XIII
Aveva avuto un incubo quella notte, ma non lo ricordava più. Il suono delle campane arrivava flebile alle sue orecchie, mentre apriva gli occhi e lasciava che la luce lo aiutasse a riprendere coscienza. La prima sensazione che riuscì a distinguere, fu la serenità che gli appianava il petto. Respirava e non se ne accorgeva, cominciando a distinguere il contorno della finestra della cucina di Marina. A giudicare dal numero di rintocchi, doveva essere tardi e lui non si era presentato al lavoro.
C’era il sole fuori.
Si ricordò che non era la prima volta che dormiva su quel divano e che solo lì riusciva a svegliarsi riposato. I muscoli cominciavano a sciogliersi mentre cercava di tirarsi su, controllando lo stordimento provocato dalla ferita. Un flash dell’incidente gli ricordò di essere vivo per miracolo. Aveva ruzzolato per parecchi metri, fino a sbattere al muro di un palazzo. Quel bastardo aveva sgommato e l’aveva lasciato lì.
Si portò la mano buona alla testa, percependo il bendaggio di Marina intrufolarsi tra i suoi capelli: doveva avere un aspetto orribile. Si alzò e guardò l’orario sul campanile: erano le 12:30 del martedì prima di Natale e le strade erano completamente innevate.
Quando si voltò, chiamandola, vide un biglietto sul tavolo. Riconobbe immediatamente la sua scrittura.
“Buongiorno Edward!
Se vuoi fare colazione, c’è il latte in frigo e the e cereali nel mobiletto sopra il lavello.
Ho chiamato all’ufficio comunale e li ho informati del tuo incidente, ti hanno dato due giorni di riposo.
Io torno nel pomeriggio, intanto fa come a casa tua. Riposati.
Marina”
Due giorni di riposo. Sperò che fossero pagati.
Quando entrò nel bagno e vide il suo riflesso allo specchio, lo sguardo turbato di Marina gli tornò alla mente. Si portò una mano al petto, alla ricerca del suo livido, ma sentì solo la lana pettinata di quel vecchio maglione verde.
Che vergogna – si disse, mentre spettinava ulteriormente i ciuffi rossi che fuoriuscivano dalle bende. Ancora si chiedeva come non fosse scoppiato a piangere mentre lei gli carezzava il viso. Il ricordo nebuloso delle sue dita gli strinse la gola.
Rimase sorpreso di se stesso, mentre analizzava quel sentore di emozione, ma il gorgoglìo del suo stomaco prese il sopravvento sulla sua improvvisa tachicardia, così – senza fare troppi complimenti – andò a fare colazione.
Un eroe non può combattere a stomaco vuoto, giusto?
La sua doppia porzione di cereali lo aveva del tutto svegliato. Come d’abitudine, rimise in ordine e lavò le tazze sporche e poi si ritrovò senza niente da fare.
Il pensiero di Ben e del suo inevitabile ritorno a casa, cominciava a preoccuparlo. L’unica cosa che poteva fare per salvarsi la pelle, era avvertirlo e girare la frittata a suo favore. Digitò il numero di casa sua sul suo vecchio cellulare e attese una risposta. Lo squillo gli rimbombava nell’orecchio in modo insopportabile.
- Ben. – disse, udendo risposta.
- Dove cazzo sei?
- I-ieri nella bufera – deglutì – m-mi hanno investito. Tranquillo, oggi lavoro.
- Meglio per te, Ed. Se non torni a casa con la paga, resti fuori. Chiaro?
- Lo so. – disse, cercando di controllarsi.
- Vedi di sbrigarti a tornare, Jef deve parlarti.
Sua nonna quel pomeriggio aspettava la sua visita intorno alle 18, forse avrebbe potuto chiederle qualche informazione sulla teca, su Foster e sul testamento di suo nonno.
Chiedendo il cambio turno con il suo collega del bar – passando dal venerdì al lunedì –, poteva gestire i tre lavori e cercare di mettere da parte qualcosa per la sua bici, che ora giaceva sotto la neve, semidistrutta. Si infilò il cappotto e il cappello, prese le chiavi della porta dal tavolino all’ingresso e scese in strada. Il riflesso della neve gli illuminava il viso ancora pallido, mentre scavava con la mano buona.
Ben presto, quel vecchio ferro riemerse e ad una prima occhiata sembrava riparabile, ma non sarebbe costato poco. Se ricordava bene, su quella strada c’era un meccanico.
