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Autore: BeaterNightFury    05/10/2015    1 recensioni
La prima metà del sedicesimo secolo segnò importanti cambiamenti nell'assetto politico, religioso e bellico dell'Europa.
Le guerre tra gli Stati regionali del territorio italiano terminò, con un'evidente sconfitta del sistema militare delle compagnie di ventura, e con l'avvento delle armi da fuoco.
Le riforme religiose portarono a ulteriori guerre, e nuovi Stati si affermarono come potenze.
In tutto questo, quanto era ordito dai Templari per il loro controllo del mondo? Qual è stato il ruolo della Fratellanza?
A raccontare questa storia, una degli Assassini - Flavia Auditore.
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Flavia Auditore, Marcello Auditore, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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… presi a correre verso la marina, gridando: “Dottore! Dottor Trelawney! Mi prenda con sé! Non può lasciarmi qui, dottore!”

Ma già le navi stavano scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui.

(Italo Calvino, Il Visconte Dimezzato)

 

DATABASE:

Persone -> Contatti -> Giovanni ‘Dalle Bande Nere’ De’ Medici

Nato: 6 Aprile 1498

Nato Ludovico De’ Medici a Forlì, venne ribattezzato Giovanni alcuni mesi dopo, alla morte del padre.

A parte il nome, il cromosoma Y e i capelli scuri, prese praticamente tutto dalla madre, Caterina Sforza, compresi la fierezza e il talento per mettersi nei guai. Girano voci su lui da bambino che dicono che fu vestito da femminuccia e nascosto in un convento di suore a Firenze perché venisse protetto da eventuali rappresaglie dei Borgia. Poi Ezio liberò Caterina e il piccolo Giovanni fu di nuovo in famiglia.

Alla morte di sua madre, quando lui aveva undici anni, venne affidato al nobile fiorentino Jacopo Salviati, genero di Lorenzo il Magnifico, il cui scopo principale era porre un freno al declino della casata dei Medici. E ci riuscì – iniziò a combinare il matrimonio tra sua figlia Maria Magdalena Romola e Giovanni quando la ragazza aveva dieci anni e il povero ragazzo, come ho detto, undici.

Giovanni venne accolto nella Fratellanza da Niccolò Machiavelli nello stesso anno, e venne ripetutamente colto sul fatto mentre cercava di aiutare. Nel 1513, Jacopo Salviati portò Giovanni a Roma, e lo fece iscrivere nell’esercito pontificio, cercando di imprimergli un po’ di responsabilità. Sembra che non ci riuscì, perché Giovanni e alcuni dei suoi nuovi amici attaccarono e uccisero due soldati esperti sul Ponte Sant’Angelo. Un anno dopo la cosiddetta rissa sul ponte, Giovanni, ora diciottenne, sposò Maria Salviati. Avrebbero avuto un figlio, Cosimo, che avrebbe portato avanti il nome della casata.

Dopo tutte le disavventure di gioventù, Giovanni divenne il miglior combattente dell’esercito pontificio. Poteva pianificare strategie che anticipavano i tempi, e nonostante gli scarsi numeri della sua armata, spesso si distinguevano in battaglia. Lo stesso Machiavelli lo considerava l’unico uomo capace di porre un freno all’espansione del Kaiser in Italia.

Purtroppo morì giovane.

 

Luoghi -> Trastevere

Le persone conoscono Roma per il Colosseo, per San Pietro, o tutti i monumenti antichi, ma anche questo insolito quartiere merita una visita. Ezio l’ha visto soltanto come il posto in cui Juan Borgia ospitò il suo bunga bunga ante litteram, ma Trastevere era molto più che il parco giochi dei Borgia. Durante il periodo in cui Roma era Caput Mundi, questo quartiere era occupato da gente il cui mestiere aveva a che fare con l’acqua, come pescatori, marinai, e così via. Era anche la casa di immigrati siriani ed ebrei, e ospitava templi di culti stranieri. Ovviamente i templi vennero distrutti nel Medioevo, ma il carattere multiculturale del posto rimase. Isolati dal resto della città, i trasteverini avevano una cultura propria, una cultura che era più culture assieme, e da qualcuno vennero definiti come gli abitanti più tipici di Roma.

Gli Assassini Cipriano Enu e Tessa Varzi, assieme ad altri, vennero uccisi in una taverna di Trastevere in un’imboscata che ebbe come unico sopravvissuto Francesco Vecellio. Un altro Assassino, Filippo Falcone, venne ucciso nella sua casa, in questo stesso quartiere, alcuni anni dopo.

Parecchi anni dopo che Flavia ebbe scritto le sue memorie, questo quartiere divenne la patria di poeti vernacolari come Giuseppe Gioachino Belli e Carlo Alberto ‘Trilussa’ Salustri, del regista di spaghetti western Sergio Leone e del compositore Ennio Morricone.

 

SEQUENZA 2

L’ORA DEI FATI

 

Sapevamo già da un bel pezzo che quei due anni di relativa pace altro non erano che la calma prima della tempesta. Il Kaiser e il Re di Francia si contendevano ancora il Ducato di Milano, e le Bande Nere di Giovanni erano ancora in prima linea negli scontri.

La situazione era di stallo, ma sapevamo che non sarebbe mancato molto ad un attacco, e probabilmente all’ultima battaglia della Fratellanza.

Nel frattempo, la vita a Roma andava avanti come sempre: gli allievi venivano addestrati, i maestri insegnavano… e i bambini crescevano.

 

Capitolo 1

L’Ultima Lezione

 

14 Aprile 1526, Roma, una casa sull’Isola Tiberina

 

“Non so proprio cos’abbia Francesco,” Flavia disse prendendo il suo piatto dal tavolo e portandolo alla tinozza.

“Il tuo insegnante, vuoi dire?” Mamma le passò un altro piatto sporco.

“Sì. Voglio dire, non mi ha chiamata per le lezioni stamattina,” Flavia strofinò via i resti del pranzo dai piatti e li sciacquò nell’acqua pulita. “Non lo ha mai fatto senza un motivo. Pensi che stia male?”

“Non lo so, forse dovresti andare a cercarlo,” asserì Mamma.

“L’ho fatto,” ribatté Flavia. “Insomma, non è che posso star qui tutto il giorno senza far nulla. Sono andata a casa sua e ho bussato. Non ha risposto nessuno. A dire il vero, Alessio mi ha suggerito di chiedere il grimaldello a Benvenuto, ma…”

“Forse Massimo sa dov’è. Oppure è dovuto partire per qualche missione urgente,” suggerì Mamma.

“Non lo so…” Flavia si asciugò le mani.

“Beh, non ti preoccupare. Saremmo già state avvertite se gli fosse successo qualcosa.” Mamma le mise una mano sulla spalla.

Flavia salì in camera sua. Era in momenti come quelli che Marcello le mancava di più. Prese in mano la lettera che aveva scritto quella mattina per il fratellino e controllò che l’inchiostro si fosse asciugato. Un anno. Era passato quasi un anno dall’ultima volta che lo aveva visto. Si era persa il suo undicesimo compleanno, lui probabilmente avrebbe perso il tredicesimo di Flavia, il Templare Frundsberg era ancora in vita e le Bande Nere di Giovanni non sembravano affatto intenzionate a battere in ritirata. C’era un letto libero nella casa, uno che non era mai stato usato. Perché Papà ha lasciato che il Capitano portasse Marcello via? ‘Continua a prenderti cura di tuo fratello’, aveva detto. ‘Restate insieme’, aveva detto. E poi aveva spedito Marcello in un maledetto esercito!

Perché?

Qualcosa che suonava come un sasso colpì l’imposta della sua finestra. Ci risiamo. La aprì e vide Alessio giù per strada.

“Non puoi bussare alla porta come tutti gli altri?” sogghignò mentre lo guardava.

“Scusa!”

Se non si fosse guardato all’incisivo scheggiato, sarebbe stato difficile identificare Alessio Falcone con l’orfano undicenne sporco e trasandato che Flavia aveva incontrato il primo giorno dell’anno prima. La sua pelle abbronzata tradiva ancora i natali meridionali della sua famiglia, ma aveva addosso abiti buoni, una tunica sul grigio bluastro e dei pantaloni grigio chiaro, e ultimamente si era lasciato crescere i capelli neri fino quasi al mento. Era cambiato molto, Flavia invece sentiva di non essere cambiata quasi per niente.

