… presi a
correre verso
la marina, gridando: “Dottore! Dottor Trelawney!
Mi
prenda con sé! Non può lasciarmi qui,
dottore!”
Ma già le
navi stavano
scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro
mondo pieno di
responsabilità e di fuochi fatui.
(Italo Calvino, Il Visconte Dimezzato)
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Persone -> Contatti ->
Giovanni ‘Dalle Bande
Nere’ De’ Medici
Nato: 6 Aprile 1498
Nato Ludovico De’ Medici a
Forlì, venne
ribattezzato Giovanni alcuni mesi dopo, alla morte del padre.
A parte il nome, il cromosoma Y e i
capelli scuri,
prese praticamente tutto dalla madre, Caterina Sforza, compresi la
fierezza e
il talento per mettersi nei guai. Girano voci su lui da bambino che
dicono che
fu vestito da femminuccia e nascosto in un convento di suore a Firenze
perché
venisse protetto da eventuali rappresaglie dei Borgia. Poi Ezio
liberò Caterina
e il piccolo Giovanni fu di nuovo in famiglia.
Alla morte di sua madre, quando lui
aveva undici
anni, venne affidato al nobile fiorentino Jacopo Salviati, genero di
Lorenzo il
Magnifico, il cui scopo principale era porre un freno al declino della
casata
dei Medici. E ci riuscì – iniziò a
combinare il matrimonio tra sua figlia Maria
Magdalena Romola e Giovanni quando la ragazza aveva dieci anni e il
povero
ragazzo, come ho detto, undici.
Giovanni venne accolto nella
Fratellanza da Niccolò
Machiavelli nello stesso anno, e venne ripetutamente colto sul fatto
mentre
cercava di aiutare. Nel 1513, Jacopo Salviati portò Giovanni
a Roma, e lo fece
iscrivere nell’esercito pontificio, cercando di imprimergli
un po’ di
responsabilità. Sembra che non ci riuscì,
perché Giovanni e alcuni dei suoi
nuovi amici attaccarono e uccisero due soldati esperti sul Ponte
Sant’Angelo. Un
anno dopo la cosiddetta rissa sul ponte, Giovanni, ora diciottenne,
sposò Maria
Salviati. Avrebbero avuto un figlio, Cosimo, che avrebbe portato avanti
il nome
della casata.
Dopo tutte le disavventure di
gioventù, Giovanni
divenne il miglior combattente dell’esercito pontificio.
Poteva pianificare
strategie che anticipavano i tempi, e nonostante gli scarsi numeri
della sua
armata, spesso si distinguevano in battaglia. Lo stesso Machiavelli lo
considerava l’unico uomo capace di porre un freno
all’espansione del Kaiser in
Italia.
Purtroppo morì giovane.
Luoghi -> Trastevere
Le persone conoscono Roma per il
Colosseo, per San
Pietro, o tutti i monumenti antichi, ma anche questo insolito quartiere
merita
una visita. Ezio l’ha visto soltanto come il posto in cui
Juan Borgia ospitò il
suo bunga bunga ante
litteram, ma Trastevere era molto più che il parco giochi
dei Borgia. Durante
il periodo in cui Roma era Caput Mundi, questo quartiere era occupato
da gente
il cui mestiere aveva a che fare con l’acqua, come pescatori,
marinai, e così
via. Era anche la casa di immigrati siriani ed ebrei, e ospitava templi
di
culti stranieri. Ovviamente i templi vennero distrutti nel Medioevo, ma
il
carattere multiculturale del posto rimase. Isolati dal resto della
città, i
trasteverini avevano una cultura propria, una cultura che era
più culture
assieme, e da qualcuno vennero definiti come gli abitanti
più tipici di Roma.
Gli Assassini Cipriano Enu
e Tessa Varzi, assieme ad altri, vennero uccisi in una taverna di
Trastevere in
un’imboscata che ebbe come unico sopravvissuto Francesco
Vecellio. Un altro
Assassino, Filippo Falcone, venne ucciso nella sua casa, in questo
stesso
quartiere, alcuni anni dopo.
Parecchi anni dopo che Flavia ebbe scritto le sue memorie, questo quartiere divenne la patria di poeti vernacolari come Giuseppe Gioachino Belli e Carlo Alberto ‘Trilussa’ Salustri, del regista di spaghetti western Sergio Leone e del compositore Ennio Morricone.
SEQUENZA
2
L’ORA
DEI FATI
Sapevamo
già da un bel pezzo che quei due anni di relativa pace altro
non
erano che la calma prima della tempesta. Il Kaiser e il Re di Francia
si
contendevano ancora il Ducato di Milano, e le Bande Nere di Giovanni
erano
ancora in prima linea negli scontri.
La
situazione era di stallo, ma sapevamo che non sarebbe mancato molto ad
un attacco, e probabilmente all’ultima battaglia della
Fratellanza.
Nel
frattempo, la vita a Roma andava avanti come sempre: gli allievi
venivano addestrati, i maestri insegnavano… e i bambini
crescevano.
Capitolo 1
L’Ultima
Lezione
14 Aprile 1526,
Roma, una casa sull’Isola Tiberina
“Non
so proprio cos’abbia Francesco,”
Flavia disse prendendo il suo piatto dal tavolo e portandolo alla
tinozza.
“Il
tuo insegnante, vuoi dire?” Mamma
le passò un altro piatto sporco.
“Sì.
Voglio dire, non mi ha chiamata
per le lezioni stamattina,” Flavia strofinò via i
resti del pranzo dai piatti e
li sciacquò nell’acqua pulita. “Non lo
ha mai fatto senza un motivo. Pensi che
stia male?”
“Non
lo so, forse dovresti andare a
cercarlo,” asserì Mamma.
“L’ho
fatto,” ribatté Flavia.
“Insomma, non è che posso star qui tutto il giorno
senza far nulla. Sono andata
a casa sua e ho bussato. Non ha risposto nessuno. A dire il vero,
Alessio mi ha
suggerito di chiedere il grimaldello a Benvenuto,
ma…”
“Forse
Massimo sa dov’è. Oppure è
dovuto partire per qualche missione urgente,”
suggerì Mamma.
“Non
lo so…” Flavia si asciugò le
mani.
“Beh,
non ti preoccupare. Saremmo già
state avvertite se gli fosse successo qualcosa.” Mamma le
mise una mano sulla
spalla.
Flavia
salì in camera sua. Era in
momenti come quelli che Marcello le mancava di più. Prese in
mano la lettera
che aveva scritto quella mattina per il fratellino e
controllò che l’inchiostro
si fosse asciugato. Un anno. Era passato quasi un anno
dall’ultima volta che lo
aveva visto. Si era persa il suo undicesimo compleanno, lui
probabilmente
avrebbe perso il tredicesimo di Flavia, il Templare Frundsberg
era ancora in vita e le Bande Nere di Giovanni non sembravano affatto
intenzionate a battere in ritirata. C’era un letto libero
nella casa, uno che
non era mai stato usato. Perché
Papà ha
lasciato che il Capitano portasse Marcello via?
‘Continua a prenderti cura
di tuo fratello’, aveva detto. ‘Restate
insieme’, aveva detto. E poi aveva
spedito Marcello in un maledetto esercito!
Perché?
Qualcosa che
suonava come un sasso colpì
l’imposta della sua finestra. Ci
risiamo.
La aprì e vide Alessio giù per strada.
“Non
puoi bussare alla porta come
tutti gli altri?” sogghignò mentre lo guardava.
“Scusa!”
Se non si fosse
guardato all’incisivo
scheggiato, sarebbe stato difficile identificare Alessio Falcone con
l’orfano
undicenne sporco e trasandato che Flavia aveva incontrato il primo
giorno
dell’anno prima. La sua pelle abbronzata tradiva ancora i
natali meridionali
della sua famiglia, ma aveva addosso abiti buoni, una tunica sul grigio
bluastro e dei pantaloni grigio chiaro, e ultimamente si era lasciato
crescere
i capelli neri fino quasi al mento. Era cambiato molto, Flavia invece
sentiva
di non essere cambiata quasi per niente.
Certo, aveva
cambiato abiti ogni
volta che le erano diventati troppo stretti, ma quello, per ora, era
l’unico
cambiamento evidente. Aveva ancora la corporatura di una bambina
nonostante
fosse già più alta di altre ragazze che
già avevano avuto quel che chiamavano
‘il marchese’, e poteva facilmente passare per un
ragazzino, specialmente se si
raccoglieva i capelli castani o li nascondeva sotto al cappuccio. Non
sarebbe
durato a lungo, e lo sapeva, ma Francesco spesso le diceva di
approfittarne
finché poteva – era uno dei modi che aveva per
restare invisibile in una folla.
