“In autumn, don't go to jewelers to see gold; go to the parks!”
- Mehmet Murat ildan
Quella mattina di fine ottobre sembrava
proprio che il sole avesse finalmente deciso di graziare i londinesi
con la sua presenza. Per due lunghissime settimane infatti la
capitale britannica era rimasta avvolta nel grigiore fumoso e
spettrale della nebbia autunnale, come se la mano invisibile di un
pittore avesse tinto ogni cosa di bianco, nero e grigio, escludendo
dalla sua tavolozza qualunque altro colore.
Ma quel giorno, Londra si era svegliata
sotto un luminoso, e quasi surreale, cielo turchese, al centro del
quale troneggiava un sole glorioso e fulgido.
Pareva che l'intera città si fosse
destata dall'atmosfera sonnacchiosa in cui era stata gettata negli
ultimi giorni, e perfino i pendolari della City, sempre di corsa e
irriducibilmente armati di ventiquattrore e smartphone, spendevano
qualche secondo del loro prezioso tempo ad ammirare quello spettacolo
offerto gratuitamente dalla natura prima di scendere i gradini che
portavano alla metropolitana, come se temessero che tutto ciò
potesse svanire se avessero distolto lo sguardo anche solo per un
attimo.
I vasti viali di Regent's Park parevano
lastricati d'oro. Il folto e morbido tappeto di foglie che ricopriva
l'asfalto formava una trama intricata che abbracciava tutte le
sfumature immaginabili del rosso, dell'arancione e del giallo, e il
chiarore di quella lucente giornata d'autunno faceva risplendere
ognuna di esse come rubini e topazi suscitando la gioia e lo stupore
di quanti avevano deciso di concedersi una passeggiata all'aria
aperta.
Ma, come ci si sarebbe potuti
aspettare, l'incanto e la bellezza di quel fiabesco paesaggio non
sortivano il benché minimo effetto sulla mente fredda, razionale e
calcolatrice di Sherlock Holmes.
Egli, anzi, si trascinava
svogliatamente lungo i vialoni del parco, le mani affondate nelle
tasche del cappotto, sbuffando di tanto in tanto e studiando
distrattamente le persone intorno a lui, in cerca di qualcosa che
potesse suscitare almeno una piccola scintilla del suo interesse.
Se fosse dipeso da lui, se ne sarebbe
rimasto all'appartamento di Baker Street, magari a portare a termine
l'esperimento chimico al quale stava lavorando da diversi giorni. Era
stato John a trascinarlo fuori di casa, insistendo che uscire un po'
gli avrebbe fatto bene ed esortandolo a godersi qualche raggio di
sole, dato che, ultimamente, era più pallido del solito.
- Hai un disperato bisogno di
vitamina D, Sherlock. Ordine del dottore! -
Era stato
irremovibile, e così il famoso consulente investigativo si era
ritrovato, come un comune mortale, a ciondolare senza meta in uno dei
parchi più belli e prestigiosi di Londra, paradossalmente, senza
curarsi affatto del meraviglioso spettacolo che lo circondava.
Dopo l'ennesimo
sospiro annoiato, il detective volse lo sguardo verso John, che
camminava al suo fianco con passo insolitamente rilassato e si
guardava intorno senza fretta.
L'espressione del
suo viso era serena e distesa. Ben poche volte Sherlock Holmes aveva
visto il suo amico così tranquillo.
La tensione dei
muscoli, temprati dalla guerra e sempre pronti a scattare come si
conviene ad un buon soldato, la rigidità dei lineamenti, le
onnipresenti rughe di preoccupazione tra le sopracciglia chiare e
intorno alle labbra erano diventati quasi una costante dell'aspetto
di John Watson, e Sherlock si stupì di quanto l'assenza di quei
tratti trasfigurasse il volto del coinquilino e lo facesse sembrare
più giovane e spensierato.
Perfino i dorati
raggi di sole che lambivano i suoi capelli biondi e illuminavano il
suo incarnato contribuivano a questa impressione.
Dopo qualche
secondo, il medico si accorse dello sguardo del moro piantato su di
lui e si voltò con aria interrogativa.
- Che ti prende,
Sherlock? C'è qualcosa che non va? -
Il detective si
riscosse. Non si era nemmeno reso conto di aver raggiunto un tale
livello di astrazione e profondità mentre osservava il suo amico
passeggiare accanto a lui.
