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Autore: Helena Kanbara    11/10/2015    2 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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Da parachute: Walter […] di anni ne aveva ventidue e possedeva – al contrario mio – una sorella minore di nome Natalie.
 
kaleidoscope
 
 
7.    Infinite dreams
 
«Ma che roba è?».
Sollevai gli occhi stanchi dal mio hamburger, riservando a Stephen un lungo sguardo confuso. Lo vidi che fissava stranito il panino che Stiles gli aveva portato dal drive-through, come se fosse tossico o avariato. Cercai subito spiegazioni da Stiles, proprio come Stephen, voltandomi alla mia sinistra per osservarlo.
«È vegetariano», dichiarò lui con fin troppa enfasi, come se dirlo in quel modo avrebbe fatto cambiare opinione allo sceriffo.
Era venerdì sera e siccome quest’ultimo avrebbe avuto a che fare con l’ennesimo turno di notte, sia io che Stiles avevamo deciso di tenergli compagnia cenando insieme a lui alla centrale di polizia con dell’immancabile cibo-spazzatura. Be’, almeno per noi, osservai, guardando il mio hamburger ipercalorico e sentendomi un tantino in colpa per quello vegetariano che era capitato a Stephen.
«La prossima volta ci mando Harry, al drive-through», osservò proprio lui, disfacendosi del panino che a quanto pareva non aveva più intenzione di mangiare.
Dovetti trattenere una risatina, mentre Stiles invece non perdeva tempo per fulminare sia me che suo padre con lo sguardo. I due continuarono a bisticciare ancora a lungo, ma mi persi gran parte della loro conversazione. Erano passate poco più di ventiquattro ore dalla mia fallimentare videochiamata a casa, eppure la mia mente era ancora quasi completamente focalizzata su quel momento. Non riuscivo a pensare ad altro.
«Non condividerò delle informazioni riservate con un adolescente!», esclamò Stephen ad un tratto, alzando la voce così tanto da risvegliare subito tutta la mia attenzione.
«Sarebbero quelle dietro di te?». Stiles si sporse sulla sedia, cercando di avere una visuale migliore sul tabellone alle spalle dello sceriffo.
Mettendo da parte il mio cestino di patatine fritte, cercai anch’io di buttare un’occhiata alle varie foto che lo riempivano, ma ci capii poco e niente. Erano solo volti sconosciuti e frecce rosse che li collegavano l’uno all’altro. Non avevo idea di cosa potesse significare.
«Non guardate», ordinò lo sceriffo, ed io subito ubbidii – non avevo bisogno di deludere un altro adulto.
Mi finsi concentrata sulle rimanenze del mio hamburger, mentre Stiles continuava a dare del filo da torcere a suo padre. Come tipo sempre.
«Perché non puoi essere come Harriet?», lo sentii mormorare tra i denti, e prima ancora che potessi ritornare a fissare Stephen, sentii gli occhi di Stiles corrermi addosso.
Ma non ricambiai quello sguardo, perché sapevo bene cosa avrei trovato nel fondo delle sue iridi ambrate: tristezza. In quelle ultime ore ero stata così spenta e persa nei miei cupi pensieri da sembrare quasi l’ombra di me stessa, e Stiles non poteva fare a meno di sentirsi impotente di fronte a quella mia reazione. Che mia madre e mia sorella non credessero alla verità che dopo tanti sforzi avevo voluto dire loro insieme a mio padre, era stato per me un duro colpo. E purtroppo, non c’era niente che Stiles potesse fare per migliorare quella situazione.
«Vedo le frecce che indicano le foto», osservò, non appena capì per l’ennesima volta.
Allora lo sceriffo si arrese. «Ho scoperto qualcosa, va bene? Il meccanico e la coppia assassinata avevano qualcosa in comune».
«Tutti e tre?».
Aggrottai le sopracciglia, e la mia espressione confusa si accentuò ancor di più quando Stephen rispose alla domanda del figlio con un cenno d’assenso. Fin troppo strano.
«Lo sai come dico sempre, Stiles. “Uno è un incidente, due è una coincidenza–».
Ricordi non troppo lontani mi scoppiarono in testa all’improvviso. Certo che Stiles lo sapeva: lui stesso mi aveva già recitato quel mantra non tanto tempo prima. Tanto che, prima che Stephen potesse finire di parlare, completai io la formula per lui.
«… tre è uno schema”».
Stephen restò a fissarmi finché Stiles non lo riportò alla realtà, chiedendogli delle spiegazioni necessarie a dissipare la confusione generale. «Il meccanico, il marito e la moglie avevano tutti e tre ventiquattro anni».
«Ma il signor Lahey no», osservò subito Stiles, e al ricordo improvviso di John Lahey misi su un’espressione inorridita.
Per quel poco che l’avevo conosciuto mi aveva dato l’impressione di essere una persona pessima, ma comunque ancora non riuscivo a realizzare completamente che fosse morto. Misi da parte il resto della mia cena, lo stomaco ormai irrimediabilmente chiuso.
«Ciò mi ha portato a pensare che: A) Quell’omicidio non era collegato; o B) L’età era una coincidenza», affermò Stephen, abbandonando poi la scrivania attorno alla quale c’eravamo riuniti per quella strana cena. Frugò velocemente in un cassetto e ritornò con un fascicolo tra le mani che subito porse a Stiles. «Poi ho scoperto questo, che sarebbe C). Sapevi che Isaac Lahey aveva un fratello maggiore di nome Camden?». 
Aveva?, mi chiesi subito, sperando inutilmente che le mie supposizioni fossero sbagliate. Non ebbi il coraggio di controllare il fascicolo io stessa, comunque, lasciando che a comunicarmene il verdetto ci pensasse l’espressione di Stiles. E come avevo di già immaginato, ciò che vidi sul suo viso non mi piacque per niente. Ancor meno di ciò che disse.
«“Morto in combattimento”», lesse in un sussurro, e subito mi sentii un po’ morire anch’io.
«E se fosse vivo, indovina oggi quanti anni avrebbe?», domandò Stephen allora, ed io capii immediatamente dove volesse andare a parare mentre lo guardavo posizionarsi di fronte alla tabella ricolma di foto.
«Ventiquattro», mormorai, mentre Stiles lo raggiungeva.
«Quindi devono essersi diplomati lo stesso anno, ci hai pensato?».
Io c’avevo pensato. E avevo pensato anche ad altro. «Magari andavano a scuola insieme».
Gli occhi azzurri di Stephen subito mi corsero addosso. «Magari alla Beacon Hills High School», tentò, e prima ancora che me ne potessi rendere conto sul serio era riuscito a racimolare tutti i documenti degli archivi datati 2006 – l’anno del diploma dei tre ragazzi assassinati dal kanima.
«Ecco, l’ho trovato!», trillò Stiles all’improvviso, sollevando un fascicolo azzurro prima di prendere ad esaminarlo attentamente. «Studiavano tutti alla Beacon Hills».
«Anche il fratello di Isaac».
«Okay, quindi forse si erano visti a scuola. Ma qual è il legame? Erano amici?».
Stephen sospirò, rimettendosi a sedere con aria all’improvviso esausta. Non doveva essere affatto facile, per lui.
«Forse frequentavano gli stessi corsi. Forse–», si immobilizzò, gli occhi fissi su un pezzo di carta che di nuovo non ebbi il coraggio di analizzare. «–avevano lo stesso insegnante».
«Harris».
Quel nome mi fece di nuovo rabbrividire e inorridire insieme. Ma non ebbi tempo per dire né fare nulla, perché ci pensò subito lo sceriffo a portare avanti quella conversazione.
«Prendi l’annuario del 2006», ordinò a Stiles con aria concitata. «Mi servono tutti i ragazzi del corso di chimica».
Di nuovo capii immediatamente. «Se ci sarà un’altra vittima…», cominciai, ma non ebbi il coraggio di dire ciò che in fondo sapevamo tutti potesse succedere.
Al che ci pensò Stiles a concludere la mia frase. «… sarà uno di loro».
 