Corse
giù per le scale e aprì la
porta per far entrare Alessio.
“Allora,
che succede?” gli chiese.
Aveva ancora addosso il puzzo acre della bottega di Benvenuto.
“Roberto
fa gli anni,” spiegò
Alessio. Roberto, meglio noto come Bertino o Sgorbietto per la sua
statura
irrisoria, era il figlio maggiore di Patroclo Aldobrandi,
l’allievo di Cecchino Cellini,
e uno dei pochi amici
di Alessio. “E… siccome… la sua
famiglia è a Firenze…” Alessio
strofinò un
piede per terra. “Cecchino vuol fargli una sorpresa. Voglio
di’, fa quattordici
anni. Praticamente, è un uomo.”
“Penso
che lo chiameranno ancora
Bertino per parecchio, però,” Flavia
ridacchiò. “Dunque. Hai qualche piano?”
“Beh,
Cecchino mi ha detto di dirlo a
tutti i suoi amici, radunarci nella sala delle cerimonie, prendere un
po’ di
cibo dalle scorte, e tenerci pronti per qualche giochino stupido. Al
regalo ci
pensa lui.” L’apprendista scultore contò
sulle dita. “Tutto questo, prima che
le campane suonino le cinque.”
“E tu
non hai ancora iniziato a
correre su e giù perché sia tutto pronto? Siete
davvero una delusione, messer
Falcone,” Flavia ridacchiò e alzò il
sopracciglio.
“Ho
cominciato con te perché sapevo
che mi avresti aiutato,” l’ex monello di strada
scoprì l’incisivo rotto in un
sorrisetto.
“Sei
proprio una carogna,” Flavia
disse in finto tono di rimprovero, alzò di nuovo il
sopracciglio e incrociò le
braccia, poi andò verso la sala da pranzo. “Ehi,
Mamma, io e Alessio usciamo.
Roberto, il figlio di Patroclo, compie quattordici anni oggi. Se vuoi
raggiungerci, alle cinque saremo al Quartier Generale.”
“Va
bene,” rispose Mamma. “Ma non
fate niente di stupido in giro. Oh, e prima che andiate a divertirvi
con gli
amici, Flavia, ho bisogno che tu vada a prendere l’acqua
dalla fontana.”
“Prendere
l’acqua? Di nuovo?”
Flavia alzò gli occhi al cielo.
“Ma Mammaaaa…
l’ho già fatto stamattina!”
“Non
si preoccupi, Madonna, lo faremo
assieme,” Alessio cercò immediatamente di calmarla
e prese i secchi dall’angolo
in cui erano poggiati. “Annamo,
Flavia, prima lo
facciamo e prima ce ne liberiamo.”
Flavia odiava andare a prendere
l’acqua. A casa, era sempre stato compito
di Serena, ma a Roma, dove di solito erano per conto loro, il compito
era
caduto su di lei. Sapeva di aver
quasi tredici anni, di non essere più una bambina piccola e
che era abbastanza
grande da aiutare in casa. Sapeva
che
qualcuno doveva pur farlo. Ma la cosa non le faceva odiare meno il
gravoso
compito.
Alessio dovette
quasi trascinarla
fuori, ficcarle un secchio in mano, e portarla alle fontane.
“Uffa,”
Flavia protestò una volta fuori portata dalle orecchie di
Mamma. Alessio
ridacchiò.
Ci misero un
po’ a riempire i secchi,
anche perché ad un certo punto Alessio giudicò
particolarmente divertente
sollevare un po’ di spruzzi nella vasca e infradiciare
entrambi, ma le campane
non avevano ancora suonato le tre quando tornarono a casa di Flavia.
“Colpa
sua,” fu l’unico commento di
Flavia quando Mamma li trovò sulla soglia con gli abiti
bagnati. Si aspettava
di venire ripresa, magari di venire ordinata di non entrare; quello che
non si
aspettava era che Mamma si mettesse a ridere.
“Beh,
ragazzi, divertitevi,” disse
Mamma. “Non fate nulla di stupido, non mettetevi nei guai, e
vi raggiungo dopo
al Quartier Generale.”
“Va
bene. Ciao Mamma!” Flavia si
allontanò e la salutò con la mano, con Alessio
che la seguiva a ruota.
“Andiamo, abbiamo amici da radunare e cibo da
trovare,” disse poi, girandosi
verso l’amico. “Credo che dovremmo chiedere per
prima cosa a Giuseppe e
Costanza. Sono sempre più che felici di aiutare.”
“Casa
loro a Trastevere è lontana.
Facciamo di corsa?” chiese lui, guardando i tetti.
“E
l’ultimo che arriva… è un
barbagianni!” Senza il minimo preavviso, Flavia
scattò in avanti, attraversò il
ponte e sfrecciò per strada, poi trovò un
appiglio in una trave sporgente su un
edificio vicino e iniziò a salire fino al tetto. Alessio le
urlò dietro: “Ehi!
Non VALE!”, poi le corse alle calcagna.
Erano entrambi
dei corridori veloci,
abbastanza da dare la polvere alla maggior parte dei loro coetanei; e
nemmeno
Benvenuto e Francesco erano in grado di dire quale dei due fosse
più veloce,
nonostante tutte le sfide che Flavia e Alessio avevano disputato
nell’ultimo
anno. Flavia non vedeva l’ora che tornasse suo fratello. Suo
fratello era
sempre stato un buon arrampicatore, e un nuovo sfidante avrebbe solo
reso la
sfida più interessante.
Quanto poteva
essere cambiato,
stavolta? Aveva un po’ paura che fosse diventato uno di quei
ragazzi prepotenti
che ritenevano che le bambine fossero brave solo a giocare con le
bambole. Non
si era scordata di quel che aveva detto quando avevano finto di giocare
con le
trottole di Cosimo. Cosimo stava perdendo
contro Flavia, come se perdere contro una
‘femminuccia’ fosse prova
dell’inettitudine del bambino. Nonostante fosse stata una
bugia per distrarre i
fratelli Cellini, e non
aveva convinto affatto
Benvenuto; anche sapere che suo fratello non l’avesse
veramente inteso non
allontanava il pensiero che fosse cambiato,
e non necessariamente in meglio.
“Che
succede, Flavia?” Alessio si
fermò e si girò verso di lei. “Non stai
manco provando a battermi!”
“Stavo
pensando a Marcello.”
“Ancora?”
Alessio quasi sbuffò.
“Flavia, ne abbiamo già parlato. Voglio
di’, tuo cugino Enrico ha passato un
sacco di tempo col Capitano quando erano ragazzi. E mo ha ventisei anni
ed è
tutto fuorché un cretino. E ho sentito che il Capitano da
ragazzo era pure
peggio.”
“Non
era ancora Capitano, non era un
eroe di guerra, e Zia Claudia poteva ancora controllarlo,”
Flavia camminò in
avanti.
“È
ancora sua superiore,” Alessio
concluse. “Se lei gli dice di cantare, lui può
solo chiederle quale canzone.”
Poco dopo aver
reclutato Giuseppe e
Costanza Simoni nella loro cosiddetta missione, e chiesto ai due
fratellini di
spargere voce a metà degli altri ragazzi, tornarono al
Quartier Generale e
iniziarono a preparare il cibo. Certo non sarebbe stato un banchetto,
ma tutti
avrebbero apprezzato quantomeno una merenda.
“Ehm,
chiedo scusa?”
Qualcuno era
entrato nella sala
comune, una ragazza sui vent’anni. I suoi vestiti la
identificavano come
Assassina… o meglio, come un’allieva al termine
degli studi, e aveva capelli
castani mossi e l’aria furba. Due bambini erano dietro di
lei, una ragazzina in
abiti da apprendista, e un bambino più piccolo in abiti
civili.
“Sì?”
Flavia si avvicinò a lei. Non
l’aveva mai vista prima, ma il suo accento non era del
posto… doveva essere di
Firenze.
“È
questo il posto?” la giovane donna
chiese di nuovo. “Per il compleanno di Berto?”
Flavia
annuì.
“Bene.
Questi sono Chiara e Luciano,
i…”
“I
suoi fratellini, lo so.” Alessio
la anticipò. “Non fa che parlarne.”
“E voi
siete…?” chiese la ragazza.
“Io
sono Flavia Auditore, allieva di
Francesco Vecellio, e questo qui è Alessio Falcone, allievo
di Benvenuto Cellini,”
intervenne Flavia.
“Piacere
di conoscervi,” la giovane
donna sorrise. “Io mi chiamo Liberata. Il bischero che
insegna ad Alessio è mio
fratello.”
