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Autore: SweetOblivion    16/02/2009    1 recensioni
Ci fu un tempo in cui tutti gli angeli –bianche ali di piume- ridevano e cantavano accanto a Dio. C’era un tempo in cui angeli malvagi bruciavano colpevoli tra le fiamme dell’inferno. C’è un tempo in cui angeli dalle ali di carbone scontano una pena che non hanno ancora commesso.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era notte fonda. Una notte buia, cupa e silenziosa. Tutto taceva, avvolto nell’attesa di qualcosa che non sarebbe mai giunto.
La radura sembrava deserta, così come il cielo che ne copriva le torbide forme.
Non poteva distinguerne i colori, ma la immaginava fredda e triste, un deserto di rovi grigi e cespugli secchi. Non ricordava perchè fosse giunta laggiù. A dir la verità, non ce ne era mai stato motivo. Era come se quel posto l’attraesse, la calamitasse, per un motivo a lei sconosciuto. Proseguì il suo cammino involontariamente, come un burattino manovrato da mani esperte.
Finalmente, la vide: in fondo, stagliata contro l’orizzonte, come un vecchio mausoleo. Sembrava un grattacielo, ma non riusciva a distinguerne perfettamente le sagome offuscate dal buio pesto; fu solo nel momento in cui giunse ai suoi piedi che capì di cosa si trattasse. Era una torre. Una torre altissima, quasi infinita.
Alzò lo sguardo, ma non riuscì a scorgerne la sommità, come se il cielo l’avesse mangiata, masticata e ingoiata.
Era composta da mattoni grigi tutti uguali, senza finestre. Capì di essere quasi giunta a destinazione, una meta di cui non conosceva la natura.
Il portone era ad arco, di legno scuro e pesante, la serratura in argento. Era socchiuso. Si avvicinò, lasciandosi trasportare docile dai fili invisibili. Quel luogo, nella sua misteriosa sacralità, le aveva prosciugato tutte le energie.
Scostò il portone quel tanto che le serviva per entrare. Non cigolò. Si trovava in una sala circolare particolarmente angusta, di circa un metro di diametro. Le pareti, un tempo probabilmente bianche, erano ora ricoperte di un sottile strato di polvere e muffa. Di fronte a lei, il primo gradino di una scoscesa sala a chiocciola, che saliva verso l’infinito.
Sarebbe stata ingoiata anche lei dalle nuvole scure che avrebbe trovato lassù?

Era il duecentosettanduesimo gradino che saliva. O il trecentoduesimo? Non lo sapeva con esattezza, aveva smesso di contare al centosettantottesimo, ma era sicurissima di aver passato i duecentocinquanta.
Il dubbio si sarebbe insinuato nella mente di chiunque. E se fosse stata tutta una magia? Una stupida presa in giro? Ma nella sua mente non transitò nulla. Era come in trance, conscia di camminare, ma non per sua volontà. Eppure, non poteva fare a meno di salire gli infiniti scalini.
Più saliva, più si sentiva attratta.
Finalmente l’ultimo gradino, e si trovò di fronte un’altra porta, simile alla prima ma più piccola. Anche questa era leggermente accostata. Anche questa volta, la scostò solo leggermente e varcò la soglia.
Come una doccia fredda, si svegliò dal torpore. Si guardò intorno confusa, come se si fosse assentata dal mondo per un’ora e fosse tornata improvvisamente, in un luogo diverso da quello in cui avrebbe dovuto trovarsi.
La sala era grande poco più dell’ingresso, anch’essa circolare e dalle pareti ammuffite dal tempo. Al contrario però, quella stanza era del tutto aperta. Comunicava a trecentosessanta gradi con il cielo nero attraverso una balconata di legno chiaro, antica ed elegante.
Una brezza leggera, marina, pervadeva l’ambiente, scompigliandole piano i lunghi capelli neri. Non era sola. Di fronte a lei, accasciata sulla balconata, una figura scomposta.
Non poteva vederne il volto, ma lo avrebbe potuto disegnare su di una tela bianca, immaginandone i lineamenti. Occhi scuri, stanchi e spenti che scrutavano il cielo, in cerca di qualcosa, della luna, forse di una risposta. Le palpebre sottili, violacee, quasi del tutto stancamente socchiuse e la carnagione bianca, come la cera di una candela spenta. Un sorriso storto, stentato, una beffa alla sorte che lo stava schiacciando. E i capelli, lunghi, disordinati, sparpagliati sul volto dalla brezza fresca che non riusciva a consolarlo.