Ritornato in casa, più leggero di troppe sterline, si lasciò andare sul divano. Era stanco, ma non riusciva a smettere di fremere. Aveva del tempo libero e non riusciva a sfruttarlo al meglio. Il portatile di Marina era poggiato sul tavolo, ma non conosceva la password d’accesso e non si sentiva di scriverle al lavoro solo per quello, anche se – ci avrebbe scommesso – lei sarebbe stata gentile come sempre. Quella notte ne era stata la dimostrazione.
Si passò una mano sul viso, chiudendo gli occhi, senza sapere più gestire i suoi pensieri. In un certo senso, tra le sue preoccupazioni, ora rientrava anche Marina, anche se non sapeva spiegarsi ancora perché. Quando pensava a lei, entrava in un immotivato stato d’agitazione.
L’ozio che aveva tanto desiderato, il riposo che tanto agognava, lo stava catturando lentamente, di minuto in minuto. Si addormentò seduto sul divano, annullando del tutto il mondo circostante. Andava bene così. Dopo la botta che aveva preso alla testa, aveva bisogno di riposo, infatti Marina non lo svegliò una volta rientrata. Lo trovò immobile sul divano giallo, col capo poggiato sullo schienale e il petto che si gonfiava al suo respiro lento. Gli mise una coperta addosso e attese che fossero le 17:00 per svegliarlo.
Aprì gli occhi e se la trovò davanti.
- Ho preparato il the. – disse lei, sussurrando.
- Non c’era bisogno che lavassi i piatti. Hai riposato? Ho visto che hai recuperato la bici.
- Ho riposato. – disse soltanto, stropicciandosi gli occhi.
- Senti Ed – fece lei, prendendo fiato – è da ieri che volevo dirtelo.
- Uhm? – non avrebbe mai indovinato.
- Ho un’informazione che può esserti utile. – e cominciò a tormentarsi i capelli.
- Lo zio di Jody era il segretario dell’avvocato Foster ed ha ancora contatti con lui.
- Davvero?! – disse, avendo cura di non lasciarsi trasportare troppo.
- Jody ha detto che può metterti in contatto con lui, se dovessi averne bisogno.
- Sarebbe fantastico.
- Edward…
- C-cosa? – disse, improvvisamente in imbarazzo.
- Potrei esserti d’aiuto se mi raccontassi il motivo per cui cerchi l’avvocato Foster.
- Marina, i-io non vorrei coinvolgerti. – cominciò, con l’espressione tesa in una smorfia di imbarazzo e preoccupazione. Si rigirò la tazza tra le mani.
- Non sarebbe un problema. – rispose lei. – E poi, ormai, sono coinvolta comunque.
- Scusa se sono insistente, è solo che vorrei aiutarti. – concluse allora lei, guardando il fondo della tazza.
- Ben… - e lei si voltò, forse non aspettandosi che parlasse. - …credo che stia cercando di appropriarsi della casa.
- Come?! – sussurrò quasi a se stessa.
- Mio nonno, prima di morire, lasciò un testamento. – fece mente locale. – nel quale dichiarava che i suoi beni appartenevano soltanto ai suoi parenti diretti. – e la guardò. – Io sono il suo primo parente diretto, dopo mia madre. Non aveva mai sopportato Ben o Jef.
- Ma come-?
- Come siamo arrivati a questo? – disse, senza evitare i suoi occhi. – Due mesi dopo la morte di mio nonno, mia madre ebbe l’incidente e morì. Il giorno dopo, il testamento di mio nonno era sparito nel nulla.
- Non era stato ancora letto? – chiese, esprimendo i suoi dubbi.
- No. Il notaio che lo aveva controfirmato si era ammalato e nessuno sapeva dove fosse conservato se non lui. Quando si è rimesso e gli abbiamo chiesto il testamento, ha detto che non era più al suo posto.
- L’avete cercato?
- Certo. Io, con le mie mani, ho aiutato il notaio ad aprire ogni fascicolo e a svuotare ogni cassetto. Ho cercato in casa, tra i documenti, sotto le mattonelle. Non ho trovato nulla.
- Da allora, Ben smise di lavorare e ho cominciato a mantenere io la famiglia.
- Perché?
- Te l’ho detto. – rifletté lui. – Se non portavo i soldi a casa, mi lasciava fuori e mia nonna sarebbe stata abbandonata a se stessa, se io avessi dovuto pagare un affitto. Così, invece, resto in casa mia, i soldi dell’affitto li uso per mia nonna, mi occupo io di qualsiasi problema, senza dover chiamare alcun idraulico o elettricista. Così, riesco a mantenermi, ma…
- Ma Ben…
- Beve.
Edward rifletteva sulle altre cose che Marina non sapeva: Jef, la droga. Quello non gliel’avrebbe mai confessato.