“Piacere
mio,” Flavia le sorrise a
sua volta. “Allora, sei qui per la festa?”
“Diciamo
più per far visita,”
Liberata si strinse nelle spalle. “Sono anni che non vedo
Benvenuto. Quando
Cecchino mi ha chiesto di portare qui Chiara e Luciano per il
compleanno di
Roberto, beh, sapevo di dover cogliere l’occasione.
È vero che stiamo qui solo
per qualche giorno, ma quel bischero di mio fratello mi manca da
morire.”
“Questo
posto è enorme!”
commentò uno sbalordito Luciano Aldobrandi.
“Continua
a urlare, Luciano, e Berto
saprà che siamo qui,” Chiara sibilò
prendendo il fratellino per la spalla.
“Io
non grido, è la mia voce che è
così,” il bambino fece roteare gli occhi.
“Pensi che ci lasceranno giocare a
calcio qui dentro?”
“Eh,
non penso,” gli rispose Alessio.
“Ma potremmo provarci sul capo sud-est dell’isola,
se stiamo attenti… c’è un
po’ di spazio.”
“Oppure
potremmo giocare a palla
avvelenata.” Flavia asserì. “Almeno ci
sarebbe meno da preoccuparsi che la
palla non finisca in acqua, se la lanciamo solo contro il muro. Sai come si infuria Zia Claudia quando
qualcuno si tuffa nel fiume.”
“E
palla avvelenata sia,” Alessio
tirò un sospiro.
“Cosa
state tramando, ragazzi?”
Era una domanda
che Flavia aveva sentito
parecchie volte in quell’anno, abbastanza da essersene
stufata – sembrava che
gran parte degli Assassini considerasse lei, Alessio e Roberto un trio
di
mascalzoni per tutte le volte che chiedevano loro cosa stessero
tramando – ma
sentirla pronunciare dal suo maestro la rese soltanto felice.
“Francesco!
Ma dov’eri?” si girò
verso il suo mentore e sorrise.
“Ah,
una domanda più appropriata
sarebbe cosa ci facevate tu e Alessio a correre su e giù per
i tetti di
Trastevere,” Francesco Vecellio si fermò nel vano
della porta con un sorriso
abbastanza rassegnato. “Ma temo che porterebbe ad altre
domande da parte
vostra.”
“È
il compleanno di Roberto,” Alessio
spiegò per lei. “Tutto qui, non
c’è bisogno di fare domande.”
O
così Alessio riteneva. Cosa ci
faceva Francesco a Trastevere? Perché non aveva detto nulla?
“Oh
sì che c’è,” Flavia
contraddisse
l’amico e fece qualche passo verso Francesco.
“Maestro, c’è qualcosa che non
va?”
“Flavia…”
Francesco sussultò. “Non
chiamarmi maestro, va bene?”
Flavia
alzò un sopracciglio.
“Francesco,
c’è qualcosa che non va?”
Il Maestro
Assassino stette in
silenzio per un momento, poi tirò un sospiro e le fece gesto
di seguirlo. La
condusse fuori, nel sole del pomeriggio.
“È
oggi,” spiegò con un sospiro. La
sua voce aveva una nota triste… persino le parole erano a
stento più di un
sussurro.
Flavia scosse la
testa. “No, l’anno
scorso non hai fatto così.”
“Non
eravamo qui.”
Camminarono fino
al capo sud-est
dell’isola, e Francesco sedette sulla sponda e
guardò l’acqua, poi si tirò su
una manica. Sotto la stoffa, il suo braccio era coperto di vecchie
cicatrici,
probabilmente i segni di bruciature.
“Ti
sei mai chiesta come mi sono
fatto queste?” chiese.
“Tutti
gli Assassini hanno
cicatrici,” Flavia si strinse nelle spalle.
“Così come tutti i novizi hanno
croste sulle ginocchia e lividi.”
Francesco
ridacchiò e si portò una
mano alla bocca. “Bella risposta,” disse.
“Non mi sarei aspettato altro da te,
ma bella risposta comunque.”
“Papà
aveva di peggio,” commentò lei.
“Ah,
non guardare a quel che si vede,
Flavia. Le ferite peggiori sono quelle che non si vedono,” il
Maestro Assassino
le fece gesto di sedersi. “Ventitre anni fa, la mia squadra e
io stavamo dando
la caccia a dei soldati francesi che stavano tormentando la gente.
Erano comandati
da un Templare, Charles de Torgues,
anche noto come
il Marchese di La Motte. Era tutta una trappola. Alcuni mesi prima, una
ragazza
della mia squadra, Tessa, aveva drogato i soldati di La Motte
perché le loro
prestazioni risultassero fiacche in una disfida a Barletta, e a quanto
pare
qualcuno aveva mangiato la foglia.”
“La
uccisero?” chiese Flavia.
“Ci
attirarono tutti in una
trappola.” Per un lungo attimo, Francesco non disse nulla, e
rimase a fissare
l’acqua. “Ci fecero uscire allo scoperto, poi non
appena i soldati e le guardie
dei Borgia furono in grado di riconoscere le nostre facce, ci misero
con le
spalle al muro, ci forzarono a rifugiarci in una locanda e diedero
l’edificio
alle fiamme. Cercammo di scappare, ma molti di noi furono uccisi
dall’incendio…
e i sopravvissuti vennero sparati.” Non stava guardando lei
mentre parlava, ma
la riva destra, probabilmente verso il posto dove era accaduto. Poi, si
guardò
le ginocchia. “Soltanto io sopravvissi, e solo
perché l’archibugiere che mi
aveva sparato sbagliò la mira e mi prese solo di
striscio.”
La mano di
Francesco coprì
istintivamente il suo fianco destro. Flavia non lo aveva mai visto a
torso
nudo, ma poteva scommettere che era stato in quel punto che il
proiettile aveva
lasciato il segno.
“I
soldati francesi e dei Borgia
massacrarono la mia squadra come…” lo sguardo di
Francesco si rabbuiò. “… come
dei mastini avrebbero fatto con dei ratti. Tessa Varzi, la nostra
esperta di
veleni, venne uccisa dalle fiamme. Cipriano Enu,
il
miglior arciere che io abbia mai visto in vita mia, venne preso da un
proiettile nel collo e morì dissanguato.” Smise di
parlare. Il suo sguardo era
perso, come se fosse ancora nell’edificio in fiamme, a
guardare tanti che gli
avevano corrisposto morire ancora una volta. Si strofinò gli
occhi con il dorso
della mano, poi guardò Flavia.
“Possiamo
aver addestrato altri
Assassini… altri sanno come maneggiare i veleni…
e Benvenuto sa usare un
archibugio bene quanto Cipriano era bravo con
l’arco… ma nulla mi restituirà i
miei amici.”
Flavia non
sapeva che dire. Aveva già
sentito parlare di Tessa l’anno prima da Tiziano, il fratello
di Francesco, ma
aveva ipotizzato che fosse stata soltanto una storia d’amore
finita male… non
che il suo maestro l’avesse vista morire, in uno dei peggiori
modi possibili.
Persino dire che
le dispiaceva le
sembrava stupido. Porca miseria, era successo anni e anni prima che lei
fosse
nata, e Francesco ancora soffriva. Non era un caso che fosse rimasto
per così
tanto tempo a Venezia prima di prenderla come allieva: aveva
sicuramente voluto
restare lontano dal posto dove aveva sofferto e perso. Ora che era a
Roma,
però, probabilmente era stato spinto a tornare nel posto
dove era stata la
taverna dallo stesso dolore che lo aveva tenuto lontano. Quanto poteva
far male
una ferita del genere?
“Per
questo unirsi alla Fratellanza
non è una scelta facile. Non puoi mai sapere quale giorno
sarà il tuo ultimo… o
quello dei tuoi amici, della tua famiglia. Siamo soldati in una
battaglia,
Flavia, una battaglia che è iniziata con
l’umanità, e nessuno di noi ne vedrà
la fine. Dobbiamo tutti essere certi che il Credo sia qualcosa per cui
valga la
pena combattere… e morire. Tessa lo sapeva. Cipriano lo
sapeva. Tuo padre lo
sapeva. Io lo so.”
“Lo so
anche io,” Flavia ribatté in
tono grave. “È la ragione per cui Papà
ci ha nascosti in un paesino di cavatori
e Zio Niccolò si è ritirato in campagna.
È il motivo per cui Alessio è stato
tenuto al buio.”
Francesco fece
un sorriso amaro.
“No,
Flavia, non lo sai. Non lo
saprai mai finché non vedrai tu stessa un Fratello ucciso in
azione. Non lo
saprai mai finché non ti farà male. Allora, e
solo allora, saprai se vale la
pena di restare e combattere.”
