Il
primo a giungere a casa, a
Bahram, la propria capitale, fu Zameknenit. Gli era mancato il suo bel
regno,
il suo palazzo, la sua popolazione. Volando, grazie alle sue braccia
alate,
atterrò agilmente, lasciando dietro di sé qualche
piuma verde. Gli edifici
delle creature dell’Aria non presentavano mai enormi
coperture ma prevalevano
gli archi, le grandi finestre ed i tetti quasi del tutto inesistenti.
Personalmente, il re dell’Aria preferiva le grandi volte in
vetro spesso, per
proteggersi dalla pioggia e dagli eventuali attacchi ma, con un
complesso
sistema ad incastri, riusciva ad avere solo il cielo sopra la testa
perché il
tetto in vetro si apriva. In quella bella giornata luminosa, i tetti di
tutto
il palazzo reale erano aperti ed il re atterrò nella grande
sala del trono, fra
i suoi archi, le sue volte e le vetrate colorate, circondato dalle sue
guardie
del corpo. Lo avevano scortato lungo tutto il viaggio, di andata e
ritorno, ma
se ne andarono subito, appena atterrati, in seguito ad un gesto del re.
Si
stiracchiò, sedendosi sul
trono, seguendo con gli occhi blu i disegni arancio che portava tatuati
lungo
tutto il corpo. Vestiva con una canotta nera, aderente, con evidenti
cuciture
di colore diverso, che lasciava libere le braccia piumate, e pantaloni
rosso
acceso, come i capelli del re. Chiuse gli occhi, riposandosi dal lungo
viaggio.
Tolse la corona e la appoggiò su un piccolo sgabello
apposito con un bel
cuscino imbottito. Dopo qualche minuto si udì un lieve tocco
alla porta.
Zameknenit rizzò le piccole orecchie a punta e, tenendo gli
occhi chiusi,
concesse il permesso di entrare a chi bussava, con un
“Sì” convinto ed un
borbottio di protesta sottovoce.
“Siete
tornato, mio signore”
si sentì dire.
“Nèxus!
Mio consigliere…sono
lieto di vederti. Stavo per mandarti a chiamare”.
“Va
tutto bene?” si preoccupò
il consigliere.
Era
una persona anziana, con i
capelli grigi, le folte sopracciglia e due baffi con pizzetto. Era
vestito
elegante, di scuro, con un alto colletto chiaro. Le ali le aveva rosse,
sgargianti, intonate con gli occhi verdi. Serviva la famiglia reale fin
da
giovane, era alle dipendenze del padre e ora stava accanto al figlio.
Lo aveva
visto nascere e lo accudiva con affetto, soprattutto ora che non aveva
più i
genitori. Lo guardò con apprensione, quasi paterna.
“Tutto
bene, non serve che ti
preoccupi tanto per me. Non sono più un bambino! Ho passato
i trent’anni!”
ridacchiò Zameknenit, osservando il suo consigliere con un
sorriso.
“Allora
perché stavate per
chiamarmi?”.
“Piantala
di darmi del Voi! Te
l’ho detto un milione di volte!” la voce del re ora
era seccata.
Nèxus
non rispose subito.
Rimase in piedi accanto al suo sovrano seduto sul trono.
“Cosa
posso fare per Voi,
Signore?”.
Zameknenit
sospirò. Un po’ per
la cocciutaggine del suo consigliere ed un po’ per il ricordo
delle parole del
Signore dell’Est. Attese un attimo, cercando le frasi
migliori per spiegare
l’accaduto e nel frattempo guardava le colonne attorcigliate
del suo palazzo.
Raccontò i tratti principali di quella riunione, sorvolando
su alcuni dettagli
ma rimarcando sugli aspetti fondamentali del discorso.
“Quindi
dovete scegliere la
persona adatta per una missione delicata…”.
“Sì,
infatti. Mi è stato
suggerito di mandarci mio fratello ma…non credo sia il
caso”.
“Forse
dovreste chiederglielo.
Il Vostro gemello ritengo possa scegliere da solo cosa fare. Di certo
ha la
prestanza fisica e le capacità necessarie per una cosa del
genere”.
“È
pericoloso, Nèxus. E lui si
è risvegliato da troppo poco”.
“Ciò
che è successo è
gravissimo ma è un adulto, non potete tenerlo al guinzaglio.
Dovreste proporgli
la cosa. Se poi non se la sente, sceglierete con un diverso criterio.
Non avete
altri parenti in vita…”.
“Lo
so bene! È per questo che
non voglio se ne vada! Lui è tutto quello che
ho…ho già rischiato di perderlo
una volta e non gli permetterò di infilarsi in altri
guai”.
“E
come credi di impedirmelo?
Rinchiudendomi in gabbia come un canarino?” si
sentì da un punto imprecisato
dell’immenso salone.
“Aherektess,
fratello mio, sei
tu?”.
“In
persona, gemellino…”.
Il
gemello del re era
appollaiato su una delle aperture a bifora, evidentemente dopo essere
sceso
dall’arco in pietra che copriva un tratto della sala, dove
era contenuto il
vetro per chiuderla. Era rimasto nascosto, ascoltando tutta la
conversazione,
ed ora si era sentito pronto ad intervenire.
“Lasciaci
soli, Nèxus” ordinò
Zameknenit e il consigliere uscì con un inchino.
“Lo
sai, Areky, che non è
educazione origliare” parlò il re, quando fu solo
con il gemello.
“E
tu lo sai che non è
educazione prendere le decisioni per gli altri?”.
“Sono
un re…è il mio
compito!”.
“Non
per tutti. Non ti
permettere di scegliere ancora per me”.
La
determinazione del fratello
stupì Zameknenit, che non rispose ed attese che il gemello
si avvicinasse alla
sua postazione, rimanendo seduto sul suo trono dorato. Aherektess
scese, con
gli stivali neri che ticchettarono sul pavimento azzurro a decori
geometrici
bianchi lucidi. Avanzò fra le colonne e raggiunse il
fratello, dopo essere
salito lungo i pochi scalini che rialzavano il trono dal suolo, fino a
fermarvisi di fronte, con le mani sui fianchi e le gambe leggermente
divaricate.
I
due gemelli avevano colori
speculari, come speculare era l’orecchino d’oro che
portavano. Aherektess, con
l’anello sull’orecchio sinistro, aveva gli occhi
rossi, come i capelli del
fratello, e la capigliatura blu scuro come le iridi del gemello. Le sue
piume
erano arancio e i tatuaggi, identici a quelli di Zameknenit, spiccavano
sulla
pelle chiara con il loro colore verde scuro.
Camminando,
i lunghi capelli
blu non si mossero. A differenza di quelli del re, presentavano un
ciuffo che
gli copriva parte del viso e non erano sparati in aria,
bensì ricadevano fino a
circa la fine della schiena, terminando con punte regolari.
I
capelli degli abitanti del
regno dell’Aria non si scompigliavano mai.
Era
vestito di scuro, con la
canottiera identica a quella del fratello, per lasciare libere le
braccia, ma
con dei decori argento. I pantaloni grigi coprivano la parte alta degli
stivali
neri ed erano sorretti da una grossa cintura da cui si poteva
intravedere il
fodero di un pugnale, da cui Aherektess non si separava mai. I due
gemelli
portavano lo stesso segno sulla fronte, una specie di V, dello stesso
colore
dei tatuaggi. Erano entrambi piuttosto magri, con degli zigomi alti ed
un naso
aquilino piuttosto particolare. Impossibile non capire che erano
gemelli.
Aherektess
incrociò le braccia
ed attese spiegazioni dal fratello, che si limitò a
guardarlo dal basso
restando seduto.
“Tutto
ciò che ho fatto fin
ora è stato proteggerti, Areky” parlò,
calmo, il re.
“Non
mi serve la tua
protezione” sibilò, di risposta, il principe.
“Ti
sei svegliato solo di
recente da un lungo coma, non hai idea di come sia fatto il Mondo. Non
potrei
mai permettere che ti accadesse altro…”.
“Per
quanto tempo intendi
stressarmi con questa storia del coma?! Mi sono svegliato, ok? E questo
è
successo più di un anno fa. Questa faccenda del viaggio mi
piace. Avrei l’occasione
di misurare me stesso, allontanarmi un po’ da qui, riprendere
per davvero il
contatto con la realtà. E poi non troverai nessuno
più adatto di me ad una
missione del genere”.
“Come
puoi credere di esserne
in grado? Fino a qualche mese fa facevi fatica perfino a
correre!”.
“Ora
sto bene. E voglio essere
io il prescelto per il nostro regno. Ho bisogno di andarmene da qui,
passare
del tempo altrove…”.
“È
per via di Miya?”.
“Per
lei e per altro. Lasciami
andare”.
“No.
Non ne sei in grado e
questa è la mia decisione definitiva”.
Aherektess
indietreggiò di
qualche passo, scendendo dai gradini, senza parlare.
“Cerca
di capirmi, fratello…lo
faccio per il tuo bene! Vedrai che…”
iniziò a dire Zameknenit ma fu costretto a
fermarsi, perché il gemello gli stava puntando il pugnale
alla gola, dopo un
agile salto.
“Che
intendi fare?” mormorò il
re, tentando di ostentare calma e sicurezza “Lo sai che mi
basta urlare e
subito sarai circondato dalle guardie”.
“E
cosa credi di ottenere con
un gesto del genere? Io ti avrò accoltellato prima del loro
arrivo e non
potranno più farmi niente perché sarò
io il nuovo re. Ti ricordo che siamo
rimasti solo noi di sangue reale…non farmelo versare
inutilmente”.
“Vuoi
uccidermi? Arriveresti a
tanto?”.
“No.
Voglio sfidarti. Ti voglio
dimostrare che sono più forte e preparato di quanto tu possa
credere. Accetti
la mia sfida?”.
Il
re annuì ed il gemello
ripose il pugnale nel fodero, prima di sganciarlo e gettarlo a terra,
ad
indicare al fratello che voleva uno scontro ad armi pari. Zameknenit si
alzò e
raggiunse il gemello giù dagli scalini, scendendoli
lentamente. Non apprezzava
l’idea di combattere contro il fratello ma quello era
testardo, lo era sempre
stato, e doveva accontentarlo per fargli capire come stavano le cose.
Si preparò
a combattere, concentrandosi per richiamare l’energia magica
di cui voleva far
uso. Aherektess fece lo stesso, avvolgendosi in una corrente di luce
magica di
colore blu elettrico, esattamente come i suoi capelli. Cominciarono ad
affrontarsi, dopo un grido che allarmò parecchio le guardie,
che entrarono nel
salone. Controvoglia non intervennero, dovettero lasciare la stanza per
ordine
del re. Aherektess scattò in avanti, cogliendo di sorpresa
il fratello che si
aspettava un combattimento a distanza con il solo uso della magia. Si
ritrovò a
terra dopo un poderoso calcio del gemello. Gemette, per la sorpresa e
per la
brutta sensazione che gli dava scivolare sul marmo con la pelle nuda, e
si
rialzò subito, accigliandosi. Se Aherektess voleva il gioco
duro, sarebbe stato
accontentato! Avrebbe avuto pane per i suoi denti. Si
avventò sul fratello e lo
colpì alla spalla con un pugno. Tentò di
afferrargli il braccio ma non ci
riuscì perché questi lo schivò
facilmente e lo fece sbilanciare. Il re non
cadde, girò su se stesso e parò un altro colpo
che altrimenti lo avrebbe
ributtato a terra. Stese il braccio e una scintilla di magia
andò quasi a
segno, Aherektess però fu più veloce e non si
fece neppure sfiorare. Con un
balzo all’indietro, Zameknenit si allontanò dalla
traiettoria delle sfere
magiche del gemello. Questi prese il volo, con un poderoso battito
delle
braccia, e si fiondò su di lui urlando. Il sovrano
saltò e riuscì ad afferrare
il suo avversario, buttandolo a terra. La reazione fu immediata:
Aherektess si rialzò
e ricominciarono a lottare velocissimi, in una lunga sequela di calci,
pugni e
colpi magici. Nessuno dei due sembrava prevalere sull’altro,
e questo stupì
parecchio Zameknenit ma, dopo quasi un’ora di lotta, il re
commise un errore.
Il fratello lo colpì più forte, forse richiamando
a sé le ultime scintille di
energia, e lo mandò a tappeto.
“Mi
arrendo…” ansimò
Zameknenit, notando che il gemello aveva impugnato un’altra
volta il pugnale e
lo teneva nuovamente vicinissimo alla giugulare del parente.
“Bravo…”
rispose Aherektess,
ansimando dalla fatica pure lui e sogghignando dalla soddisfazione
“…anche
perché se no ero costretto a dire a tutti che, anche se
siamo gemelli, sono
nato qualche minuto prima di te e quindi il trono è
mio”.
Zameknenit
rimase sconcertato
da quelle parole e rimase a bocca aperta.
“Tranquillo…”
aggiunse il
fratello dai capelli blu “…non ci tengo a
diventare re. Ora ricomponiti…e dai
ordine di preparare la mia partenza!”.
