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Autore: Euridice100    24/10/2015    6 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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XVIII - Never gonna love again
 
 
 

“Baby, can you hear
my heart cry tonight? 
I can' t keep running away.”

 

 
 
Robert Gold era abituato agli addii. Sapeva già come ci si sente: sapeva che, per qualche strano meccanismo dell’anima, a far più male non è l’assenza, il non poter stringere a sé la persona amata e non potersi specchiare nel suo sguardo, no; a far più male, paradossalmente, è lo sconvolgimento della vita.
È aprire gli occhi una mattina e non trovare accanto chi era centro dell’universo; è il cercare attorno senza capire, senza trovare una spiegazione; è l’onda della realtà che sommerge, che fa realizzare ogni cosa e stringe, soffoca, ma non uccide.
L’onda da cui purtroppo si emerge.
Belle era ovunque. Il poco tempo trascorso insieme anche stavolta era stato sufficiente a lasciare il segno della sua presenza: c’era Belle nelle stanze, c’era il suo profumo sul cuscino, in dispensa c’erano le ciliegie che lei amava tanto quanto lui odiava, c’erano i suoi vestiti e i suoi libri.
C’era tutto, c’era tutto – e non c’era più lei.
Non c’era più Helena: Belle l’aveva portata con sé. Gold l’aveva immaginato sin da subito, ma quella maledetta sera, quando era riuscito a tornare a casa, la prima cosa che aveva fatto prima ancora di cercare la donna era stato fiondarsi nella stanza della bambina.
Se ci fosse stata Helena, ci sarebbe stata anche Belle.
Aveva fissato a lungo il lettino vuoto, la confusione che raccontava una partenza improvvisa, imprevista, mai voluta. Forse era stato allora che aveva davvero realizzato gli eventi, più con quella visione che durante il tempo interminabile trascorso immobile sotto l’albero di un giardino sconosciuto, incurante di tutto, incapace d’alzarsi, di reggersi in piedi, di seguirla, di fermarla.
A casa aveva realizzato che la sua famiglia era finita.
Da allora, ogni giorno dimenticava e ricordava.
I servi non lo videro mai piangere. Lui le lacrime le aveva versate tutte, e comunque nessuno avrebbe avuto mai il diritto di vedere le sue lacrime – nessuno tranne lei. L’aveva pregata, supplicata, si era prostrato ai suoi piedi, si era umiliato, e non se ne pentiva: lo avrebbe rifatto ancora e ancora, lo avrebbe rifatto ogni singolo giorno che gli restava da vivere se questo gli avesse restituito Belle; o almeno, la possibilità di tornare indietro nel tempo al giorno della prima bugia.
Ma un’altra cosa cui Robert Gold era abituato erano i pentimenti tardivi.
Era facile pentirsi, impossibile riparare. Avrebbe dovuto imparare la lezione tempo addietro, ma nella scuola della vita lui era stato spesso e volentieri un alunno distratto. Poteva disperarsi, scrivere infinite lettere che finivano accartocciate perché le parole non erano abbastanza: la carta era piatta, la carta non riusciva a contenere ciò che provava per lei, le parole – nessuna parola – rendeva.
Gliel’aveva consigliato Belle, una volta.
- Se non riesci a dirmi le cose, prova almeno a scriverle.
Ora si riscopriva incapace di comporre quella che sarebbe dovuta essere la lettera più importante della sua esistenza.
È facile esprimere i propri sentimenti quando si è certi di essere ricambiati. È semplice dire “Ti amo”, quando si sa che la risposta sarà un sorriso e un bacio. Ma quando la situazione cambia, magari all’improvviso, magari proprio per mano di chi ama, allora ogni sequela di “perdonami”, “so di aver sbagliato” “ti prego” sarà fine a se stessa.
Parole senza senso, che si rincorrono senza trovarsi e senza trovare il destinatario.
Il destinatario è divenuto sordo, ma è stato il mittente a renderlo tale.
Sa che le sue parole non toccheranno Belle.
Se l’avesse davanti, però, s’inginocchierebbe lo stesso a chiederle perdono.
Eppure sarebbe stato semplice. Anziché inviare i suoi a controllarla da lontano, sarebbe potuto andare lui da lei. Avrebbe potuto montare in carrozza e precipitarsi a Whitechapel, entrare nella locanda e imporre la propria presenza, rivendicare il proprio diritto.
Era così semplice. L’aveva fatto decine e decine di volte.
Non l’avrebbe più fatto.
Non si sarebbe più imposto. Se la donna non avesse voluto più vederlo, così sarebbe stato. Le avrebbe chiesto di incontrare Helena, ma quanto a Belle…
Non sapeva se avesse più paura di non vederla più, o di rivederla.
Le ho già chiesto tutto. Non posso pretendere di più.
Era già stato rifiutato da così tante persone per accettare anche il suo, di rifiuto.
Era una scelta disperata, vigliacca. Ma una scelta che lo copriva come una coperta, che lo proteggeva dal rischiare; una scelta sotto cui si nascondeva.