Certo, aveva cambiato abiti ogni volta che le erano diventati troppo stretti, ma quello, per ora, era l’unico cambiamento evidente. Aveva ancora la corporatura di una bambina nonostante fosse già più alta di altre ragazze che già avevano avuto quel che chiamavano ‘il marchese’, e poteva facilmente passare per un ragazzino, specialmente se si raccoglieva i capelli castani o li nascondeva sotto al cappuccio. Non sarebbe durato a lungo, e lo sapeva, ma Francesco spesso le diceva di approfittarne finché poteva – era uno dei modi che aveva per restare invisibile in una folla.

Corse giù per le scale e aprì la porta per far entrare Alessio.

“Allora, che succede?” gli chiese. Aveva ancora addosso il puzzo acre della bottega di Benvenuto.

“Roberto fa gli anni,” spiegò Alessio. Roberto, meglio noto come Bertino o Sgorbietto per la sua statura irrisoria, era il figlio maggiore di Patroclo Aldobrandi, l’allievo di Cecchino Cellini, e uno dei pochi amici di Alessio. “E… siccome… la sua famiglia è a Firenze…” Alessio strofinò un piede per terra. “Cecchino vuol fargli una sorpresa. Voglio di’, fa quattordici anni. Praticamente, è un uomo.”

“Penso che lo chiameranno ancora Bertino per parecchio, però,” Flavia ridacchiò. “Dunque. Hai qualche piano?”

“Beh, Cecchino mi ha detto di dirlo a tutti i suoi amici, radunarci nella sala delle cerimonie, prendere un po’ di cibo dalle scorte, e tenerci pronti per qualche giochino stupido. Al regalo ci pensa lui.” L’apprendista scultore contò sulle dita. “Tutto questo, prima che le campane suonino le cinque.”

“E tu non hai ancora iniziato a correre su e giù perché sia tutto pronto? Siete davvero una delusione, messer Falcone,” Flavia ridacchiò e alzò il sopracciglio.

“Ho cominciato con te perché sapevo che mi avresti aiutato,” l’ex monello di strada scoprì l’incisivo rotto in un sorrisetto.

“Sei proprio una carogna,” Flavia disse in finto tono di rimprovero, alzò di nuovo il sopracciglio e incrociò le braccia, poi andò verso la sala da pranzo. “Ehi, Mamma, io e Alessio usciamo. Roberto, il figlio di Patroclo, compie quattordici anni oggi. Se vuoi raggiungerci, alle cinque saremo al Quartier Generale.”

“Va bene,” rispose Mamma. “Ma non fate niente di stupido in giro. Oh, e prima che andiate a divertirvi con gli amici, Flavia, ho bisogno che tu vada a prendere l’acqua dalla fontana.”

“Prendere l’acqua? Di nuovo?” Flavia alzò gli occhi al cielo. “Ma Mammaaaa… l’ho già fatto stamattina!”

“Non si preoccupi, Madonna, lo faremo assieme,” Alessio cercò immediatamente di calmarla e prese i secchi dall’angolo in cui erano poggiati. “Annamo, Flavia, prima lo facciamo e prima ce ne liberiamo.”

Flavia odiava andare a prendere l’acqua. A casa, era sempre stato compito di Serena, ma a Roma, dove di solito erano per conto loro, il compito era caduto su di lei. Sapeva di aver quasi tredici anni, di non essere più una bambina piccola e che era abbastanza grande da aiutare in casa. Sapeva che qualcuno doveva pur farlo. Ma la cosa non le faceva odiare meno il gravoso compito.

Alessio dovette quasi trascinarla fuori, ficcarle un secchio in mano, e portarla alle fontane.

Uffa,” Flavia protestò una volta fuori portata dalle orecchie di Mamma. Alessio ridacchiò.

Ci misero un po’ a riempire i secchi, anche perché ad un certo punto Alessio giudicò particolarmente divertente sollevare un po’ di spruzzi nella vasca e infradiciare entrambi, ma le campane non avevano ancora suonato le tre quando tornarono a casa di Flavia.

“Colpa sua,” fu l’unico commento di Flavia quando Mamma li trovò sulla soglia con gli abiti bagnati. Si aspettava di venire ripresa, magari di venire ordinata di non entrare; quello che non si aspettava era che Mamma si mettesse a ridere.

“Beh, ragazzi, divertitevi,” disse Mamma. “Non fate nulla di stupido, non mettetevi nei guai, e vi raggiungo dopo al Quartier Generale.”

“Va bene. Ciao Mamma!” Flavia si allontanò e la salutò con la mano, con Alessio che la seguiva a ruota. “Andiamo, abbiamo amici da radunare e cibo da trovare,” disse poi, girandosi verso l’amico. “Credo che dovremmo chiedere per prima cosa a Giuseppe e Costanza. Sono sempre più che felici di aiutare.”

“Casa loro a Trastevere è lontana. Facciamo di corsa?” chiese lui, guardando i tetti.

“E l’ultimo che arriva… è un barbagianni!” Senza il minimo preavviso, Flavia scattò in avanti, attraversò il ponte e sfrecciò per strada, poi trovò un appiglio in una trave sporgente su un edificio vicino e iniziò a salire fino al tetto. Alessio le urlò dietro: “Ehi! Non VALE!”, poi le corse alle calcagna.

Erano entrambi dei corridori veloci, abbastanza da dare la polvere alla maggior parte dei loro coetanei; e nemmeno Benvenuto e Francesco erano in grado di dire quale dei due fosse più veloce, nonostante tutte le sfide che Flavia e Alessio avevano disputato nell’ultimo anno. Flavia non vedeva l’ora che tornasse suo fratello. Suo fratello era sempre stato un buon arrampicatore, e un nuovo sfidante avrebbe solo reso la sfida più interessante.

Quanto poteva essere cambiato, stavolta? Aveva un po’ paura che fosse diventato uno di quei ragazzi prepotenti che ritenevano che le bambine fossero brave solo a giocare con le bambole. Non si era scordata di quel che aveva detto quando avevano finto di giocare con le trottole di Cosimo. Cosimo stava perdendo contro Flavia, come se perdere contro una ‘femminuccia’ fosse prova dell’inettitudine del bambino. Nonostante fosse stata una bugia per distrarre i fratelli Cellini, e non aveva convinto affatto Benvenuto; anche sapere che suo fratello non l’avesse veramente inteso non allontanava il pensiero che fosse cambiato, e non necessariamente in meglio.

“Che succede, Flavia?” Alessio si fermò e si girò verso di lei. “Non stai manco provando a battermi!”

“Stavo pensando a Marcello.”

“Ancora?” Alessio quasi sbuffò. “Flavia, ne abbiamo già parlato. Voglio di’, tuo cugino Enrico ha passato un sacco di tempo col Capitano quando erano ragazzi. E mo ha ventisei anni ed è tutto fuorché un cretino. E ho sentito che il Capitano da ragazzo era pure peggio.”

“Non era ancora Capitano, non era un eroe di guerra, e Zia Claudia poteva ancora controllarlo,” Flavia camminò in avanti.

“È ancora sua superiore,” Alessio concluse. “Se lei gli dice di cantare, lui può solo chiederle quale canzone.”

Poco dopo aver reclutato Giuseppe e Costanza Simoni nella loro cosiddetta missione, e chiesto ai due fratellini di spargere voce a metà degli altri ragazzi, tornarono al Quartier Generale e iniziarono a preparare il cibo. Certo non sarebbe stato un banchetto, ma tutti avrebbero apprezzato quantomeno una merenda.

“Ehm, chiedo scusa?”

Qualcuno era entrato nella sala comune, una ragazza sui vent’anni. I suoi vestiti la identificavano come Assassina… o meglio, come un’allieva al termine degli studi, e aveva capelli castani mossi e l’aria furba. Due bambini erano dietro di lei, una ragazzina in abiti da apprendista, e un bambino più piccolo in abiti civili.

“Sì?” Flavia si avvicinò a lei. Non l’aveva mai vista prima, ma il suo accento non era del posto… doveva essere di Firenze.

“È questo il posto?” la giovane donna chiese di nuovo. “Per il compleanno di Berto?”