Il
vincitore aiutò lo
sconfitto a rialzarsi, porgendogli la mano. Rimasero seri qualche
istante ma
poi si sorrisero. Era da quando erano bambini che non si affrontavano!
“Anche
quando eravamo piccoli
vincevo sempre io…” disse Aherektess, cercando di
minimizzare l’ansimare delle
sue parole “…comunque sei diventato
bravo!”.
“Anche
tu. Non me
l’aspettavo…complimenti” rispose il re,
piegato con le mani sulle ginocchia per
riprendere fiato.
Dopo
essersi ripreso, il
sovrano lasciò la sala, mentre il fratello volava via,
diretto verso le sue
stanze. Subito dietro la porta trovò Nèxus ad
attenderlo, preoccupatissimo.
“State
bene? Cosa è successo?”
domandò il consigliere, allarmato.
Zameknenit
non fermò il suo
passo, col dorso della mano pulì distrattamente un rivolo di
sangue che usciva
dal lato delle sue labbra, e nemmeno voltò lo sguardo.
“Prepara
le cose necessarie
per far partire Aherektess…” si limitò
a dire “…sarà lui il rappresentante del
regno dell’Aria al cospetto del Signore
dell’Ovest”.
“Sì…sì,
signore!” rispose
Nèxus, dopo un attimo di smarrimento.
“E
rimuovi il sigillo che gli
impedisce di lasciare il palazzo…ora lasciatemi in pace. Ho
bisogno di
riposare” sbottò ancora il re e si rinchiuse nelle
sue stanze, senza aggiungere
altro.
†††
Ozymandias
sbadigliò. Le
riunioni del Signore dell’Est lo annoiavano, solitamente, ma
quella aveva
lasciato un’impronta non indifferente sul suo animo.
Iniziò a vagliare ogni
diversa possibilità…chi mandare dal Signore
dell’Ovest? Doveva essere una
persona di cui fidarsi ciecamente, altrimenti non avrebbe mai potuto
affidargli
l’unica chiave d’accesso al palazzo
dell’Ovest, e doveva avere determinati
requisiti. Per una creatura d’ombra non era di certo
difficile attaccare e
difendersi, era praticamente impossibile colpirle o ferirle, ma la
maggior
parte di loro stava benissimo dove stava. Amava restare nel buio del
regno,
senza uscirne per nessuna regione. Di certo, però, lui era
il re e quindi
avrebbe costretto il candidato ideale, se fosse stato necessario!
Camminava
fluttuando per il
suo palazzo nero, senza finestre né luci, orientandosi e
vedendo benissimo con
i suoi grandi occhi d’argento. Brillavano come piccole stelle
nel buio totale,
girando a destra e a sinistra in cerca di un qualche tipo di
ispirazione.
Scartò subito un paio di possibili campioni
perché con moglie e figli, non
avrebbero mai lasciato il regno a lungo. Di altri non poteva
effettivamente
credere alla loro reale fedeltà e li saltò. Si
concentrò sui suoi consanguinei.
Sua sorella, con i nipotini, non si sarebbe mai mossa. I figli di lei,
con i
bambini piccoli, tanto meno.
Ad
un tratto, lungo il
corridoio, avvertì chiaramente una presenza e la riconobbe
subito. Sorrise, per
quanto un’ombra possa sorridere, ed aprì le
braccia. Sua figlia, l’unica che
aveva, era venuta a dargli il “bentornato”. Si
abbracciarono, divenendo per
qualche istante un corpo solo, nero e quasi incorporeo. Sembrava di
buon umore
ma il padre notò subito una punta di malessere negli occhi
argentati della sua
bambina, simile a quello che aveva quando era partito. Si
accigliò.
“Cosa
ti turba, piccola mia?”
domandò, preoccupato.
“Niente,
papà. E non sono una
bambina già da un po’…piuttosto,
com’è andato il viaggio? E la riunione?
Perché
siete stati convocati?”.
Ozymandias
la guardò. In
effetti non era più una bambina, non più. Anche
se era piuttosto minuta e bassa
di statura, ormai era praticamente una donna ed era tempo che iniziasse
ad
accettarlo.
Si
assomigliavano molto. Oltre
agli occhi, identici, si potevano distinguere lunghi capelli mossi e
fluttuanti
fino quasi ai piedi di entrambi. Solo che il sovrano
dell’Oscurità era
piuttosto grosso mentre la principessa sembrava poter essere portata
via dal
vento da un momento all’altro.
“Sei
andata via, sei uscita da
palazzo, mentre io non ero presente?” parlò il re,
con voce profonda e
vibrante, rimbombante.
“No.
Sono rimasta qui, ad
occuparmi delle faccende di cui potevo occuparmi, come mi avevi
detto”.
“Però…ti
sarebbe piaciuto
andartene?”.
La
figlia attese prima di
rispondere ma poi annuì.
“Perché,
Lehelin, non ti piace
stare qui?”.
“Non
è che non mi piaccia
stare qui…è che ho il desiderio di cambiare ogni
tanto…di allontanarmi. So che
il mio compito sarà divenire regina
dell’Oscurità, ma sento che qualcosa mi
manca e non è qui. Forse mi sto sbagliando…forse
sono tutta matta!”.
“Non
sei matta. Se senti che
ti manca qualcosa…ma cosa credi che sia?”.
“Non
lo so! È per questo che
mi sento una povera pazza. Perché giro in cerca di qualcosa
che forse nemmeno
esiste…”.
“Farei
qualsiasi cosa per
renderti felice. Dimmi cosa posso fare…”.
“Non
so nemmeno questo…”.
Il
sovrano non parlò. Ad un
tratto un’idea, fulminea ed inattesa, gli balenò
in mente e la sua lingua
parlò, senza nemmeno dare tempo al cervello di elaborare il
tutto.
“Ti
piacerebbe fare un
viaggio?” disse.
Nel
momento stesso in cui
pronunciava quelle parole già se ne pentiva e si chiedeva
cosa diavolo gli era
passato per la testa.
“Un
viaggio? Sì! Dove, papà?”
rispose, piena d’entusiasmo, Lehelin.
“Attorno
ad Asteria. Per
ordine dei Signori dell’Est e dell’Ovest”
spiegò il padre, sempre pentendosi di
averne parlato.
“Da
sola?”.
“Con
altri nove.
Rappresentanti ognuno di un regno diverso dal nostro”.
“Quindi
niente gente
dell’Ombra, niente guardie del corpo scelte da te, solo
persone nuove e
sconosciute verso terre che non ho mai visto né
immaginato?”.
“Più
o meno…se non te la senti
posso capirlo. È rischioso e nessuno sa dirti cosa
esattamente incontrerai
lungo il cammino. Dicono che sarete una squadra,
un’alleanza…ma per me, alla
fine, vi ritroverete a dover pensare ognuno per
sé”.
“Meglio,
no?”.
“Sì,
meglio ma…l’idea di
saperti là fuori da sola…senza nemmeno la
consapevolezza di cosa ci vai a fare
perché la missione non mi è stata spiegata del
tutto…mi mette ansia!”.
“Papà!
Non ti devi
preoccupare. Sono la migliore incantatrice del regno, dopo di te
ovviamente,
sangue del tuo sangue, vedrai che andrà tutto
bene!”.
“Vuoi
partire, dunque?”
mormorò Ozymandias, avendo un tuffo al cuore al solo
pensiero di separarsi
dalla sua unica creatura per un periodo lungo come un viaggio attorno
ad
Asteria. Solamente con lei mostrava quel lato quasi tenero, e
raramente, ma in
quel caso non poteva fare a meno di lanciare uno sguardo di supplica
alla
figlia affinché cambiasse idea. Ovviamente la principessa
ignorò del tutto
quello sguardo e confermò le sue intenzioni: partire e
rischiare!
“Lascia
almeno che ti spieghi
tutto ciò che mi è stato
detto…”.
“Parla
pure, papà. Ma tanto
ormai ho già deciso!” sogghignò,
entusiasta, Lehelin.
Ozymandias
sospirò ed iniziò a
raccontare, suscitando sempre più convinzione nella figlia,
nonostante il suo
intento fosse opposto. Si parlarono camminando per il corridoio, lungo
il quale
erano esposti i quadri dei ritratti di famiglia, fra gli inchini di
guardie e
servitori che incrociarono.
Il
sovrano, con la corona nera
piena di spuntoni che veniva sorretta dalla massa d’ombra
fluttuante dei suoi
capelli, capì che nulla avrebbe potuto far cambiare idea a
quella cocciuta
signorina dell’Oscurità ed iniziò a
riempirla di raccomandazioni, ignorando gli
sbuffi della figlia.
“Non
sono più una ragazzina…ho
passato i venti! E anche da anni!”.
“Voglio
solo che tu sia al
sicuro. Ed il mio compito è quello di darti consigli, da
bravo padre…”.
“E
va bene…spara pure tutti i
tuoi consigli, ma rilassati!”.
“Innanzitutto
preparati
all’idea che viaggerai con nove individui molto strani. Hanno
le ali, le
squame, strane luci sulla pelle…sono tutti
particolari!” iniziò Ozymandias.
“Immagino
che per loro noi
siamo altrettanto strani…”.
“Sì,
sicuramente! Basta vedere
gli sguardi terrorizzati che mi lanciava quel pivellino del re
dell’Aria!
Sembrava un marmocchio abbandonato, un pulcino implume!”.
“Zameknenit?”.
“Sì.
Proprio lui! Chissà chi
manderà come rappresentante del suo regno…vedrai!
Alcuni di loro sono davvero
pittoreschi. E pericolosi. Ricordati che è difficile ferirci
ma la vicinanza
della luce può essere dannosa, molto dannosa!
Perciò, anche se non so chi verrà
scelto come rappresentante del regno della Luce e del Fuoco, ti
consiglio di
stare molto attenta perché potresti subire delle conseguenze
poco piacevoli”.
“Starò
attenta, papà. E vedrai
che, quando tornerò, sarò pronta a restare qui
come futura regina”.
Ozymandias
annuì, poco
convinto. Accompagnò la figlia fino alle sue stanze.
“Fra
un mese sarai al cospetto
del Signore dell’Ovest. Preparati come meglio
credi…”.
Lehelin
fece un cenno con la
testa ed entrò nella sua stanza, tutta nera e lucida.
Allungò la mano ed il suo
adorato corvo dagli occhi blu vi si appollaiò sopra. Per
quell’uccello era
stata aperta una finestra ad arco da dove si poteva vedere il cielo
sempre
buio, tranne che per i satelliti e le stelle che brillavano su Varuna,
la
capitale del regno dell’Oscurità, e la principessa
dei corvi guardò quel cielo
e sorrise.
†††
La
regina del mondo del
Ghiaccio, Rocana, aveva già deciso chi scegliere per la
missione dei due
Signori, Est e Ovest, ed arrivò a casa di buon umore. Si
sentiva rassicurata da
quest’idea ed entrò nella sua dimora di cristallo
piuttosto tranquilla. Salutò
le sue dame di corte ed andò di corsa a rinfrescarsi, dopo
il lungo viaggio
lontana dalle temperature a cui era abituata. Dopo aver fatto un bel
bagno, si
rivestì con una lunga tunica bianca ed un mantello azzurro
pallido con il bordo
di pelo. Infilò i guanti ed uscì in giardino,
dove aveva sentito delle voci a
lei familiari.
Camminò
sulla neve, con gli
stivaletti imbottiti e sorrise. I suoi tre figli erano lì e
si stavano
esercitando. Aveva due maschi ed una femmina. Subito mise gli occhi sul
primogenito che aveva da poco compiuto i trent’anni. Era
muscoloso, biondo, con
i capelli raccolti in un piccolo codino ed il pizzetto. La regina aveva
stabilito che era lui il prescelto per il viaggio. Era forte,
coraggioso ed
avvezzo a situazioni particolari avendo passato quasi una decina
d’anni
nell’esercito.
La
madre gli sorrise e fece un
cenno ai tre di riporre le armi e venirla a salutare. Il secondogenito
fu il
primo a raggiungere Rocana. Aveva i capelli più scuri del
primo nato ma molto
più corti ed era senza barba. La ragazza, la figlia
più giovane, fece una corsa
ed abbracciò forte la madre, con la lunga treccia bionda che
saltò dietro di
lei. Aveva quattro anni in meno del primogenito e due anni di
differenza dal
secondo, ovviamente era per tutti la piccola di casa.
Anche
il padre lasciò i suoi
affari e venne a salutare la moglie. Era Rocana la discendente della
famiglia
reale e quindi spettava a lei presentarsi alle riunioni dei Signori di
Est e
Ovest, mentre il marito svolgeva i soliti compiti burocratici tipici
dei reali.
Re e regina si baciarono dolcemente e poi la sovrana iniziò
a spiegare ciò che
era stato stabilito alla riunione.