Cercava di non pensarci più di tanto, Robert Gold. Era andata così, considerando la strada che aveva scelto di percorrere non sarebbe potuta andare diversamente, e in ogni caso la colpa era da imputare a lui e a lui solo. Forse era stata una storia scritta dall’inizio, dal giorno in cui era andato a riscuotere un credito ed era tornato con una dipendente in più. Era arrivato a maledire il primo incontro con Maurice French, desiderava non avergli mai prestato quella somma e soprattutto non aver accettato la proposta insolente che aveva portato lei nella sua vita.
Lavorava fino a tardi per arrivare a letto sfinito, con la testa che girava per la stanchezza. Era l’unico modo che conosceva per esorcizzare la danza spietata dei sogni in cui c’era lei, lei e lei soltanto; ma il letto era troppo grande per una persona sola, e lui se ne accorgeva ogni volta che lei se ne andava. Si stendeva e fissava il soffitto, immaginando qualcuno respirare accanto a lui; immaginando di potersi addormentare ascoltando ancora il battito del suo cuore
Gli mancava una parte di sé, quella parte che lo manteneva umano.
Avrebbe conquistato il mondo con una mano, se lei gli avesse tenuto l’altra.
Ora era difficile anche conquistare il giorno, l’immagine dell’addio sempre negli occhi, così vicina e irraggiungibile.
Era arrivato un pacchetto da Heller&Sons - Fotografi e Artisti. Appena l’aveva visto, Gold era scoppiato in una risata isterica. Se all’epoca avesse saputo che la fine era tanto vicina, non avrebbe perso tempo a realizzare reliquie effimere, testimonianze di una presenza per il tempo dell’assenza; se avesse saputo l’avrebbe portata via con sé, lontano dal mondo che complottava contro di loro, e avrebbe fatto l’amore con lei ancora una volta. Le avrebbe detto che l’amava, l’amava davvero nonostante gli sbagli, le bugie e le paure, e glielo avrebbe detto ancora, ancora e ancora, fino a perdere la voce.
Se avesse saputo, non ci sarebbe stato il quadro di famiglia da cui due persone avevano strappato la loro immagine prima ancora che diventassero abitudine.
- Sei così bella che dovrebbero farti un dipinto, – le aveva ripetuto spesso.
Cosa se ne faceva di uno scatto, ora che non poteva più specchiarsi in quei pezzetti di cielo?
Ed Helena, Dio, Helena. Almeno Helena Belle doveva concedergliela: non poteva togliergli la figlia. La rivedeva far capolino nello studio che lei aveva eletto a suo parco giochi; in ogni istante gli pareva di scorgere il lembo di una vestina colorata apparire e scomparire nelle stanze vuote piene di preziosi pezzi d’antiquariato, di udire l’eco della sua risata. Tendeva l’orecchio per cogliere lo scalpiccio dei piedini, ma incontrava solo il silenzio triste di un luogo che non era più un luogo.
Senza la bambina era tutto così silenzioso. Era tanto piccola, ma la sua presenza ingombrante: da quando se n’era andata, la casa sembrava essere stata privata di colpo di tutta l’energia; lui sembrava essere stato privato di colpo di tutta la vitalità.  La sua assenza lo mangiava da dentro: trascorreva minuti interi a contemplare quei giocattoli abbandonati nella fretta di scappare.
Avevano dimenticato anche Bae.
Helena non c’era più, ma la presenza delle sue cose era un’ombra gigante da cui non era in grado di sottrarsi, proprio come non era di grado di amare senza distruggere.
Forse aveva un’interferenza nel cuore che glielo impediva; e forse era vero, lui non aveva diritto di amare ed essere amato da nessuno. Meritava di restare solo.
Suo padre l’aveva abbandonato perché era un intralcio, e lui stesso aveva lasciato Neal vivere e morire solo, preferendo gli affari al proprio bambino.
Milah era scappata perché era un fallito, con Cora era tutto finito perché neanche l’amore aveva sedato la perpetua ricerca del potere della donna.
Le persone lo avevano ferito, erano state sempre e solo false nei suoi confronti; non si curava di loro. Ma amava Belle, e con lei prima, con lei ed Helena poi aveva sperato di riscattare gli errori, finendo per ripeterli uno a uno.
La cosa che Gold più odiava al mondo era far soffrire Belle, ma era già successo una volta, e stava succedendo ancora.
Chissà se era più tranquilla, ora che l’aveva lasciato. Se stava reimparando a sorridere, se scherzava con Ruby, con Graham, con gli avventori del locale. Lo sperava per lei, ma era un’illusione: anche a distanza, Gold sentiva il suo cuore rotto, impossibile da sistemare. Era lontana, ma lui ne vedeva ogni espressione, ogni lacrima, ogni tentativo di mostrarsi felice come se l’avesse avuta dinanzi.
Non era questo – mio Dio, non era questo ciò che avrei voluto per noi.
Credimi, Belle, devi credermi.
Ti prego…
Avrebbe dato tutto per sentire ancora il tocco della sua Sweetheart fermargli il cuore, per poter nascondere il volto nel torrente dei suoi capelli, per far addormentare sua figlia con una fiaba.
Per lasciarsi amare e dar loro ancora potere su di lui.
Ma perché sperare? Non sarebbe più successo.
Era stato così bravo a farsi lasciare anche da loro.
Tanto valeva dimenticare.
In quei giorni, quando non lavorava, Robert Gold sedeva spesso all’arcolaio.
Ma neanche questo non lo aiutava a dimenticare.
 
