Era notte
fonda. Una notte buia,
cupa e silenziosa. Tutto taceva, avvolto nell’attesa di
qualcosa che non
sarebbe mai giunto.
La radura sembrava deserta, così come il cielo che ne
copriva le torbide forme.
Non poteva distinguerne i colori, ma la immaginava fredda e triste, un
deserto
di rovi grigi e cespugli secchi. Non ricordava perchè fosse
giunta laggiù. A
dir la verità, non ce ne era mai stato motivo. Era come se
quel posto l’attraesse,
la calamitasse, per un motivo a lei sconosciuto. Proseguì il
suo cammino
involontariamente, come un burattino manovrato da mani esperte.
Finalmente, la vide: in fondo, stagliata contro l’orizzonte,
come un vecchio
mausoleo. Sembrava un grattacielo, ma non riusciva a distinguerne
perfettamente
le sagome offuscate dal buio pesto; fu solo nel momento in cui giunse
ai suoi
piedi che capì di cosa si trattasse. Era una torre. Una
torre altissima, quasi
infinita.
Alzò lo sguardo, ma non riuscì a scorgerne la
sommità, come se il cielo
l’avesse mangiata, masticata e ingoiata.
Era composta da mattoni grigi tutti uguali, senza finestre.
Capì di essere
quasi giunta a destinazione, una meta di cui non conosceva la natura.
Il portone era ad arco, di legno scuro e pesante, la serratura in
argento. Era
socchiuso. Si avvicinò, lasciandosi trasportare docile dai
fili invisibili.
Quel luogo, nella sua misteriosa sacralità, le aveva
prosciugato tutte le
energie.
Scostò il portone quel tanto che le serviva per entrare. Non
cigolò. Si trovava
in una sala circolare particolarmente angusta, di circa un metro di
diametro.
Le pareti, un tempo probabilmente bianche, erano ora ricoperte di un
sottile
strato di polvere e muffa. Di fronte a lei, il primo gradino di una
scoscesa sala
a chiocciola, che saliva verso l’infinito.
Sarebbe stata ingoiata anche lei dalle nuvole scure che avrebbe trovato
lassù?
Era il duecentosettanduesimo gradino che saliva. O il trecentoduesimo?
Non lo
sapeva con esattezza, aveva smesso di contare al centosettantottesimo,
ma era
sicurissima di aver passato i duecentocinquanta.
Il dubbio si sarebbe insinuato nella mente di chiunque. E se fosse
stata tutta
una magia? Una stupida presa in giro? Ma nella sua mente non
transitò nulla.
Era come in trance, conscia di camminare, ma non per sua
volontà. Eppure, non
poteva fare a meno di salire gli infiniti scalini.
Più saliva, più si sentiva attratta.
Finalmente l’ultimo gradino, e si trovò di fronte
un’altra porta, simile alla
prima ma più piccola. Anche questa era leggermente
accostata. Anche questa
volta, la scostò solo leggermente e varcò la
soglia.
Come una doccia fredda, si svegliò dal torpore. Si
guardò intorno confusa, come
se si fosse assentata dal mondo per un’ora e fosse tornata
improvvisamente, in
un luogo diverso da quello in cui avrebbe dovuto trovarsi.
La sala era grande poco più dell’ingresso,
anch’essa circolare e dalle pareti
ammuffite dal tempo. Al contrario però, quella stanza era
del tutto aperta.
Comunicava a trecentosessanta gradi con il cielo nero attraverso una
balconata
di legno chiaro, antica ed elegante.
Una brezza leggera, marina, pervadeva l’ambiente,
scompigliandole piano i
lunghi capelli neri. Non era sola. Di fronte a lei, accasciata sulla
balconata,
una figura scomposta.
Non poteva vederne il volto, ma lo
avrebbe potuto disegnare su di una tela bianca, immaginandone i
lineamenti.
Occhi scuri, stanchi e spenti che scrutavano il cielo, in cerca di
qualcosa,
della luna, forse di una risposta. Le palpebre sottili, violacee, quasi
del tutto
stancamente socchiuse e la carnagione bianca, come la cera di una
candela
spenta. Un sorriso storto, stentato, una beffa alla sorte che lo stava
schiacciando. E i capelli, lunghi, disordinati, sparpagliati sul volto
dalla
brezza fresca che non riusciva a consolarlo.