Non appena la Jeep si fermò davanti allo studio veterinario del dottor Deaton, misi piede fuori dall’abitacolo e seguii Scott e Stiles nella loro camminata tranquilla verso l’edificio. Era sabato pomeriggio e subito dopo scuola avevamo deciso di andare a far visita al capo di Scott, all’uomo che da sempre aveva dimostrato di saperne molto di più di quanto sembrasse sul mondo del soprannaturale.
«La vostra idea è pessima, lo sapete?», domandai retoricamente all’improvviso, prima che potessimo entrare nella clinica, stanca del silenzio pesante che aveva accompagnato sia me che Scott e Stiles durante tutto il viaggio in macchina.
«Ehi», mi apostrofò subito Stiles, voltandosi a donarmi un’occhiata stizzita. «non è stata una mia idea! E lo so, è un suicidio».
Scott sospirò, facendo scivolare la mano sulla maniglia della porta d’ingresso. «Non cominciate. Dobbiamo andare al rave di domani. Jackson ci sarà, e sicuramente anche colui che lo controlla».
«È proprio questo il problema», sussurrai, pensando con orrore alla festa underground della quale in precedenza già mi aveva parlato Matt Daehler.
Scott non perse occasione per provare a rincuorarmi con uno dei suoi soliti sorrisi. Servì a molto poco, ma apprezzai comunque il gesto.
«Tranquilla, Comandante», proclamò, poco prima di continuare a farci strada verso l’interno della clinica. «Non ci andremo disarmati».
Ed era proprio per quello che eravamo lì, no? In cerca di difese, avevamo deciso di rivolgerci a Deaton, ben sapendo che lui ci avrebbe aiutati – come già aveva fatto un bel po’ di volte.
Lo osservai mentre ci accoglieva nel suo studio, stringendomi le braccia al petto e guardandomi attorno con aria curiosa mentre Deaton scambiava saluti di rito con Scott e Stiles. Quella in cui mi trovavo sarebbe potuta sembrare perfettamente una normalissima clinica veterinaria, eppure dentro di me sapevo che quell’edificio nascondesse molto di più. Proprio come il suo proprietario.
Riportai i miei occhi scuri sulla sua figura, osservandolo mentre porgeva una boccetta di liquido trasparente a Scott.
«Questa rallenterà Jackson. Te ne dovrai occupare tu», gli disse, prima di afferrare un altro contenitore in vetro, quest’ultimo ricolmo di una strana polvere nera. Lo porse a Stiles, con mia grande sorpresa. «Questa invece è per te».
Nemmeno quella volta riuscii a mettere freno alla mia curiosità. «Di che si tratta?».
Al suono improvviso della mia voce, Deaton cercò i miei occhi e mi donò una lunga occhiata confusa. Era la prima volta che c’incontravamo e non erano nemmeno state fatte le dovute presentazioni, ma non c’era tempo per quei convenevoli e il veterinario lo capì subito.
«È polvere di frassino», mi spiegò, facendosi più vicino a me di un passo. «Creerà una barriera che né Jackson né il suo padrone potranno oltrepassare».
«Wow. Sembra una cosa piuttosto stressante. Non potremmo trovare un compito leggermente meno stressante per me?», osservò Stiles all’improvviso, e immediatamente pensai di dirgli che l’avrei fatto io al posto suo, ma me ne rimasi zitta. Sapevo che mai e poi mai mi avrebbe permesso di entrare in azione.
Sia Scott che Deaton gli donarono un’occhiata incredula, al che lui non poté far altro che arrendersi con un sospiro sconfitto.
«D’accordo, cosa devo fare? Spargerla intorno all’edificio e pregare che funzioni?».
Deaton scosse lievemente la testa. «Devi crederci».
A quell’affermazione enigmatica, sentii Stiles trattenere un’imprecazione. Ma non ebbi tempo per rassicurarlo: volevo scoprire cosa Deaton avesse in serbo per me.
«Io che faccio?», gli chiesi quindi, ridonandogli tutta la mia attenzione. «C’è della polverina di fata anche per me?».
Di nuovo sia Scott che Deaton evitarono di rispondere. Il veterinario addirittura si accigliò, con aria vagamente infastidita. Non aveva nessun senso dell’umorismo.
Stiles invece scosse la testa. «La ignori», ordinò a Deaton, liquidando la questione con un cenno veloce. «Lei resterà a casa».
Povero illuso, pensai immediatamente. Ma in realtà la povera illusa ero io. 
 