 
 

 “This time 
I can't keep running away, 
'cause I'm never gonna love again.”

 

 
 
Belle era arrivata da Granny’s ben oltre mezzanotte. Il locale era chiuso, ma sapeva che dentro le due proprietarie stavano ancora lavorando e non aveva esitato a bussare.
Quando Ruby aveva aperto, aveva fissato sbigottita la donna vestita d’oro con una bimba al collo e una borsa che pareva scoppiare; l’aveva fissata talmente confusa che Viktor Whale, evidentemente in visita dalla sua bella, era intervenuto pensando a qualche cliente inopportuno.
Belle si era sentita persino più male all’idea di star rovinando anche l’appuntamento dell’amica.
- Cos’è successo? – la giovane aveva infine sussurrato – Perché
Ma i fatti erano più eloquenti di mille discorsi.
- Venite, – si era riscossa e aveva fatto un cenno che il medico aveva come compreso all’istante – Saliamo dalla nonna.
Non era stato difficile confidarsi con le Lucas. Dopo aver fatto riaddormentare una sempre più spaesata Helena, le parole erano fluite da sé, come se fino ad allora avessero premuto in fondo alla gola in attesa del momento per erompere. Belle non si era trattenuta: aveva raccontato ogni dettaglio della festa, i brividi causati dal sorriso di Cora, la comparsa di Rebecca, il ballo, la rivelazione, l’incredulità, la conferma, la lite.
La decisione.
Si era ritrovata a piangere molto prima della fine del racconto, abbracciata a Granny che la carezzava senza sosta mentre Ruby teneva il capo chino. Si era ripromessa di non farlo, ma pareva che solo lasciando libere le lacrime la tensione che aveva in corpo potesse allentare la sua morsa.
- Scusate l’irruzione, – era riuscita a singhiozzare infine – Sono una stupida. Non sapevo dove andare, e allora ho pensato che per una notte…
Le ospiti erano scattate all’unisono.
- Resterete qui. Anche per sempre, se sarà il caso, – l’avevano zittita.
Belle si era messa a letto solo per accontentare le due: appena avevano preso sonno, si era alzata di soppiatto ed era tornata nell’altra stanzetta. Non voleva svegliare né loro né la figlia, non voleva avere compagnia; voleva solo solitudine, e libertà di piangere. Fare qualsiasi altra cosa era fuori discussione: non ne aveva la forza.
Si sentiva male, Belle, male come solo una volta si era già sentita nella vita.
Una volta che aveva avuto lo stesso responsabile.
Non era il tradimento in sé ad avvilirla tanto, era stata chiara sul punto: al tempo in cui l’uomo la credeva morta, avrebbe avuto ogni diritto di frequentare un’altra, anche di impegnarsi. Se lui gliene avesse parlato, lei avrebbe capito.
Il problema sorgeva proprio dall’ennesimo silenzio, dall’averla resa vittima inconsapevole destinata ad aprire gli occhi solo per assistere impotente alla distruzione.
La prima volta poteva essere un errore, ma lo stesso errore non poteva essere ripetuto una seconda volta; e lui l’aveva fatto.
Robert le aveva mentito
Robert non aveva alcuna fiducia in lei.
Quella notte aveva pianto tanto da provare dolore fisico: le pareva di avere i polmoni in fiamme, squarciati da continui sussulti che lottava per soffocare. Quella sofferenza era però nulla rispetto a ciò che sentiva dentro: non le pareva possibile che la stessa persona che l’aveva fatta sentire così speciale, che da mesi le donava il sogno di una famiglia, all’improvviso l’avesse fatta sentire così stupida, così cieca, così manipolabile e inutile.
Così poco amata.
Lui aveva ancora il suo sapore sulle labbra mentre cercava di difendersi dalla verità.
Perché riusciva a portarla sempre al punto di partenza?
Aveva avuto bisogno di quattro mesi per confessare. Quattro mesi, di cui gli ultimi minuti trascorsi balbettando. Lui, il maestro delle parole, muto dal terrore, capace solo di ripetere che si sarebbe fatto perdonare,  che avrebbe sistemato tutto, che tutto sarebbe tornato come un tempo.
Come un tempo?, avrebbe voluto urlargli. Come quale tempo? In quale tempo non mi hai mentito?
Forse era davvero anche colpa sua: sapeva da sempre con chi aveva a che fare. Se Robert Gold era noto come la Bestia, un fondo di verità doveva pur esserci; e forse aveva ragione Cora, si era solo illusa del contrario.
Conosceva le fragilità di Robert, sapeva quanto avesse paura di deluderla; ma aveva pensato anche che le paure prima o poi se ne sarebbero andate, mentre lei sarebbe rimasta.
Ma forse non l’aveva mai conosciuto davvero bene. Forse lui non gliel’aveva mai davvero permesso.
Belle aveva creduto di poterlo guarire, si era impegnata, aveva creduto di avercela fatta; e invece era lei ad essersi ammalata. Si era ripromessa non sarebbe più andata in pezzi, ma era stato tutto vano.