- Ma se te ne vai, sfuggiresti almeno a lui.
- No. Una volta me ne sono andato, ma lui è venuto a cercarmi. Gli faceva ancora comodo che fossi in casa, altrimenti avrebbe dovuto fare tutto lui.
- Ti va di conoscere mia nonna?
La donna che aveva davanti, elegante come poche, le aveva baciato la guancia con le lacrime agli occhi, dopo aver visto suo nipote conciato in quel modo. L’aveva ringraziata mille volte di averlo aiutato, ma leggeva nei suoi occhi una gratitudine diversa e lei l’aveva capita al volo. Annuì, quando lei le sorrise.
Evangeline mostrava a suo nipote i risultati delle analisi, ma Ed non fu molto felice. I valori alterati da lungo tempo, cominciavano a precipitare. Sua nonna non era più in forma. La guardò, cercando di simulare, ma Marina riusciva a scorgere nei suoi movimenti una preoccupazione quasi paterna.
- Nonna – cominciò a parlare. – devo parlarti di una cosa.
- Chi devo abbattere? – fece quella, col bastone tra le mani.
- Quel maledetto figlio di buona donna. Lo avevo detto a tua madre che non mi piaceva. – disse, guardando altrove. – E così, si è rivolto a Foster&Martins. È uno studio legale antico. Anche tuo nonno se ne servì, in passato.
- Hai presente la tua teca dei documenti, in salotto? – quella annuì. – Ben ha cambiato la serratura ed ora è chiusa a chiave. Credo che dentro ci siano i documenti di tutti gli avvocati che ha ricevuto in questi giorni.
- Hai provato a forzarla? – chiese Marina.
- Non posso. Se cominciassero a sospettare di me…finirebbe male. Perderei l’occasione.
- Tuo nonno aveva un passepartout che usava quando andava al lavoro. Cercalo in cantina, tra i suoi attrezzi.
- E nonna – Evangeline annuì. – So che te l’ho chiesto mille volte, ma non ricordi se il nonno avesse conservato una copia del testamento?
- Il notaio, per legge, deve avere più di una copia dell’originale. Non possono essere sparite tutte.
- Infatti è sparito l’intero fascicolo. – rispose lui.
- Ma deve esserci una copia burocratica. Un magazzino.
Quando furono fuori dall’ospizio, era buio e fioccava. Ogni tanto Ed tossiva e spezzava il silenzio che permeava l’aria durante il ritorno a casa di Marina. Dopo averla riaccompagnata, si sarebbe diretto all’Hawking pub per la sua prima sera di lavoro da cameriere. Avrebbe nascosto la mano livida sotto la manica del maglione. Il cerotto che aveva in fronte era passabile, Pit lo avrebbe perdonato.
- Edward, se dopo il lavoro vuoi venire a dormire da me, non farti problemi. Sei senza bici e casa tua è lontana.
- N-non ti preoccupare. Vado a casa.
- Allora buon lavoro. – disse lei, sul gradino del suo portone.
- Grazie di tutto. – rispose lui, avendola alla propria altezza. – Davvero.
Edward, vedendola così piccola e gentile, si fece di nuovo prendere dalla preoccupazione, ma non riuscì a negare a se stesso il fatto che ormai lei fosse sua amica. Le voleva bene. Voleva il suo sostegno.
Come si saluta un’amica?
- C-ci vediamo domani. – cominciò a dire. – Buonanotte.
- Se hai bisogno, chiamami. – disse lei. – Salutami Pit.
- Lo farò.
- A domani. – aggiunse lui.
Marina rivide in lui un bambino. Sorrise e lo abbracciò di slancio, tenendolo stretto non troppo a lungo. Prima di andar via, piena di vergogna, gli diede un fugace bacio sulla guancia, poi scappò nel portone.
Ed, imbambolato sul posto, cercava di gestire in silenzio il battito del suo cuore.
Angolo autrice:
Salve bella gente!
Mentre pubblico questo capitolo, sto scrivendo l'ultima parte della storia e comincio a sentirmi poco soddisfatta. Sarà che questo esame mi ha fatto perdere un po' il filo del discorso, ma sapete com'è - prima il dovere e poi il piacere.
Spero di non pentirmi di ciò che sto scrivendo.
Anyway, vi ringrazio per le recensioni e perdonatemi se non ho risposto, ma la mia testa era altrove!
Fatemi sapere cosa pensate del capitolo e della storia, mi raccomando. :)
A presto,
S.
! - Un piccolo schizzo che ho realizzato oggi, spero vi piaccia! :)