Alzò le spalle e
finse una certa indifferenza. - Niente. -
- Ok. Bene. -
John riprese a
camminare. I suoi passi producevano un leggero fruscio su quel
fiammeggiante sentiero di foglie.
- Sembravi molto
assorto. - commentò Sherlock, incapace di trattenersi ma cercando di
non suonare troppo interessato alla cosa.
- Come, scusa? -
John sembrò molto sorpreso da quella considerazione e si fermò di
nuovo per fissare l'amico nei suoi occhi di ghiaccio, in netto
contrasto con lo scenario tinto di fuoco e fiamme che li circondava.
Il moro volse lo
sguardo altrove e si schiarì la voce. - Be', ti guardavi in giro
come se non avessi mai visto un albero o delle foglie cadute. - cercò
di assumere un tono canzonatorio ma non fu sicuro del risultato.
John non ribatté;
sembrò, anzi, soppesare la risposta e lasciò vagare lo sguardo
sull'intero paesaggio, come se sperasse di trovare le parole giuste
tra i rami, ormai per gran parte spogli e protesi fino ad
intrecciarsi gli uni con gli altri, o dietro una delle panchine, in
stile squisitamente inglese, del parco.
- Mi piace
l'autunno. - disse infine, semplicemente. - Mi è sempre piaciuto,
fin da piccolo. È il periodo dell'anno che preferisco. -
Sherlock rimase in
silenzio, stranamente indeciso su cosa replicare. Era la prima volta
che il medico gli confidava spontaneamente qualcosa di così semplice
e, allo stesso tempo, così intimo e personale.
Di solito, il
detective utilizzava le sue spiccate capacità deduttive per ottenere
le informazioni che voleva, ma, in quell'occasione, John gli aveva
candidamente rivelato un piccolo dettaglio di sé. Si trattava di
un'inezia, eppure quella confessione genuina e tanto modesta da
risultare quasi infantile era riuscita ad azzittire il grande
Sherlock Holmes.
- Oh, avanti. - il
biondo, che aveva interpretato come segno di scetticismo il
prolungato silenzio dell'altro, allargò le braccia ad indicare
l'intero luogo, - Non dirmi che tutto questo ti lascia indifferente!
Questi colori, questa luce... -
A quel punto, il
detective ritrovò il suo piglio ironico e fece un sorrisetto
beffardo. - Abbiamo una mente contemplativa, eh, Dottor Watson? -
L'altro alzò le
spalle. - Che c'è di male? -
La risposta giunse
pronta, nel tono pacato e paziente che gli adulti usano quando un
bambino è particolarmente lento ad afferrare un concetto
semplicissimo. - C'è di male, John, che questi dettagli frivoli e
superflui influenzano le emozioni e distorcono il giudizio,
rendendolo, di fatto, inutile e fuorviante. La contemplazione delle
bellezze della natura va bene per gli artisti, i poeti o i filosofi,
ma, nel nostro campo, non possiamo permetterci il lusso di perderci
in simili stupidaggini romantiche. -
A quelle parole,
John sospirò e scosse la testa. - Perché perdo tempo a discutere di
queste cose con te? -
A giudicare dal
sottile velo di amarezza che traspariva dalla sua voce, non pareva
arrabbiato, semmai rassegnato e forse anche un po' deluso.
Senza aggiungere
altro, riprese a passeggiare, ma Sherlock non si mosse, osservando la
figura del dottore allontanarsi lentamente lungo il viale del parco e
farsi sempre più piccola nel turbinio di foglie che danzavano
leggiadre al braccio del vento.
Aveva appena
denigrato l'osservazione il cui scopo fosse unicamente il piacere che
ne derivava invece della ricerca di dati scientifici e oggettivi, ma
non poteva negare che, solo qualche minuto prima, egli stesso avesse
provato un curioso senso di calore e appagamento mentre contemplava
il viso quieto di John Watson in quell'aurea mattina d'autunno.
Da Stria93: Hola
Sherlockians! :)
Personalmente, trovo che l'autunno, oltre ad essere la mia stagione
preferita, sia anche una fonte enorme di ispirazione per la
scrittura.
Questa brevissima shot unisce la mia passione per questo periodo
dell'anno a quella per Sherlock e i JohnLock.
Mi è piaciuto molto scriverla e spero davvero che qualcuno possa
trarre altrettanto piacere nel leggerla.
Come sempre, ringrazio immensamente ogni singolo lettore e ancora di
più chi vorrà farmi un regalo grandissimo e lasciarmi il proprio
parere. ;)
Baci!