Flavia annuì.

“Bene. Questi sono Chiara e Luciano, i…”

“I suoi fratellini, lo so.” Alessio la anticipò. “Non fa che parlarne.”

“E voi siete…?” chiese la ragazza.

“Io sono Flavia Auditore, allieva di Francesco Vecellio, e questo qui è Alessio Falcone, allievo di Benvenuto Cellini,” intervenne Flavia.

“Piacere di conoscervi,” la giovane donna sorrise. “Io mi chiamo Liberata. Il bischero che insegna ad Alessio è mio fratello.”

“Piacere mio,” Flavia le sorrise a sua volta. “Allora, sei qui per la festa?”

“Diciamo più per far visita,” Liberata si strinse nelle spalle. “Sono anni che non vedo Benvenuto. Quando Cecchino mi ha chiesto di portare qui Chiara e Luciano per il compleanno di Roberto, beh, sapevo di dover cogliere l’occasione. È vero che stiamo qui solo per qualche giorno, ma quel bischero di mio fratello mi manca da morire.”

“Questo posto è enorme!” commentò uno sbalordito Luciano Aldobrandi.

“Continua a urlare, Luciano, e Berto saprà che siamo qui,” Chiara sibilò prendendo il fratellino per la spalla.

“Io non grido, è la mia voce che è così,” il bambino fece roteare gli occhi. “Pensi che ci lasceranno giocare a calcio qui dentro?”

“Eh, non penso,” gli rispose Alessio. “Ma potremmo provarci sul capo sud-est dell’isola, se stiamo attenti… c’è un po’ di spazio.”

“Oppure potremmo giocare a palla avvelenata.” Flavia asserì. “Almeno ci sarebbe meno da preoccuparsi che la palla non finisca in acqua, se la lanciamo solo contro il muro. Sai come si infuria Zia Claudia quando qualcuno si tuffa nel fiume.”

“E palla avvelenata sia,” Alessio tirò un sospiro.

“Cosa state tramando, ragazzi?”

Era una domanda che Flavia aveva sentito parecchie volte in quell’anno, abbastanza da essersene stufata – sembrava che gran parte degli Assassini considerasse lei, Alessio e Roberto un trio di mascalzoni per tutte le volte che chiedevano loro cosa stessero tramando – ma sentirla pronunciare dal suo maestro la rese soltanto felice.

“Francesco! Ma dov’eri?” si girò verso il suo mentore e sorrise.

“Ah, una domanda più appropriata sarebbe cosa ci facevate tu e Alessio a correre su e giù per i tetti di Trastevere,” Francesco Vecellio si fermò nel vano della porta con un sorriso abbastanza rassegnato. “Ma temo che porterebbe ad altre domande da parte vostra.”

“È il compleanno di Roberto,” Alessio spiegò per lei. “Tutto qui, non c’è bisogno di fare domande.”

O così Alessio riteneva. Cosa ci faceva Francesco a Trastevere? Perché non aveva detto nulla?

“Oh sì che c’è,” Flavia contraddisse l’amico e fece qualche passo verso Francesco. “Maestro, c’è qualcosa che non va?”

“Flavia…” Francesco sussultò. “Non chiamarmi maestro, va bene?”

Flavia alzò un sopracciglio.

“Francesco, c’è qualcosa che non va?”

Il Maestro Assassino stette in silenzio per un momento, poi tirò un sospiro e le fece gesto di seguirlo. La condusse fuori, nel sole del pomeriggio.

“È oggi,” spiegò con un sospiro. La sua voce aveva una nota triste… persino le parole erano a stento più di un sussurro.

Flavia scosse la testa. “No, l’anno scorso non hai fatto così.”

“Non eravamo qui.”

Camminarono fino al capo sud-est dell’isola, e Francesco sedette sulla sponda e guardò l’acqua, poi si tirò su una manica. Sotto la stoffa, il suo braccio era coperto di vecchie cicatrici, probabilmente i segni di bruciature.

“Ti sei mai chiesta come mi sono fatto queste?” chiese.

“Tutti gli Assassini hanno cicatrici,” Flavia si strinse nelle spalle. “Così come tutti i novizi hanno croste sulle ginocchia e lividi.”

Francesco ridacchiò e si portò una mano alla bocca. “Bella risposta,” disse. “Non mi sarei aspettato altro da te, ma bella risposta comunque.”

“Papà aveva di peggio,” commentò lei.

“Ah, non guardare a quel che si vede, Flavia. Le ferite peggiori sono quelle che non si vedono,” il Maestro Assassino le fece gesto di sedersi. “Ventitre anni fa, la mia squadra e io stavamo dando la caccia a dei soldati francesi che stavano tormentando la gente. Erano comandati da un Templare, Charles de Torgues, anche noto come il Marchese di La Motte. Era tutta una trappola. Alcuni mesi prima, una ragazza della mia squadra, Tessa, aveva drogato i soldati di La Motte perché le loro prestazioni risultassero fiacche in una disfida a Barletta, e a quanto pare qualcuno aveva mangiato la foglia.”

“La uccisero?” chiese Flavia.

“Ci attirarono tutti in una trappola.” Per un lungo attimo, Francesco non disse nulla, e rimase a fissare l’acqua. “Ci fecero uscire allo scoperto, poi non appena i soldati e le guardie dei Borgia furono in grado di riconoscere le nostre facce, ci misero con le spalle al muro, ci forzarono a rifugiarci in una locanda e diedero l’edificio alle fiamme. Cercammo di scappare, ma molti di noi furono uccisi dall’incendio… e i sopravvissuti vennero sparati.” Non stava guardando lei mentre parlava, ma la riva destra, probabilmente verso il posto dove era accaduto. Poi, si guardò le ginocchia. “Soltanto io sopravvissi, e solo perché l’archibugiere che mi aveva sparato sbagliò la mira e mi prese solo di striscio.”

La mano di Francesco coprì istintivamente il suo fianco destro. Flavia non lo aveva mai visto a torso nudo, ma poteva scommettere che era stato in quel punto che il proiettile aveva lasciato il segno.

“I soldati francesi e dei Borgia massacrarono la mia squadra come…” lo sguardo di Francesco si rabbuiò. “… come dei mastini avrebbero fatto con dei ratti. Tessa Varzi, la nostra esperta di veleni, venne uccisa dalle fiamme. Cipriano Enu, il miglior arciere che io abbia mai visto in vita mia, venne preso da un proiettile nel collo e morì dissanguato.” Smise di parlare. Il suo sguardo era perso, come se fosse ancora nell’edificio in fiamme, a guardare tanti che gli avevano corrisposto morire ancora una volta. Si strofinò gli occhi con il dorso della mano, poi guardò Flavia.

“Possiamo aver addestrato altri Assassini… altri sanno come maneggiare i veleni… e Benvenuto sa usare un archibugio bene quanto Cipriano era bravo con l’arco… ma nulla mi restituirà i miei amici.”

Flavia non sapeva che dire. Aveva già sentito parlare di Tessa l’anno prima da Tiziano, il fratello di Francesco, ma aveva ipotizzato che fosse stata soltanto una storia d’amore finita male… non che il suo maestro l’avesse vista morire, in uno dei peggiori modi possibili.

Persino dire che le dispiaceva le sembrava stupido. Porca miseria, era successo anni e anni prima che lei fosse nata, e Francesco ancora soffriva. Non era un caso che fosse rimasto per così tanto tempo a Venezia prima di prenderla come allieva: aveva sicuramente voluto restare lontano dal posto dove aveva sofferto e perso. Ora che era a Roma, però, probabilmente era stato spinto a tornare nel posto dove era stata la taverna dallo stesso dolore che lo aveva tenuto lontano. Quanto poteva far male una ferita del genere?

“Per questo unirsi alla Fratellanza non è una scelta facile. Non puoi mai sapere quale giorno sarà il tuo ultimo… o quello dei tuoi amici, della tua famiglia. Siamo soldati in una battaglia, Flavia, una battaglia che è iniziata con l’umanità, e nessuno di noi ne vedrà la fine. Dobbiamo tutti essere certi che il Credo sia qualcosa per cui valga la pena combattere… e morire. Tessa lo sapeva. Cipriano lo sapeva. Tuo padre lo sapeva. Io lo so.”