Non ci volle molto perchè capisse la sua identità. Si trovava di fronte alla persona che più stimava e temeva al mondo. La persona che desiderava conoscere da sempre che, forse, desiderava addirittura essere. Era lì, a pochi passi da lei, ma sembrava così irraggiungibile. Sembrava non si fosse nemmeno accorto della sua presenza, troppo preso a reggere sulle spalle il peso del mondo.
La ragazza arretrò, quel tanto che le era concesso prima di cadere giù dalle scale, le mani tremanti di attesa e desiderio.
Perchè lui era lì? Era un caso che si fossero in contrati proprio in quel luogo così misterioso? Non riusciva a darsi risposte, così, decise di mettere a tacere il cervello. Si voltò verso l’altro tratto di balconata, dando per un attimo le spalle alla statua di cera del tutto immobile e impassibile.
Il mondo intero era ai suoi piedi. Poteva vedere uno sconfinato cielo blu scuro, quasi nero, un’enorme tavola di seta senza macchie. Scorgeva quasi a fatica la terra, un ammasso quasi altrettanto scuro, parecchi kilometri più in basso. Chissà quant’era alta, allora, quella torre..
Una nube si scostò premurosa e finalmente comparve la luna. Era bellissima, come lei non l’aveva mai ammirata. La regina della notte splendeva spavalda, di un rosso rubino, un rosso di sangue e apocalisse. Il suo passaggio illuminò la sommità della torre, inondandola di una tenue luce rossastra. Le iridi carbone della ragazza assorbirono i placidi raggi lunari mentre il suo sguardo si perdeva nel sogno che quella visione le aveva promesso.
-Sei arrivata, infine.-
La voce apatica, profonda e antica, la fece sobbalzare e voltare nello stesso istante. La figura accasciata, sogno e maledizione, ora si era rialzata e si era voltata verso di lei. La carnagione del viso era poco più che bianca, ma rifletteva un alone di diamanti dipinti di rosso, schegge di polvere e aria che incorniciavano il suo viso. I capelli erano ora ordinati, neri come il catrame e gli occhi, dello stesso colore, brillanti di una luce nuova. Speranza, vendetta.
La figura si ergeva di nuovo, mostrando al mondo la sua grandezza, la sua maestosità e il terrore che emanava il suo respiro tiepido.
Aion, il figlio di Satana, il capo degli angeli caduti, era rinato su quella balconata, inondato di sangue e rubini salmastri.
La ragazza era disorientata. Era lei allora che aspettava? Era lui che poche ore prima manovrava gli invisibili fili della sua mente inerme?
Le labbra si schiusero boccheggiando come un pesciolino fuori dall’acqua, ma la voce rimase intrappolata nella gola, in un nodo di dubbi e domande che la attanagliava.
Rimase immobile, inerme senza poter dire né fare nulla, come se il suo cervello si fosse momentaneamente disconnesso.
-Alba-
La voce del figlio di Satana, ancor più profonda e intrisa di mistero di prima, parlò di nuovo.
Per un attimo non respirò. Poi, si ricordò come si faceva e lentamente prese un lungo sorso d’aria fredda. Come poteva sapere il suo nome? Lo guardò e per un attimo i loro occhi si incrociarono e fu come una scarica elettrica.
Gli occhi di Alba erano spalancati, così come le sue labbra rosse e carnose. Non sapeva se dover essere spaventata o affascinata. Altre mille domande si insinuarono nella sua mente, ma questa volta non riuscì a mettere a tacere il cervello. Lui sapeva il suo nome. Lui l’aveva voluta proprio lì in quel momento e lei non aveva la minima idea di cosa tutto ciò significasse, ma aveva una maledetta voglia di scoprirlo.
Un vento freddo sferzò all’improvviso. Era come acqua gelida sul viso in inverno, come una sveglia troppo presto la mattina. Lì investì in pieno, ma senza muoverli di un passo. Alba chiuse gli occhi, assaporando la sensazione dei capelli al vento e del freddo sul viso, come volando. Quando lì riaprì, riuscì a vedere solo un turbinio di polvere di stelle dorata.
Aion era sparito, il vuoto della sua presenza pesava gravemente sulla balconata, che era ora leggermente inclinata, come se si sforzasse inutilmente di ancorare in quella piccola stanza il respiro dell’angelo nero.
Qualcosa tintinnò, cadendo sul pavimento polveroso.

  
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