Lei era crollata, era stata abbattuta, ed era successo tutto troppo in fretta per rendersene conto. All’improvviso tutto era stato troppo: troppa onestà, troppo artificio, troppi cuori mascherati e troppe parole vere e crudeli.
Aveva deciso sull’onda della concitazione; solo all’alba aveva realizzato appieno quanto accaduto.
E non se n’era pentita.
Perché Robert sapeva che anche lei aveva i suoi demoni, e che lui avrebbe potuto esorcizzarli; e invece l’aveva trattata come una cosa, come se fosse stata una sconosciuta, con quel suo odioso, patetico atteggiarsi a padrone del mondo.  Allungava la mano e schierava le persone come pedine su una scacchiera per poi disinteressarsene; lo aveva fatto non una, ma infinite volte, ma le cose sarebbero cambiate.
Per sempre.
Come dal nulla, la sua mente aveva rievocato un ricordo che non aveva più ragione di esistere.
Il brivido che aveva provato la prima volta che lui le aveva detto: – Sei bella – e lei gli aveva creduto.
Glielo ripeteva sempre, – Sei bella – mentre le allacciava collane e bracciali, mentre la sommergeva di vestiti costosi che non aveva avuto modo d’indossare. Ma con la storia del – Sei bella – si era dimenticato che lei non era una bambolina, ma una persona, con delle emozioni e dei sentimenti.
Lei tutto questo non l’avrebbe dimenticato più.
Avrebbe imparato una lezione, aveva giurato a se stessa: non si sarebbe più ammalata di emozioni ingenue.
Non sarebbe cascata ancora nella sua trappola, si disse mentre il nodo di disperazione si scioglieva ora in furiose lacrime di rabbia; avrebbe fatto ciò che cinque anni prima non era stata in grado di fare.
A costo di annullarsi, se lo sarebbe strappato dal cuore.
Non lo amerò mai più.
Ci sarebbe voluto tempo, ma sarebbe andata avanti. Robert Gold sarebbe stato un nome, sempre diverso dagli altri, ma un nome; non il nome.
Lo doveva a sua figlia, alla figlia che lei aveva amato dal principio, che lei aveva cresciuto ed educato, che lui evidentemente aveva considerato solo un passatempo, dal momento che i giorni passavano e mai, nemmeno una volta per sbaglio, si era fatto vivo almeno per Helena, almeno per chiedere: – come sta la bambina, è viva, sta bene?
Questo la diceva lunga su Robert Gold.
Era tutto finito.
Un capitolo chiuso.
A Helena, però, doveva una spiegazione. La piccola non aveva capito niente: quella notte, strappata dal caldo abbraccio delle coperte, aveva mormorato qualcosa su Regina e osservato stranita la madre preparare la valigia.
- Che fai? – aveva infine osato domandare.
Belle non aveva risposto. Cosa dirle? Non lo sapeva neppure lei. Non lo sapeva neppure mentre, la mattina seguente, si accingeva a parlarle, stringendola a sé come se fosse tornata a essere l’unica cosa che avesse.
E in fondo, non è la verità?
Non voleva che Helena crescesse credendo che il rancore fosse normale come l’avvicendarsi delle stagioni. Non voleva metterla contro il padre, malgrado lei ora lo odiasse, ma qualsiasi spiegazione avrebbe trasudato rancore.
- Siamo tornate prima perché papà e io abbiamo litigato, – aveva confessato solo dopo molte esitazioni.
Faceva bene a dirglielo?
I suoi begli occhi castani l’avevano fissata incerti.
I suoi occhi.
- Come facciamo io e Anna? – la bimba si era rannicchiata un po’ di più tra le sue braccia.
- Sì. Come tu e Anna.
Sua figlia aveva annuito. Si era lasciata coccolare in silenzio, pensierosa; solo quando la madre aveva iniziato a prepararla, aveva riportato lo sguardo su di lei.
- Però poi anche voi fate pace? – aveva chiesto mordendosi l’interno del pollice.
- La capacità di capire troppo non rende felici, e purtroppo Helena ce l’ha. L’aveva anche Neal, – l’aveva messa in guardia lui, una volta.
Era vero, era tutto così tristemente vero.
Quanto avrebbe preferito un’Helena meno attenta, più spensierata…
- Voglio tornare da papà.
- Lo so. Lo vorrei anch’io, – si era sentita rispondere.
Almeno non le hai mentito.
A Belle lavorare era sempre piaciuto, ma in quei giorni le era divenuto necessario.
Tenersi occupata. Parlare con la gente.
Mai restare sola, mai dedicarsi ad attività che potrebbero distrarti.
I pensieri tornano.
I pensieri non devono tornare.
Rideva e scherzava, Belle. Rideva e scherzava persino con Mary e Ashley, con Killian ed Emma venuti a chiedere spiegazioni che lei non aveva negato.
Concludeva ogni discorso con un sorriso e un – Ma va tutto bene.
(Va tutto bene, tranne il mio cuore.)
Era stato lui a rendere i suoi sorrisi così evasivi?
Ma Robert non c’era.
Non c’era neanche per loro figlia…
Ci pensava anche allora, mentre fingeva di chiacchierare tranquilla con Ruby e Tink. Le amiche le erano rimaste accanto nel frangente; e malgrado la Barrie non fosse mai stata convinta del riavvicinamento tra Belle e Gold, una volta saputo della rottura aveva messo da parte l’abituale franchezza e risparmiato un – Te l’avevo detto – che avrebbe solo peggiorato la situazione.