Nevicava
molto ma per gli
abitanti del regno del Ghiaccio non era un problema. Con il freddo si
rafforzavano e vivevano meglio. La loro pelle, bianco latte con qualche
innesto
simile al vetro, incorniciata sempre da capelli biondi, di
tonalità diverse,
assieme agli occhi azzurri o verde chiaro, li rendevano inconfondibili
fra le
creature di Asteria. Eran tutti alti, la corporatura degli uomini era
robusta,
con larghe spalle ed ampio torace, mentre le donne presentavano sempre
forme
generose ed agilità nei movimenti. La famiglia reale
rispettava pienamente quei
canoni: c’erano solo iridi azzurre, bellissime e luminose, ed
i loro fisici
presentavano tutti i tratti tipici di quel reame.
I
fiocchi non si scioglievano
se non dopo tanto tempo sui capelli dritti e biondi della regina mentre
raccontava. Su quelli del re si notavano di più
perché aveva la capigliatura
leggermente più scura, come il secondogenito. Sui tre figli
questo fenomeno non
avveniva perché continuavano ad agitarsi, impazienti di
sentirsi spiegare ogni
cosa.
Terminato
il racconto, Rocana
guardò il suo primo figlio ed affermò che sarebbe
stato lui ad affrontare quel
viaggio, con un tono che non ammetteva repliche. Sul viso del maggiore
si formò
una smorfia di fastidio, era evidente che non gradiva molto quella
prospettiva.
Tentò di aprir bocca per protestare ma la madre non
accennava a fare silenzio.
“Partirai
fra breve…” stava
dicendo la regina “…perché fra meno di
un mese dovrai presentarti al cospetto
del Signore dell’Ovest. Ti consegnerò la chiave ed
ogni tipo di informazione
utile al riguardo. Come futuro re, mi aspetto che tu renda onore alla
nostra
meravigliosa razza e sono certa che non mi deluderai. Puoi iniziare a
prepararti
già da ora, come meglio credi”.
Il
principe approfittò della
pausa per esprimere il suo parere: lui non voleva partire.
“Come
mai? Qualcosa ti
spaventa?” si allarmò Rocana.
Subito
lui scosse la testa.
“Non
ho paura del viaggio,
madre…è solo che non voglio allontanarmi troppo a
lungo da qui”.
“Spiegami
come mai, allora!”.
Non
ci fu risposta ma il padre
sorrise.
“Quello
sguardo…” spiegò alla
moglie “…può voler dire solo una cosa:
una donna. Nostro figlio non vuole
allontanarsi da una bella fanciulla per troppo tempo”.
“È
vero?” si stupì Rocana ed
il figlio non disse nulla, nemmeno annuì, ma
arrossì leggermente e questo alla
regina bastò.
“Se
è così…partirà tuo
fratello!” affermò, sorridendo, ed indicando il
secondo nato.
“Sempre
che anche tu non abbia
niente in contrario…” aggiunse il re.
Il
secondogenito alzò le
spalle come a voler dire “per me è uguale, non ho
niente da obiettare”.
“Allora
è deciso! Sarai tu a
partire, Igorhay” ordinò il re, soddisfatto quanto
la regina.
I
sovrani fecero per
andarsene, prendendosi a braccetto fra la tormenta, quando una voce che
fin ora
non si era fatta sentire pronunciò un seccato “E
io?!” stupendo gli altri
membri della famiglia.
A
parlare era stata Hanjuly,
la terzogenita, che se ne stava imbronciata e con le braccia
incrociate,
lanciando sguardi d’accusa ai parenti.
“Tu
cosa, mia cara?” si
informò la madre.
“Perché
non avete preso in
considerazione anche me? Io so combattere, probabilmente meglio di
questi due…”
indicò i fratelli “…e potrei
farcela”.
“Ma
tu sei una principessa e
ad una principessa non si addicono certe cose” si
giustificò il padre.
“Stronzate!”
sbottò lei,
offesa.
“Come
non si addicono ad una
principessa parole del genere!” la rimproverò la
regina, sconvolta dal
comportamento della figlia.
“Non
sono una delicata e mite
fanciulla, e lo sapete tutti quanti molto bene! Avanti, Igorhay,
diglielo anche
tu che ti sconfiggo sempre quando ci alleniamo fra di noi!”.
“Molto
sconveniente che una
principessa combatta…”.
“Ma
dai, mamma! Anche tu
combattevi quand’avevi la mia età! Non lo ricordi
più?”.
“Io
ero la futura regina. Ho
dovuto farlo. Ma avrei tanto voluto farne a meno”.
“Beh,
io voglio l’opposto! E
sono brava, perciò non vedo dove sia il problema!”.
“Non
importa se non vedi il
problema, signorina…” alzò la voce il
re “…tu non andrai da nessuna parte. A
partire sarà tuo fratello Igorhay, e con questo considero
conclusa la
faccenda!”.
Detto
questo, ignorando le
proteste della figlia, i genitori se ne andarono, rientrando nel
castello di
cristallo. Hanjuly, frustrata, cominciò ad inveire al vento,
usando parole che
decisamente poco si addicono ad una fanciulla, sicura che tutti
potessero
sentirla. Pestò i piedi nella neve, mentre anche i fratelli
si allontanavano,
ridacchiando.
Protestò
per giorni interi,
fuori e dentro il palazzo ad Enrivai, la capitale, con tutti coloro che
gli
capitavano a tiro, sempre usando toni e termini poco principeschi. Per
quasi
due settimane tentò con questa “politica del
terrore” ad ottenere ciò che
voleva ma non ottenne nulla, se non aspri rimproveri che nemmeno da
ragazzina
si era sentita rivolgere. Afflitta, abbandonò quella tecnica
e cambiò tattica:
provò con le suppliche e con i lamenti. Inseguì i
genitori ed i fratelli
tentando di convincerli. Voleva ad ogni costo ricevere una
possibilità per
poter dimostrare il proprio valore e non essere considerata una
semplice
principessina stile bambola di porcellana. Rabbrividì. Con
un vestito adatto,
che non avrebbe mai indossato, ed il tipico tipo di pelle del regno del
Ghiaccio, bianco e liscio come il vetro, poteva divenire davvero una
specie di
bambola di porcellana ambulante! Non desiderava di certo
un’immagine simile su
di sé ed ora le si presentava l’occasione adatta
per sfatare ogni dubbio dai
sudditi e dai familiari. Nonostante la sua convinzione e
determinazione, però,
i genitori non cedettero di un passo sulle loro posizioni. Non le
accordarono
il permesso di partire. E neppure Igorhay sembrò volerla
accontentare, nemmeno
quando lei mostrò tristi occhi da cerbiatta o lo
minacciò con uno stivale.
Nemmeno sotto tortura, solletico o pizzicotti, o promesse di vendetta.
Ormai il
giorno della partenza era prossima, ed Hanjuly dovette arrendersi
all’evidenza
che non si sarebbe allontanata da quelle pareti di cristallo, non sta
volta.
Sospirò, avrebbe dovuto aspettare la prossima occasione.
†††
“Kassihell!”
tuonò Vehuya,
piombando senza preavviso nell’edificio dove il figlio si
allenava sempre,
spalancando le porte scorrevoli quasi con rabbia.
Non
aveva fatto notare a
nessuno il suo ritorno il re del Fuoco, ma si era subito presentato in
presenza
del principe ereditario, in un modo tale che allarmò tutte
le guardie ed i
presenti nell’edificio. Tutti tranne Kassihell, che rimase
immobile, scalzo sul
pavimento nero, probabilmente di lava levigata. Accanto a lui i suoi
avversari
restavano seduti, sconfitti e stanchi, ma sobbalzarono
all’arrivo del re,
sorpresi e spaventati. L’edificio, molto simile ad un tempio,
situato nel
cortile interno del palazzo reale, tremò
all’ingresso di Vehuya, così impetuoso
ed energico. Le fiamme delle lanterne circolari, appese al soffitto, si
protesero verso di lui, riconoscendolo come il maggiore rappresentante
del
proprio elemento. Kassihell non si scompose e continuò i
suoi esercizi con la
spada, molto simile ad una Katana, senza sbagliare nemmeno un
movimento.
“Kassihell!”
tuonò di nuovo il
sovrano del regno del Fuoco.
“Non
serve mica gridare…sono
qui! Cosa vuoi?” sbottò il principe, senza
interrompere l’allenamento e senza
rivolgere gli occhi verso il genitore, dandogli le spalle.
I
due si assomigliavano molto.
Stesso sguardo, con quegli occhi leggermente a mandorla, stessi
tatuaggi di
fiamme e simboli su braccia, busto e resto del corpo, stessi capelli
mossi e
fisionomia. Kassihell, però, non aveva la barba lunga a
treccia come quella del
padre. La teneva sempre di qualche giorno, assumendo un aspetto
piuttosto
trasandato, unito ai capelli lunghi fino alle spalle che non vedevano
un
pettine da tempo imprecisato. E non aveva gli occhi rossi, come Vehuya,
ma nocciola.
Entrambi non erano né alti né massicci, con
spalle strette e piedi piccoli. Non
li si poteva definire minuti, la loro muscolatura era evidente, ma non
eccessiva. Sapevano, tuttavia, di essere fra gli abitanti
più temibili del
pianeta. Il padre restò a guardare il figlio mentre,
indossando solamente degli
ampissimi pantaloni scuri sorretti da una cintura, riusciva a combinare
i
movimenti della sua spada con il controllo del fuoco, manovrandolo a
suo
piacimento. Di certo l’uso di quell’elemento non
lasciava impuniti: ogni
creatura del Fuoco presentava almeno una cicatrice o bruciatura.
Ovviamente
Kassihell ed il padre non erano da meno, ed ognuno di quei segni era
motivo
d’orgoglio perché indicava il coraggio di aver
domato le fiamme. Vehuya impartì
l’ordine che tutti, tranne il principe, abbandonassero
l’edificio, lasciandoli
soli. Solo in quel momento il figlio si fermò. Si
girò verso il padre, sempre
con la Katana in pugno. Lo fissò con aria interrogativa ed
accigliata. Sperava
davvero che il suo vecchio non gli chiedesse di sfidarlo di nuovo,
perché
sapeva benissimo di aver ormai superato il genitore e lo aveva
dimostrato più
volte. Non amava essere interrotto nei suoi esercizi e quindi
puntò la spada
verso il padre, ripetendo con più convinzione il
“Cosa vuoi?” che gli aveva
rivolto prima, con un tono piuttosto minaccioso.
“Preparati.
Fra meno di un
mese dovrai essere al cospetto del Signore
dell’Ovest” ordinò Vehuya.
“Come
scusa?” si stupì
Kassihell, abbassando il braccio armato.
“Non
mi hai sentito? Ti ho
dato un ordine”.
“Ma
io non ho alcuna
intenzione di muovermi da qui!”.
“Ed
io ti dico che lo devi
fare per forza perché sono l’imperatore e mi devi
obbedire. È tuo dovere darmi
ascolto e fare ciò che ti dico!” ghignò
con rabbia Vehuya.
“È
da quasi trentasei anni che
non ti do ascolto e non faccio ciò che
dici…cioè, praticamente, da quanto sono
nato!”.
“Non
sarebbe ora che
iniziassi?”.
“Assolutamente
no. E poi,
scusa, mia moglie ed i bambini dove li mettiamo? Come faccio a
lasciarli da
soli per fare non so bene che cosa?”.
“A
loro penserò io per tutto
il tempo che sarà necessario”.
“Non
ti affiderei nemmeno le
mie pantofole, figuriamoci la mia famiglia!”.
Vehuya
stava per rispondere,
con un guizzo di fiamma negli occhi rossi, quando una voce squillante e
femminile risuonò dietro di lui. Una giovane, sulla ventina,
gli saltò sulla
schiena chiamandolo papà. Era Assahaleya, la principessa dai
capelli neri.
Kassihell le sorrise. Guardandola si capiva che non era figlia del re
del
Fuoco, bensì di una “scappatella” della
regina, ma nessuno nel regno aveva il
coraggio di dirlo, nemmeno il sovrano stesso. Dietro di lei
arrivò Corihin, la
regina, parecchio più giovane del marito e con gli stessi
capelli neri e dritti
della figlia, lunghi fino alle spalle. Gli occhi nocciola erano
l’eredità che
aveva trasmesso al primogenito che aveva, nel frattempo, riposto la
spada con
cura.
“Bentornato,
caro” salutò il
consorte.
Era
vestita con un elegante
abito da sera, aderente, come la figlia, stretto in vita da
un’ampia cintura.
Camminava a piccoli passi sui sandali alti, infradito, e si copriva
dagli
sbuffi di cenere del vicino vulcano con un ombrellino a fiori di colore
delicato.
“Lieto
di vederti, mia Geisha”
le rispose il marito.
“Non
chiamarmi così” lo
rimproverò lei e lui sorrise, chinando la testa leggermente,
sempre con la
principessa ben ancorata alla schiena, con le braccia attorno al collo.
“Sei
tornato senza nemmeno
avvertire. Tutto il viaggio da solo…ma vedo con piacere che
stavi parlando con
Kassihell…” riprese Corihin.
“Sì,
cara…stavamo per…prendere
il the!” mentì Vehuya.