«Oh, merda. Merda».
Cercai immediatamente gli occhi di Stiles, distogliendo lo sguardo dalla serranda ormai completamente chiusa del garage di casa Stilinski. Solo pochi millesimi di secondo prima c’avevo visto sparire dietro Stephen, immobilizzata da ciò che ci aveva confessato e dall’aria distrutta che aveva. L’avevano licenziato. Aveva perso il suo posto da sceriffo ed era successo tutto a causa di Stiles, sebbene odiassi dover credere ad una cosa simile. Fu proprio il suo sguardo che cercai, salvo pentirmene poi quando lo trovai lucido di lacrime che sapevo non avrebbe liberato. Quella consapevolezza mi strinse il cuore ancor di più.
«Stiles», sussurrai, azzerando la distanza che ci separava per prendergli il viso tra le mani. Volevo che mi guardasse e che capisse che ero lì, accanto a lui, come sempre. «Non–».
«Non dirlo», m’interruppe, lasciandomi interdetta mentre portava le sue mani sulle mie e tentava di allontanarmi da sé. «Certo che è stata colpa mia. Mio padre ha appena perso il lavoro per me, perché sono stato tanto stupido da rubare un veicolo della polizia e beccarmi un’ordinanza restrittiva. Dannato Jackson».
Avrei dovuto dirgli che non era così e provare a farlo stare meglio, ma sapevo che non fosse quella la verità – e già da tempo avevo promesso a Stiles che gli avrei detto sempre nient’altro che quella. Glielo dovevo.
Ecco perché semplicemente me ne rimasi zitta a stringergli il viso tra le mani, ancora vicina a lui che per quanto lo volesse non era riuscito ad allontanarmi.
«Te la senti di andare al rave?», gli chiesi infine, lanciando un’occhiata veloce alla Jeep nei pressi della quale ce ne stavamo ancora immobilizzati.  
Prima che Stephen ci inchiodasse sul posto col peso opprimente delle sue confessioni, eravamo diretti proprio lì, pronti a mettere in atto il piano peggiore nella storia dei piani peggiori. Guardando negli occhi lucidi di Stiles, però, non potei fare a meno di chiedermi se non avesse cambiato idea riguardo all’andare.
Ma: «Devo», concluse lui in un sussurro, ed io non potei far altro che annuire mentre lo lasciavo libero.
«Resto qui», gli dissi, sperando di riuscire a rassicurarlo almeno un po’.
E ci riuscii, perché Stiles mi afferrò all’improvviso una mano con aria estremamente riconoscente.
«Grazie», mormorò forzando un sorriso.
Subito lo ricambiai e anche se non aveva bisogno di ringraziarmi, non glielo dissi. Mi limitai a sfiorargli le labbra con un lento e casto bacio.
«Sta’ attento», lo pregai in un sussurro, prima di raggiungere finalmente Stephen dentro casa.
Almeno per quella sera, il mio posto era lì accanto a lui. 
 