Quando
Francesco mi disse quelle parole, cercai di rassicurarlo con un
sorriso e annuii, ma non sapevo davvero cosa volesse dirmi. Tornai
dentro,
festeggiai il compleanno di Roberto con gli altri ragazzi, e quasi
scordai le
sue parole. Quando tornai a casa, però, venni assalita da un
dubbio. Francesco
aveva detto Fratello, inteso come membro della Fratellanza, ma io avevo
un
altro fratello. Passai la sera a guardare il soffitto, cercando di
allontanare
il pensiero che qualcosa potesse accadere a Marcello. Era nel fottuto
esercito.
E se i tedeschi li avessero presi? E se i Templari li
avessero presi?
Ma
almeno per allora, le mie preoccupazioni si rivelarono inutili. Per
quanto stupido potesse essere Giovanni dalle Bande Nere, per quanto
irruento e
imbecille, quello che una ragazza della Fratellanza mi aveva detto
all’inizio
del mio addestramento si rivelò essere la verità:
‘E di Giovanni dalle Bande
Nere si può dire tutto, ma non che non mantenga le
promesse.’
Alcuni
mesi dopo il mio tredicesimo compleanno, Giovanni tenne fede alla
parola data.
4 Agosto 1526,
Roma, Porta Flaminia
Marcello si
asciugò il sudore dalla
fronte e strinse le redini del suo cavallo. A dire il vero, nessuno
aveva detto
che fosse suo, ma era come se lo fosse: durante il viaggio, il lavoro
più
difficile era stato fatto dagli stallieri ad ogni città in
cui si erano fermati
a pernottare, ma certe volte era toccato a lui dargli da mangiare, o
occuparsi
dei suoi… bisogni. Quel
benedetto
cavallo cacava così spesso che Giovanni gli aveva suggerito
di chiamarlo Fatto.
Marcello aveva immediatamente rifiutato il consiglio: non avrebbe mai
chiamato
il suo cavallo in quel modo dopo che Giovanni aveva chiamato il suo, un
magnifico
animale di colore bianco, con l’altisonante nome di Sultano.
“Seriamente,
Giovanni, è un nome di
merda…”
“Appunto!”
ridacchiò il capitano.
Avevano viaggiato per una settimana: Giovanni doveva fare rapporto a
Ricoveri e
Vecellio – o così aveva detto, e voleva cogliere
l’occasione per far stare
Marcello un po’ di tempo con la sua famiglia.
“Penseranno
che sono cambiato?”
Marcello chiese al suo insegnante.
“Sei
cambiato,” Giovanni allungò una mano e gli
arruffò i capelli. Nonostante
fossero tanto corti che Giovanni non avrebbe potuto causar danni
neanche
volendo, Marcello alzò una mano e fece del suo meglio per
sistemarli. Non che
la sua mano potesse risolvere nulla, non quando aveva disperato bisogno
di un
bagno e una spazzola. Dopo giorni passati ad allenarsi sotto il sole,
c’erano
strie di giallo nei suoi capelli rossi. Marcello non sapeva se fosse
una buona
cosa o se sembrasse soltanto ridicolo. D’altra parte, era
troppo piccolo per
pensare alle ragazze, almeno a opinione dei soldati.
“Non
penso che Zia apprezzerà il
cambiamento,” Marcello sbuffò.
“Oh,
lo farà,” Giovanni alzò le
sopracciglia e spronò il cavallo. “Sei qui.
Sarà quello ad importarle.”
“Non
le piaci, rammenti?” puntualizzò
l’undicenne.
“Fosse
quello il problema,”
l’Assassino ventottenne fece un sorrisetto. “Non
piaccio al mio suocero. Non
piaccio a Pietro. Ma non vuol dire che siano miei nemici. Se ci fossero
più
persone a cui sto sulle scatole e meno che mi vogliono morto, sarei ben
fortunato.”
Si
fermò al posto di guardia e pagò
il pedaggio, poi attraversarono la porta della città.
“Mi
ricordo della mia prima volta
qui,” Marcello disse a Giovanni. “La guardia del
cancello era una specie di
porco che cercò di molestare una ragazza.”
“Beh,
la prima volta che venni qui
io…” Giovanni fece una pausa, probabilmente per
ricordare. “Venni con il mio
tutore… voglio dire, mio suocero, anche se
all’epoca ancora non lo era. Quando
arrivai al Quartier Generale, il primo incarico che mi venne assegnato
fu…
pulire il vaso da notte ad un Assassino ferito.
Quell’Assassino era Filippo, il
padre di Alessio. A un certo punto mi fecero persino cambiare il
pannolino di
Alessio… il peggior incarico della mia vita. A quanto pare,
già godevo di
cattiva fama prima di venire qui.” Ridacchiò e
spronò il cavallo. “E ad un certo
punto, litigai con un ragazzo della mia età. Stavamo quasi
per venire alle mani
quando arrivò Francesco, ci prese per le spalle e quasi
urlò ‘Giovanni, ora
basta!’. A quel punto, ci girammo entrambi verso di lui, ci
guardammo negli
occhi increduli e… una volta capito che eravamo omonimi, ci
mettemmo a ridere.”
“E
quel ragazzo era?” Marcello gli
chiese.
“Giovanni
Borgia. Dopo
quell’episodio, diventammo amici per la pelle, e io
continuavo a pensare che
mia madre si stava sicuramente rivoltando nella tomba,” il
capitano scosse la
testa. “Io, figlio di Caterina Sforza, pappa e ciccia col
figlio di Lucrezia
Borgia!”
“Penso
che Rodrigo si stesse rivoltando
nella tomba, a pensare che suo nipote
sia diventato… beh, uno di noi,”
commentò Marcello. Caterina Sforza?
Aveva sentito quel nome da qualche parte, ma non
si ricordava dove. Anche se sapeva chi era Lucrezia Borgia.
“Questa
era buona!” Giovanni
ridacchiò.
“Dov’è
adesso? Borgia, volevo dire.”
“Se
non ricordo male… Basilea, in
Svizzera. Assieme a Desiderio Erasmo, il Mentore della Fratellanza
nordeuropea.
Ma è anche stato alla corte degli Este, in Francia, e
finanche nel Nuovo Mondo.
Ha trovato qualcosa di prezioso lì,” rispose il
capitano. “Non sai quante volte
ho desiderato di rivederlo, magari per dividere una bottiglia di vino
con lui e
con tuo cugino. Ma dopo l’agguato sul Ponte
Sant’Angelo, non l’ho più rivisto.
Probabilmente non sarei nemmeno in grado di riconoscerlo, avevamo
diciassette
anni quando successe.”
“Chissà,”
disse Marcello, poi si
guardò intorno. Le strade sembravano così simili,
eppure così diverse da quando
lui e Flavia le avevano percorse assieme all’Assassino Paolo
Simoni. Ecco
laggiù il Mausoleo di Augusto… i campanili delle
chiese… e laggiù, oltre i
tetti, la cupola del Pantheon… ancora qualche vicolo, e
avrebbero raggiunto la
strada dove Alessio aveva urlato a Paolo e si era unito a loro. Era
passato
tanto tempo… era a stento più di un anno e mezzo,
ma Marcello si sentiva una
vita più vecchio. Non era più il marmocchietto
che aveva fatto i capricci due
volte nello stesso giorno perché era stanco per il lungo
viaggio, voleva Mamma,
e gli mancava Papà. Aveva visto l’esercito, anche
se Giovanni non lo aveva mai
lasciato avvicinare al fronte. Conosceva le basi della scherma, e aveva
assassinato più e più volte uno spaventapasseri
abbandonato con una lama celata
di fortuna fatta con dei pezzi di spago e un ramo caduto. Ultimamente,
Giovanni
lo aveva usato anche come compagno di allenamento per
l’ultima recluta delle
Bande Nere, un massiccio quindicenne chiamato Arturo Spada, che a onor
del vero
più che una spada sembrava incline a maneggiare una zappa.
La prima volta che
avevano combattuto, dopo un po’ di tempo passato a stancarlo,
Marcello gli
aveva fatto volar via il bastone dalla mano.
“Un
fiorino per i tuoi pensieri,
pulcino.” Giovanni fermò il cavallo nei pressi di
una stalla e scese di sella.
“Non
te lo puoi permettere,” Marcello
ribatté in tono scherzoso. Proprio non voleva dire al suo
maestro che aveva
paura di tutto quel che poteva essere cambiato mentre lui era stato
lontano. E
se Flavia fosse diventata una di quelle ochette giulive che a Fiesole
le erano
state tanto sulle scatole? E se avesse avuto un fidanzato…
magari più vecchio?