“Già,
il the!” confermò il
principe, non volendo rendere noti gli screzi che aveva spesso con il
padre,
accingendosi a preparare un tavolino per rendere la cosa credibile.
“Ah,
bene…per una volta non
litigate” sorrise la madre, falsamente, comunicando che non
potevano prenderla
in giro.
“Stavo
dicendo al nostro
adorato figlio che spetta a lui fare ciò che gli ho
ordinato, se non vuole che
a rischiare la vita sia la sua amata sorellina, ma a quanto pare non ha
voglia
di obbedirmi…” spiegò Vehuya, con il
tono più falso e distorto che potesse
avere.
“Che
dici? Kassihell! Di che
si tratta? Metteresti davvero in pericolo tua sorella?” si
allarmò Corihin,
mentre Assahaleya si staccava dalla schiena del sovrano.
“In
pericolo in che modo?”
squittì poi, sorridendo.
“Non
ti metterei mai in
pericolo, sorellina!” si affrettò a dire il
principe.
“Allora
devi obbedirmi!”.
“Riguarda
qualcosa che ha
detto il Signore dell’Est?” si informò
la regina.
“Precisamente”
riprese Vehuya
“Sareste così gentili da lasciarci da soli? Sono
argomenti non adatti alle
orecchie femminili. E ad ogni modo sappiamo risolvere fra noi, non vi
dovete
preoccupare”.
L’imperatrice
rimase un po’
titubante ma poi, notando lo sguardo minaccioso del marito, prese la
figlia
sottobraccio e la invitò a venire con lei.
L’imperatore
del Fuoco chiuse
la porta scorrevole dietro di sé, una volta fatte uscire
moglie e figlia, e
ghignò trionfante al figlio.
“Che
bastardo, meschino e
figlio di puttana che sei!” sibilò Kassihell.
“Sono
affari, mio caro”
rispose il padre.
Si
inginocchiarono accanto al
basso tavolino che era stato estratto per il the, che ovviamente non
arrivò, e
si fissarono negli occhi.
“Di
che si tratta? Spiegati
meglio” parlò il principe, sforzandosi di restare
calmo.
“Il
Signore dell’Est vuole
affidare una speciale missione ad un rappresentante di ogni regno
e…”.
“E
non puoi scegliere qualcun
altro?!” interruppe Kassihell “Il capo delle
guardie, ad esempio…”.
“No,
non posso. Lui, il Signore
dell’Est, vuole espressamente che sia un membro della
famiglia reale, imperiale
nel nostro caso, e questo vale per tutti” mentì
Vehuya.
“E
perché non ci vai tu,
allora?”.
“Non
vuole capi di stato.
Creerebbe troppo scompiglio fra la gente. Suvvia, Kassy…non
vorrai mica che ci
mandi tua sorella, vero? O uno dei tuoi figli? Quale dei
tre…quello di sei
mesi?”.
“Sei
proprio un bastardo…”.
“Sono
cose che capitano,
ragazzo mio e, comunque, obbedirai al mio ordine?”.
“Sì,
certo. Credo di non avere
altra scelta. Quanto tempo durerà questa missione di cui
parli?”.
“Non
tantissimo. Sarà il
Signore dell’Ovest a spiegarti tutto, ma in un paio di mesi
al massimo sarai
già di ritorno, te lo assicuro”.
“Non
mi fido di te”.
“Mi
spiace ma non hai
scelta!”.
“Potrei
ucciderti. Così
facendo diverrei re e i Signori non mi vorrebbero”.
“E
chi manderesti per la loro
missione? Li ignoreresti?”.
“Esatto!
Me ne sbatto dei
Signori di Est e Ovest. E me ne sbatterei anche dei Signori di Sud e
Nord, se
esistessero!”.
Il
padre si alzò di botto a
quelle affermazioni, ribaltando il tavolino e quasi ringhiando contro
il
figlio.
“Come
osi?!” tuonò “Mancare di
rispetto in questo modo non solo alla tua famiglia, insultando me, ma
perfino
alla magia stessa del pianeta, parlando così dei Signori di
Est e Ovest?!”.
“E
allora? Cosa ti importa?”.
“Parli
in questo modo anche
del grande Dio delle Fiamme, dei Vulcani, Signore della stella Sirona
che ci
illumina? Sei così sfacciato?!”.
Kassihell
girò gli occhi verso
l’immagine della divinità che decorava una delle
pareti. Era imponente,
ricoperto di fuoco, con lo sguardo malvagio.
“Dubito
che al Dio Daram
importi se lo venero o meno” sbottò il principe
“Ci sono tanti altri in giro
che stan a pregarlo e supplicarlo per ogni cosa. Credo, piuttosto, sia
felice
che almeno uno in questo impero non gli piagnucoli dietro. E mi pare
che, anche
se non sono un credente devoto, il fuoco, i vulcani, Sirona eccetera
lavorino
lo stesso. Ed io riesco pure a gestire la magia delle
fiamme…”.
“Basta!
Questi discorsi mi fanno
davvero imbestialire!”.
“E
cosa credi di fare?! Che
Daram mi mostri la sua ira se è sbagliato ciò che
faccio!”.
“Sei
una bestia!”.
“Ho
preso tutto da te!”.
Vehuya
saltò e tentò di
afferrare il figlio, mosso da un attacco incontrollato d’ira,
ma Kassihell
reagì subito e riuscì facilmente ad atterrare il
padre, ribaltandolo a pancia
all’aria. Lo tenne fermo con un piede e lo guardò
duramente.
“Vecchio,
tu ancora non hai
capito con chi hai a che fare. Non potresti mai battermi, non ora,
perlomeno,
con l’età che hai!”.
L’imperatore
del Fuoco
socchiuse gli occhi, immaginando che il figlio volesse portare a
termine il
proposito che aveva espresso prima: quello di ucciderlo. Il principe
effettivamente fu tentato, guardò la gola del genitore con
sadismo, ma si controllò
e lo lasciò rialzare.
“Partirò
per la tua stupida
missione” mormorò Kassihell con un fil di voce
irata “Ma devi ricordarti che se
vengo a sapere che hai anche solo pensato di fare qualche stupidata con
mia
moglie, i miei figli, con mamma o la mia sorellina…giuro che
ti massacro. Ti
taglio a fette, un arto alla volta, e ti appendo pezzo per pezzo lungo
le vie
di Gibil, la capitale!”.
Vehuya
non parlò, limitandosi
ad annuire come prova della sua buona volontà. Kassihell non
sapeva quanto
credergli, era compito suo mediare fra gli attacchi irragionevoli del
padre,
pur essendo irragionevole lui stesso, e non si sentiva molto al sicuro.
Purtroppo non aveva alternative, se non voleva che il padre mandasse
via la
sorella. Sapeva che l’imperatore era a conoscenza di non
essere il vero padre
di quella ragazza e non voleva rischiare che cadesse in qualche
trappola
meschina, piuttosto l’avrebbe affrontata lui stesso per lei.
Di certo era molto
più preparato alla cosa dell’ingenua ragazzina che
era ancora la sua sorella
minore. Sospirò, mentre il padre iniziò a
spiegargli nei dettagli tutto ciò che
sapeva sulla missione.
†††
Aveva
moltissimi figli
Taranis, re dell’Elettricità, ed in quel momento
li stava osservando con
orgoglio. Era famoso per non essere un uomo a cui piacesse legarsi in
modo
definitivo ad una donna, ma preferiva cambiare. Questo era un
comportamento
tipico degli abitanti di quel regno. Non potevano mai stare fermi per
troppo
tempo, cambiavano dimora, occupazione, compagno ed ogni altra cosa alla
velocità della luce. Non si sposavano, salvo rarissime
eccezioni, e vivevano la
loro vita con impulsività ed incoscienza. Molti di loro non
raggiungevano la
vecchiaia.
I
figli del re erano quasi
tutti di madri diverse, incontri occasionali o brevi storie, che
Taranis
accoglieva volentieri nel suo palazzo globulare, in un edificio
apposito. Era
tornato da poco dalla convocazione ed aveva già esposto la
questione agli
eredi. Tutti parlavano allo stesso momento, questionando su chi fosse
il più
adatto a partire. Il padre non dava nessun parere al riguardo e si
limitava ad
osservarli, mentre ognuno di loro tentava di mettersi in mostra per
essere
scelto. Perfino i piccoli, di età prescolare, mettevano il
broncio quando
qualcuno dei più grandi gli faceva notare che non avrebbero
mai potuto
affrontare un viaggio attorno ad Asteria. Il re non poteva fare a meno
di
sorridere, fiero dei suoi figli. Non li fermò neppure quando
iniziarono a
combattere fra loro per decidere chi era il più forte.
Rimase in piedi, con la
lunga coda terminante con un piccolo globo di luce che si agitava
leggermente.
Sulle pareti della dimora a Fornjotr, la capitale, una delle tante che
possedeva, passavano piccole scosse che illuminavano le stanze a lampi.
Come in
un temporale, la luce appariva e spariva all’improvviso.
Sulla pelle e sul
corpo degli abitanti accadeva lo stesso, portando come unica
conseguenza la
capigliatura irrazionale ed ondulatissima sulla testa degli
elettrificati. Le
loro vesti riprendevano quel disegno, a fulmine, e non erano mai troppo
lunghe
per non interferire con il flusso d’energia che producevano.
Taranis, scalzo
per assorbire le cariche del terreno, camminava scintillando, intento
ad
osservare i figli che gli si esibivano davanti. Al cospetto del padre,
si sentivano
un po’ tutti in soggezione e tentavano di dare il massimo.
Non li fermò fino a
quando un lampo fortissimo attirò la sua attenzione. Si
aspettava provenisse
dalla figlia maggiore o da uno dei ragazzi più grandi e si
stupì tantissimo
quando notò che tutta quell’energia era stata
sprigionata da Reishefy, una
ragazzina non ancora maggiorenne. Il genitore, con gli occhi quasi del
tutto
bianchi, la fissò immobile. Era così minuta,
minuscola, con le forme ancora
acerbe, da non sapere dove potesse contenere tutta quella forza. La
figlia lo
guardò, imbarazzata, quasi a volersi scusare di aver
prodotto un lampo così
potente. I loro capelli bianchi, con ciuffi quasi dorati, ondeggiarono
in
quell’attimo di silenzio.
“Reishefy…”
mormorò Taranis,
mentre anche gli altri fratelli si fermarono.
Non
erano stupiti da quel
lampo, conoscevano molto meglio del padre le potenzialità
della sorella, ma
notarono che il sovrano non aveva occhi che per lei.
“Scusa…”
balbettò la ragazza
“…non so ancora controllarmi molto
bene…”.
“Che
la controlli o meno, la
tua energia è fortissima. Figlia mia, le tue
capacità vanno coltivate nel modo
corretto! Potresti divenire la più potente del regno e della
famiglia!”.
Reishefy
si stupì di quelle
parole ed arrossì, scurendo leggermente le guance quasi
nere, come un cielo
nuvoloso. Perfino il colore della pelle mutava continuamente in quelle
creature, come se fossero attraversati da nuvole nere, ma perennemente
illuminati dall’elettricità che creava e lasciava
scintille dorate su tutto il
loro corpo.
“L’ho
sempre pensato…”
confermò la figlia maggiore, avvicinandosi alla sorellina
“…ma lei si è sempre
vergognata. Era ora che la notassi…”.
Taranis
non rispose. Agitò la
coda, sempre più luminosa perché in grado di
catturare l’elettricità dell’aria,
e fece segno a tutti i suoi figli di avvicinarsi. Non riuscivano a
stare fermi
ma si sforzavano di non agitarsi troppo mentre circondavano il genitore
sorridendo.
“Usiamo
un po’ di logica…”
iniziò a parlare il sovrano “…cosa che
odio fare, ma credo che in questo caso
sia d’obbligo. Sono fiero di avere dei figli così,
degni portatori del mio
sangue, tuttavia per questa missione posso scegliere solo uno di voi.
Ho
ricevuto ordini precisi al riguardo. Potendo escludere i più
piccini, non per
cattiveria ma perché gli altri che viaggeranno con voi
saranno grandi e cafoni,
mi basta pensare al Fuoco, e vi lascerebbero di certo indietro.
Escluderei
anche quelli che son prossimi alla conclusione degli studi e che non
possono
permettersi di saltare ore di lezione per un capriccio del Signore
dell’Est.
Sono pronto a ricevere ogni suggerimento possibile su chi mandare fra i
non
esclusi…”.
“Perché
non Reishefy?” sbottò
la maggiore.
“È
un po’ giovane, non trovi?”
rispose uno dei ragazzi, sulla ventina.
“Ma
è la più capace fra di
noi. Quella con più energia. Ed inoltre presenta tutte le
caratteristiche della
nostra razza, cosa che i Signori han chiesto espressamente. Io voto per
Reishefy. Chi è con me?” parlò la
sorella, di rimando, alzando la mano per
esprimere il proprio parere.