Mi tuffai sul divano con un sonoro tonfo, sistemandomi comodamente vicino a Stephen mentre gli rubavo gommose dal sacchetto che reggeva tra le mani e cercavo di capire cosa diavolo dessero in tv di domenica sera. Continuai a mangiucchiare in silenzio, tutta concentrata nella visione di quello che aveva tutta l’aria di essere un film horror di serie Z. Fu proprio Stephen ad interrompere la mia attenta analisi, con tanto di sopracciglia aggrottate e labbra corrucciate.
«Saresti dovuta andare con Stiles», disse, e quell’osservazione mi tolse il dono della parola per ben più di un attimo.
M’immobilizzai con l’ennesima gommosa ad un passo dalle labbra, boccheggiando al pensiero improvviso di Stiles. L’avevo lasciato andare ad un rave con kanima e padroni assassini in giro, pregandolo che stesse attento, ma non potevo sapere sul serio che ci avrebbe provato – riuscendoci, oltretutto.
«Lui non mi voleva tra i piedi in ogni caso», sospirai, scrollando le spalle come se niente fosse. «Va bene così».
Stephen scosse la testa, distogliendo lo sguardo dal mio viso per puntare nuovamente gli occhi azzurri sulla tv. Quando mi aveva vista rientrare in casa, non aveva potuto fare a meno di riservarmi un’occhiata stupita. Non mi aveva chiesto niente, comunque, ed io mi ero convinta ancor di più di aver fatto la cosa giusta mentre cenavamo insieme e mi sembrava di vederlo stare già un po’ meglio. Magari un po’ di compagnia era ciò che gli serviva.
Non ne ero convinta, ma dovevo quantomeno provare a stargli accanto. Proprio come lui aveva sempre fatto con me, fin dal primo momento in cui ero giunta a Beacon Hills. Proprio come aveva fatto soprattutto in quegli ultimi giorni.
«Credo comunque che ti saresti divertita di più a discutere con lui piuttosto che a passare la domenica sera a mangiare gommose con questo vecchio musone», osservò, e allora non potei fare a meno di ridacchiare, rubandogli l’ennesima caramella dal sacchetto.
«Non sei vecchio, Stephen. E nemmeno musone, a dire il vero».
«Ma non sono proprio di compagnia, stasera».
Annuii. «È giusto così. Credimi, lo capisco. Anch’io…».
M’immobilizzai. Stavo per dirgli che anch’io ero stata piuttosto triste in quei giorni? Meglio evitare. Non volevo attirare l’attenzione su di me, come al solito.
Ma Stephen aveva già capito tutto. «Anche tu sei stata giù, ultimamente», completò. «L’ho notato».
Certo che l’ha notato.
«Se vuoi parlarmene, sono tutt’orecchi. Lo sai, piccola».
«Riguarda i miei».
Quelle parole mi abbandonarono le labbra in un soffio improvviso, senza che riuscissi a controllarle. Non appena calò nuovamente il silenzio, Stephen si disfece delle gommose e si voltò a fronteggiarmi. Ma non disse nulla, lasciando che fossi io a parlargli di mia spontanea volontà. E lo feci, perché sapevo bene di potermi confidare con lui.
«Sai quanto per me è stato meraviglioso e tragico allo stesso tempo conoscere mio padre. E sai anche che nonostante tutto ho deciso di mettere da parte l’orgoglio e dargli una possibilità. L’ho fatto perché ho capito di aver bisogno di lui. Cosa che al contrario mia madre non comprende».
«Cosa intendi?».
Sospirai, cercando di combattere con gli occhi già lucidi. Mi mossi a disagio sul divano, ravvivandomi i capelli nell’attesa di trovare altro coraggio utile a farmi continuare su quella strada. Anche se fino a quel momento le parole m’erano venute fuori con la violenza di un torrente, allora mi fermai a riflettere prima di parlare. Dovevo misurare bene ciò che avrei detto e stare attenta a non rivelare a Stephen niente di soprannaturale. Non potevo commettere anche con lui l’errore che già avevo compiuto con mia madre e Cassandra.
«Un po’ di giorni fa Phil è venuto qui per confessarmi di come ancora non avesse avuto il coraggio di telefonare a mia madre per dirle che fosse vivo, qui e soprattutto insieme a me. Proprio come non ce l’avevo avuto io. Ecco perché alla fine abbiamo deciso di comune accordo di risolvere il problema insieme. Ci siamo piazzati davanti al pc e abbiamo videochiamato a casa. Mia madre l’ha presa malissimo», raccontai infine, omettendo numerosissimi dettagli ma svelando comunque una mezza verità.
L’espressione di Stephen si corrucciò all’improvviso. «Mi dispiace da morire, piccola».
Tirai su col naso, cercando di trattenere le lacrime con immensi sforzi. Dispiaceva anche a me.
«Non ho il coraggio di richiamarla. Temo che non mi risponderà. Non potrei sopportarlo», confessai, incapace di continuare a fissare Stephen.
Tenni lo sguardo piantato sulle mie mani, ma lo vidi comunque spalancare le braccia affinché mi stringessi a lui e non me lo feci ripetere due volte.
«Magari per ora è meglio così», lo sentii mormorare contro i miei capelli, mentre una prima lacrima – solitaria ancora per pochissimo – scendeva a bagnarmi una guancia. «Prova a darle tempo. Vedrai che si risolverà tutto».
Lo spero.
Scott McCall corse fuori dal magazzino rumoroso come se ne andasse della sua stessa vita, e in effetti era proprio così. Quella sera – a quel rave maledetto – si stava letteralmente giocando la vita al lotto.
Ansimò, piegandosi sulle ginocchia nell’immensità del parcheggio deserto e silenzioso, alla ricerca di un respiro che temeva non sarebbe più riuscito a recuperare. E le sue paure divennero presto realtà all’improvviso stridere di freni sull’asfalto che gli riempì le orecchie; il fiato gli si mozzò in gola e gli occhi gli bruciarono da quant’era intensa la luce dei fanali che si trovò puntati addosso. Una luce sempre più vicina, sempre più…
Il tonfo dell’auto contro il suo corpo fu rumoroso e inaspettato. La botta lo rese incosciente in un attimo, mandandolo a terra come se fosse un misero burattino. Scott batté la testa sull’asfalto e in quello stesso momento, dall’auto che l’aveva investito, scese una donna. Indossava eleganti decolletè dal tacco non troppo alto e un completo nero molto fine. Si chiuse lo sportello alle spalle con un tonfo rumoroso e poi ticchettò nei pressi del giovane beta, smuovendogli il corpo smorto con un piede non appena fu tanto vicina da poterlo fare. Ma solo alla fine Harriet poté vedere di chi si trattava sul serio: Victoria Argent sorrideva soddisfatta del suo operato, il viso pallido illuminato dal candore della luna alta nel cielo.
«Harry?».
Sgranai gli occhi al suono della voce di Stephen, improvvisamente risvegliata da quell’ennesima atroce visione. Cercai di regolarizzare il respiro e non far trasparire nemmeno un minimo di tutta la mia preoccupazione, distogliendo lo sguardo dalla tv illuminata e cercando brevemente gli occhi chiari dello sceriffo.
«Scusami», mormorai, mettendomi in piedi in fretta e furia. «devo fare una telefonata urgente».
«D’accordo», Stephen si limitò ad annuire, «Va tutto bene?».
«Certo». Finsi un sorriso, poi sgattaiolai in camera mia.
Impazzii per qualche minuto alla ricerca del cellulare, salvo poi trovarlo sommerso da una cascata di libri che non mi ero scomodata di riordinare. Non ebbi tempo di pensarci in quel momento e semplicemente mi limitai a comporre il numero di Stiles, sempre in cima alla lista dei miei contatti. Avevo bisogno di sentire la sua voce e sapere che andasse tutto bene, anche se già ne dubitavo. Ma quando Stiles ignorò tutte le mie chiamate, mi sentii quasi crollare il mondo addosso.
Cercai di non cadere nel panico mentre cominciavo a vagliare qualsiasi altra possibilità e giunsi solo infine alla soluzione dell’arcano: sarei dovuta andare a quel rave da sola per accertarmi che fosse tutto a posto. Ma da chi mi sarei fatta accompagnare? Esclusi subito Stephen e tutti i miei parenti, pensando a Lydia per un solo breve attimo. Non potevo chiedere a lei. Ma allora…
Dei ricci biondissimi e un paio di occhi neri come la pece mi saltarono in testa all’improvviso, incendiandomi le vene di adrenalina. Ero pronta a consegnarmi nelle mani del nemico e compiere quella pazzia? Per le persone a cui tenevo, quello ed altro. Fu pensando ciò che composi il numero di Victor Daehler.
«Pronto?».
«Victor, sono io».
Dall’altro capo del telefono ci furono interminabili minuti di silenzio. Ma alla fine – molto probabilmente dopo aver controllato il display con aria incredula – Victor decise di riprendere a parlarmi.
«Non ci posso credere», mormorò, ma io non avevo tempo per quei giochetti e subito lo interruppi.
«Dove sei?».
«Stavo per uscire, a dire il vero. Perché me lo chiedi? Non sarà mica che vuoi unirti a me?».
Stentavo a crederci anch’io.
Trattenni un brivido di terrore e rimandai giù la bile, sforzandomi di parlare ancora. Fin lì avevo fatto un buon lavoro.
«Se stai andando al rave in periferia, sì».
Sentii Victor ridacchiare.
«Certo che sto andando lì», confermò poi, gongolando quasi. «Dammi il tuo indirizzo, ti passo a prendere».
Istintivamente, il mio cuore aumentò i battiti. Gli avrei rivelato dove vivevo, permettendogli così di invadere un altro luogo a me caro? Non se ne parlava proprio.
«Non sono a casa», mentii in un sussurro trafelato, ingegnandomi alla ricerca dell’ennesima bugia da propinargli, «Vediamoci alla Beacon Hills High School».
 