“Lo so anche io,” Flavia ribatté in tono grave. “È la ragione per cui Papà ci ha nascosti in un paesino di cavatori e Zio Niccolò si è ritirato in campagna. È il motivo per cui Alessio è stato tenuto al buio.”

Francesco fece un sorriso amaro.

“No, Flavia, non lo sai. Non lo saprai mai finché non vedrai tu stessa un Fratello ucciso in azione. Non lo saprai mai finché non ti farà male. Allora, e solo allora, saprai se vale la pena di restare e combattere.”

 

Quando Francesco mi disse quelle parole, cercai di rassicurarlo con un sorriso e annuii, ma non sapevo davvero cosa volesse dirmi. Tornai dentro, festeggiai il compleanno di Roberto con gli altri ragazzi, e quasi scordai le sue parole. Quando tornai a casa, però, venni assalita da un dubbio. Francesco aveva detto Fratello, inteso come membro della Fratellanza, ma io avevo un altro fratello. Passai la sera a guardare il soffitto, cercando di allontanare il pensiero che qualcosa potesse accadere a Marcello. Era nel fottuto esercito. E se i tedeschi li avessero presi? E se i Templari li avessero presi?

Ma almeno per allora, le mie preoccupazioni si rivelarono inutili. Per quanto stupido potesse essere Giovanni dalle Bande Nere, per quanto irruento e imbecille, quello che una ragazza della Fratellanza mi aveva detto all’inizio del mio addestramento si rivelò essere la verità: ‘E di Giovanni dalle Bande Nere si può dire tutto, ma non che non mantenga le promesse.’

Alcuni mesi dopo il mio tredicesimo compleanno, Giovanni tenne fede alla parola data.

 

4 Agosto 1526, Roma, Porta Flaminia

 

Marcello si asciugò il sudore dalla fronte e strinse le redini del suo cavallo. A dire il vero, nessuno aveva detto che fosse suo, ma era come se lo fosse: durante il viaggio, il lavoro più difficile era stato fatto dagli stallieri ad ogni città in cui si erano fermati a pernottare, ma certe volte era toccato a lui dargli da mangiare, o occuparsi dei suoi… bisogni. Quel benedetto cavallo cacava così spesso che Giovanni gli aveva suggerito di chiamarlo Fatto. Marcello aveva immediatamente rifiutato il consiglio: non avrebbe mai chiamato il suo cavallo in quel modo dopo che Giovanni aveva chiamato il suo, un magnifico animale di colore bianco, con l’altisonante nome di Sultano.

“Seriamente, Giovanni, è un nome di merda…”

“Appunto!” ridacchiò il capitano. Avevano viaggiato per una settimana: Giovanni doveva fare rapporto a Ricoveri e Vecellio – o così aveva detto, e voleva cogliere l’occasione per far stare Marcello un po’ di tempo con la sua famiglia.

“Penseranno che sono cambiato?” Marcello chiese al suo insegnante.

Sei cambiato,” Giovanni allungò una mano e gli arruffò i capelli. Nonostante fossero tanto corti che Giovanni non avrebbe potuto causar danni neanche volendo, Marcello alzò una mano e fece del suo meglio per sistemarli. Non che la sua mano potesse risolvere nulla, non quando aveva disperato bisogno di un bagno e una spazzola. Dopo giorni passati ad allenarsi sotto il sole, c’erano strie di giallo nei suoi capelli rossi. Marcello non sapeva se fosse una buona cosa o se sembrasse soltanto ridicolo. D’altra parte, era troppo piccolo per pensare alle ragazze, almeno a opinione dei soldati.

“Non penso che Zia apprezzerà il cambiamento,” Marcello sbuffò.

“Oh, lo farà,” Giovanni alzò le sopracciglia e spronò il cavallo. “Sei qui. Sarà quello ad importarle.”

“Non le piaci, rammenti?” puntualizzò l’undicenne.

“Fosse quello il problema,” l’Assassino ventottenne fece un sorrisetto. “Non piaccio al mio suocero. Non piaccio a Pietro. Ma non vuol dire che siano miei nemici. Se ci fossero più persone a cui sto sulle scatole e meno che mi vogliono morto, sarei ben fortunato.”

Si fermò al posto di guardia e pagò il pedaggio, poi attraversarono la porta della città.

“Mi ricordo della mia prima volta qui,” Marcello disse a Giovanni. “La guardia del cancello era una specie di porco che cercò di molestare una ragazza.”

“Beh, la prima volta che venni qui io…” Giovanni fece una pausa, probabilmente per ricordare. “Venni con il mio tutore… voglio dire, mio suocero, anche se all’epoca ancora non lo era. Quando arrivai al Quartier Generale, il primo incarico che mi venne assegnato fu… pulire il vaso da notte ad un Assassino ferito. Quell’Assassino era Filippo, il padre di Alessio. A un certo punto mi fecero persino cambiare il pannolino di Alessio… il peggior incarico della mia vita. A quanto pare, già godevo di cattiva fama prima di venire qui.” Ridacchiò e spronò il cavallo. “E ad un certo punto, litigai con un ragazzo della mia età. Stavamo quasi per venire alle mani quando arrivò Francesco, ci prese per le spalle e quasi urlò ‘Giovanni, ora basta!’. A quel punto, ci girammo entrambi verso di lui, ci guardammo negli occhi increduli e… una volta capito che eravamo omonimi, ci mettemmo a ridere.”

“E quel ragazzo era?” Marcello gli chiese.

“Giovanni Borgia. Dopo quell’episodio, diventammo amici per la pelle, e io continuavo a pensare che mia madre si stava sicuramente rivoltando nella tomba,” il capitano scosse la testa. “Io, figlio di Caterina Sforza, pappa e ciccia col figlio di Lucrezia Borgia!”

“Penso che Rodrigo si stesse rivoltando nella tomba, a pensare che suo nipote sia diventato… beh, uno di noi,” commentò Marcello. Caterina Sforza? Aveva sentito quel nome da qualche parte, ma non si ricordava dove. Anche se sapeva chi era Lucrezia Borgia.

“Questa era buona!” Giovanni ridacchiò.

“Dov’è adesso? Borgia, volevo dire.”

“Se non ricordo male… Basilea, in Svizzera. Assieme a Desiderio Erasmo, il Mentore della Fratellanza nordeuropea. Ma è anche stato alla corte degli Este, in Francia, e finanche nel Nuovo Mondo. Ha trovato qualcosa di prezioso lì,” rispose il capitano. “Non sai quante volte ho desiderato di rivederlo, magari per dividere una bottiglia di vino con lui e con tuo cugino. Ma dopo l’agguato sul Ponte Sant’Angelo, non l’ho più rivisto. Probabilmente non sarei nemmeno in grado di riconoscerlo, avevamo diciassette anni quando successe.”

“Chissà,” disse Marcello, poi si guardò intorno. Le strade sembravano così simili, eppure così diverse da quando lui e Flavia le avevano percorse assieme all’Assassino Paolo Simoni. Ecco laggiù il Mausoleo di Augusto… i campanili delle chiese… e laggiù, oltre i tetti, la cupola del Pantheon… ancora qualche vicolo, e avrebbero raggiunto la strada dove Alessio aveva urlato a Paolo e si era unito a loro. Era passato tanto tempo… era a stento più di un anno e mezzo, ma Marcello si sentiva una vita più vecchio. Non era più il marmocchietto che aveva fatto i capricci due volte nello stesso giorno perché era stanco per il lungo viaggio, voleva Mamma, e gli mancava Papà. Aveva visto l’esercito, anche se Giovanni non lo aveva mai lasciato avvicinare al fronte. Conosceva le basi della scherma, e aveva assassinato più e più volte uno spaventapasseri abbandonato con una lama celata di fortuna fatta con dei pezzi di spago e un ramo caduto. Ultimamente, Giovanni lo aveva usato anche come compagno di allenamento per l’ultima recluta delle Bande Nere, un massiccio quindicenne chiamato Arturo Spada, che a onor del vero più che una spada sembrava incline a maneggiare una zappa. La prima volta che avevano combattuto, dopo un po’ di tempo passato a stancarlo, Marcello gli aveva fatto volar via il bastone dalla mano.

“Un fiorino per i tuoi pensieri, pulcino.” Giovanni fermò il cavallo nei pressi di una stalla e scese di sella.

