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Autore: fireslight    18/10/2015    4 recensioni
[Crossover: Sense8 – Game of Thrones]
Di fronte a lui, dall’altra parte dello specchio, vi era una ragazza. Aveva circa la sua età.
Poco più bassa di lui, minuta, lunghi capelli biondi tendenti all’argento, era intenta a sistemarsi un asciugamano poco sotto il seno. Jon abbassò lo sguardo per un momento, certo che fosse solo un’illusione.
[..]
Daenerys lo vide da lontano, e lui vide lei. Si scambiarono uno sguardo a diversi metri di distanza, mentre lui si fermava nel bel mezzo del viale e nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Era alto, slanciato, i capelli neri come pece, l’espressione lievemente concentrata dalla corsa.
Gli immancabili auricolari alle orecchie che si tolse in quell’esatto momento.

[Jon/Daenerys♥][AU – 21°century][Crossover, What If • Slice of life, Dramatic, Introspective]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daenerys Targaryen, Jon Snow
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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There’s two reasons to go to Norway.


 
L’alba lo aveva sorpreso insonne un’altra volta, mentre osservava la foschia azzurra che si ritirava lentamente, facendo spazio ai primi, timidi raggi solari. Jon si alzò da terra, inforcando i gradini metallici, freddi sotto i piedi, della piccola scala a chiocciola che dal loft conducevano sul tetto.
Una doccia − possibilmente calda, se era rimasta abbastanza acqua, dannati vicini che la consumavano tutta, ogni volta − a quell’ora sarebbe stata l’ideale, sebbene non soffrisse le basse temperature più di tanto. Era cresciuto nella gelida, fosca, eternamente piovosa Londra: un po’ di freddo newyorkese non lo avrebbe traumatizzato.
Dopo essere uscito dal box con una tovaglia stretta intorno ai fianchi, si guardò allo specchio. Avrebbe dovuto accorciare i capelli probabilmente e−
Un attimo. Jon chiuse gli occhi, riaprendoli subito dopo. Che diavolo di scherzo era mai quello? Non era da solo, in quel piccolo bagno quattro metri per otto.
Di fronte a lui, dall’altra parte dello specchio, vi era una ragazza. Aveva circa la sua età.
Poco più bassa di lui, minuta, lunghi capelli biondi tendenti all’argento, era intenta a sistemarsi un asciugamano poco sotto il seno. Jon abbassò lo sguardo per un momento, certo che fosse solo un’illusione, un effetto ottico e che quando avrebbe guardato di nuovo..
No. Lei era ancora lì. Lo osservava di rimando adesso, gli occhi curiosi − di un colore inusuale, di un glicine pallido − di chi non crede a ciò che essi vedono, ma che, a conti fatti, potrebbe anche accettarlo con una scrollata di spalle, indifferente.
Intontito, allungò le dita verso lo specchio, domandandosi fra sé chi, all’alba, potesse fare una doccia nell’esatto momento in cui la stava facendo lui, − stava considerando davvero il fatto che potesse essere reale, non il frutto della sua immaginazione? − anche se, come ricordava, la sera precedente non aveva bevuto, proprio per niente. La ragazza dall’altra parte del vetro inarcò un sopracciglio chiaro, visibilmente colpita dal suo gesto, contemporaneamente ovvio e inusuale, allungando a sua volta le dita sottili verso la superficie trasparente.
Per un attimo, un istante, Jon fu certo di aver percepito un contatto fra le loro dita, come se il vetro leggermente crepato agli angoli della lastra si fosse incrinato. Come se fosse riuscito, effettivamente, a sfiorare le dita della sconosciuta.
Qualcosa, tuttavia, ruppe quella strana, contorta, irreale connessione. Un rumore proveniente dalla finestra alla sua sinistra: un pettirosso si era posato sul davanzale, cinguettando come fosse il giorno più felice della sua vita. Jon lo ignorò, tornando a concentrarsi sullo specchio, sulla ragazza dall’aria curiosa che aveva visto dall’altra parte. Tuttavia, con un sospiro e l’espressione notevolmente accigliata, Jon notò che era sparita: lo specchio, adesso, rimandava l’immagine dell’orologio in vetro alle sue spalle.
Erano le sei spaccate: aveva ancora il tempo per una corsa a Central Park.
                                                 