«Tuo fratello non ti somiglia per niente».
Ruppi il silenzio all’interno dell’abitacolo all’improvviso, senza nemmeno pensarci troppo su. Ma allo sguardo incuriosito di Victor puntato su di me, non potei far altro che pentirmi di ciò che avevo appena detto.
Come da accordo, Daehler era venuto a prendermi di fronte scuola ed io ero stata brava a glissare qualsiasi tentativo di conversazione mentre lo osservavo di sottecchi intento a guidare verso il rave in periferia. Non volevo che mi parlasse, ma avevo scoperto ben presto che il silenzio di quell’auto fosse di gran lunga peggiore e avevo dato vita ad una nuova conversazione. Pentendomene l’attimo dopo.
«Mio fratello?», mi domandò Victor, con un’aria confusa che subito m’insospettì.
«Matt», bisbigliai, già non più così sicura di ciò che avevo detto. Che figura ci avrei fatto se Matt mi avesse raccontato una bugia? «È tuo fratello, vero?».
Victor svoltò in una via buia e desolata, stringendo più forte le mani sul volante e facendo spallucce. «Be’, non proprio».
Lo sapevo. Trattenni a malapena un ringhio infastidito, stringendo i pugni dalla rabbia. Quel Matt credeva davvero di potermi prendere in giro così? Prima di esplodere, cercai di dare un senso a quella situazione.
«Cosa intendi?».
«È stato adottato».
«Oh».
Dopo quel mio mormorio insensato cadde di nuovo il silenzio, almeno finché Victor non decise di spezzarlo nuovamente. «L’hai conosciuto a scuola?». Mi limitai ad annuire, il che diede occasione al più grande dei Daehler di continuare a parlare indisturbato. «Mi aveva detto che ci saresti stata anche tu, stasera. Ma non gli ho voluto credere».
«Era per lui che eri sempre presente alle partite di lacrosse?». All’improvviso tutto aveva senso.
Victor annuì debolmente, rallentando nei pressi del grande magazzino che già avevo visto. Trattenni il respiro dall’improvvisa ansia ritornata a farmi visita.
«Ti sembra così strano?», mi chiese Victor, distraendomi tanto che per poco non gli sorrisi con gratitudine.
Feci spallucce, cominciando a trafficare con la cintura di sicurezza, pronta a scendere e combattere se ce ne fosse stato bisogno.
«Non è nemmeno in prima squadra…», provai a dire, ma Daehler m’interruppe prontamente.
«È mio fratello», mormorò deciso. «Voglio sostenerlo comunque».
Quelle parole mi tolsero letteralmente il fiato. Erano così poco da Victor che non potei far altro che sgranare gli occhi sulla sua figura, chiedendomi cosa diavolo avrei dovuto dirgli a quel punto almeno finché delle immagini ben diverse mi esplosero sulla retina. Derek e Boyd sedevano l’uno di fianco all’altro, inginocchiati sull’asfalto e nascosti da un muro in cemento massiccio. Avevano l’aria di essere feriti entrambi e si scambiavano parole che non riuscivo a sentire per quanto m’impegnassi.
«Victor», soffiai non appena la visione sparì, lasciandomi con un Boyd che si metteva in piedi per correre chissà dove mentre io a mia volta scendevo fuori dall’auto – ben presto imitata dal suo padrone. «comincia ad entrare. Ti raggiungo sub–».
Le parole mi morirono in gola al tocco ghiacciato che mi strinse il polso. Victor aveva circumnavigato l’auto alla velocità della luce e mi aveva raggiunta, lasciandomi in trappola ed impedendomi di scappare.
«Scherzi?», domandò trattenendo a stento una risata divertita mentre io mi sentivo il sangue gelare nelle vene e il cuore prendere a battere come un forsennato. «Tu vieni con me, tesoro. Siamo qui come coppia».
A quell’ultima parola, la stretta di Victor sul mio polso si accentuò così tanto da farmi scappare un gemito. Ma paradossalmente, fu proprio il dolore a risvegliarmi. Digrignai i denti, cercando di ricordare al meglio tutti gli insegnamenti che mia cugina Natalie mi aveva riservato in merito alla difesa personale. Poi, con uno scatto veloce che sorprese anche me oltre che Victor, riuscii a liberarmi dalla sua presa e gli mollai un pugno dritto sul naso.
«Ti piacerebbe», mormorai, col fiato corto e la mano dolorante – ma comunque soddisfattissima degli evidenti risultati ai quali i miei allenamenti con la sorella di Walter stavano portando.
 