“Non te lo puoi permettere,” Marcello ribatté in tono scherzoso. Proprio non voleva dire al suo maestro che aveva paura di tutto quel che poteva essere cambiato mentre lui era stato lontano. E se Flavia fosse diventata una di quelle ochette giulive che a Fiesole le erano state tanto sulle scatole? E se avesse avuto un fidanzato… magari più vecchio? La vita in una grande città poteva cambiare dei ragazzi esattamente come l’esercito… lui era cambiato, anche sua sorella lo era? E soprattutto, quanto?

Cercò di scacciare quel pensiero, ma non ci riusciva. Smontò dal cavallo e notò che un ragazzino si stava avvicinando a loro. Aveva capelli scuri tagliati a scodella, e a giudicare dalla sua statura, doveva essere sui dodici anni.

“Buon giorno, ragazzo,” Giovanni si rivolse al ragazzino e mostrò la cicatrice da bruciatura sull’anulare sinistro. “Come ti chiami?”

“Peppo… volevo dire, Giuseppe, di Paolo Simoni, signor capitano,” disse il ragazzino.

“Ascolta, Giuseppe, potresti accompagnare Marcello qui all’Isola Tiberina? Ho altre faccende da sbrigare, e non sono certo che si ricordi la strada.”

“Me la ricordo, la strada.” Marcello fece una smorfia.

“Non ti lascio da solo, Marcello. Non ho Pietro qui con me, e Roma è grande, potresti anche perderti.”

“Cos’è che devi fare, e dove?”

Giovanni si morse il labbro e tirò un sospiro.

“Te lo dico solo perché se tua zia sospetta qualcosa e tu non sai cos’è, sono morto e sepolto,” fece un sorriso. “Ho chiesto a Maria di venire qui con Cosimo. Sono al palazzo che i miei parenti hanno in città. Sai, Marcello, non sei l’unico a cui manca la famiglia.”

“Beh, io lo farei,” Giuseppe li interruppe. “Ma… beh, il maestro Massimo ha ordinato a me e a Fabrizio Carbone di tenere d’occhio le stalle. E un po’ di tempo fa, Fabrizio ha detto che aveva mal di pancia e se n’è andato. Non posso lasciare il posto, me spiace, signor capitano.”

“Merda,” sibilò Giovanni. “Non posso essere in due posti allo stesso tempo!”

“Se devi andare non preoccuparti,” Marcello pensò in fretta e cercò di trovare una soluzione. “Qualcuno prima o poi passerà di qua. Oppure potrei chiedere indicazioni…”

“… e se tua zia scopre che ti lascio girare da solo…” Giovanni alzò gli occhi al cielo. Sembrava quasi impaurito, ora che sentiva di essere continuamente osservato.

“Ho dodici anni...” protestò Marcello.

“Undici,” precisò Giovanni.

“E mezzo.”

“Non voglio rovinare una giornata tranquilla come questa con una discussione, men che meno una discussione con i maestri,” il capitano scosse la testa. C’era qualcosa di strano nel modo in cui si comportava, anche se Marcello non riusciva a capire esattamente cosa. Probabilmente, ora che era a Roma, stava cercando di rigare dritto per fare bella figura davanti a Zia Claudia. Magari voleva davvero che lei lo perdonasse? Se Marcello la conosceva abbastanza, col cavolo che sarebbe accaduto.

“Giovanni, ma pensi davvero che Zia Claudia ti riterrà cambiato soltanto perché non mi lasci da solo per qualche minuto?” l’undicenne scosse la testa. “Con rispetto parlando… campa cavallo. Se non le sei mai piaciuto non le piacerai adesso.”

“Magari no,” Giovanni si strinse nelle spalle. “Ma preferirei non essere sgridato come un bambino come è successo l’ultima volta. Stare vicino a Madonna Claudia è come camminare sulle uova.”

“Già,” intervenne Giuseppe Simoni. “Mi spiace di non poter aiutare, capitano, davvero.”

Probabilmente Giovanni stava per dire qualcosa, ma prima che potesse aprir bocca due ragazzi gli passarono di corsa vicino e si tuffarono nel fieno. Un momento o due dopo, una guardia ansimante svoltò l’angolo e urlò qualcosa a proposito di teppistelli che correvano sui tetti.

“Messere…” la guardia si fermò davanti a loro e si rivolse a Giovanni. “Avete per caso visto due ragazzacci in fuga?”

“Due ragazzi? Maschi? A parte loro?” Giovanni fece il finto tonto e indicò Giuseppe e Marcello. “No, e loro due sono con me già da un po’.”

“Porca puttana! Li ho persi!” sibilò la guardia. “Se fossi il padre di quei due mascalzoni… avrebbero dovuto assaggiare di più la cintura…”

Mentre la guardia si girava, Giovanni si morse il labbro per reprimere una risatina, e cercò di impedire a Giuseppe di ridacchiare.

“Ma che…?” Marcello cercò di chiedergli, ma Giovanni gli fece gesto di stare zitto. Non appena la guardia fu fuori portata, Giovanni De’ Medici scoppiò a ridere.

“Due ragazzi! Maschi! Sul serio!” disse. “Lento come una lumaca e cieco come una talpa!”

“Se n’è andato?” la testa di uno dei due corridori fece capolino dal fieno. Marcello riconobbe Alessio soltanto quando vide il dente scheggiato. “Aspe’… Capitano, siete voi?”

“Capitano chi?” l’altro corridore uscì fuori, e Marcello riconobbe immediatamente Flavia. Sua sorella si guardò intorno, prima guardò Giuseppe, poi Giovanni, e poi lui, e prima che Marcello potesse reagire, si vide piovere addosso un pugno sulla spalla.

“Non – restare – mai – più – lontano – per – così – tanto!” Flavia sibilò colpendolo giocosamente di nuovo.

“Flavia, mi hai fatto male!” Marcello protestò.

“E tu puzzi di cacca di cavallo. E di sudore. Per non parlare di quei capelli…” Flavia sogghignò e lo strinse in un abbraccio. “Quanto mi sei mancato, fratellino.”

Marcello sorrise e le restituì l’abbraccio. “Anche tu.”

 

Era decisamente cambiato, e anche parecchio. Ma gran parte del cambiamento fu facilmente eliminato da un bagno, anche se andare a prendere l’acqua di mattina, nel bel mezzo dell’estate, era l’ultima cosa che avrei voluto fare.

La scena che seguì al mio ritorno, però, ne valse la pena quanto ne può valere un fratellino che cerca di evitare lo spazzolone. E almeno in quel momento, Marcello era di nuovo il moccioso di sempre.

Non oppose resistenza per molto, comunque. Aveva davvero bisogno di quel bagno, ed era anche stanco morto per il viaggio.

 

4 Agosto 1526, Roma, casa di Flavia

 

“… e si è addormentato subito dopo il bagno,” Mamma finì di spiegare a Zia Claudia. Erano sedute nelle tre sedie attorno al tavolo da pranzo, e Flavia poteva sentire suo fratello che russava nella loro stanzetta.

“Non c’è molto da stupirsi, ha viaggiato da solo con quel bischero per sei, forse sette giorni,” commentò Zia Claudia. “E cavalcando per conto suo, se quel mi hai detto è vero.”

“Questo lo dovresti chiedere a Marcello, Zia,” precisò Flavia. “Ma comunque, c’erano due cavalli alle stalle, quindi dovrebbe aver detto la verità… perché dovrebbe mentirmi, d’altronde? È mio fratello.”

“Questo non vuol dir nulla, nipote,” asserì Zia Claudia. “A un certo punto, potrebbe decidere di nasconderti qualcosa soltanto perché riterrebbe di poterti proteggere in quel modo. Diciamo solo che i miei fratelli maggiori erano soliti farlo.”

“Proteggermi? Ha!” la tredicenne scosse la testa. “Sono io la maggiore. Dovrebbe essere il contrario. Io ho tredici anni, lui ne deve ancora compiere dodici.”

“A onor del vero, Francesco ha ancora l’incarico di proteggerti,” precisò Mamma. “Hai tredici anni, l’hai detto. Non dovresti fare nulla di serio finché non ne avrai quindici.”