Il secondo caffè era diventato freddo da un pezzo. Daenerys fece un cenno al cameriere, chiedendo di portarne un altro: quello prese la tazzina fredda, intatta e la portò via.
Quella settimana, il clima di Oslo era particolarmente piacevole, come se il vento proveniente dal fiordo stesse concedendo ai suoi abitanti un respiro tiepido, lontano dalla solita brezza gelida. Fu in quell’attimo, e se ne accorse non senza un malcelato stupore.
Accanto alla piccola, ma elegante caffetteria in cui si era seduta quel giorno, c’era un lungo viale alberato dove di prima mattina la gente andava a correre.
Daenerys lo vide da lontano, e lui vide lei. Si scambiarono uno sguardo a diversi metri di distanza, mentre lui si fermava nel bel mezzo del viale e nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Era alto, slanciato, i capelli neri come pece, l’espressione lievemente concentrata dalla corsa.
Gli immancabili auricolari alle orecchie che si tolse in quell’esatto momento.
Si diresse verso di lei a passo misurato. Daenerys si guardò intorno, guardò verso gli altri tavolini, volendo assicurarsi che qualcuno − oltre lei, perché se era arrivata a quel punto, davvero, si sarebbe rinchiusa in un ospedale psichiatrico − lo stesse vedendo. Ma no, a quanto pare era l’unica che lo avesse individuato tra la folla come un dettaglio sbagliato, innaturale in un dipinto.
«È libero?» si sentì chiedere, mentre lo sconosciuto la guardava, indicandole la sedia di fronte a lei.
«Oh, sì, certo.» annuì, distratta, mentre l’altro si sedeva e alternava lo sguardo dalla piazza alle vie che si snodavano come serpenti intorno ad essa. Sembrava che vedesse le persone in maniera diversa, come fosse abituato a un altro panorama.
«Dove siamo?»
«Come sarebbe a dire dove siamo
«Suppongo di non essere a New York.» osservò cauto, cercando un segno di conferma nei suoi occhi. Magari stava cercando i suoi grattacieli, così tipicamente presenti nel classico, immutato paesaggio americano. Daenerys trattenne una risata, sorpresa.
«New York.» saggiò il nome di una città che non aveva mai visto con un accento strano, musicale. «Vivi lì?»
«In teoria, sì.»
«Oslo.» spiegò, allora, abbracciando con lo sguardo il centro della città, da nord a sud, sin dove si intravedevano le cime delle colline intorno. «E tu sei..?»
«Jon Snow.» le porse una mano, così, come se niente fosse.
Daenerys allungò la sua, titubante. Quando la strinse, quasi trasalì: era reale, quel contatto. Troppo, per i suoi gusti.
«Daenerys Targaryen.» disse, presentandosi. Con la coda dell’occhio, scorse il cameriere che, da lontano, le stava riportando l’ennesima tazza di caffè che non avrebbe bevuto.
Era soltanto un modo per starsene lì, alla fine, in pace dove suo fratello non l’avrebbe raggiunta; poi dovette ammettere a se stessa che era il panorama, ad attirarla. Il silente patto con il cameriere della caffetteria prevedeva che ordinasse un caffè all’ora e sarebbe potuta rimanere lì in eterno. Daenerys non aspirava ad altro, a volte.
Da parte sua, Jon ebbe la strana, incorporea sensazione di aver già sentito quel nome.
Così, rimasero qualche istante a studiarsi, finchè lui chiese: «Non bevi il caffè?»
E lei rispose, tranquilla: «No, è solo una scusa. Mi piace stare qui, mi rilassa. Prendilo pure.»
Quando Jon-suppongo-di-non-essere-a-New-York posò la tazzina, lei si accorse, accigliata e sospettosa, che il caffè, in effetti, non c’era più.
«Com’è possibile?» sussurrò, quasi fra sé.
«Che cosa?» lui sorrise come se non ci fosse niente di male a credere che fossero lì, lui dall’altra parte dell’oceano rispetto a casa, lei sola in quella caffetteria all’incrocio tra due vie, a parlare con una proiezione di qualcuno che non avrebbe mai incontrato − perlomeno non realmente.
«Se sei davvero di New York,» e lo vide annuire, seguendo il suo ragionamento, «Cosa stavi facendo, poco prima di ritrovarti qui?»
«Correvo. A Central Park. Forse è per questo che mi sono ritrovato in quel viale.» si voltò appena, indicando la strada da cui era venuto, e dove ancora, malgrado fossero quasi le 7.30 − almeno da quanto indicava il suo orologio −, le persone si ostinavano a parlare, correre, passeggiare come in un cerchio infinito di noia e immutata rassegnazione.
Jon guardò nuovamente l’orario, questa volta dal cellulare della ragazza posato sul tavolino, facendo una smorfia, riflettendo.
«C’è qualcosa che non quadra.» rifletté ad alta voce, guardandola ancora accigliato.
Guardò di nuovo il proprio orologio che segnava le 7.28
«Devo essere in commissariato alle 8.00»
«Un bel problema.» notò lei. «Perché qui sono le 13.30. Definiresti il tuo capo un tipo eccessivamente puntuale, scontroso, fissato con l’efficienza e la svizzera precisione che dovrebbe sempre avere chiunque incontri?»
Jon rise appena di quel discorso, e lei sorrise, compiaciuta, forse, della propria battuta.
«No, non eccessivamente. Ma è soltanto il fuso orario, quindi tornando a New York nei prossimi minuti dovrei essere in orario.»