La vita in una grande città poteva cambiare dei ragazzi
esattamente come
l’esercito… lui era cambiato, anche sua sorella lo
era? E soprattutto, quanto?
Cercò
di scacciare quel pensiero, ma
non ci riusciva. Smontò dal cavallo e notò che un
ragazzino si stava
avvicinando a loro. Aveva capelli scuri tagliati a scodella, e a
giudicare
dalla sua statura, doveva essere sui dodici anni.
“Buon
giorno, ragazzo,” Giovanni si
rivolse al ragazzino e mostrò la cicatrice da bruciatura
sull’anulare sinistro.
“Come ti chiami?”
“Peppo…
volevo dire, Giuseppe, di
Paolo Simoni, signor capitano,” disse il ragazzino.
“Ascolta,
Giuseppe, potresti
accompagnare Marcello qui all’Isola Tiberina? Ho altre
faccende da sbrigare, e
non sono certo che si ricordi la strada.”
“Me la
ricordo, la strada.” Marcello
fece una smorfia.
“Non
ti lascio da solo, Marcello. Non
ho Pietro qui con me, e Roma è grande, potresti anche
perderti.”
“Cos’è
che devi fare, e dove?”
Giovanni si
morse il labbro e tirò un
sospiro.
“Te lo
dico solo perché se tua zia
sospetta qualcosa e tu non sai cos’è, sono morto e
sepolto,” fece un sorriso.
“Ho chiesto a Maria di venire qui con Cosimo. Sono al palazzo
che i miei
parenti hanno in città. Sai, Marcello, non sei
l’unico a cui manca la
famiglia.”
“Beh,
io lo farei,” Giuseppe li
interruppe. “Ma… beh, il maestro Massimo ha
ordinato a me e a Fabrizio Carbone
di tenere d’occhio le stalle. E un po’ di tempo fa,
Fabrizio ha detto che aveva
mal di pancia e se n’è andato. Non posso lasciare
il posto, me spiace, signor
capitano.”
“Merda,”
sibilò Giovanni. “Non posso
essere in due posti allo stesso tempo!”
“Se
devi andare non preoccuparti,”
Marcello pensò in fretta e cercò di trovare una
soluzione. “Qualcuno prima o
poi passerà di qua. Oppure potrei chiedere
indicazioni…”
“…
e se tua zia scopre che ti lascio
girare da solo…” Giovanni alzò gli
occhi al cielo. Sembrava quasi impaurito,
ora che sentiva di essere continuamente osservato.
“Ho
dodici anni...” protestò
Marcello.
“Undici,”
precisò Giovanni.
“E
mezzo.”
“Non
voglio rovinare una giornata
tranquilla come questa con una discussione, men che meno una
discussione con i
maestri,” il capitano scosse la testa. C’era
qualcosa di strano nel modo in cui
si comportava, anche se Marcello non riusciva a capire esattamente
cosa.
Probabilmente, ora che era a Roma, stava cercando di rigare dritto per
fare
bella figura davanti a Zia Claudia. Magari voleva davvero che lei lo
perdonasse? Se Marcello la conosceva abbastanza, col cavolo che sarebbe
accaduto.
“Giovanni,
ma pensi davvero che Zia
Claudia ti riterrà cambiato soltanto perché non
mi lasci da solo per qualche
minuto?” l’undicenne scosse la testa.
“Con rispetto parlando… campa cavallo. Se
non le sei mai piaciuto non le piacerai adesso.”
“Magari
no,” Giovanni si strinse
nelle spalle. “Ma preferirei non essere sgridato come un
bambino come è successo
l’ultima volta. Stare vicino a Madonna Claudia è
come camminare sulle uova.”
“Già,”
intervenne Giuseppe Simoni.
“Mi spiace di non poter aiutare, capitano, davvero.”
Probabilmente
Giovanni stava per dire
qualcosa, ma prima che potesse aprir bocca due ragazzi gli passarono di
corsa
vicino e si tuffarono nel fieno. Un momento o due dopo, una guardia
ansimante
svoltò l’angolo e urlò qualcosa a
proposito di teppistelli che correvano sui
tetti.
“Messere…”
la guardia si fermò
davanti a loro e si rivolse a Giovanni. “Avete per caso visto
due ragazzacci in
fuga?”
“Due
ragazzi? Maschi? A parte loro?”
Giovanni fece il finto tonto e indicò Giuseppe e Marcello.
“No, e loro due sono
con me già da un po’.”
“Porca
puttana! Li ho persi!” sibilò
la guardia. “Se fossi il padre di quei due
mascalzoni… avrebbero dovuto
assaggiare di più la cintura…”
Mentre la
guardia si girava, Giovanni
si morse il labbro per reprimere una risatina, e cercò di
impedire a Giuseppe
di ridacchiare.
“Ma
che…?” Marcello cercò di
chiedergli, ma Giovanni gli fece gesto di stare zitto. Non appena la
guardia fu
fuori portata, Giovanni De’ Medici scoppiò a
ridere.
“Due
ragazzi! Maschi! Sul
serio!” disse. “Lento come una lumaca e cieco come
una
talpa!”
“Se
n’è andato?” la testa di uno dei
due corridori fece capolino dal fieno. Marcello riconobbe Alessio
soltanto
quando vide il dente scheggiato. “Aspe’…
Capitano, siete voi?”
“Capitano
chi?” l’altro corridore
uscì fuori, e Marcello riconobbe immediatamente Flavia. Sua
sorella si guardò
intorno, prima guardò Giuseppe, poi Giovanni, e poi lui, e
prima che Marcello
potesse reagire, si vide piovere addosso un pugno sulla spalla.
“Non
– restare – mai – più
– lontano
– per – così –
tanto!” Flavia sibilò colpendolo giocosamente di
nuovo.
“Flavia,
mi hai fatto male!”
Marcello protestò.
“E tu
puzzi di cacca di cavallo. E di
sudore. Per non parlare di quei capelli…” Flavia
sogghignò e lo strinse in un
abbraccio. “Quanto mi sei mancato, fratellino.”
Marcello sorrise
e le restituì
l’abbraccio. “Anche tu.”
Era
decisamente cambiato, e anche parecchio. Ma gran parte del
cambiamento fu facilmente eliminato da un bagno, anche se andare a
prendere
l’acqua di mattina, nel bel mezzo dell’estate, era
l’ultima cosa che avrei
voluto fare.
La
scena che seguì al mio ritorno, però, ne valse la
pena quanto ne può
valere un fratellino che cerca di evitare lo spazzolone. E almeno in
quel
momento, Marcello era di nuovo il moccioso di sempre.
Non
oppose resistenza per molto, comunque. Aveva davvero bisogno di quel
bagno, ed era anche stanco morto per il viaggio.
4 Agosto 1526,
Roma, casa di Flavia
“…
e si è addormentato subito dopo il
bagno,” Mamma finì di spiegare a Zia Claudia.
Erano sedute nelle tre sedie
attorno al tavolo da pranzo, e Flavia poteva sentire suo fratello che
russava
nella loro stanzetta.
“Non
c’è molto da stupirsi, ha
viaggiato da solo con quel bischero per sei, forse sette
giorni,” commentò Zia
Claudia. “E cavalcando per conto suo, se quel mi hai detto
è vero.”
“Questo
lo dovresti chiedere a
Marcello, Zia,” precisò Flavia. “Ma
comunque, c’erano due cavalli alle stalle,
quindi dovrebbe aver detto la verità…
perché dovrebbe mentirmi, d’altronde? È
mio fratello.”
“Questo
non vuol dir nulla, nipote,”
asserì Zia Claudia. “A un certo punto, potrebbe
decidere di nasconderti qualcosa
soltanto perché riterrebbe di poterti proteggere in quel
modo. Diciamo solo che
i miei fratelli maggiori erano soliti farlo.”
“Proteggermi?
Ha!” la tredicenne scosse
la testa. “Sono io la
maggiore. Dovrebbe essere il contrario. Io ho tredici anni,
lui ne deve ancora compiere dodici.”
“A
onor del vero, Francesco ha ancora
l’incarico di proteggerti,” precisò
Mamma. “Hai tredici anni, l’hai detto. Non dovresti
fare nulla di serio finché non ne avrai quindici.”
“E li
compirò comunque prima di
Marcello,” disse Flavia. “Comunque, Zia,
perché Giovanni è venuto qui adesso?
L’ultima volta che l’abbiamo visto, Francesco gli
ha ordinato di uccidere Frundsberg,
e lo sapremmo se quel vecchio diavolo fosse
morto.”