“E li compirò comunque prima di Marcello,” disse Flavia. “Comunque, Zia, perché Giovanni è venuto qui adesso? L’ultima volta che l’abbiamo visto, Francesco gli ha ordinato di uccidere Frundsberg, e lo sapremmo se quel vecchio diavolo fosse morto.”

Zia Claudia ridacchiò. “Per l’esattezza, Flavia, il diavolo sarebbe Giovanni… almeno a opinione dei soldati tedeschi. Il Gran Diavolo, lo chiamano. La sua armata, le Bande Nere, saranno anche un corpo d’elite e una truppa ben addestrata, ma è di lui che i tedeschi hanno paura. Potremmo dire che è fino in fondo il figlio di sua madre. Ma, per rispondere alla tua domanda, era pure ora che venisse qui.”

“Che vuoi dire?”

“Io e Francesco abbiamo affidato a Pietro il compito di seguire le Bande perché potesse occuparsi di Marcello qualora Giovanni non avesse potuto,” spiegò Zia Claudia. “Ma un Assassino, uno formato più per il coordinamento che per la battaglia, non può proteggere un ragazzo in pericolo come lo farebbe una Fratellanza. Giovanni è vicino al suo obiettivo e alla sua battaglia finale, per questo è qui adesso.” L’anziana sorrise. “E, grazie al cielo, ha deciso di riportare il suo allievo a casa prima di andare avanti.”

Flavia prese un momento per pensare a quello che sua zia aveva appena detto. Giovanni era sul punto di mettere Frundsberg con le spalle al muro e ucciderlo, e prima di farlo aveva portato Marcello a casa per essere certo che fosse al sicuro. Giovanni sarebbe tornato al fronte e avrebbe lasciato il suo allievo a Roma. Marcello sarebbe rimasto a casa, per settimane, forse anche per mesi. Sarebbe stato al sicuro. Lontano da guerra, eserciti, armi da fuoco… quella era la migliore notizia del mondo!

“Ma è magnifico!” Flavia sorrise.

Zia Claudia le lanciò un’occhiata. “Dovrebbe essere scontato, Flavia. È il dovere del Capitano De’ Medici tenere il suo allievo al sicuro. È il terzo principio del Credo, mai compromettere la Fratellanza.” Rimase in silenzio per un momento, poi tirò un sospiro. “Penso che tu abbia sentito parlare di Filippo Falcone.”

“Sì,” Flavia annuì. “Il padre di Alessio, giusto? Giovanni lo ha menzionato una volta.”

“Esattamente,” confermò Zia Claudia. “Perlomeno di nome, era Machiavelli il maestro di Giovanni, ma quando Niccolò venne messo in carcere, fu Filippo a prendere il ragazzo e cercare di inculcargli un po’ di buonsenso.”

“Perché proprio Giovanni?” chiese Flavia. “Con tutti gli allievi a Roma…”

Zia Claudia sogghignò. “Sapevo perché era stato mandato qui. Era stato beccato a cercare di uccidere una guardia per difendere Machiavelli. E a quel punto, gli ordinai di pulire il vaso da notte di Filippo, che era costretto a letto immobile. Era ovvio che ad un certo punto avrebbero iniziato a parlare. Il mio proposito era solo di dare al ragazzino una lezione di umiltà, ma Filippo decise di fare di meglio.”

Flavia ridacchiò alla menzione del vaso da notte. “Accadde dopo che venne ferito nelle catacombe, non è vero?”

“Sì… Filippo voleva continuare a lavorare per la Fratellanza anche dopo che l’incidente nelle catacombe lo aveva lasciato con una gamba che non guarì mai per bene. Forse era il modo che aveva per liberarsi del dolore che provava per la perdita della sua compagna nello stesso crollo,” disse Zia Claudia. “Dirigeva una piccola squadra di allievi, tra cui Medici, Giovanni Borgia, ed Enrico. Quando le bande Templari che tentavano di ristabilirsi in città scoprirono che c’era Filippo dietro i ragazzi che mettevano loro i bastoni tra le ruote, mandarono due sicari a uccidere lui e i ragazzi. Per riuscire a fuggire… Medici e Borgia, che erano con lui quando venne attaccato, furono costretti a lasciare Alessio nella ruota dei trovatelli.”

“Vuoi dire… vuoi dire che sono stati loro a lasciarlo nell’ospedale?” Flavia chiese incredula. Si chiese se Alessio lo sapesse. Probabilmente, se lo avesse saputo, avrebbe perso il rispetto che nutriva per il capitano De’ Medici. “Quanti anni avevano quando è successo?”

“Era quello o venire presi, nipote, non penso avessero scelta. Borgia aveva diciassette anni, Medici stava per compierli, ed Enrico avrebbe compiuto sedici anni in qualche mese,” spiegò Zia Claudia. Il suo sguardo andò alla porta che dava sulle scale. Rimase in silenzio per un momento, ma l’unico suono che proveniva dal piano di sopra era il russare di Marcello.

“Ora, Filippo non c’era più, ma la sua squadra era intenzionata a vendicarlo… fecero la loro inchiesta e trovarono i colpevoli. Ma anziché dire tutto a Francesco, a Massimo, o a me… fecero la posta ai sicari sul Ponte Sant’Angelo mentre tornavano ubriachi come spugne dal bordello, li affrontarono armati… e li uccisero,” Zia Claudia sibilò e guardò in basso. C’era una nota di furia nella sua voce. “Tre ragazzi uccisero due uomini adulti. E la fecero sembrare una rissa in cui ci erano scappati due morti. E Giovanni De’ Medici era la mente dietro questa follia.”

Ma Papà aveva diciassette anni quando cominciò, Flavia avrebbe voluto dire, ma Mamma parlò prima di lei.

“Mi ricordo di Filippo,” disse. “E ricordo anche cosa accadde a Giovanni dopo che fece quel che fece. Dieci anni fa, quando Ezio si era già lasciato tutto alle spalle, non appena seppe che Giovanni era tornato a Firenze, lo trovò e lo rimproverò.” Mamma abbozzò un sorriso. Probabilmente, quella era stata una gran bella scena. “Per quel che so, il ragazzo fu un relitto per qualche giorno… poi, una settimana dopo, ci venne a cercare, chiese perdono, e promise di diventare un uomo migliore. Qualche giorno dopo, venimmo a sapere che Giovanni il giorno dopo chiamò la guardia cittadina per salvare i due figli di un menestrello da una rissa per strada, anziché intervenire nella rissa lui stesso.”

“E propose loro di entrare nella Fratellanza, so quella storia,” Zia Claudia tirò un sospiro. “L’ho anche sentita dai diretti interessati, Benvenuto e Cecchino. Ascoltami, Sofia, non conosci il capitano come lo conosco io. Un attimo di rimprovero sicuramente non ha annullato tutti gli anni che ha passato a fare il teppista. La sua stessa madre non fece mai nulla per calmarlo. Machiavelli e Filippo non ci sono riusciti. Come puoi pensare che mio fratello sia riuscito a concludere qualcosa?”

“Non lo penso, infatti. Ma ho letto le lettere di Marcello, Claudia. L’ho sentito parlare di Giovanni. E io conosco mio figlio meglio di quanto lo conosca tu,” Mamma ribatté in tono calmo. “D’accordo, Giovanni gli avrà anche insegnato a bestemmiare, a interrompere quando non dovrebbe… ma non è una cattiva persona. Si preoccupa molto di Marcello, forse quasi quanto te. Non sto giustificando il suo comportamento, ma se Ezio lo ha scelto come insegnante per mio figlio, probabilmente è perché ha visto in lui qualcosa.” Mamma tirò un sospiro e percorse con le dita un nodo sulla superficie del tavolo.

“E potrà anche essere affare della Fratellanza,” continuò, guardando Zia Claudia, “ma Ezio parlò con me prima di scrivere a Giovanni De’ Medici per chiedergli di prendere Marcello come suo allievo. Mi disse che, nel caso gli fosse successo qualcosa, avrebbe affidato nostro figlio al ragazzo che aveva sgridato… e mi chiese se fossi d’accordo. Ma disse anche che il capitano è un uomo di parola… un uomo che fa il suo dovere ogni volta che lo ritiene giusto. Un uomo che si metterebbe tra mio figlio e una spada.”