Eppure è vero. Me l’aveva detto.
- Alle volte penso di aver sbagliato anch’io, almeno sotto un certo punto di vista, – esordì dal nulla, la voce grave e gli occhi fissi al terreno. Le altre chinarono lo sguardo all’unisono. Fino a quel momento la situazione era stata abbastanza tranquilla, la donna pareva serena. Appunto: pareva. Entrambe sapevano che la realtà non sarebbe potuta essere più distante – Gli ho giurato che sarei rimasta al suo fianco, che non avrei mai dimenticato chi eravamo, e invece…
- Lui ti ha costretta ad andartene. Lui, – le rammentò Tink – Tu tieni fede alle promesse, l’avresti fatto anche stavolta. Lui, invece, mai.
Già. Le promesse di Robert.
Tante ne aveva fatte, tante ne aveva tradite.
… Ora erano uguali?
- Perché stiamo sempre dietro a chi ci fa male? – sospirò Ruby – Vorrei che tutto fosse un po’ più semplice. Mi spiace vederti di nuovo così … – fece, riferendosi a Belle che alzò le spalle.
- Non ne ho idea, – ammise – Dicono che l’amore non ascolta il buon senso, ma forse ci sono degli amori persino peggiori. Degli amori non solo sordi, ma anche ciechi. E io ci sono cascata in pieno di nuovo.
- Non potevi…
- Potevo. Dovevo, per mia figlia, – la risposta non si fece attendere – Ma evidentemente, non sono ancora in grado di capire la gente. Tanti libri, tante esperienze, e ancora non ne sono in grado.
- No, – la voce di Tink risuonò forte e dura – Non sei responsabile di quel che è successo. Ti sei impegnata con tutte le forze per costruire la famiglia che sareste dovuti essere da sempre, non hai nulla da rimproverarti. Non puoi recriminarti nulla, se non che l’hai amato, e neanche quella è una colpa, – la volontaria incrociò la braccia al petto prima di continuare – Sarò brusca, forse cattiva, ma una cosa mi è chiara: è Gold a nascondere una bestia, e non nel senso per cui è noto. Lui accumula errori e si piange addosso lamentandosi di avere il destino contro, senza capire che è lui stesso a costruire il suo destino, e che se si sta rivelando tanto misero e triste forse sarebbe l’ora di porsi qualche domanda. Ma è lui a doverlo fare, – rimarcò – Non tu.
Belle bevve un sorso di tè. Forse Tink era nel giusto. O forse aveva ragione quella vocina che aveva iniziato a rammentarle la promessa tradita.
Ma non avrei potuto fare altro, in quel momento.
Non avrei saputo fare altro.
Guardò nella tazza, ma non trovò risposte.
 Il tè risolve tutto, lei stessa aveva detto qualche volta. Che gran bugia…
- Credevo di avergli dato tutto ciò che potevo dargli.
- E così è stato, ma alle volte non basta. Ci sono persone cui nulla basta, e lui è una di quelle. Tu no. Tu sei forte e intelligente, e andandotene hai preso la decisione migliore. Forse la più dolorosa della tua vita, ma anche la più saggia: stare con lui poteva essere una favola, ma le favole sono vere a metà, e ora che lui ti ha fatta ripiombare nella realtà, devi capire chi sei, cosa vuoi veramente. Andare oltre ciò che è stato, per quanto sia possibile. Smettere pian piano di pensarci.
- Se fosse semplice. Tutto mi fa pensare a lui.
Se Belle avesse provato a seguire il cuore, l’avrebbe condotta a Kensington lui. Forse quel William Scarlet, aveva ragione: se le avessero strappato il cuore tutto sarebbe stato molto meglio.
Perché nell’arco di pochi giorni, Belle aveva capito: avrebbero fatto prima a cavarle il cuore dal petto, che a  scacciare il pensiero di Robert dalla sua testa. Quando chiudeva gli occhi, c’era sempre lui.
- Forse non passerà mai, – Ruby avanzò cauta, dopo aver assistito in silenzio al dialogo tra le amiche.
- Grazie per l’aiuto, eh, – ringhiò Tink – Io cerco di infonderle un po’ d’ottimismo, e tu…
- No, – la Lucas scosse il capo con decisione – Siamo obiettive: lei ama Gold in un modo che di sicuro non si scorda da un giorno all’altro, e che forse non si scorda mai. Sostenere il contrario sarebbe mentire. Però questo non significa che tu, – si voltò verso Belle – Non possa andare oltre. Tornare a vivere come hai fatto durante questi cinque anni, e magari anche meglio nonostante tutto.  Io ti conosco: ce l’hai fatta l’altra volta, e sono convinta – sono sicura – che ce la farai ancora. All’epoca hai combattuto come una leonessa, e stai ancora combattendo, perché non hai solo Helena, ma tante, tantissime altre ragioni per cui farlo. Magari ora non te ne accorgi, ma ci sono, e il giorno in cui te ne renderai conto tornerai a vivere.
Ruby le sorrise. C’era così tanto affetto, così tanta speranza in quel discorso, che una parte di Belle volle credere. Forse aveva commesso lo sbaglio più grande credendo alle sue stesse parole, ma fidandosi dell’amica l’avrebbe ripetuto.