Molti
altri imitarono il suo
gesto, dando il proprio voto per Reishefy. Taranis non si aspettava una
cosa
del genere. Poteva contare almeno una trentina di mani alzate a favore
della
ragazzina.
“Ma…”
azzardò “…è
perché non
ci volete andare voi, e quindi ci spedite lei, oppure credete davvero
che sia
la più adatta a rappresentarci?”.
“Lei
è la migliore” parlò un
piccolino di pochi anni, senza abbassare la manina “Batte
sempre tutti quando
giochiamo, perfino Delling!” affermò, indicando il
più grande dei figli maschi,
che abbassò la testa guardando altrove.
“Poi
non sta mai ferma, come
le migliori rappresentanti del regno
dell’Elettricità!” aggiunse una bambina,
saltellando.
“Inoltre
ha già cambiato tre
ragazzi con cui…” iniziò una ragazzina
ma si fermò, tappandosi la bocca,
notando lo sguardo elettrico del padre.
“Sorvolando
su questo…”
borbottò Taranis, non aspettandosi una rivelazione del
genere “…a quanto pare
sei una degna rappresentante del nostro elemento,
Reishefy…”.
Lei
non sapeva cosa dire. E fu
il re a continuare il discorso.
“Personalmente…”
ammise
“…credo tu sia troppo piccola per fare una cosa
del genere. Ma, del resto, agli
occhi dei genitori non siete mai abbastanza grandi e poi…chi
sono io per
rifiutare un voto popolare quasi unanime?”
ridacchiò, mentre nessuno dei figli
aveva ancora abbassato le braccia.
Ci
fu un’ovazione e più di
qualcuno iniziò a ripetere il nome della sorella ad alta
voce.
“Tu,
figlia mia, vuoi
partire?” domandò poi il sovrano, non volendo
obbligare nessuno.
“Io…”
rispose lei, titubante
“…io sarei onorata di poter rappresentare il
nostro elemento. Se voi ritenete
che io ne abbia le capacità…”.
“Allora
è deciso. Non me lo
sarei mai aspettato ma sarai tu a partire. Hai più o meno un
mese per
prepararti come meglio credi”.
Reishefy
sorrise, davvero
felice di ricevere un compito del genere, ed arricciò la
coda. Padre e figlia
si abbracciarono, elettrificandosi a vicenda, e poi lei corse via
assieme ai
suoi fratelli. Non riusciva davvero a stare ferma e ancora meno a
contenere il
suo entusiasmo. Agitava le mani, con le unghie bianche, energicamente.
Taranis
la vide allontanarsi, quasi saltellando lungo il corridoio. Sperava di
aver
fatto la scelta giusta. Sempre con un ghigno soddisfatto,
notò un’elegante
signora fra le vie della capitale, dall’alto della finestra
dal quale guardava
e pensò che, forse, aveva individuato la prossima madre dei
suoi figli.
†††
“Thuwey!”.
Una
voce nel buio.
“Signor
Thuwey!”.
Thuwey
sospirò. Si limitò a
girare la testa nel letto, avvolgendola e poi nascondendola sotto il
cuscino di
seta nera. Grugnì. Era andato a dormire molto tardi e, da
quanto riusciva ad
intravedere dalla finestra, era ancora notte fonda. Qualunque fosse il
motivo
per cui lo stessero chiamando, non gli interessava! Evidentemente colui
che
stava fuori dalla sua porta non voleva capire che il suo
“Vattene!” non
ammetteva replica. Era, al contrario, sempre più insistente.
Thuwey allungò un
braccio, sempre tenendo la testa sotto il cuscino, in cerca di
qualunque cosa,
spada o pistola, che potesse porre fine a tutto quel casino. La pesante
pendola
d’acciaio lanciò un grido, un ruggito, e lo
ripeté per cinque volte. Erano le
cinque di mattina! Si era coricato meno di un’ora prima!
Sentì uno schianto.
Aveva urtato con la mano uno dei boccali vuoti che aveva lasciato
accanto al
letto, sul comodino lucido. Ovviamente li aveva svuotati lui ed ora la
sua
testa non accennava di certo a smettere di ricordarglielo.
Grugnì di nuovo,
capendo che la sua oretta di sonno doveva bastargli.
Strisciò fuori dal
matrimoniale in cui dormiva, non perché fosse sposato ma
perché “voleva
spazio”, ed andò ad aprire alla porta, vagamente
coperto dal lenzuolo nero in
cui si era avvolto.
“Che
vuoi?” sbottò,
consapevole di avere due occhiaie da far spavento e l’alito
di birra.
“Perdoni
l’ora, ma la regina
Jovihann ha chiesto di vedervi” parlò
l’intruso.
“Adesso??!!
Alle cinque del
mattino??!! Ma non può andare a farsi fottere da qualcuno a
quest’ora, invece
che rompermi i coglioni?!”.
L’altro
non rispose. Si limitò
a fissarlo, con le mani dietro la schiena e lo sguardo di rimprovero.
“Beh?!”
riprese Thuwey “Puoi
anche andartene, sai? Ci vengo dalla tua regina ma dubito voglia
vedermi nudo.
Perciò sparisci. Mi rendo presentabile e la
raggiungo…”.
Sbatté
la porta, sbuffando, e
scosse la testa per svegliarsi. Crollava dal sonno.
Sbadigliò, passandosi una
mano nei lunghissimi capelli neri, gli arrivavano fino alle ginocchia,
tentando
di donargli un aspetto vagamente decente. Li pettinò
distrattamente, domando la
loro massa informe e facendoli ridivenire perfettamente lisci anche se
voluminosi. Si guardò allo specchio. Effettivamente, sotto i
suoi bellissimi
occhi ramati, c’erano due occhiaie decisamente fastidiose che
quasi lambivano
le placche di metallo che gli segnavano gli zigomi e le guance. Una
placca di
metallo gli attraversava la fronte, assumendo una forma a rombo, con
l’estremità più corta rivolta verso lo
spazio fra le sopracciglia e quella più
lunga che divideva perfettamente i due ciuffi che gli ricadevano sul
viso. Lui
era Thuwey, abitante del regno del Metallo. Come ogni creatura di quel
regno,
il suo corpo era ricoperto da spuntoni di quell’elemento, che
era libero di
ritrarre a suo piacimento ma non era una cosa che amava fare. Preferiva
essere
inavvicinabile. Ne aveva su braccia, spalle e petto, mentre sul resto
del corpo
si potevano trovare aree e placche di metallo lucido più o
meno grandi, grigie
lucide. La sua pelle era di un grigio più chiaro, sempre
lucido. Le labbra,
sottili e ghignanti, eran quasi nere e racchiudevano una fila di denti
bianchi
ed acuminati, in un sorriso vampiresco.
Iniziò
a vestirsi, svogliato.
Non era mai un buon segno quando la regina lo convocava così
all’improvviso.
Lui era il capo delle guardie del regno, il miglior combattente del
Metallo,
dicevano. Era piuttosto soddisfatto del fatto che non aveva dovuto
scortare
Jovihann fino al palazzo del Signore dell’Est, per poi
annoiarsi a morte
nell’attesa che ne uscisse. Ora che era tornata,
però, esigeva già di
vederlo…storse il naso. Sentiva puzza di incarico che non
voleva. Sapeva che
non aveva tempo di fare colazione, anche perché aveva lo
stomaco addormentato
del tutto e non avrebbe di certo apprezzato del lavoro straordinario.
Indossò
la divisa che la regina gli imponeva e ci agganciò il solito
quantitativo
eccessivo di catene. Amava sentire il loro tintinnio armonico. Si
avvolse in un
pesante mantello nero dato il freddo che avvertì
sull’uscio. Modificò le
placche sulle sue gambe in modo che formassero una sorta di armatura,
così da
non avere la seccatura di dover mettere le scarpe, ed uscì
alla luce fioca dei
lampioni di Gwydyon, la capitale. Attraversò le strette vie
lastricate da vari
metalli, consapevole di essere l’unico pirla in giro a
quell’ora escludendo il
sacerdote che si apprestava al sacrificio di sangue
dell’alba. Giunse al
cospetto delle due guardie che sorvegliavano il grande cancello
d’ingresso al
castello, insultandole senza motivo. Si misero sull’attenti,
riconoscendolo, e
fecero aprire i cancelli tramite un complicato insieme di carrucole ed
ingranaggi. Il massiccio portale in ferro battuto si
spalancò e Thuwey ci entrò
bestemmiando. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tornare a dormire.
Il lungo
abito scuro che portava quasi si confondeva nel buio.
Continuò la sua marcia,
borbottando, sbattendo pesantemente i piedi sulle scale mostrando tutto
il suo
fastidio. Conosceva bene i corridoi di quel palazzo goticheggiante,
dove
trascorreva le sue giornate lavorative da quanto era stato scelto per
entrare
nell’esercito reale. Quattro anni prima, a ventisei anni, si
era dimostrato il
più valido a sostituire l’ormai anziano capo delle
guardie. All’inizio era
orgoglioso della sua posizione ma ora si stava stancando. La regina non
aveva
un compagno ed era piuttosto capricciosa, lo chiamava continuamente per
qualsiasi sua voglia. Di certo a Thuwey non sarebbe dispiaciuto
soddisfare
certe voglie ma fin ora il suo compito era stato principalmente quello
di
coprirla mentre scorrazzava con il suo amante Vehuya. Era entrato
nell’esercito
pronto a grandi battaglie ed onori ma fin ora aveva solo fatto da
guardia del
corpo e si stava davvero annoiando. Sperava di non essere convocato per
soddisfare qualche capriccio infantile della regina ma per una
motivazione
seria. Sbadigliò di nuovo, prima di entrare nella stanza
della sovrana. Aprì la
porta, dimenticandosi di bussare. Jovihann si era cambiata, indossava
una
sottoveste nera con pizzo. Era bella la regina anche se non
più tanto giovane,
dimostrava al massimo quarant’anni anche se ne aveva venti in
più. Thuwey la
guardò senza capire. Lei gli sorrise e si coprì
con la vestaglia.
“Pensavo
che ormai venissi al
mio cospetto domani mattina. Ero già pronta per
dormire”.
“Se
volete dormire, regina,
torno dopo pranzo” rispose lui, già pregustando un
lungo sonno fino a
mezzogiorno ed oltre.
“No.
Ormai che sei qui è
meglio che ti parli. Ritengo sia piuttosto urgente ciò che
ho da dirti”.
Thuwey
annuì, pur mostrando il
suo disappunto. Jovihann spiegò, rapidamente, i propositi
del Signore dell’Est.
Il capo delle guardie ascoltò, scuotendo la testa ogni tanto
per non
addormentarsi.
“Perciò…Voi
volete, mia
regina, che io parta alla volta del Signore dell’Ovest per
rappresentare il
nostro elemento?”.
“Precisamente”
confermò lei,
con un cenno del capo.
“E
perché?”.
“Perché
cosa?”.
“Perché
dovrei farlo…non ne ho
tanta voglia…”.
“Voglia?!
Io sono la tua
sovrana, non dipende di certo dalla tua voglia se devi obbedirmi o
meno. Lo
devi fare e basta! Mi fido di te e so quanto sei potente, non
c’è nessun’altro
più adatto di te in tutto il mio regno per un compito del
genere!”.
“Ed
io cosa ci guadagno?”.
“Cosa
vorresti? Sei libero di
chiedermi ciò che desideri”.
“Mmm…ci
dovrei pensare. Sicura
che posso chiedere quello che voglio?”.
“Quello
che vuoi. Qualunque
cosa…”.
“Bene,
Vostra Altezza. Allora
accetto la vostra offerta. Partirò e, al mio ritorno,
verrò a richiedere ciò
che mi spetta. Non deluderò le aspettative”.
“Anche
se non avessi voluto
andare ti avrei costretto, con le buone o con le cattive. Era
già tutto
stabilito, mio caro”.
“Grazie
mille” ironizzò Thuwey
e tornò verso la propria dimora, illuminato dalle prime luci
dell’alba, sicuro
di aver perso del tutto la capacità di potersi
riaddormentare.
†††
Il
profumo dei fiori
l’accolse, più forte di qualsiasi altra fragranza,
e lei sorrise. Le mancavano
tutte quelle essenze e quei colori. Con il suo abito fatto di piume
sgargianti,
placche in oro e pietre preziose, la regina Midir rientrò
nella sua bella casa,
costruita e sviluppata fra le fronde di un immenso albero. La sovrana
del regno
della Terra sapeva che non c’era niente in quel mondo per il
quale non valesse
la pena di combattere, ma il Signore dell’Est era stato
categorico: non poteva
presentarsi lei stessa per quel viaggio. Vanadis, così era
chiamato l’enorme
complesso di alberi e piante su cui sorgeva la capitale, la accolse
fiorendo.
Cominciò a chiedersi a chi potesse affidare un compito
così delicato ed
importante, uno screzio con altri abitanti di regni diversi avrebbe
potuto
scatenare una guerra! Il popolo della Terra era sostanzialmente
pacifico anche
se aveva, con il tempo, affinato notevoli capacità in
battaglia, principalmente
a scopo difensivo. I loro archi erano di splendida fattura, come pure
le frecce
ed i bastoni magistralmente intagliati con simboli sacri al loro Dio.