Abbandonai il fianco di Derek non appena riconobbi la figura di Stiles. Mi dava le spalle, ma ero sicura che si trattasse di lui anche senza guardarlo in viso e non me lo feci ripetere due volte prima di raggiungerlo di corsa.
Alla fine – anche grazie alle mie visioni – ero riuscita a trovare Derek ed insieme avevamo provato ad aiutare Scott, ma nonostante tutte le atroci immagini che i miei poteri mi avevano permesso di vedere, non ero riuscita a capire dove Victoria Argent avesse portato il mio amico per poterlo torturare in santa pace. Perché era proprio quello che stava facendo: l’avevo visto coi miei stessi occhi e la consapevolezza di non poter far nulla per mettere fine a quell’atrocità immonda mi faceva sentire malissimo.
«Stiles», soffiai, quando ebbi finalmente raggiunto l’unica persona fra tutte capace di farmi stare bene e mi ritrovai stretta tra le sue braccia.
Lo sentii mormorare il mio nome con un tono a dir poco sorpreso, prima che mi allontanasse dal suo corpo per potermi guardare bene in viso.
«Cosa ci fai tu qui?», mi domandò, ma non ebbi occasione di rispondergli perché Derek – che ormai ci aveva raggiunti – mi rubò la parola.
«Dov’è Jackson?».
Stiles guardò l’alpha brevemente, sempre tenendomi stretta a sé mentre tentava di racimolare un po’ di coraggio.
«L’abbiamo perso», confessò infine, ed io non potei far altro che trasalire.
«Abbiamo perso anche Scott».
Lo sguardo di Stiles s’adombrò all’improvviso e credo che provò subito a chiedermi spiegazioni, ma non posso esserne sicura perché in quell’esatto momento un’ennesima visione mi portò ben lontana da lì. Scott era a terra, completamente trasformato e incapace di rimettersi in piedi per dare a Victoria Argent ciò che si meritava sul serio. Lo vidi cercare di fare forza sulle braccia inutilmente mentre la madre di Allison gli riservava chissà quali parole di scherno, almeno finché Scott non riuscì finalmente a raggiungere il suo obbiettivo e si sollevò sulle ginocchia, liberando uno degli ululati più forti che l’avessi mai sentito emettere. Quello riuscii a sentirlo benissimo. Proprio come Derek.
«Scott», sussurrò infatti, con un’improvvisa quanto dolorosa consapevolezza.
Quell’ululato era una disperata richiesta di aiuto.
«Sta morendo», compresi.
Stiles si agitò ancor di più. «Cosa diavolo stai dicendo?».
Ma Derek evitò che cominciasse a straparlare come suo solito. «Spezzalo», si limitò ad ordinargli, senza che io capissi minimamente a cosa diavolo si riferisse.
La reazione di Stiles mi confuse ancor di più. «Non esiste!», strillò, e allora Derek fu costretto ad usare le maniere forti.
Alzò la voce ancor più di lui. «SCOTT STA MORENDO!».
«L’ho v-visto, Stiles», balbettai, cercando inutilmente di trattenere le lacrime. «Spezzalo».
Glielo ordinai anch’io, anche se non avevo idea di cosa significasse. Semplicemente mi fidai di Derek. E Stiles si fidò di me – ancora una volta – perché solo un secondo dopo s’inginocchiò ai nostri piedi e dissolse il cerchio che come da ordine di Deaton aveva costruito intorno al magazzino, servendosi della polvere di frassino che… aveva intrappolato Derek.
Realizzai la cosa con un secondo di troppo di ritardo, non appena lo vidi oltrepassare il confine e sparire verso chissà dove. Di nuovo non me lo feci ripetere due volte: donai un’ultima veloce occhiata a Stiles e poi rincorsi Derek, pronta a non sapevo nemmeno io cosa. Quando lo trovai intento a combattere con Victoria, temetti di essere arrivata troppo tardi.
«Si fermi!», urlai, così forte da sentirmi dolere la testa.
Mi sentivo così impotente che scoppiai a piangere, ma scoprii ben presto di sbagliarmi. Il mio urlo stridulo infatti servì a distrarre Victoria tanto che questa, dopo avermi dedicato una lunga occhiata inespressiva, lasciò andare Derek e si defilò velocemente.
Anche quella volta eravamo chissà come riusciti a cavarcela.
 