Non ci volle molto perchè capisse
la sua identità. Si trovava di fronte alla persona che
più stimava e temeva al
mondo. La persona che desiderava conoscere da sempre che, forse,
desiderava
addirittura essere. Era lì, a pochi passi da lei, ma
sembrava così
irraggiungibile. Sembrava non si fosse nemmeno accorto della sua
presenza,
troppo preso a reggere sulle spalle il peso del mondo.
La ragazza arretrò, quel tanto che
le era concesso prima di cadere giù dalle scale, le mani
tremanti di attesa e
desiderio.
Perchè lui era lì? Era un caso che
si fossero in contrati proprio in quel luogo così
misterioso? Non riusciva a
darsi risposte, così, decise di mettere a tacere il
cervello. Si voltò verso
l’altro tratto di balconata, dando per un attimo le spalle
alla statua di cera
del tutto immobile e impassibile.
Il mondo intero era ai suoi piedi.
Poteva vedere uno sconfinato cielo blu scuro, quasi nero,
un’enorme tavola di
seta senza macchie. Scorgeva quasi a fatica la terra, un ammasso quasi
altrettanto scuro, parecchi kilometri più in basso.
Chissà quant’era alta,
allora, quella torre..
Una nube si scostò premurosa e
finalmente comparve la luna. Era bellissima, come lei non
l’aveva mai ammirata.
La regina della notte splendeva spavalda, di un rosso rubino, un rosso
di
sangue e apocalisse. Il suo passaggio illuminò la
sommità della torre,
inondandola di una tenue luce rossastra. Le iridi carbone della ragazza
assorbirono i placidi raggi lunari mentre il suo sguardo si perdeva nel
sogno
che quella visione le aveva promesso.
-Sei arrivata, infine.-
La voce apatica, profonda e antica,
la fece sobbalzare e voltare nello stesso istante. La figura
accasciata, sogno
e maledizione, ora si era rialzata e si era voltata verso di lei. La
carnagione
del viso era poco più che bianca, ma rifletteva un alone di
diamanti dipinti di
rosso, schegge di polvere e aria che incorniciavano il suo viso. I
capelli
erano ora ordinati, neri come il catrame e gli occhi, dello stesso
colore,
brillanti di una luce nuova. Speranza, vendetta.
La figura si ergeva di nuovo,
mostrando al mondo la sua grandezza, la sua maestosità e il
terrore che emanava
il suo respiro tiepido.
Aion, il figlio di Satana, il capo
degli angeli caduti, era rinato su quella balconata, inondato di sangue
e
rubini salmastri.
La ragazza era disorientata. Era
lei allora che aspettava? Era lui che poche ore prima manovrava gli
invisibili
fili della sua mente inerme?
Le labbra si schiusero
boccheggiando come un pesciolino fuori dall’acqua, ma la voce
rimase
intrappolata nella gola, in un nodo di dubbi e domande che la
attanagliava.
Rimase immobile, inerme senza poter
dire né fare nulla, come se il suo cervello si fosse
momentaneamente
disconnesso.
-Alba-
La voce del figlio di Satana, ancor
più profonda e intrisa di mistero di prima, parlò
di nuovo.
Per un attimo non respirò. Poi, si ricordò come
si faceva e lentamente prese un
lungo sorso d’aria fredda. Come poteva sapere il suo nome? Lo
guardò e per un
attimo i loro occhi si incrociarono e fu come una scarica elettrica.
Gli occhi di Alba erano spalancati,
così come le sue labbra rosse e carnose. Non sapeva se dover
essere spaventata
o affascinata. Altre mille domande si insinuarono nella sua mente, ma
questa
volta non riuscì a mettere a tacere il cervello. Lui sapeva
il suo nome. Lui
l’aveva voluta proprio lì in quel momento e lei
non aveva la minima idea di
cosa tutto ciò significasse, ma aveva una maledetta voglia
di scoprirlo.
Un vento freddo sferzò
all’improvviso. Era come acqua gelida sul viso in inverno,
come una sveglia
troppo presto la mattina. Lì investì in pieno, ma
senza muoverli di un passo.
Alba chiuse gli occhi, assaporando la sensazione dei capelli al vento e
del
freddo sul viso, come volando. Quando lì riaprì,
riuscì a vedere solo un
turbinio di polvere di stelle dorata.
Aion era sparito, il vuoto della
sua presenza pesava gravemente sulla balconata, che era ora leggermente
inclinata, come se si sforzasse inutilmente di ancorare in quella
piccola
stanza il respiro dell’angelo nero.
Qualcosa tintinnò, cadendo sul
pavimento polveroso.