Ognuno di
loro possedeva un’arma ma una legge vietava categoricamente
l’uso di queste
contro un altro esemplare della stessa specie.
Midir
notò con gioia che si
avvicinavano le celebrazioni di primavera. Gli alberi erano bardati a
festa con
nastri colorati e campanelle, le donne si stavano preparando per la
realizzazione del dolce tipico ed alcuni si erano già
dipinti il viso con i
simboli antichi da cerimonia. Attraversò un arco, sfiorando
con le mani i
tronchi in cui si erano tramutati i suoi antenati. Quelle creature
nascevano
con la pelle verde, morbida, ma col tempo essa, a partire dai piedi,
iniziava a
mutare. Diveniva come la corteccia degli alberi, stessa consistenza e
colore.
Quando era giunta la fine della loro esistenza su Asteria, divenivano
uno dei
rami portanti dei grandi alberi che costituivano le città
del regno. La regina
era giovane, per ora aveva mutato solo le gambe, ed alcuni fiori
spuntavano, a
volte, fra i suoi capelli verde scuro. Con grandi occhi viola, decise
che
avrebbe chiesto suggerimento al marito su chi scegliere per la
missione. Entrò
nella sua stanza, il sovrano ancora dormiva data l’ora del
mattino, e lo
svegliò dolcemente, con un bacio sulla guancia. Il re
aprì gli occhi e le
sorrise.
“È
bello riaverti a casa”
disse.
Lui
aveva mutate anche le
spalle, che si erano allargate ed indurite facendolo sembrare sempre in
armatura, ed il legno aveva iniziato ad espandersi lungo le braccia.
Abbracciò
la moglie con trasporto e si fece raccontare ogni cosa.
“Posso
partire io” si offrì,
alla fine “Sono un membro dalla famiglia reale, sono tuo
marito, e direi che
più fidato di me non hai nessuno!”.
“Io…veramente
non vorrei che
te ne andassi per tanto tempo. Ho altri progetti per
te…” rispose la regina,
appoggiando la testa sull’ampio petto del consorte.
“Come
per esempio?” si
incuriosì il re.
“Ad
esempio…che ne dici di un
erede per questo regno ancora senza principi?”.
“Ah
beh…se la metti così…chi
sono io per rifiutare un progetto del genere?”.
Risero,
sempre stando
abbracciati, e si unirono in un lungo bacio.
“Vuoi
che inizi subito a
lavorarci?” azzardò lui e lei annuì,
lasciandosi avvolgere dal profumo e
dall’amore del suo compagno.
“Dovresti
parlare con Idisi,
la maga della capitale…di lei ti fidi” le
sussurrò il re, ancora svestito
accanto alla moglie.
“Hai
ragione. Lei sicuramente
saprà darmi il giusto suggerimento. Cosa farei senza di
te?”.
“Saresti
una bravissima
regina…”.
“Ma
sola. A cosa mi
servirebbe?”.
“Non
sei sola. Perciò non te
ne preoccupare…”.
“Vieni
con me da Idisi?”.
Entrambi
si vestirono, con
l’ampio collare in oro e pietre adornato da piume dai colori
accesi, rosso per
lui e blu elettrico per lei, la fascia ed il cinturone dorati che
sorreggevano
la gonna, fino al ginocchio, anch’essa in parte coperta dalle
piume, ed i
sandali con lunghe stringhe incrociate. Allacciarono il mantello, con
ricami in
oro come la gonna, ed indossarono la corona, piuttosto vistosa essendo
fatta
pure lei in oro e piume sgargianti che restavano in piedi fra i capelli
verdi
dei due. Si presero per mano e si avviarono verso il punto, nascosto
dietro un
velo leggero di liane intrecciate, che Idisi aveva adottato come sua
dimora.
Era una rientranza piuttosto piccola ma sufficiente per lei e per buona
parte
dei suoi strumenti di lavoro. Gli altri erano appesi ai rami
sovrastanti.
Accolse i reali con un largo sorriso.
“Bentornata,
Vostra Maestà, e
saluti a Voi, mio re”.
Accompagnò
la frase con un
piccolo inchino ed invitò entrambi, con un gesto della mano,
a sedersi. Si
misero tutti e tre a gambe incrociate in terra. Idisi aveva circa
l’età della
regina, le sue gambe erano come tronchi d’albero e la
mutazione aveva seguito
la spina dorsale, creando un piccolo corridoio bruno, terminante alla
base del
collo di lei. Da quella venatura, nei punti non coperti dalle vesti
piumate, si
intrecciavano viticci e foglie d’edera. Un piccolo fiore
rosso era fiorito
subito sopra il suo piccolo orecchio a punta adornato da un grosso
orecchino
quadrato e spiccava sui capelli verde scuro, leggermente più
sfumati verso il
blu rispetto a quelli della regina.
La
maga guardò entrambi, con
profondi occhi color grano, quasi gialli, e volle sapere del viaggio
intrapreso
da Midir. Lei spiegò, senza lasciare nemmeno per un attimo
la mano del marito,
e la padrona di casa annuì.
“Volete
il mio consiglio, mia
sovrana, giusto?”.
“Sì.
Non so chi possa essere
in grado di rappresentare il nostro regno…”.
Idisi
prese fra le mani le
carte e guardò i due ancora negli occhi prima di
distribuirne tre in terra.
“Tranquilla,
mia signora,
l’erede che tanto desiderate arriverà
presto” parlò.
Midir,
non aspettandosi una
frase del genere, rimase senza fiato.
“Ma…perché…”
balbettò.
“Perché
ho chiesto prima
questo alle carte? Semplice…mi sembrava questo
ciò che i vostri occhi
desideravano. Vedete…” spiegò,
indicando la prima figura “…questo siete Voi,
Vostra Altezza, e quella accanto siete Voi, regina”.
La
sovrana sorrise, vedendo
che nell’ultima carta c’era un piccolo abitante del
regno della Terra, avvolto
dalle foglie come in un baccello.
“Quando
arriverà?” incalzò il
re, non riuscendo a nascondere il suo entusiasmo.
“Questo
non mi è dato saperlo.
Ma presto. E sarà maschio”.
Marito
e moglie si baciarono
teneramente, sorridendosi.
“Ora…”
riprese Idisi “…veniamo
a noi”.
Rimase
ferma per qualche
istante, forse meditando su quale fosse il metodo di divinazione adatto
per
scoprire chi sarebbe diventato il rappresentante della Terra per
Asteria.
Lanciò dei piccoli sassolini in un quadrato di corda e
rimase perplessa dal
loro posizionamento. Li rimosse e passò ad altro, mentre re
e regina ne
osservavano ogni movimento sempre più esitanti. La maga
sbuffò, quasi
spazientita, e riprese in mano le carte.
“Almeno
voi non fate i
capricci…” mormorò, rivolta al mazzo,
ed iniziò a mescolare.
“Alzate
Voi, mia signora…”
parlò, porgendo la pila a Midir che ne sollevò
una parte.
Idisi
prese le carte alzate
dalla regina e le rimise in fondo al mazzo. Dopo un respiro profondo
iniziò a
distribuirle sul pavimento, iniziando a spiegarle.
“Da
questa carta deduco che è
una persona di cui il re si fida…”
iniziò.
Scoprì
un’altra carta e
sorrise.
“Anche
la regina si fida”
esclamò e Midir ne fu soddisfatta.
Passò
alla terza carta.
“È
una creatura potente…”
disse, indicando la carta della Forza “…e pronta a
vedere le cose da diversi
punti di vista…” additando l’Appeso
“…cosa importante per un viaggio con molte
altre persone così diverse da noi”.
Ne
estrasse altre,
descrivendone le caratteristiche, e disponendole a formare una sorta di
piramide la cui punta arrivava ai suoi piedi scalzi. Respirò
a fondo,
accingendosi a svelare l’ultima carta, quella che avrebbe
risposto al loro
quesito.
“Oh
Dio della Foresta…”
mormorò, vedendola.
Era
la carta del Mago, dello
Stregone.
“Che
significa?” volle sapere la
regina.
“Che…sono
io…” balbettò Idisi
“La persona che deve partire per
rappresentarci…sono io! Non è
possibile…ci dev
essere uno sbaglio…”.
“Perché?
Noi di te ci fidiamo.
Sei potente, intelligente e credo adatta…”
iniziò il re.
“…sempre
che ti vada di farlo!”
concluse Midir.
“Voi
mi affidereste davvero un
incarico del genere?”.
“Siamo
amiche. Certo che sì.
Soprattutto se sono le divinità a volerlo”
confermò la regnante.
La
maga non sapeva cosa dire.
Rimise le carte nella scatola, con cura, in silenzio.
“Anche
gli altri metodi di
divinazione avevano dato lo stesso risultato?”
azzardò l’unico uomo nella
stanza, guardandosi attorno curioso.
“Sì”
confermò Idisi “Le pietre
si erano concentrate ai miei piedi, il cristallo era attirato da
me…”.
“Allora
sei tu! Preparati a
partire!” esclamò Midir, balzando in piedi.
Era
davvero contenta di quella
soluzione, forse la stessa che aveva pensato il marito, ed era davvero
sollevata all’idea che a rappresentare il suo regno fosse una
sua amica
d’infanzia e preziosa consigliera ormai da anni. Le disse che
aveva meno di un
mese per prepararsi ed, inaspettatamente, la abbracciò con
forza. Idisi non
sapeva cosa dire. Vide i suoi signori uscire ed andarsene, felici, per
mano, e
guardò la sua. Verde, morbida e vellutata, la
fissò chiedendosi se fosse
davvero questo il suo destino. Ma oramai era già stato tutto
stabilito. Toccava
a lei partire, destino oppure no.
†††
L’immenso
oceano sotto cui
sorgeva Satis, la capitale di corallo e conchiglie in cui viveva
Nerektan,
regina dell’Acqua, diede subito sollievo alla sua pelle non
abituata a starci
per troppo tempo lontano. Si tuffò, congiunse i piedi che
mutarono, quasi
unendosi e ricoprendosi di una membrana verde acqua alle
estremità, assumendo
un aspetto molto simile ad una coda di pesce. Nuotò
velocissima, ansiosa di
tornare a casa. La sua pelle a squame blu, con sfumature verdi,
brillò
ristorata dall’acqua e sentì con sollievo i
polmoni riempirsi di nuovo tramite
le branchie che aveva sul collo. Attraversò
l’arcata d’ingresso alla metropoli
principale, accolta dalle guardie che se ne stavano sulla loro cima, e
continuò
a nuotare. Il palazzo reale era leggermente rialzato rispetto agli
altri
edifici e brillava, in modo quasi magico, con i mille colori del mare.
Ci
entrò, lasciando la corona di corallo rosso nelle sue
stanze, ed andò a cercare
le figlie. Sapeva che il marito non era presente perché
perennemente occupato a
controllare i movimenti privi di logica ed improvvisi di Ozymandias. Da
lui
aveva avuto due femmine, Egèria, la maggiore, ed Enki. Era
consapevole che, in
tutto il regno, non vi erano migliori rappresentanti delle creature
dell’Acqua.
Perciò sarebbe stata una di loro due a partire. Le
chiamò al suo cospetto,
nella sala del trono, e le attese, impaziente. Dietro di lei si apriva
a
ventaglio il possente seggio di conchiglia e madreperla, intagliata
sapientemente, e al suo fianco lo scettro faceva bella mostra di
sé. Le figlie
arrivarono e si fermarono, appoggiando i piedi palmati, di fronte alla
madre.
La salutarono educatamente ed attesero le sue parole.
Egèria
assomigliava più al
padre, con lunghi capelli azzurro chiaro, gli occhi tondi quasi neri e
la pelle
sfumata verso il blu. Enki, invece, era come la madre. La pelle blu che
sfumava
verso il verde, gli occhi di un azzurro profondo, puro, ed i capelli
che
formavano una cresta verde acqua che si allungava fino a
metà della schiena.
L’avevano alzata entrambe le figlie quella cresta, per la
curiosità e per la
tensione. Nerektan spiegò loro brevemente qual’era
la situazione e la soluzione
che aveva in mente.
“Una
di noi due?” si stupì
Enki, da poco diventata maggiorenne ma dimostrando parecchi anni in
meno nel
viso e nel corpo.
“Sì,
esatto. Una di voi due,
bambine mie. Credo non possa esserci soluzione migliore”
confermò la madre, non
capendo la perplessità della sua creatura.
“Ma
non c’è nessuno di più
adatto? Intendo dire…noi siamo molto
giovani…” iniziò Egèria.
“Giovani?
Suvvia…tu hai
passato i vent’anni. Sei una donna ormai, alla tua
età già stavo seduta su
questo trono e mi prendevo con gioia le mie
responsabilità”.
“Sì…ma…”
riprese Enki “…noi
non siamo mai uscite da palazzo. Come possiamo affrontare un viaggio
attorno ad
Asteria? Nemmeno sappiamo da che parte sta il Signore
dell’Est!”.
