida occhiata attorno, come per assicurarsi che non ci fossero orecchie indiscrete in ascolto e poi cominciò.
«Si chiama Elar. Shulik è il cognome da parte di madre. Se non ricordo male, giunse su Terratre con la famiglia quando aveva nove anni. Come sai, vent’anni fa il governo aveva già deciso di mettere in atto la politica di chiusura nei confronti dei superstiti di Devodos. La navetta della famiglia di Shulik fu intercettata durante la discesa, riuscirono nonostante tutto a entrare nell’atmosfera sganciando la navetta di salvataggio. Una volta toccato il suolo di Terratre le autorità non possono più fare nulla, se non curare eventuali malati e feriti. Elar Shulik fu trasportato d’urgenza in una struttura specializzata per la decontaminazione radioattiva. Il processo per la decontaminazione all’epoca non era ancora stato perfezionato: per un ragazzino di quell'età fu una sofferenza atroce e, considerando che poco dopo vide i suoi genitori morire… beh, non mi stupisce che sia diventato un assassino.»
Il cameriere tornò e appoggiò sul tavolo le ordinazioni. Saati bevve subito un sorso dal suo bicchiere. Dylia rimase immobile, lo sguardo perso oltre il traffico della strada.
«Se ti interessano i dettagli, dovresti tornare alla Biblioteca Mondiale. La mia testa non è un computer», concluse il ragazzo.
Dylia mise via il distintivo e rimase ancora un po’ in silenzio assorta nei suoi pensieri. Ricordò l'ultimo incontro ravvicinato con Shulik nei piani interrati del grande magazzino e le parve di sentire ancora il calore della mano che gli aveva afferrato. Ora che aveva appreso la sua storia, la rabbia che aveva provato nel scoprire che lui la spiava attraverso gli occhi di Oliwar si stava affievolendo. Se guardarla dormire con il suo robot era servito a recare sollievo all'anima in pena di quell'uomo, non le dispiaceva poi tanto che la sua privacy fosse stata violata. Stava forse impazzendo?
«Com’è successo?», chiese.
«Cosa?»
«I suoi genitori.»
«Ah, uno strano incidente... Nell'edificio in cui erano ospitati per le cure, esplose una camera iperbarica scatenando l'inferno. In confidenza, non sono così certo che sia stata una tragica fatalità: tutte le porte erano chiuse dall'esterno e protette da una password. Inoltre, casualmente, l'allarme antincendio non scattò e nessuno andò in loro soccorso.»
Dylia si alzò dal tavolo seguita a ruota dal Oliwar.
«Te ne vai di già?!», chiese Saati con un'espressione alquanto sorpresa.
«Se è per colpa di questa storia...»
«No, tranquillo. Mi sono ricordata di una cosa importante che ho da fare. Bevi anche il mio caffè se vuoi, tanto non l’ho toccato. Offro io.»
Tirò fuori la carta di credito e la passò sul display quadrato montato sul metallo del tavolino. Poi si allontanò lungo il marciapiede con passo spedito affiancata dal suo robot. Saati la osservò camminare per un po'. Quando fu abbastanza distante, prese il cellulare e selezionò un numero dalla rubrica salvato sotto il nome di “nonno cigar”.
«Sono io
», iniziò, «se i suoi sospetti sono fondati, in questo momento sta sicuramente andando da lui», disse. «Vi porterà dritti nella tana del lupo.»
La voce all’altro capo dell’apparecchio apparteneva a un uomo di una certa età, era rauca e rovinata dal fumo di numerosi sigari. «Che cosa le ha detto per convincerla?»
«Psicologia. Le ho solo raccontato la verità. L’amore e la compassione l’hanno spinta a fare il resto.»
L’altro mugugnò qualcosa d'incomprensibile, poi concluse: «Spero che lei si sbagli. Se così non fosse, perderei uno dei miei agenti migliori. Si prepari e raggiunga la mia squadra.»
La chiamata terminò così. Saati prese la tazzina abbandonata da Dylia e, lasciatosi scivolare sullo schienale della sedia, si concesse qualche altro minuto di relax prima di scendere nuovamente sul campo.





Note autore:
1- In astronomia si può dire che una supergigante rossa sia il secondo stadio in cui muta una stella con una massa dieci volte maggiore a quella del Sole, nel momento in cui tutto l'idrogeno all'interno del suo nucleo viene esaurito.
2- Il quorm è una specie di metrò futuristico ad alta velocità presente in quasi tutti i racconti fantascientifici che ho scritto (ma che al momento non ho ancora pubblicato).

Ed eccoci qua, alla fine del sesto capitolo, che ha svelato qualcosa in più sulla storia dei vari personaggi e del pianeta stesso in cui si stanno svolgendo gran parte degli eventi. Spero che non mi siano sfuggiti troppi errori e che la lettura sia stata di vostro gradimento. Fatemi sapere se ritenete che qualcosa debba essere migliorato. :)


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