Ruby era stata tra le poche in grado di comprenderla dal primo istante, di starle vicina senza esserle opprimente: quando, quella volta a Kensington, aveva avuto conferma del padre della bambina non ancora nata, non le aveva posto domande, non aveva preteso di sapere tutto. Aveva atteso. che Belle fosse pronta a confidarsi, proprio come ora attendeva ogni volta fosse lei a voler affrontare la questione.
Gold faccia ciò che vuole, si disse Belle in un istante di improvviso, rapido e insperato ottimismo. Io sto bene qui, con Helena e Ruby.
Il resto non conta.
Un urlo femminile riscosse le ragazze.
- Ruby? Belle? RUBYYY! Dove siete finite, razza di pelandrone?
- Torniamo a lavorare, o Granny recupera sul serio la balestra, – Belle si stiracchiò prima di alzarsi – Solo, per favore – mentì per non restare in cucina coi suoi pensieri –  Fatemi servire in sala. Se oggi vedo cibo, vomito.
Tink le lanciò una lunga occhiata inquisitoria.
- Non è che…
- No, no, – intuendo, l’anticipò con fermezza – So a cosa stai pensando, ma no – non sono incinta. Te lo assicuro. Sono solo esausta.
Una volta ne avevano parlato, lei e Robert. Era stato lui a introdurre l’argomento, ad accennare a quanto sarebbe stato bello allargare la famiglia, popolare un po’ la villa.
Belle ricordava di aver riso di quell’espressione.
- “Popolare un po’ la villa”? – l’aveva punzecchiato – Vorresti davvero una dozzina di piccoli Gold saltellanti qua e là?
- Il suicidio non è nei miei piani, – aveva ironizzato contro la sua spalla, per poi tornare presto serio – Ma non sto scherzando. Helena impazzirebbe per un fratellino o una sorellina, e io… Io sarei felice di diventare di nuovo padre. Felicissimo.
Era calato un lungo silenzio. Sì, anche a Belle sarebbe piaciuto un altro figlio, vivere in attesa della creatura su cui avrebbe riversato tutto il suo amore, dare a Robert la possibilità di esserci sin dall’inizio stavolta. Aveva sorriso tra sé e sé mentre i ricordi dolci della loro bambina, dall’emozione nel sentirla muoversi in sé allo stringerla per la prima volta, dai primi balbettii alle manifestazioni d’indipendenza la colpivano con la forza di un uragano, indimenticati e indimenticabili.
Sì, sarebbe stato bello essere chiamata mamma da un’altra personcina, ma non era il momento. Bisognava prima sposarsi e chiarire la situazione di Helena, e Cielo, non erano più ragazzini e forse lei era una gran egoista, ma ora che aveva ritrovato Robert le sarebbe piaciuto dedicarsi a lui e concentrarsi sulla bambina ancora un po’ prima di ricominciare daccapo!
- Adesso abbiamo Helena cui pensare, – aveva dichiarato infine – È piccola, e vi conoscete da poco: per ora lasciamola godersi il suo papà.
- Non sia mai che diventi gelosa, – lui l’aveva presa in giro.
- Ci sarà tempo. Magari tra qualche anno rimpiangerai la tua proposta, tanto sarai stufo di marmocchi urlanti…
Ci sarà tempo, aveva detto.
Ora tempo non ce ne sarebbe più stato. Quel futuro si era sciolto come neve al sole.
Sogni rimasti a metà, possibilità mai divenute realtà e speranze congelate da parole tanto dolci quanto crudeli.
Faceva più male il pensiero di quanto accaduto o di ciò che non sarebbe accaduto mai?
No, si disse. Non rimpiangeva l’aver procrastinato. Non avrebbe più inflitto a nessuno la sorte di Helena: non avrebbe cresciuto un altro figlio senza padre, non avrebbe più permesso a Robert di comparire all’improvviso e restare appena il tempo per farsi amare per poi sparire e sfregiare il cuore di un altro innocente. Era meglio così. Era meglio essere sola con Helena, come erano sempre state.
Siamo più forti da sole.
- Capito, – Tink continuò a guardarla dritto in volto, ma alla fine demorse – Meglio che vada anch’io. Ho il caos in orfanotrofio…
- Nuovi bambini?
- Non è una bambina. Non più, almeno, – la bionda sospirò – È arrivata proprio l’altra sera. Ci hanno portato un ragazzo accoltellato che non ce l’ha fatta, e poco dopo è comparsa lei. L’unica cosa che ha fatto è stata stendersi accanto a lui e mormorare il suo nome.
- Che brutta storia, – commentò Ruby, sinceramente dispiaciuta.
- Già. Tra l’altro, non è del posto: dai vestiti che indossa, direi che viene dal West End. Dovreste vederla: si finge dura, ma è una ragazzina spaesata, e si capisce subito. L’abbiamo dovuta allontanare a forza da Daniel, come ripete ancora… Solo Henry è in qualche modo riuscito a estorcerle il nome. Pare si chiami Regina.
A Belle si mozzò il fiato.
No. Non poteva essere. Doveva aver sentito male…
- Come… – le parole le morirono in gola – Come hai detto che si chiama la ragazza?
L’amica la fissò senza capire.
- Regina. Ha detto di chiamarsi Regina.
 