«Capisco.» osservò lei, sebbene non sembrasse aver capito bene la strana situazione − neppure un decimo di quanto lui sentiva di non averci capito qualcosa −, «Be’, allora suppongo che ci−» fu un attimo, di nuovo, come in quella stessa tarda mattinata, quando aveva distolto lo sguardo dallo specchio e un secondo dopo c’era questo ragazzo dall’altra parte, con i capelli umidi e una tovaglia stretta ai fianchi che la osservava. «Ma cosa−»
Era stato un battito di ciglia e si era ritrovata in un viale, diverso eppure così simile a quello che c’era a Oslo, con la differenza che, adesso, vi erano foglie di ogni forma e colore − perlopiù quelli caldi dell’autunno − sparse per terra come un enorme tappeto scricchiolante.
Jon la guardò sorridendo, a suo agio in un ambiente adesso consueto per la sua familiare esistenza.
«Benvenuta a Central Park.» disse, divertito della sua reazione, ed anche lei, sebbene spaesata, trovò la forza di sorridergli di rimando. «Non eri mai stata a New York?»
«No, mai.» Daenerys non potè fare a meno di sorprendersi della vastità del parco mentre camminavano fianco a fianco verso l’uscita a sud, verso Manhattan.
«Quindi, com’è che funziona? Quando devo fare qualcosa io, tu sei qui e viceversa?»
«Non ne ho idea.» replicò assorta, forse fin troppo, scansandosi per poco da un vecchietto con il proprio cane, senza che quello avesse dato segno di averla vista. Daenerys non aveva percepito neppure lo spostamento d’aria. «Forse nessuno può vedermi. Come nessuno ti ha visto a Oslo. Magari sono solo nella tua testa e tu nella mia.»
Jon rimase in silenzio per un po’, fra i suoi pensieri.
«Ma perché, insomma, che senso ha?»
«Oh, bella domanda, davvero. Per quanto ne so, potremo essere anche stati drogati e non ricordare niente di tutto ciò quando ci sveglieremo da questa contorta esperienza di connessione mentale e continueremo le nostre vite ignari delle vicissitudini che l’altro dovrà irreparabilmente affrontare, in questo mondo o in un altro.»
Lui si fermò nel bel mezzo del secondo, grande viale che avevano imboccato, costringendola a fare lo stesso. La guardò per un istante, sforzandosi di non scoppiare a ridere.
«Studi filosofia, per caso?»
«Sai qual è il modo migliore per accertarsi che questa cosa sia solo il frutto della nostra immaginazione?» riprese lei, distogliendo prontamente l’attenzione dalla prima domanda e parlando a bassa voce come se gli stesse confessando un segreto importantissimo.
«No, quale?»
A quel punto, gli squillò il cellulare. Jon controllò il numero, rivolgendole uno sguardo mentre Daenerys camminava come in trance da una parte all’altra del viale, i lunghi capelli biondo-argentei mossi dal vento.
«Sam, raggiungimi all’uscita Sud di Central Park adesso.» rispose tutto d’un fiato, attento a non perdere d’occhio la ragazza che, incuriosita dalla vista di una città che non conosceva, si era allontanata di qualche metro.
«Jon, sei in ritardo. E io sono già nel parcheggio del commissariato.»
«Allora fa’ inversione e raggiungimi. Ti spiegherò quando sarai qui.»
Dall’altro capo del telefono si udì un sospiro, poi il motore di una macchina che partiva.
«Aspetta lì, sto arrivando.»
«Non scappo amico.» replicò. Daenerys era a qualche passo da lui, intenta ad osservare con scientifica attenzione e un sorriso sulle labbra un pettirosso che le si era appollaiato sulle dita sottili. Sembrava una ninfa che non riconoscesse il proprio bosco, un dettaglio imperfetto e azzeccato al tempo stesso in uno spartito composto in diverse tonalità, comprensibile a pochi. Egoisticamente, forse comprensibile solo a lui. Jon rimase qualche istante a osservarla, come incantato. «Non scappo davvero.» disse ancora al telefono.
Per sua fortuna, Sam aveva già interrotto la chiamata.





 

Note dell'autrice.
Bene, bene, bene. Niente di particolare da dire, solo che se non avete ancora visto Sense8.. be', fatelo. Credo sia una serie meravigliosa, che mi ha conquistata al punto da indurmi a scrivere un crossover ed una long (udite udite ^^), cose per me totalmente ignorate prima di allora (?)
Anche se non credo sia strettamente necessario averla vista per capire le dinamiche di questo intreccio: cercherò di spiegarlo in breve, magari. Jon e Daenerys (bimbi miei
) sviluppano questa connessione mentale che è assolutamente particolare, e che li spinge a entrare in gioco nella vite l'uno dell'altra; scopriranno aspetti e cose che non avrebbero mai immaginato, avendo una connessione empatica e telepatica che li lega come nient'altro.
Il titolo è un evidente richiamo alla citazione sul personaggio di Riley Blue (cupcake dolcissimo
), della sopracitata serie.
Spero di esser stata chiara, ew, ma per ogni dubbio sono sempre qui!
Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, davvero, una piiiicola recensione è sempre super-gradita :)
Al prossimo capitolo, un bacio
fireslight
 
 
  
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