Siamo da Deaton. Vieni qui prima che puoi, ti prego.
Cacciai il cellulare in tasca dopo aver inviato quell’sms a Stiles, pregando perché lo leggesse presto e corresse in mio aiuto, pronto a portarmi via da quel posto e dalle scene con le quali mi costringeva a confrontarmi. Non avrei sopportato di osservare Scott privo di sensi un attimo di più, come non riuscivo più a stare al fianco di Derek come se niente fosse.
Mi strinsi maggiormente le braccia al petto, deglutendo mentre muovevo grandi passi sulla moquette dello studio veterinario. Gli occhi verdi di Derek non mi persero di vista nemmeno per un attimo, ma io non osai ricambiare il suo sguardo curioso. Almeno finché non mi rivolse la parola all’improvviso.
«Ti sento addosso l’odore di quel biondino».
M’immobilizzai pensando a Victor e chiedendomi dove fosse finito. Scacciai via dalla mente quell’immagine quando finalmente compresi di non volerlo sapere. Allora sciolsi le braccia lungo i fianchi e fronteggiai Derek, fingendo una nonchalance che non possedevo più da tempo.
«Smettila di annusarmi», pigolai, molto più in imbarazzo di quanto avessi creduto.
Derek mise subito su un’espressione infastidita.
«Non ti sto annusando», mi rimbeccò, inchiodandomi sul posto con un’occhiataccia delle sue. «È il tuo corpo che lo sprigiona da sé. Quello, e l’odore di paura».
Paura? Aggrottai le sopracciglia, muovendo un ulteriore passo nella direzione di Derek. Era seduto su uno sgabello posizionato contro il muro mentre io ero in piedi e – almeno all’apparenza – lo sovrastavo con la mia figura.
«Non ho paura», gli dissi, sincera come raramente riuscivo ad essere con lui.
«Non ora. Ma ce l’hai avuta prima, quand’eri insieme a Victor. So che non è stato molto tempo fa perché l’odore che hai addosso è ancora abbastanza forte», osservò Derek, ed io rabbrividii sotto il peso di quella spiacevole verità. All’improvviso mi sentivo completamente esposta a lui, così nuda da aver bisogno che qualcuno mi proteggesse dai suoi occhi scrutatori. «Dovresti smettere di vederlo».
Non dipendeva da me, ma evitai di dirglielo. Semplicemente distolsi lo sguardo dal suo viso pallido – mi arresi – e mormorai un flebile: «Grazie per l’interessamento».
Innalzai il solito muro che mi divideva dal resto del mondo, il sacco a pelo che mi chiudevo attorno per proteggermi dall’esterno. O perlomeno ci provai.
«Harri–». Derek provò a richiamarmi, distraendomi e facendomi vacillare. Ma non gliel’avrei permesso. Non ancora.
«Sul serio, evita», ordinai, così perentoria che l’alpha non si sognò più nemmeno per scherzo di provare a contraddirmi.
Al contrario si chiuse in un silenzio a lui fin troppo familiare: un silenzio che io apprezzai moltissimo, ma che ahimè non durò abbastanza a lungo.
«L’ho morsa».
Un improvviso campanello d’allarme m’esplose nel cervello, ma tentai di ignorarlo. Non fasciarti la testa prima di averla rotta, Harry.
«Chi?», domandai quindi a Derek, cercando di pensare positivo almeno per una volta. 
«Victoria Argent».
Quel nome mi spezzò il respiro in gola. Milioni di sensazioni s’affollarono dentro di me, ma alla fine una sola riuscì a prevalere sulle altre. La rabbia. Una rabbia cieca.
«Tu COSA?», quasi urlai, raggiungendo di nuovo Derek ed osservandolo con gli occhi spiritati.
Non potevo credere a ciò che mi aveva appena confessato in un sussurro. Ancora speravo che fosse tutto parte di uno scherzo di cattivo gusto.
«Stava cercando di ucciderci! Cosa volevi che facessi?». Derek scattò in piedi, arrabbiato come e forse anche più di me mentre indicava Scott e cercava inutilmente di farmi ragionare.
Lo guardai con quello che dovette sembrargli disgusto, mentre i primi conati di vomito già cominciavano a sconquassarmi lo stomaco.
«È la madre di Allison», riuscii a dire solamente, prima che la bile riuscisse infine a raggiungermi la gola obbligandomi – con mio grande piacere – a correre fuori da quella stanza diventata all’improvviso soffocante.
Sentivo il peso delle confessioni di Derek agguantarmi la gola in una morsa, ma me ne fregai mentre correvo nella hall e finivo a rovesciare anche l’anima nel cestino dei rifiuti.  
 