Zia Claudia
ridacchiò. “Per
l’esattezza, Flavia, il diavolo sarebbe Giovanni…
almeno a opinione dei soldati
tedeschi. Il Gran Diavolo, lo chiamano. La sua armata, le Bande Nere,
saranno
anche un corpo d’elite e una truppa ben addestrata, ma
è di lui che i tedeschi
hanno paura. Potremmo dire che è fino in fondo il figlio di
sua madre. Ma, per
rispondere alla tua domanda, era pure ora che venisse qui.”
“Che
vuoi dire?”
“Io e
Francesco abbiamo affidato a
Pietro il compito di seguire le Bande perché potesse
occuparsi di Marcello
qualora Giovanni non avesse potuto,” spiegò Zia
Claudia. “Ma un Assassino, uno
formato più per il coordinamento che per la battaglia, non
può proteggere un
ragazzo in pericolo come lo farebbe una Fratellanza. Giovanni
è vicino al suo
obiettivo e alla sua battaglia finale, per questo è qui
adesso.” L’anziana
sorrise. “E, grazie al cielo, ha deciso di riportare il suo
allievo a casa
prima di andare avanti.”
Flavia prese un
momento per pensare a
quello che sua zia aveva appena detto. Giovanni era sul punto di
mettere Frundsberg con
le spalle al muro e ucciderlo, e prima di
farlo aveva portato Marcello a casa per essere certo che fosse al
sicuro.
Giovanni sarebbe tornato al fronte e avrebbe lasciato il suo allievo a
Roma.
Marcello sarebbe rimasto a casa, per settimane, forse anche per mesi.
Sarebbe
stato al sicuro. Lontano da guerra,
eserciti, armi da fuoco… quella era la migliore notizia del
mondo!
“Ma
è magnifico!” Flavia sorrise.
Zia Claudia le
lanciò un’occhiata.
“Dovrebbe essere scontato,
Flavia. È
il dovere del Capitano De’ Medici tenere il suo allievo al
sicuro. È il terzo
principio del Credo, mai compromettere la Fratellanza.”
Rimase in silenzio per
un momento, poi tirò un sospiro. “Penso che tu
abbia sentito parlare di Filippo
Falcone.”
“Sì,”
Flavia annuì. “Il padre di
Alessio, giusto? Giovanni lo ha menzionato una volta.”
“Esattamente,”
confermò Zia Claudia.
“Perlomeno di nome, era Machiavelli il maestro di Giovanni,
ma quando Niccolò
venne messo in carcere, fu Filippo a prendere il ragazzo e cercare di
inculcargli un po’ di buonsenso.”
“Perché
proprio Giovanni?” chiese
Flavia. “Con tutti gli allievi a Roma…”
Zia Claudia
sogghignò. “Sapevo perché
era stato mandato qui. Era stato beccato a cercare di uccidere una
guardia per
difendere Machiavelli. E a quel punto, gli ordinai di pulire il vaso da
notte
di Filippo, che era costretto a letto immobile. Era ovvio che ad un
certo punto
avrebbero iniziato a parlare. Il mio proposito era solo di dare al
ragazzino
una lezione di umiltà, ma Filippo decise di fare di
meglio.”
Flavia
ridacchiò alla menzione del
vaso da notte. “Accadde dopo che venne ferito nelle
catacombe, non è vero?”
“Sì…
Filippo voleva continuare a
lavorare per la Fratellanza anche dopo che l’incidente nelle
catacombe lo aveva
lasciato con una gamba che non guarì mai per bene. Forse era
il modo che aveva
per liberarsi del dolore che provava per la perdita della sua compagna
nello
stesso crollo,” disse Zia Claudia. “Dirigeva una
piccola squadra di allievi,
tra cui Medici, Giovanni Borgia, ed Enrico. Quando le bande Templari
che tentavano
di ristabilirsi in città scoprirono che c’era
Filippo dietro i ragazzi che
mettevano loro i bastoni tra le ruote, mandarono due sicari a uccidere
lui e i
ragazzi. Per riuscire a fuggire… Medici e Borgia, che erano
con lui quando
venne attaccato, furono costretti a lasciare Alessio nella ruota dei
trovatelli.”
“Vuoi
dire… vuoi dire che sono stati
loro a lasciarlo nell’ospedale?” Flavia chiese
incredula. Si chiese se Alessio
lo sapesse. Probabilmente, se lo avesse saputo, avrebbe perso il
rispetto che
nutriva per il capitano De’ Medici. “Quanti anni
avevano quando è successo?”
“Era
quello o venire presi, nipote,
non penso avessero scelta. Borgia aveva diciassette anni, Medici stava
per
compierli, ed Enrico avrebbe compiuto sedici anni in qualche
mese,” spiegò Zia
Claudia. Il suo sguardo andò alla porta che dava sulle
scale. Rimase in
silenzio per un momento, ma l’unico suono che proveniva dal
piano di sopra era
il russare di Marcello.
“Ora,
Filippo non c’era più, ma la
sua squadra era intenzionata a vendicarlo… fecero la loro
inchiesta e trovarono
i colpevoli. Ma anziché dire tutto a Francesco, a Massimo, o
a me… fecero la
posta ai sicari sul Ponte Sant’Angelo mentre tornavano
ubriachi come spugne dal
bordello, li affrontarono armati… e li uccisero,”
Zia Claudia sibilò e guardò in basso.
C’era una nota di furia nella sua voce. “Tre ragazzi uccisero due uomini adulti. E
la fecero sembrare una rissa in cui ci erano scappati due morti. E
Giovanni De’
Medici era la mente dietro questa follia.”
Ma
Papà aveva diciassette anni quando cominciò, Flavia avrebbe
voluto dire, ma
Mamma parlò prima di lei.
“Mi
ricordo di Filippo,” disse. “E
ricordo anche cosa accadde a Giovanni dopo che fece quel che fece.
Dieci anni
fa, quando Ezio si era già lasciato tutto alle spalle, non
appena seppe che
Giovanni era tornato a Firenze, lo trovò e lo
rimproverò.” Mamma abbozzò un
sorriso. Probabilmente, quella era stata una gran bella scena.
“Per quel che
so, il ragazzo fu un relitto per qualche giorno… poi, una
settimana dopo, ci
venne a cercare, chiese perdono, e promise di diventare un uomo
migliore.
Qualche giorno dopo, venimmo a sapere che Giovanni il giorno dopo
chiamò la
guardia cittadina per salvare i due figli di un menestrello da una
rissa per
strada, anziché
intervenire nella
rissa lui stesso.”
“E
propose loro di entrare nella
Fratellanza, so quella storia,” Zia Claudia tirò
un sospiro. “L’ho anche
sentita dai diretti interessati, Benvenuto e Cecchino. Ascoltami,
Sofia, non
conosci il capitano come lo conosco io. Un attimo di rimprovero
sicuramente non
ha annullato tutti gli anni che ha passato a fare il teppista. La sua
stessa
madre non fece mai nulla per calmarlo. Machiavelli e Filippo non ci
sono
riusciti. Come puoi pensare che mio fratello sia riuscito a concludere
qualcosa?”
“Non
lo penso, infatti. Ma ho letto
le lettere di Marcello, Claudia. L’ho sentito parlare di
Giovanni. E io conosco
mio figlio meglio di quanto lo conosca tu,” Mamma
ribatté in tono calmo.
“D’accordo, Giovanni gli avrà anche
insegnato a bestemmiare, a interrompere
quando non dovrebbe… ma non è una cattiva
persona. Si preoccupa molto di Marcello, forse quasi quanto te. Non sto
giustificando il suo comportamento, ma se Ezio lo ha scelto come
insegnante per
mio figlio, probabilmente è perché ha visto in
lui qualcosa.” Mamma tirò un
sospiro e percorse con le dita un nodo sulla superficie del tavolo.
“E
potrà anche essere affare della
Fratellanza,” continuò, guardando Zia Claudia,
“ma Ezio parlò con me prima di
scrivere a Giovanni De’ Medici per chiedergli di prendere
Marcello come suo
allievo. Mi disse che, nel caso gli fosse successo qualcosa, avrebbe
affidato
nostro figlio al ragazzo che aveva sgridato… e mi chiese se
fossi d’accordo. Ma
disse anche che il capitano è un uomo di parola…
un uomo che fa il suo dovere
ogni volta che lo ritiene giusto. Un uomo che si metterebbe tra mio
figlio e
una spada.”