“A
est…non mi sembra
difficile!” sbottò Nerektan.
Enki
fece per rispondere ma
non trovò le parole.
“Sarebbe
un’ottima occasione
per una di voi due. Magari così imparate
dov’è l’est!”.
“Ma
mamma…sei stata tu ad
impedirci di uscire da queste mura! Mica puoi pretendere grandi
conoscenze da
noi!” protestò la maggiore.
“Eppure
mi pare che tu esca
benissimo da qui, anche senza il mio permesso!”.
Egèria
arrossì. Era vero. Lei
usciva spesso ma di nascosto e credeva che la madre non lo sapesse.
“Sarebbe
un’ottima occasione
per te, futura regina, un viaggio assieme ad altri rappresentanti di
Asteria.
Saranno altri principi e principesse, futuri regnanti e possibili
alleati. O
nemici” consigliò la regina, guardando la maggiore
quasi con rimprovero.
“Non
sono mai stata
particolarmente diplomatica. Non credo sia il caso” rispose
lei.
“Sciocchezze!
Chi meglio di te
può esserci?” protestò Nerektan.
“Lei!”
rispose Egèria,
indicando la sorellina.
“Chi?
Io? Ma scherzi? Io da
qui non mi muovo!”.
“Una
di voi due partirà”
ordinò la regina “Oppure mi fornirà un
motivo valido per non farlo!”.
Le
due sorelle si guardarono
negli occhi.
“Suvvia,
Enki…” iniziò Egèria
“…di certo sei tu la più adatta! Fin da
bambina ti sei sempre chiesta cosa ci
fosse al di fuori del palazzo…”.
“Sì,
ma non ho mai avuto
l’ardire di oltrepassare le sue finestre”
controbatté la sorellina.
“E
non saresti lieta di
poterlo fare con la benedizione di mamma?”
continuò la maggiore.
“No.
Sto bene dove sto. Grazie
per l’offerta ma credo che il viaggio e l’onore
spettino a te, principessa
ereditaria”.
“Non
puoi trovare altri
possibili pretendenti per una cosa del genere?”
suggerì Egèria alla madre, che
non prese nemmeno in considerazione quella frase, convinta
com’era di mandarci
una delle figlie, sangue del suo sangue, le uniche di cui si fidava.
“Ma
insomma! Qual è il
problema?!” volle sapere la sovrana “Tu, ad
esempio, Enki, che problema hai?
Perché non vuoi partire?”.
“Io…”
balbettò la ragazza,
chinando la testa “…io ho paura!” ammise.
“Paura
di cosa?” si stupì
Nerektan.
“Di
tutto. Non so cosa mi
aspetta al di fuori di qui e non voglio saperlo. Ho paura e non voglio
lasciare
casa mia!”.
“Beh…a
quanto pare…” affermò
allora la regina “…spetterà a te,
Egèria, partire”.
“Non
posso” tagliò corto lei.
“Perché?”.
“Perché
no. Problemi miei”.
“Sono
anche problemi miei!
Parla!”.
Lei
sospirò e guardò la
sorellina, puntandogli contro uno sguardo ed un sibilo accusatore da
“grazie
tante, principessina, mi hai messo nei guai!”.
“Io…credo…ed
è solo
un’ipotesi…” iniziò
Egèria, respirando a fondo e dosando le pause per trovare
le parole “…credo di essere incinta”.
Nerektan
affondò nel trono,
colpita da quelle parole più di qualsiasi altra cosa, mentre
Enki rimase
immobile, ammutolita.
“Credi?”
mormorò la regina,
impallidendo.
“Sono…quasi
sicura” confermò
la figlia, tenendo la testa bassa e le mani dietro la schiena.
Scese
il silenzio,
imbarazzante, che durò non poco.
“E…chi
sarebbe il padre?”
domandò, dopo un po’, Nerektan.
“Lir”
si limitò a dire Egèria.
“Mmm…è
un ottimo partito!”.
“Cosa?!
Davvero?!” si stupì la
maggiore.
“Sì.
Certo. È forte, elegante,
educato e…tutto il resto. Sarà un ottimo
re”.
“Dici
sul serio?”.
La
regina sorrise ed annuì.
“Quindi…non
sei arrabbiata?”
continuò Egèria.
“No.
Stupita, ma non
arrabbiata. Lir mi piace e spero voglia prendersi tutte le sue
responsabilità.
Preparati, figlia mia, perché da oggi sei ufficialmente
promessa ed inizieranno
i preparativi per il tuo matrimonio!”.
La
maggiore lanciò un grido di
gioia, la madre si alzò e le andò in contro. Si
abbracciarono e la regina
mormorò un “congratulazioni” felice,
contraccambiato da un “grazie”.
“Enki…”
parlò di nuovo la
sovrana, rivolta alla minore, allontanandosi con la maggiore
sottobraccio “…tu
invece preparati a partire. È ovvio che tua sorella non
può. Vedrai che andrà
tutto bene, rilassati e non avere paura”.
“Ma
io…” provò ad obbiettare
lei, senza risultato perché Nerektan se n’era
già andata.
La
cresta della figlia minore
si abbassò. Era afflitta. Ora tutti erano concentrati sul
grande evento, il
grande giorno di Egèria, e pareva che a nessuno importasse
di lei, della
partenza e del terrore che provava dentro di sé.
†††
Non
poteva crederci. Il giorno
era arrivato. Era nato in una famiglia povera, in un piccolo paese, ed
aveva
sempre dovuto combattere per ottenere qualsiasi cosa. Ora cambiava
tutto! Era
felice e soddisfatto della sua esistenza ma era rimasto stravolto
quando aveva
ricevuto quella lettera dal re. Una convocazione al suo cospetto,
davanti al
grande sovrano del reame della Roccia, in quel giorno preciso. Si era
incamminato
verso la capitale, Dusares, attraverso tutti i cunicoli sotterranei
dopo i
quali era costruita. Lui era uno degli abitanti delle alte montagne del
reame
ma il re risiedeva nella città principale che era
interamente sotto la
superficie rocciosa.
Con
la lettera stretta fra le
mani, procedette con la sacca sulle spalle lungo la via principale.
Non
riusciva a capire le
motivazioni che avevano spinto il suo re, Eranoranhan, a scegliere
proprio lui.
Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con i suoi genitori, dato che
la
convocazione parlava chiaro: era strettamente personale. Era spiegata
nei
dettagli, la faccenda del Signore dell’Est e tutto quello di
cui il sovrano di
Roccia era a conoscenza, ed era giunto il giorno della partenza. Gli
era stato
detto di mostrarsi davanti al capo di stato per ricevere la chiave del
palazzo
del Signore dell’Ovest e, immaginava, sperava, qualche
consiglio su come
affrontare la convivenza con le strane creature degli altri regni.
L’intera
architettura della
capitale, in pietra, lo avvolse. I soffitti, altissimi e sorretti da
massicce
colonne squadrate, lasciavano ampio spazio a negozi, botteghe, case e
spazi
liberi in cui intravide alcuni bambini rincorrersi ridendo. Non dava
nell’occhio, se non per l’abbigliamento tipico
delle montagne che tendeva più
verso il marrone rispetto al grigio dei sotterranei. Avrebbe voluto
indossare
il gonnellino in tartan tipico del suo clan, ma pensò non
fosse il più adatto
al viaggio e così si era rassegnato a portare semplici
pantaloni con una larga
cintura nera. Non aveva altro addosso per lasciare libero il suo
elemento, che
lo faceva mutare con estrema facilità con spuntoni e
protuberanze grigio scuro
o marrone lungo la pelle color pietra. Le uniche che rimanevano sempre
ben
visibili in ogni caso erano quelle che aveva sulla testa, simili a due
corna
rivolte all’indietro che partivano da dietro le orecchie di
quella creatura dai
capelli rasati ma con un piccolo codino, di un colore intermedio fra il
rossiccio ed il marrone, lasciato crescere dietro alla nuca. Ormai era
vicino
alla meta, vedeva l’ingresso del castello. Preso
dall’entusiasmo, corse fino
all’ingresso. Le due statue all’ingresso del
palazzo si mossero, lasciandolo
passare solo perché in possesso della lettera del sovrano.
Si ricompose,
volendo dare un’ottima impressione ad Eranoranhan, ed
entrò lentamente
nell’ampia sala del trono.
Fu
fatto entrare e lasciato
solo al cospetto del re. Respirò a fondo. Non poteva negare
di essere in totale
soggezione. Il sovrano sedeva su un immenso seggio in pietra, che quasi
lo
racchiudeva ripiegandosi alle spalle del suo padrone. Era un uomo
possente,
ricoperto interamente di grossi spuntoni di roccia su tutto il corpo,
che ne
aumentava le dimensioni notevolmente.
Sorrise,
vedendo entrare il
suo ospite.
“Vieni
avanti” parlò.
Il
convocato avanzò, sicuro di
aver sentito la voce del suo signore espandersi direttamente dal
terreno, senza
dire una sola parola.
“E
così…tu sei il mio
campione…” continuò Eranoranhan, quando
lo ebbe abbastanza vicino “…sei molto
giovane…quanti anni hai?”.
“Venti…tre…”
rispose.
“Venti
o tre?” ridacchiò il
sovrano.
“Ventitré”
esclamò l’altro,
senza rispondere alla risatina.
“Suvvia…scherzo!
Sei
giovanissimo, specie per noi abitanti della Roccia che viviamo molto a
lungo, e
ai miei occhi anziani sei un bambino. Eppure…mi son giunte
voci strabilianti su
di te”.
“Su
di me?” si stupì il
giovane.
“Sì.
Non sei tu che,
all’inizio dell’anno, ti sei dimostrato il
più valoroso al gran torneo che
organizzo per scegliere i migliori guerrieri del regno?”.
“Sì,
sono io…”.
“Benissimo.
Allora sei tutto
ciò che mi serve”.
Il
giovane ricordò mentalmente
quel torneo, come aveva affrontato tutti i suoi avversari con coraggio
e
determinazione, dimostrando che per sopravvivere aveva sempre dovuto
combattere. Non aveva certo paura di inutili titoli nobiliari o
importanti
bardature!
“Come
ti chiami?” domandò di
nuovo il padrone di casa, l’unica creatura di cui sentiva
dover aver paura
perché potente della magia totale dell’elemento su
cui regnava.
“Mattehedike”.
“Il
dono degli Dèi vincitori,
bellissimo significato”.
“Grazie,
Vostra Maestà”.
“E
sarai un dono per il tuo
regno ed il tuo popolo. La missione che ti affido è di
massima importanza.
Dovrai rappresentarci degnamente!”.
“Farò
il possibile…”.
“Lo
so”.
Eranoranhan
sbatté le mani,
producendo un suono simile ad un tuono, e subito sull’uscio
apparvero due
donne, adornate con decisi disegni sulla pelle, portando uno scrigno
molto
pesante.
Il
re lo aprì con il suo
anello e sorrise. Dentro di esso era contenuta la chiave del palazzo
del
Signore dell’Ovest. Era marrone scuro, con una catena in
pietra intagliata che
pareva di certo non molto leggera. Il sovrano fece segno al suo
campione di
avvicinarsi. Un po’ titubante, il giovane si
avvicinò. Alzandosi, il capo di
stato lo superava di diverse spanne in altezza e gli mise la catena
attorno al
collo. La chiave era fredda ma Mattehedike non lo avvertì.
La guardò, ammirato.
Era bellissima, splendidamente lavorata e non molto pesante come
pensava.
“Ricordati
che è una copia
unica, caro ragazzo. Se la perdi ne subirai tutte le conseguenze,
pessime.
Perciò vedi di fare attenzione!”.
“Non
me ne staccherò mai,
questo è certo. Morirò piuttosto che non
riportargliela!”.
“Che
esagerazione…ad ogni modo
vedi di riportarmela. E di fare onore alla nostra specie!”.
“Qualche
suggerimento per il
viaggio?” ebbe il coraggio di dire il giovane, pur ancora in
soggezione davanti
all’anziano sovrano.
“Attento
al ghiaccio, ti
rovina da dentro se ne sei esposto troppo a lungo. E la pioggia
è una gran
scocciatura ma dubito tu possa prenderne così tanta da
danneggiarti…”.
“Fuoco?
Elettricità?
Oscurità?”.
“Di
quelli non preoccuparti
più di tanto. Pensa al tuo e vai per la tua strada. Attento
a non fidarti
troppo, specie dell’Oscurità, che ha delle
creature subdole ed incantatrici”.
Mattehedike
fece un cenno con
il capo, stringendo la chiave con una mano.
“Bene”
affermò il re “Ora per
te è giunto il tempo di partire. Hai una piantina del regno?
Sai come arrivare
al palazzo dell’Ovest?”.
“Sì.
Mi sono procurato tutto”.
“Perfetto.
Allora puoi andare.