 
 

 
I couldn’t hear those screams
even in my wildest dreams. 
 
 
 
 
Ringraziamenti
Agli Iron Maiden, perché tipo ogni parola (?) dell’album Seventh son of a seventh son rispecchia la situazione di Harriet ed io lo adoro come se non ci fosse un domani.
Infinite dreams ne fa parte (ASCOLTATELA *fa terrorismo psicologico*).
Ai Marianas Trench (♡), la mia band preferita – che ho conosciuto proprio grazie ad Harriet e Stiles e che mi ha accompagnato ancora una volta nella stesura di questa storia. Non so a chi dovrei essere più grata, davvero.
 
Note
Ormai l’avrete capito che mi piace disseminare collegamenti con parachute qua e là, dunque, se ci tenete a leggere della prima volta in cui Stiles ha recitato ad Harriet il famoso mantra dell'«Uno è un incidente, due è una coincidenza, tre è uno schema», andatevi a leggere il
capitolo 9.
Il fatto che nella scena 2 Scott chiami Harry «Comandante» è nient’altro che l’ennesimo riferimento a parachute. E potete leggere di questi due bimbi bellissimi dei McCarter nel
 
capitolo 18.
Le gommose sono una cosa che ad Harriet non deve mai mancare, da come potrete anche capire leggendo
Tè e orsetti gommosi, ovvero la shot – scollegata da tutto questo ma sempre con protagonisti gli Starriet – che ha dato inizio a questa magica avventura, pubblicata quasi per scherzo e che poi mi ha e ci ha portati fin qui.
Natalie Edwards, da come avrete potuto capire, è la sorella di Walter. Da come già accennato in parachute, è più piccola di lui di due anni – Walt ne ha 22 – e scopriamo qui che sta aiutando Harriet con degli specialissimi allenamenti di difesa personale. So che è tutto molto nebuloso, finora, ma non disperate: vedrete Natalie molto presto ed imparerete a conoscere anche lei. ♡
Chi mi conosce sa che Molto forte, incredibilmente vicino è il mio libro preferito e che – proprio come con tutte le cose che mi piacciono – proprio non posso fare a meno di rendergli omaggio ogni volta che posso attraverso le schifezzuole che scrivo. A questo proposito ci tengo quindi a specificare che la figura del “sacco a pelo” che Harry usa chiudersi addosso per proteggersi dal mondo esterno non è di mia invenzione, bensì di quel grandissimo uomo di Jonathan Safran Foer. *scuoricina*
Come sempre, ribadisco che per ogni dubbio e domanda potete scrivermi dove vi pare e piace e che trovate l’album coi vari prestavolto sul mio
profilo facebook.
   
 
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