 
 

“Every time the rain falls,
think of me.”

 
 
 
Cinque giorni.
Era successo tutto il 12 di agosto, ma quella era stata la notte più fredda della sua vita.
Ed erano trascorsi cinque giorni da allora.
Mal non aveva aperto bocca durante il tragitto. In fondo, a cosa sarebbe servita una consolazione? Avrebbe riaperto gli occhi di Daniel?
No.
Nulla avrebbe riaperto gli occhi dell’unica persona che teneva Regina legata alla vita.
Sempre che di vita potesse ancora parlare. Lei aveva smesso di respirare nell’attimo in cui l’aveva visto su quella branda, immobile e insanguinato. Non aveva mai visto così tanto sangue in vita sua. Non immaginava che nel corpo ce ne fosse tanto – che pensiero strano da fare, quando l’unica sua preoccupazione sarebbe dovuta essere scagliarsi al suo fianco, abbracciarlo, stringerlo in quegli ultimi momenti.
Erano stati gli ultimi, o l’ultimo era già stato? Non l’avrebbe mai saputo. Non ricordava se il ragazzo stesse ancora respirando quando gli si era avvicinata. Le lacrime le offuscavano la vista, i suoi stessi singhiozzi le riempivano le orecchie; ricordava solo che Daniel era freddo, tanto freddo, e questo era assurdo, perché Daniel era sempre caldo, tanto caldo, le sue mani erano sempre bollenti e riscaldavano quelle di Regina i pomeriggi di dicembre, quando lei tornava a casa dal collegio e scappava nelle stalle pur di stare qualche ora con lui.
Già allora era sempre stato o troppo presto o troppo tardi insieme.
Ma ora Daniel era freddo e lei calda, quindi dovevano fare il contrario, no? Perché ora era Daniel ad avere freddo, tanto freddo, e lei non voleva, non voleva sentisse freddo e si ammalasse, giusto?
Daniel doveva stare bene. Daniel doveva essere protetto, e…
Daniel è morto.
Il pensiero le attraversò la mente, dritto e preciso.
No.