Stavano tenendo le voci basse, e non c’era rabbia nel loro discorso. Più che una discussione sembrava un confronto di opinioni. Flavia non sapeva che dire, però: aveva sentito parecchie cose su Giovanni De’ Medici, dalle sbalordite lodi degli abitanti di Fiesole e Firenze, alla convinta disapprovazione di Zia Claudia, alle storie di Alessio, a quello che la recluta più grande Laura, che aveva lasciato Roma con il suo insegnante alcuni mesi prima, le aveva detto a proposito della fedeltà alla parola data del capitano.

“Non sarebbe il primo errore che mio fratello avrebbe fatto,” mugugnò Zia Claudia. “Ha affidato la Fratellanza a Ludovico Ariosto, e finora il vecchio parassita ci ha solo causato guai.”

“Ma Papà ha anche affidato me a Francesco, e quello non era un errore… credo,” Flavia interruppe la conversazione. “Perché ne stiamo discutendo adesso, se Marcello è tornato per restare? Se volesse un altro maestro, ce lo direbbe. Mi dice sempre tutto. Lo saprei se ci fosse qualcosa che non va.”

A meno che non preferirebbe parlarne con Giovanni. A meno che non è diventato uno di quei ragazzi scemi che pensano che le ragazze sono deboli, bisbigliò una voce nella testa di Flavia. Ma no, che accidenti? È tuo fratello. Avete passato dieci anni assieme. Dieci anni. Uno solo non può fargli cambiare idea così in fretta, non importa se lo ha passato in mezzo ai soldati.

“Beh, tienilo d’occhio, Flavia. Chiederò ad Enrico di fare lo stesso,” Zia Claudia si mise in piedi. “E se c’è qualcosa che ti sembra non andare, qualsiasi cosa, dimmelo subito. È…”

“Per il suo bene, lo so,” Flavia annuì. “D’accordo.”

 

Arrivai alla mia conclusione in quei giorni, ed era che sia mia madre che mia zia avevano ragione: Giovanni non era un bravo insegnante, ma era molto affezionato a Marcello. Ad un certo punto, iniziò persino ad allenarlo sotto il naso di Zia Claudia. A onor del vero, dopo il periodo passato a Ferrara, il capitano aveva visto da Francesco qual era il modo giusto per addestrare un ragazzino alla scherma, ma meglio tardi che mai.

Anche con Giovanni De’ Medici che si comportava bene, comunque, i Maestri Assassini avevano gatte da pelare a Roma. Qualcuno stava rubando dai covi più piccoli della città. La prima volta, sparì del denaro. La seconda, vennero saccheggiate le scorte di cibo. La terza volta, sparirono entrambe le cose. In ogni caso, non vennero toccate le lettere, i piani di battaglia, qualsiasi cosa che fosse inchiostro su carta… il peggior destino che ebbero i documenti fu di venire sparsi all’aria, ma non sparì nulla. La Fratellanza iniziò a condurre indagini su un potenziale colpevole, ma la nostra attenzione fu brevemente distratta da qualcos’altro.

 

10 Agosto 1526, Roma, punta sud-est dell’Isola Tiberina

 

Marcello soppesò la trottola nella mano e guardò quelle dei suoi avversari sul pavimento di pietra. Era la parte finale del gioco. Roberto aveva già lanciato la sua, e aveva una buona tecnica di gioco. Era un avversario forte, e Marcello non era molto sicuro di poterlo battere, non fuori allenamento com’era. Quanto ad Alessio, sembrava di gran lunga il peggiore in quel gioco, e Cosimo… beh, Cosimo era un bambino di sette anni contro quattro ragazzi sopra i dieci.

L’undicenne prese un respiro, poi scagliò la trottola e tirò rapidamente il braccio all’indietro, cosicché la corda che aveva ancora in mano potesse far girare la trottola. La trottola cadde sul selciato, vicino a quella di Cosimo. Ora doveva soltanto raccoglierla, lanciarla di nuovo e colpire una delle trottole degli avversari. Non stavano giocando con l’obiettivo di romperle però, non quando non sarebbe stato facile sostituirle. La Fratellanza ovviamente aveva altre priorità.

Francesco Vecellio li incoraggiava a prendersi un po’ di tempo per giocare ogni giorno, non importava a cosa. Diceva che il suo primo maestro gli aveva spiegato che era importante che i bambini fossero lasciati essere bambini. Non appena Cosimo aveva scoperto che avevano l’ora dei giochi, li aveva implorati di includerlo.

Marcello si abbassò e raccolse la sua trottola, la lasciò roteare per un momento sul palmo della mano, poi la lanciò verso quella di Roberto. Sbagliò il lancio.

Naaaaaa, che peccato,” protestò Cosimo. “Ci eri andato vicinissimo!”

“Tocca a me,” Flavia fece un passo in avanti e fece girare la sua trottola. Marcello la conosceva abbastanza bene da prevedere che l’avrebbe ripresa immediatamente – e così lei fece. In una manciata di secondi, sua sorella aveva raccolto la trottola, mirato, e colpito quella di Cosimo.

“Beh, sembra che abbiamo un vincitore,” Roberto sorrise e strinse la mano a Flavia. Cosimo mise il broncio, incrociò le braccia e sbatté un piede per terra, ma non protestò a voce alta.

“Beh, che ne dite se ora ci facciamo una gara di corsa? Tre giri attorno all’isola,” propose Alessio.

Quello spinse Cosimo a protestare. “Una gara? Ha, ci credo che dici gara, hai le gambe lunghe! Io dico che giochiamo alla guerra, e io faccio il capitano.”

Roberto Aldobrandi alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa a proposito di essere troppo vecchio per giocare a far finta con un marmocchio con la metà dei suoi anni.

“Avanti, Cosimo, non puoi nominarti comandante se gli altri non sono d’accordo,” Marcello sorrise al bambino e gli diede una pacca sulla schiena. “Comunque, potremmo giocare a calcio se fossimo di più… ma qui no. Se calciamo troppo forte, la palla finisce nel fiume e buonanotte al secchio.”

“Corsa sulle mani?” propose Flavia.

“Ma io non so camminare sulle mani!” Cosimo batté di nuovo il piede per terra.

“Bene, bene…” la voce di un adulto interruppe la conversazione. “Allora è per questo che dicono che la libertà è incasinata.” Marcello riconobbe quasi immediatamente la voce di Giovanni.

“Babbo!” Cosimo si girò e corse verso il padre.

“Ed ecco che arriva il mio campione!” Giovanni lo sollevò e lo strinse in un abbraccio, poi lo rimise per terra. Si somigliavano moltissimo, anche se Cosimo non aveva i capelli ricci. “Ti stai divertendo?”

“Sì, sì!” Cosimo annuì.

“E allora, che ne dici se diciamo alla mamma che resti qui fino alla fine del mese? Ti piacerebbe?”

Cosimo annuì di nuovo e fece un sorriso fino alle orecchie.

Vicino a Marcello, Alessio alzò gli occhi al cielo. Flavia gli allungò una gomitata.

“Ora, potrei parlare al mio allievo per un momento?” Giovanni chiese di nuovo.

“Ma certo,” Marcello si allontanò dal gruppo e andò verso il suo maestro. “Allora, qual è il punto?”

“Vieni con me. È qualcosa di importante.”

“Va bene.”

Entrarono nel Quartier Generale. Giovanni lo condusse su per le scale che portavano alla cima della torre, aprì la porta e si guardò attorno. Marcello notò che aveva un’unghia tra i denti e aveva iniziato a mangiarla. Qualcosa non andava – Giovanni si mangiava le unghie solo quando aveva qualche problema.

“Allora, qual è il punto?” Marcello chiese di nuovo.

“Devo tornare dalle truppe,” disse Giovanni.

“Solo quello?” l’undicenne alzò un sopracciglio. “Potevi anche dirlo davanti agli altri. Almeno mi avresti risparmiato di spiegarglielo. Allora, quando ripartiamo?”

Noi non ripartiamo.”