Il Signore ti attende. E che il grande Dio della Forza e del Coraggio
ti guidi
lungo tutto il cammino. Fai buon viaggio e ricorda: al tuo ritorno ti
attende
una degna ricompensa se tutto andrà come
previsto!”.
Si
congedò e fece segno al
convocato di andare. Con un inchino, Mattehedike uscì dal
castello tenendo
sempre la chiave fra le mani, un po’ per essere sicuro di non
perderla ed un
po’ per tenerla celata ad occhi indiscreti. Si
incamminò deciso, verso la
superficie, con la sacca in spalla e gli occhi scuri puntati verso
l’obiettivo.
La luce di Sirona lo investì e si coprì gli occhi
con la mano. Non era più
abituato a tutta quella luce. Sapeva qual’era la direzione,
era felice e sicuro
di poter fare onore alla sua razza. Con quei propositi si
incamminò verso il
Signore dell’Ovest, dove sarebbe iniziata la più
grande avventura della sua
vita.
†††
Friedrik
bussò, diverse volte,
senza ricevere risposta. Entrò nella stanza lentamente e
chiamò il nipote per
nome. Lo chiamò ma questi non si girò. Assorto
nella lettura di un grosso
manuale, non si era reso nemmeno conto di non essere solo nella stanza.
Il re
del regno della Luce sospirò, ridacchiando divertito, e gli
poggiò una mano
sulla spalla.
“Efrehem!”
lo chiamò, ed il
giovane sobbalzò allarmato, scendendo dalle nuvole.
“Nonno!
Sei tu…” sbottò, dopo
essersi ripreso dallo spavento.
“Sì.
Sono io. È ora di andare,
nipote. Il tempo è giunto”.
Doveva
partire alla volta del
Signore dell’Ovest ma non era per niente d’accordo
di esserne in grado. Era
gracilino Efrehem, magro e di bassa statura, con grandi occhi
arcobaleno. Non
era mai uscito da quel palazzo luminoso ed era piuttosto spaventato
all’idea di
lasciarlo.
Più
volte aveva chiesto il
perché di quella scelta, perché lui era destinato
a partire, ed il nonno lo
aveva convinto spiegandogli che secondo lui non c’era persona
più adatta per
quel compito.
Era
intelligente, colto e con
una buona forza magica, dovevano essere queste le caratteristiche della
Luce,
non altre. Da quando il parente a capo di quel regno gli aveva parlato
di quel
viaggio, Efrehem aveva iniziato a studiare e leggere più
libri possibile
riguardanti Asteria, per poter essere preparato a ciò che lo
aspettava. Rimase
turbato da come le informazioni sui vari regni fossero frammentate e
discordanti. Leggendo e rileggendo, aveva capito che molte cose avrebbe
dovuto
apprenderle sul posto perché da quelle pagine non se ne
veniva a capo. Troppe
domande! Troppe poche risposte! Credeva di essere in grado di
prepararsi
adeguatamente in tre settimane ma si sbagliava…era giunto il
giorno della
partenza e lui ne sapeva ben poco di più rispetto a prima.
Rabbrividiva solo
all’idea di dover affrontare una tale impresa senza le
conoscenze che desiderava.
Al buio. Al buio lui, che era il nipote del re della Luce!
Si
passò una mano sui capelli
corvini, corti e ben pettinati, sfiorando le antenne rosse che aveva
sulla
testa. Erano molto utili quando si volevano leggere più
volumi assieme. Il
cervello di quelle creature era in grado di seguire le due paia di
occhi
contemporaneamente, senza problemi, accorciando notevolmente i tempi di
apprendimento. Gli occhi giallo-dorati su quelle antenne,
però, si notava che
erano stanchi per il troppo lavoro. Si socchiudevano assonnati.
“Credi
davvero che io sia in
grado di affrontare una cosa del genere?” domandò,
per l’ennesima volta,
Efrehem.
“Assolutamente!”
ribatté, di
nuovo, il re “Non c’è nessuno in tutto
il mio regno più adatto di te a
rappresentarci. Devi stare tranquillo e credere in te stesso, come hai
sempre
fatto”.
“Ma
nonno…una cosa è imparare
delle cose per poi ripeterle, un’altra è impararle
e metterle in pratica! E poi
qui non c’è nulla di utile, fra questi scaffali.
Un’immensa biblioteca, e così
poche informazioni sugli altri regni. È
assurdo…”.
“Noi
non possiamo andare nei
loro mondi, dobbiamo attendere che siano loro a fornirci notizie. Non
essendoci
grandi contatti, com’è possibile avere
più informazioni al riguardo?”.
Efrehem
decise che, nello zaino
per il viaggio, avrebbe anche portato un quadernetto bianco per potervi
annotare ogni cosa. Voleva che i suoi successori avessero perlomeno la
vaga
idea di cosa ci fosse oltre i confini del regno della Luce.
Con
il solito completo in
giacca e cravatta di colore nero, si apprestò a partire. La
luce della sua
pelle era particolarmente forte, probabilmente per
l’agitazione, ed avvertiva
chiaramente il battito accelerato del suo cuore. Aveva preparato tutto
da
tempo, pensando accuratamente ad ogni cosa. Aveva pensato al freddo del
regno
del Ghiaccio, al buio dell’Oscurità, al caldo del
Fuoco…per ognuno di essi
sperava di essersi preparato a dovere. Ovviamente con sé
portò un’accurata
piantina del suo regno, l’unico di cui esisteva una mappa in
tutto il territorio
della Luce, ed alcuni libri che ritenne utili. Pesava sulla sua schiena
quello
zaino ma sapeva di non poter lasciare a casa nulla.
Suo
nonno, sovrano di quel
popolo, gli stava porgendo la chiave per il palazzo del Signore
dell’Ovest. Era
bella, dorata e luminescente. La appese al collo con la catenina chiara
e la
nascose sotto la cravatta, per non dare troppo nell’occhio.
“Nipote
mio…” riprese a
parlare il re “…non posso mentirti dicendoti che
sarà un viaggio facile, breve
o piacevole. Ti ritroverai circondato da creature sconosciute, di
specie
diverse, in luoghi in cui non sei mai stato e di cui non hai studiato.
Ti
stancherai, avrai fame, caldo, freddo, paura…ma ricorda che
le divinità ti
proteggono. Senti queste voci?”.
Nel
silenzio, Efrehem sentì
chiaramente i cori provenienti dal tempio interno al castello. Canzoni
magnifiche, melodiose, venivano rivolte agli Dèi.
“Sì,
le sento…” rispose
Efrehem.
“Tienile
dentro di te. Vedrai
che ti daranno la forza di affrontare ogni cosa, anche la
più inaspettata. Non
avere paura…”.
“Non
ho paura! È solo che non
so cosa aspettarmi là fuori. E la cosa mi irrita
perché vorrei essere preparato
prima ad ogni imprevisto possibile, per poterlo fronteggiare con logica
e buon
senso”.
“Non
tutto si può affrontare
con il buon senso. L’amore, per esempio, è una
sensazione che blocca ogni tua
capacità logica…”.
“Non
credo possa accadere che
IO perda ogni capacità logica e, ad ogni modo, dubito
fortemente che l’amore
abbia a che fare con la missione!”.
“Era
per farti un esempio, mio
piccolo genio…”.
Efrehem
sospirò. Con lo zaino
in spalla e la cartina a portata, uscì dalla biblioteca.
Friedrik lo seguiva,
camminandogli a fianco, con la corona scintillante e luminosa ben
calcata in
testa.
“Sono
sicuro che mi renderai
orgoglioso!” esclamò il sovrano.
“Perché,
fin ora non ti ho mai
reso orgoglioso?”.
“Tantissime
volte. E so che
anche questa volta non mi deluderai”.
“E…se
non dovessi tornare? Se
incontrassi un pericolo più grande di quanto immagini e
nessuno degli altri
nove miei compagni mi aiutasse?”.
“Da
quando sei pessimista?
Andrà tutto bene! Ricorda che…”.
“Sì,
sì…gli Dèi mi proteggono!
Ho capito, nonno”.
Gli
occhi sulle antenne del
giovane si erano chiusi, addormentandosi, e non si riaprirono per un
sacco di
tempo.
Efrehem
uscì da palazzo con
una certa titubanza dentro di sé, ma mostrando estrema
sicurezza all’esterno,
ed incominciò ad attraversare le vie di Balder, la capitale.
Qualcuno lo
riconobbe, molti lo ignorarono. Non essendo mai uscito dal castello, in
pochi
sapevano come fosse fatto lui, principe erede al trono. Sua madre,
discendente
diretta di Friedrik, era morta non molti anni prima
all’improvviso e di suo
padre non si avevano più notizie da tempo. Sapeva che era
vivo ma Efrehem non
aveva nemmeno tentato di ricontattarlo, sentendosi tradito dal suo
abbandono.
In questo modo era lui destinato a prendere il posto del nonno, anche
se al
momento non ne aveva nessuna voglia. Si sentiva a disagio nei panni di
sovrano.
Friedrik era un uomo alto, con uno sguardo che incuteva rispetto e
timore. Il
principe invece, al contrario, era piccolino e con enormi occhi che
suscitavano
solamente tenerezza. Dimostrava di certo molti meno anni rispetto a
quelli che
aveva.
Intraprese
il viaggio fino al
palazzo del Signore dell’Ovest da solo. Voleva abituarsi
all’idea di dover
pensare a se stesso, senza aiuto, per non doversi ritrovare al cospetto
degli
altri rappresentanti dei regni senza aver mai provato la solitudine.
Sirona
brillava forte quella mattina ed Efrehem si concentrò per
assorbirne i raggi il
più possibile, sicuro che ne avrebbe avuto bisogno lungo il
suo cammino. Non
scendeva mai la notte in quel regno, c’era sempre luce anche
se più o meno
forte. Dopo non molto tempo, si pentì di aver portato con
sé quei libri così
pesanti. Si fermò, non riuscendo ad andare oltre. Si
guardò indietro,
sconfortato. La capitale era ancora a portata d’occhio.
Sempre più convinto che
non l’avrebbe più rivista, decise di lasciare i
libri dietro di sé. A
malincuore, li regalò a due simpatici signori che
incrociò poco più avanti,
raccomandandogli di averne cura. Non si separò,
però, dal blocco di fogli
bianchi in cui si era ripromesso di trascrivere per intero la sua
avventura ed
ogni informazione utile riguardante Asteria. Più si
allontanava da Balder,
inoltrandosi per le campagne, e più si sentiva fuori posto.
Si pentì amaramente
di non aver mai lasciato il castello per esplorare un po’ il
mondo circostante,
come al contrario aveva fatto sua sorella che ormai mancava di casa da
anni e
si faceva sentire solo per lettera.
Il
viaggio durò dieci giorni,
non sette come aveva previsto e sperato, data la sua andatura per nulla
atletica. Giusto in tempo giunse al cospetto del palazzo del Signore
dell’Ovest. Lo vide da lontano, dall’alto di una
sporgenza erbosa, e sorrise.
Si inquietò leggermente notando come il terreno cambiasse
una volta
oltrepassati i confini, che dall’alto si vedevano
chiaramente. Il regno del
Fuoco, sulla destra, lo spaventò con quel suolo rosso, forse
di lava
incandescente, e quello dell’elettricità non lo
confortò di certo notando le
scosse che lo attraversavano. Avrebbe davvero dovuto metterci piede?
Fortunatamente il palazzo grigio e circolare dell’Ovest,
identico all’esterno a
quello dell’Est, gli impediva di scorgere gli altri regni,
impedendogli di
spaventarsi ulteriormente. Prese un profondo respiro e si accinse a
scendere da
quell’altura, raggiungendo la valle sottostante. Ovviamente,
malfermo sui piedi
com’era, scivolò per un tratto e
ruzzolò fino a quando non riuscì ad aggrapparsi
ad un albero, luminoso come la sua pelle. Si guardò,
riflettendosi sull’acqua
increspata di un piccolo fiume, e decise di darsi una sistemata prima
di
entrare. Sistemò i vestiti, che si asciugarono dopo il
lavaggio in un attimo
grazie alla forte luce, si pulì il viso dalla terra, ancora
presente dopo il
bagno, e si pettinò accuratamente i capelli.
La
porta dal suo lato era
color oro, come la chiave che portava al collo, e brillava riflettendo
la luce.
Gli occhi sulle antenne di Efrehem si spalancarono per ammirare quello
spettacolo irripetibile. Il principe riusciva perfettamente a
specchiarsi in
quella superficie e pensò che gli occhi della
divinità che lo proteggeva
dovevano essere di quel colore. Guardò in alto, notando
un’ampia finestra ad
arco a tutto sesto, sormontato da una lunetta decorata con intarsi in
oro.
Voleva continuare a guardare quell’edificio ma sapeva che non
avrebbe potuto
restare lì a lungo. Era ormai giunto il giorno prestabilito.
In lontananza, un
satellite tondo e di colore rosso stava facendo capolino dal tetto
dell’edificio, proprio sopra la sua testa. Prese coraggio,
afferrò la chiave
d’oro fra le mani e la infilò nella serratura,
aprendo la porta ed entrando.