Stavano tenendo
le voci basse, e non
c’era rabbia nel loro discorso. Più che una
discussione sembrava un confronto
di opinioni. Flavia non sapeva che dire, però: aveva sentito
parecchie cose su
Giovanni De’ Medici, dalle sbalordite lodi degli abitanti di
Fiesole e Firenze,
alla convinta disapprovazione di Zia Claudia, alle storie di Alessio, a
quello
che la recluta più grande Laura, che aveva lasciato Roma con
il suo insegnante
alcuni mesi prima, le aveva detto a proposito della fedeltà
alla parola data
del capitano.
“Non
sarebbe il primo errore che mio
fratello avrebbe fatto,” mugugnò Zia Claudia.
“Ha affidato la Fratellanza a
Ludovico Ariosto, e finora il vecchio parassita ci ha solo causato
guai.”
“Ma
Papà ha anche affidato me a
Francesco, e quello non era un errore… credo,”
Flavia interruppe la
conversazione. “Perché ne stiamo discutendo adesso,
se Marcello è tornato per restare? Se volesse un altro
maestro, ce lo direbbe.
Mi dice sempre tutto. Lo saprei se
ci
fosse qualcosa che non va.”
A
meno che non preferirebbe parlarne con Giovanni. A meno che non
è
diventato uno di quei ragazzi scemi che pensano che le ragazze sono
deboli,
bisbigliò una voce nella testa di
Flavia. Ma no, che accidenti? È
tuo
fratello. Avete passato dieci anni assieme. Dieci anni. Uno solo non
può fargli
cambiare idea così in fretta, non importa se lo ha passato
in mezzo ai soldati.
“Beh,
tienilo d’occhio, Flavia.
Chiederò ad Enrico di fare lo stesso,” Zia Claudia
si mise in piedi. “E se c’è
qualcosa che ti sembra non andare, qualsiasi
cosa, dimmelo subito. È…”
“Per
il suo bene, lo so,” Flavia
annuì. “D’accordo.”
Arrivai
alla mia conclusione in quei giorni, ed era che sia mia madre che
mia zia avevano ragione: Giovanni non era un bravo insegnante, ma era
molto
affezionato a Marcello. Ad un certo punto, iniziò persino ad
allenarlo sotto il
naso di Zia Claudia. A onor del vero, dopo il periodo passato a
Ferrara, il
capitano aveva visto da Francesco qual era il modo giusto per
addestrare un
ragazzino alla scherma, ma meglio tardi che mai.
Anche
con Giovanni De’ Medici che si comportava bene, comunque, i
Maestri
Assassini avevano gatte da pelare a Roma. Qualcuno stava rubando dai
covi più
piccoli della città. La prima volta, sparì del
denaro. La seconda, vennero
saccheggiate le scorte di cibo. La terza volta, sparirono entrambe le
cose. In
ogni caso, non vennero toccate le lettere, i piani di battaglia,
qualsiasi cosa
che fosse inchiostro su carta… il peggior destino che ebbero
i documenti fu di
venire sparsi all’aria, ma non sparì nulla. La
Fratellanza iniziò a condurre
indagini su un potenziale colpevole, ma la nostra attenzione fu
brevemente
distratta da qualcos’altro.
10 Agosto 1526,
Roma, punta sud-est dell’Isola
Tiberina
Marcello
soppesò la trottola nella
mano e guardò quelle dei suoi avversari sul pavimento di
pietra. Era la parte
finale del gioco. Roberto aveva già lanciato la sua, e aveva
una buona tecnica
di gioco. Era un avversario forte, e Marcello non era molto sicuro di
poterlo
battere, non fuori allenamento com’era. Quanto ad Alessio,
sembrava di gran
lunga il peggiore in quel gioco, e Cosimo… beh, Cosimo era
un bambino di sette
anni contro quattro ragazzi sopra i dieci.
L’undicenne
prese un respiro, poi
scagliò la trottola e tirò rapidamente il braccio
all’indietro, cosicché la
corda che aveva ancora in mano potesse far girare la trottola. La
trottola
cadde sul selciato, vicino a quella di Cosimo. Ora doveva soltanto
raccoglierla, lanciarla di nuovo e colpire una delle trottole degli
avversari.
Non stavano giocando con l’obiettivo di romperle
però, non quando non sarebbe
stato facile sostituirle. La Fratellanza ovviamente aveva altre
priorità.
Francesco
Vecellio li incoraggiava a
prendersi un po’ di tempo per giocare ogni giorno, non
importava a cosa. Diceva
che il suo primo maestro gli aveva spiegato che era importante che i
bambini
fossero lasciati essere bambini. Non appena Cosimo aveva scoperto che
avevano
l’ora dei giochi, li aveva implorati di includerlo.
Marcello si
abbassò e raccolse la sua
trottola, la lasciò roteare per un momento sul palmo della
mano, poi la lanciò
verso quella di Roberto. Sbagliò il lancio.
“Naaaaaa,
che peccato,”
protestò Cosimo. “Ci
eri andato vicinissimo!”
“Tocca
a me,” Flavia fece un passo in
avanti e fece girare la sua trottola. Marcello la conosceva abbastanza
bene da
prevedere che l’avrebbe ripresa immediatamente – e
così lei fece. In una
manciata di secondi, sua sorella aveva raccolto la trottola, mirato, e
colpito
quella di Cosimo.
“Beh,
sembra che abbiamo un
vincitore,” Roberto sorrise e strinse la mano a Flavia.
Cosimo mise il broncio,
incrociò le braccia e sbatté un piede per terra,
ma non protestò a voce alta.
“Beh,
che ne dite se ora ci facciamo
una gara di corsa? Tre giri attorno all’isola,”
propose Alessio.
Quello spinse
Cosimo a protestare. “Una gara? Ha, ci credo che dici gara,
hai le gambe
lunghe! Io dico che giochiamo alla guerra, e io faccio il
capitano.”
Roberto Aldobrandi
alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa a
proposito di essere troppo
vecchio per giocare a far finta con un marmocchio con la
metà dei suoi anni.
“Avanti,
Cosimo, non puoi nominarti
comandante se gli altri non sono d’accordo,”
Marcello sorrise al bambino e gli
diede una pacca sulla schiena. “Comunque, potremmo giocare a
calcio se fossimo
di più… ma qui no. Se calciamo troppo forte, la
palla finisce nel fiume e
buonanotte al secchio.”
“Corsa
sulle mani?” propose Flavia.
“Ma io
non so camminare sulle
mani!” Cosimo batté di nuovo il piede per
terra.
“Bene,
bene…” la voce di un adulto
interruppe la conversazione. “Allora è per questo
che dicono che la libertà è
incasinata.” Marcello riconobbe quasi immediatamente la voce
di Giovanni.
“Babbo!”
Cosimo si girò e corse verso
il padre.
“Ed
ecco che arriva il mio campione!”
Giovanni lo sollevò e lo strinse in un abbraccio, poi lo
rimise per terra. Si
somigliavano moltissimo, anche se Cosimo non aveva i capelli ricci.
“Ti stai
divertendo?”
“Sì,
sì!” Cosimo annuì.
“E
allora, che ne dici se diciamo
alla mamma che resti qui fino alla fine del mese? Ti
piacerebbe?”
Cosimo
annuì di nuovo e fece un
sorriso fino alle orecchie.
Vicino a
Marcello, Alessio alzò gli
occhi al cielo. Flavia gli allungò una gomitata.
“Ora,
potrei parlare al mio allievo
per un momento?” Giovanni chiese di nuovo.
“Ma
certo,” Marcello si allontanò dal
gruppo e andò verso il suo maestro. “Allora, qual
è il punto?”
“Vieni
con me. È qualcosa di
importante.”
“Va
bene.”
Entrarono nel
Quartier Generale.
Giovanni lo condusse su per le scale che portavano alla cima della
torre, aprì
la porta e si guardò attorno. Marcello notò che
aveva un’unghia tra i denti e
aveva iniziato a mangiarla. Qualcosa non andava – Giovanni si
mangiava le
unghie solo quando aveva qualche problema.
“Allora,
qual è il punto?” Marcello
chiese di nuovo.
“Devo
tornare dalle truppe,” disse
Giovanni.
“Solo quello?” l’undicenne
alzò un sopracciglio. “Potevi anche dirlo
davanti agli altri. Almeno mi avresti risparmiato di spiegarglielo.
Allora,
quando ripartiamo?”
“Noi
non ripartiamo.”