A Marcello ci volle un po’ per capire. Non sarebbero ripartiti, ma Giovanni doveva tornare. Poteva solo dire che… poteva solo dire che Giovanni lo avrebbe lasciato indietro. Marcello non poteva crederci. Erano maestro e allievo… Giovanni era suo amico… allora perché stava per ripartire senza di lui? Pensava forse che non era abbastanza bravo con la spada per andare avanti con l’addestramento? Non era colpa di Marcello… era arrivato ad essere alto come alcuni allievi che già avevano cambiato voce, ma non era ancora un uomo…

“Perché?” quasi gridò. “Faccio davvero tanto schifo? Gli altri maestri non lasciano indietro i loro allievi… pensavo di essere migliorato… mio padre ti aveva chiesto di…”

“Tenerti al sicuro,” Giovanni lo interruppe. “E non sei un cattivo allievo. Sei bravo quanto lo può essere un ragazzo della tua età. Ma… mi è stato ordinato di uccidere Frundsberg, pulcino. Non mi perdonerei mai se ti lasciassi in pericolo mentre cerco di eseguire gli ordini.”

“Ma io…”

“Non considerare mai come un’opzione la vittoria su tutti i fronti, Marcello. Mai,” continuò il capitano. Dietro di lui, da qualche parte in città, un campanile suonò le sei, e dopo il primo, ne echeggiò un secondo, poi un terzo, un quarto, in una specie di coro di campane. “Ogni Assassino ha dovuto perdere qualcosa per ottenere quello a cui aspirava. Altair perse la sua famiglia, i suoi amici, la sua intera vita per proteggere la Fratellanza e trasformarla in quel che è adesso. Dante patì l’esilio, e venne ucciso mentre cercava di tenere il Codice di Altair al sicuro. Il tuo antenato Domenico vide sua moglie violent… torturata e uccisa, e dovette fare il Codice a pezzi per impedire che cadesse in mani Templari. Il tuo stesso nonno, quello che si chiamava Giovanni come me, venne arrestato con una falsa accusa e impiccato, e con lui i tuoi zii, uno dei quali aveva a malapena un anno più di quanto hai tu adesso,” Giovanni camminò avanti e indietro, spostando il suo sguardo da Marcello ai suoi piedi. Marcello lo aveva visto molte volte arrabbiato, molte volte preoccupato, ma non riusciva a ricordare di averlo mai visto così afflitto. “Tuo padre rinunciò a una vita normale, alla sua famiglia, alla sua felicità, e non credo si fosse mai sentito veramente al sicuro, anche dopo aver lasciato la sua carica. Ma tutto quello che hanno fatto ha reso la Fratellanza forte. È stata quella la loro vittoria. Questo posto, me, te, tua madre e tua sorella, Cosimo, Alessio… tutte le persone in questa città, e a Firenze e Venezia.” Giovanni si fermò e riprese fiato. “Una vittoria per cui darei senza indugio il mio sudore, il mio sangue, persino la mia mano destra o la mia vita… ma non la tua. La guerra sta peggiorando. Non voglio metterti in pericolo, Marcello. Resta qui. Allenati. Diventa grande,” fece un sogghigno. “… e magari anche più alto di me, probabilmente lo sarai.”

Nonostante Giovanni stesse sorridendo, Marcello poteva sentire il tremito nella sua voce. E non corrispondeva affatto al suo sorriso.

“Devi davvero farlo, Giovanni? Da solo?” Marcello si morse il labbro. Era davvero tanto pericoloso che persino dietro le retrovie, con Pietro, lui non sarebbe potuto essere al sicuro? “Non… non è giusto.”

“La vita non lo è mai,” il suo maestro scosse la testa e gli mise una mano sulla spalla. “Ma… Marcello, non disperare. Potrebbe volerci meno di quanto pensi. E poi, se fermiamo Frundsberg e i suoi lanzichenecchi, fermeremo anche la guerra.”

“E quindi…?” Marcello aveva un’idea di quello che poteva significare la fine della guerra. Niente guerra, niente esercito.

“Sì, vorrebbe dire che continueremmo l’addestramento qui a Roma. O, se Francesco è d’accordo e vuole unirsi a noi, magari a Firenze o a Fiesole. O anche alla mia villa, se ti piace arrampicarti c’è una bella torretta,” Giovanni annuì. C’era un accenno di speranza nella sua voce, ma suonava ancora come se stesse lottando per non piangere. “Solo… tu ora devi restare qui. È questo il compito che ti sto dando. Resta qui e allenati, e la prossima volta che ti vedo, mi aspetto che tu mi bat… non importa, non mi aspetto un bel niente. Fai solo del tuo meglio. E…” accennò a un sorriso. “… tieni d’occhio Cosimo per me. Ha parecchio da imparare su questo mondo. Fa’ in modo che non diventi un imbecille come suo padre.” Accompagnò l’ultima frase con una risatina.

Marcello cercò di sorridere, se non altro per far sentire meglio il suo insegnante. La decisione sembrava fargli male quanto ne faceva a lui. Anche lui doveva essere forte, se Giovanni poteva decidere qualcosa di così importante. E il suo maestro non era un imbecille, se poteva decidere ciò che era meglio per tutti.

“Tu non sei un imbecille,” Marcello abbracciò Giovanni. “Sei un eroe. Sei il mio maestro. Sei mio Fratello.”

“Ho solo fatto il mio dovere, fratellino,” Giovanni diede una pacca sulla spalla a Marcello. “E avrei potuto fare di meglio. Non avrebbero mai mandato Pietro, se si fossero fidati di me. E ho paura che avessero ragione, un esercito non è posto per tirar su un ragazzo.”

“Zia Claudia ti ha sgridato di nuovo?”

Giovanni tirò un sospiro. “No. Ma questa fottuta guerra non fa che peggiorare,” disse. “E il tuo posto non sarà sempre con l’esercito. Perché pensi che io abbia mandato via Cecchino?”

“Il fratello di Benvenuto? Ma non si era preso quella malattia alla pelle?” chiese Marcello.

“Malattia? No, sono solo nervi,” Giovanni scosse la testa. “Gli succede solo quando io sono vicino e lo sto sgridando. La scabbia era un pretesto. Quell’uomo potrà anche ritenersi un soldato, ma può fare molto meglio. Il suo posto è in un consiglio di guerra, di pattuglia nelle città… o come caposquadra,” sorrise. “E sarà anche il tuo. Siete entrambi ragazzi con le giuste conoscenze, sareste uno spreco in mezzo ai soldati.”

Aprì di nuovo la porta e mise un piede all’interno, poi iniziò a scendere le scale.

“Un’ultima cosa, Marcello,” disse mentre raggiungevano il fondo della scalinata. “Un’ultima lezione prima che io vada via. È sempre meglio agire, qualsiasi cosa voglia dire agire, che nascondersi. Meglio prendere una posizione e fallire, che non prenderla e passare il resto della tua vita a rimpiangerla.”

“Sembra stupido, Giovanni,” ribatté Marcello. “Non è così che ti sei messo nei guai?”

“Ho fatto la cosa sbagliata, lo so. Ma prendere una posizione avrebbe anche potuto voler dire informare Francesco, Massimo e Claudia, e chiedere aiuto a loro,” Giovanni camminò verso la porta principale e la aprì per lasciare il Quartier Generale. “Peccato che io sia stato davvero uno stupido.”

Il suo maestro stava davvero andando via. Marcello tirò un sospiro, strinse i pugni e trattenne le lacrime. Non importava quel che Giovanni aveva detto, quello che si erano detti… dirgli addio gli sembrava comunque sbagliato. Cosa sarebbe successo? Giovanni sarebbe tornato?

Marcello sperava di sì. Ma per il momento, non poteva dire altro se non…

“A presto, Giovanni.”

“Ci vediamo, pulcino.”

 

Avremmo soltanto saputo quell’inverno che Giovanni aveva cercato di tagliare tutti i ponti con la Fratellanza, per cercare di impedire che le notizie dei suoi spostamenti raggiungessero orecchie indiscrete. Che aveva lasciato una lettera ad Enrico, chiedendogli di addestrare Cosimo nel caso lui non fosse più tornato.

L’anno che Marcello aveva passato con Giovanni aveva cambiato anche il capitano, esattamente quanto lui aveva cambiato il mio fratellino.

Dopo più di dieci anni, però, ancora non sappiamo se Giovanni lasciò Marcello con quell’ultima lezione per puro dovere, o se davvero si sentisse di lasciarlo perché pensava che fosse la cosa giusta. Probabilmente non lo sapremo mai.

Ma voglio pensare che volesse fare la cosa giusta.

   
 
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