A Marcello ci
volle un po’ per
capire. Non sarebbero ripartiti, ma Giovanni doveva tornare. Poteva
solo dire
che… poteva solo dire che Giovanni lo avrebbe lasciato
indietro. Marcello non
poteva crederci. Erano maestro e allievo… Giovanni era suo
amico… allora perché
stava per ripartire senza di lui? Pensava forse che non era abbastanza
bravo
con la spada per andare avanti con l’addestramento? Non era
colpa di Marcello…
era arrivato ad essere alto come alcuni allievi che già
avevano cambiato voce,
ma non era ancora un uomo…
“Perché?”
quasi gridò. “Faccio davvero
tanto schifo? Gli altri maestri non lasciano indietro i loro
allievi… pensavo
di essere migliorato… mio padre ti aveva chiesto
di…”
“Tenerti
al sicuro,” Giovanni lo
interruppe. “E non sei un cattivo allievo. Sei bravo quanto
lo può essere un
ragazzo della tua età. Ma… mi è stato
ordinato di uccidere Frundsberg,
pulcino. Non mi perdonerei mai se ti lasciassi in pericolo mentre cerco
di eseguire
gli ordini.”
“Ma
io…”
“Non
considerare mai come
un’opzione la vittoria su tutti i fronti, Marcello.
Mai,”
continuò il capitano. Dietro di lui, da qualche parte in
città, un campanile
suonò le sei, e dopo il primo, ne echeggiò un
secondo, poi un terzo, un quarto,
in una specie di coro di campane. “Ogni Assassino ha dovuto
perdere qualcosa
per ottenere quello a cui aspirava. Altair perse la sua famiglia, i
suoi amici,
la sua intera vita per proteggere la Fratellanza e trasformarla in quel
che è
adesso. Dante patì l’esilio, e venne ucciso mentre
cercava di tenere il Codice
di Altair al sicuro. Il tuo antenato Domenico vide sua moglie violent… torturata e
uccisa, e dovette fare il Codice a
pezzi per impedire che cadesse in mani Templari. Il tuo stesso nonno,
quello
che si chiamava Giovanni come me, venne arrestato con una falsa accusa
e
impiccato, e con lui i tuoi zii, uno dei quali aveva a malapena un anno
più di
quanto hai tu adesso,” Giovanni camminò avanti e
indietro, spostando il suo
sguardo da Marcello ai suoi piedi. Marcello lo aveva visto molte volte
arrabbiato, molte volte preoccupato, ma non riusciva a ricordare di
averlo mai
visto così afflitto. “Tuo padre
rinunciò a una vita normale, alla sua famiglia,
alla sua felicità, e non credo si fosse mai sentito
veramente al sicuro, anche
dopo aver lasciato la sua carica. Ma tutto quello che hanno fatto ha
reso la
Fratellanza forte. È stata quella
la
loro vittoria. Questo posto, me, te, tua madre e tua sorella, Cosimo,
Alessio…
tutte le persone in questa città, e a Firenze e
Venezia.” Giovanni si fermò e
riprese fiato. “Una vittoria per cui darei senza indugio il
mio sudore, il mio
sangue, persino la mia mano destra o la mia vita… ma non la tua. La guerra sta peggiorando.
Non voglio metterti in
pericolo, Marcello. Resta qui. Allenati. Diventa grande,”
fece un sogghigno. “…
e magari anche più alto di me, probabilmente lo
sarai.”
Nonostante
Giovanni stesse
sorridendo, Marcello poteva sentire il tremito nella sua voce. E non
corrispondeva affatto al suo sorriso.
“Devi
davvero farlo, Giovanni? Da
solo?” Marcello si morse il labbro. Era davvero tanto
pericoloso che persino
dietro le retrovie, con Pietro, lui non sarebbe potuto essere al
sicuro? “Non…
non è giusto.”
“La
vita non lo è mai,” il suo
maestro scosse la testa e gli mise una mano sulla spalla.
“Ma… Marcello, non
disperare. Potrebbe volerci meno di quanto pensi. E poi, se fermiamo Frundsberg e i suoi
lanzichenecchi, fermeremo anche la
guerra.”
“E
quindi…?” Marcello aveva un’idea
di quello che poteva significare la fine della guerra. Niente guerra,
niente
esercito.
“Sì,
vorrebbe dire che continueremmo
l’addestramento qui a Roma. O, se Francesco è
d’accordo e vuole unirsi a noi,
magari a Firenze o a Fiesole. O anche alla mia villa, se ti piace
arrampicarti c’è
una bella torretta,” Giovanni annuì.
C’era un accenno di speranza nella sua
voce, ma suonava ancora come se stesse lottando per non piangere.
“Solo… tu ora
devi restare qui. È questo il compito che ti sto dando.
Resta qui e allenati, e
la prossima volta che ti vedo, mi aspetto che tu mi bat…
non importa, non mi aspetto un bel niente. Fai solo del tuo meglio.
E…” accennò
a un sorriso. “… tieni d’occhio Cosimo
per me. Ha parecchio da imparare su
questo mondo. Fa’ in modo che non diventi un imbecille come
suo padre.”
Accompagnò l’ultima frase con una risatina.
Marcello
cercò di sorridere, se non
altro per far sentire meglio il suo insegnante. La decisione sembrava
fargli
male quanto ne faceva a lui. Anche lui doveva essere forte, se Giovanni
poteva
decidere qualcosa di così importante. E il suo maestro non
era un imbecille, se
poteva decidere ciò che era meglio per tutti.
“Tu
non sei un imbecille,” Marcello
abbracciò Giovanni. “Sei un eroe. Sei il mio
maestro. Sei mio Fratello.”
“Ho
solo fatto il mio dovere,
fratellino,” Giovanni diede una pacca sulla spalla a
Marcello. “E avrei potuto
fare di meglio. Non avrebbero mai mandato Pietro, se si fossero fidati
di me. E
ho paura che avessero ragione, un esercito non è posto per
tirar su un
ragazzo.”
“Zia
Claudia ti ha sgridato di
nuovo?”
Giovanni
tirò un sospiro. “No. Ma
questa fottuta guerra non fa che peggiorare,” disse.
“E il tuo posto non sarà
sempre con l’esercito. Perché pensi che io abbia
mandato via Cecchino?”
“Il
fratello di Benvenuto? Ma non si
era preso quella malattia alla pelle?” chiese Marcello.
“Malattia?
No, sono solo nervi,”
Giovanni scosse la testa. “Gli succede solo quando io sono
vicino e lo sto
sgridando. La scabbia era un pretesto. Quell’uomo
potrà anche ritenersi un
soldato, ma può fare molto meglio. Il suo posto è
in un consiglio di guerra, di
pattuglia nelle città… o come
caposquadra,” sorrise. “E sarà anche il
tuo.
Siete entrambi ragazzi con le giuste conoscenze, sareste uno spreco in
mezzo ai
soldati.”
Aprì
di nuovo la porta e mise un
piede all’interno, poi iniziò a scendere le scale.
“Un’ultima
cosa, Marcello,” disse
mentre raggiungevano il fondo della scalinata.
“Un’ultima lezione prima che io
vada via. È sempre meglio agire, qualsiasi cosa voglia dire
agire, che
nascondersi. Meglio prendere una posizione e fallire, che non prenderla
e
passare il resto della tua vita a rimpiangerla.”
“Sembra
stupido, Giovanni,” ribatté
Marcello. “Non è così che ti sei messo
nei guai?”
“Ho
fatto la cosa sbagliata, lo so.
Ma prendere una posizione avrebbe anche potuto voler dire informare
Francesco,
Massimo e Claudia, e chiedere aiuto a loro,” Giovanni
camminò verso la porta
principale e la aprì per lasciare il Quartier Generale.
“Peccato che io sia
stato davvero uno stupido.”
Il suo maestro
stava davvero andando
via. Marcello tirò un sospiro, strinse i pugni e trattenne
le lacrime. Non
importava quel che Giovanni aveva detto, quello che si erano
detti… dirgli
addio gli sembrava comunque sbagliato. Cosa sarebbe successo? Giovanni
sarebbe
tornato?
Marcello sperava
di sì. Ma per il
momento, non poteva dire altro se non…
“A
presto, Giovanni.”
“Ci
vediamo, pulcino.”
Avremmo
soltanto saputo quell’inverno che Giovanni aveva cercato di
tagliare tutti i ponti con la Fratellanza, per cercare di impedire che
le
notizie dei suoi spostamenti raggiungessero orecchie indiscrete. Che
aveva
lasciato una lettera ad Enrico, chiedendogli di addestrare Cosimo nel
caso lui
non fosse più tornato.
L’anno
che Marcello aveva passato con Giovanni aveva cambiato anche il
capitano, esattamente quanto lui aveva cambiato il mio fratellino.
Dopo
più di dieci anni, però, ancora non sappiamo se
Giovanni lasciò
Marcello con quell’ultima lezione per puro dovere, o se
davvero si sentisse di
lasciarlo perché pensava che fosse la cosa giusta.
Probabilmente non lo sapremo
mai.
Ma
voglio pensare che volesse fare la cosa giusta.