Sai è che così.
L’avevano dovuta allontanare a forza. Non sapeva dove avessero portato il corpo, dove l’avessero sepolto. Non sapeva cos’avesse fatto lei stessa negli ultimi giorni, non sapeva dove fosse, chi fossero quei bambini che di tanto in tanto le si avvicinavano o quella donna bionda e tenace che veniva a parlarle e la costringeva a mangiare.
Non sapeva nulla, se non che li odiava tutti.
Tutti.
Perché loro erano vivi e Daniel no, Daniel era morto, quando era tra i pochi al mondo a meritare la vita.
E odiava anche Daniel, perché le aveva giurato ci sarebbe sempre stato, e invece l’aveva lasciata sola. Dov’era andato? Perché non l’aveva portata con lui? Come poteva pretendere lei tenesse fede alla parola data quando lui aveva violato la sua, di promessa?
Come poteva combattere, cercare di imporsi anziché lasciarsi trascinare dalla corrente, se lui non lottava con lei?
Regina allontanava da sé tutto e tutti. Voleva restare sola, scappare di lì e morire, attendere la fine rievocando i giorni trascorsi insieme, così pieni della vita che non avrebbero mai avuto.
I ricordi felici facevano più male di quelli tristi, ma non avrebbe permesso al dolore di aprirle buchi nella memoria.
I pugnali che aveva nel cuore, se li sarebbe portati dentro sempre.
All’improvviso qualcuno violò il suo isolamento.  
- Regina?
Ignorò il richiamo. Le parve di aver già udito la voce in passato, in una vita o un mondo precedenti, ma era impossibile. Lì – ovunque fosse, ancora a Londra o chissà dove – non conosceva nessuno, ed era meglio così.
- Regina.
Quando si voltò appena, trovò Belle French intenta a guardarla con quei suoi grandi occhi chiari addolorati.
- Ho appena saputo. Mi dispiace… – la sentì dire.
Come poteva dispiacerle? Belle non conosceva Daniel. Sapeva chi fosse, ma mai era stata illuminata dal suo sorriso buono, mai ne aveva ascoltato gli aneddoti. Per lei Daniel Locke non era che un nome, il compagno di ribellione della ragazzina sciocca che implorava pietà dopo averle distrutto la vita. Anzi, era probabile che Belle gioisse di quel lutto, che dietro la facciata di cordoglio stesse sogghignando perché finalmente anche Regina scopriva il significato del dolore, perché ora anche la figlia della rivale era rotta come lei cinque anni prima.
Belle mentiva.
- Stai zitta, – Regina gracchiò con la voce di chi non è più abituato a parlare – Tu, mia madre, tua figlia, suo padre… Dovete solo stare zitti. Tutti. Voi non sapete niente, niente, e non avete diritto di parlare.
Belle chinò il capo. Una simile reazione era più che prevedibile, e soprattutto, comprensibile: perdere uno dei pochi sostegni era forse la cosa più grave potesse accadere a Regina in quel momento. Poteva intuirne la sofferenza, per quanto mascherata dalla sfumatura d’asprezza della voce: solo il tempo avrebbe potuto curarla, e pure la ferita non si sarebbe mai rimarginata del tutto.
Ma al tempo stesso, l’adolescente non poteva restare lì a crogiolarsi nel lutto. Mancava da Kensington da giorni e giorni: possibile che non la stessero cercando? Possibile che i domestici venuti a trovare lei, che suo zio – il pensiero fu una scheggia – non si fossero accorti della fuga?
- È vero, – fece, intuendo già che sarebbe stato vano. Solo vivere un’esperienza simile le avrebbe dato titolo di parlare; e nemmeno, perché nessun dolore è identico. Ogni dolore è speciale e unico a modo suo; e forse anche per questo fa sempre così male – Non so come tu ti senta, nessuno lo sa, ma una cosa è certa: star qui non ti fa bene. È terribile, ma tu non…
- Esatto. È terribile, ma tu non puoi dirmi cosa fare. Nessuno può dirlo.
- Io…
- Tu hai sofferto, sì. Ma tu non hai sofferto quanto sto soffrendo io, – la voce di Regina tradiva una rabbia crescente – Tu hai avuto la possibilità di sperare, di dirti che malgrado tutto magari un giorno le cose si sarebbero sistemate, come poi è successo. Siete felici, ora, voi tre assieme. Una bella famiglia, – non fece caso al lieve sussulto della donna – Io, invece, non ho nulla. I tuoi desideri si sono realizzati, i miei sono morti sul nascere. A me è stata tolta anche la speranza. Anche ciò che tu hai sempre avuto.
Belle percepì il dolore dietro ogni parola. Era tutto così vero: la sofferenza di Regina non era la sua. Anche lei aveva amato e perduto un genitore e un’amica, ma questo, almeno questo, le era stato risparmiato. Per quanto fosse stata, stesse ancora male per lui, Robert c’era; e il solo pensiero di perderlo in modo tanto definitivo le provocava anche allora una fitta al petto: travolgente, soffocante, impossibile da combattere, scostare, sopportare.
Lo sguardo di Regina era scuro come il crespino. Dov’erano i suoi begli occhi? Non erano più irraggiati dall’invincibilità dei giovani, non erano più pieni di emozioni, di vita.
Era stata la vita stessa a distruggerla.
Non esiste rimedio alla morte, ma non esiste rimedio neanche alla vita.
E lei non poteva aiutare Regina. Nessuno, se non Regina stessa, avrebbe potuto farlo.
- C’è… C’è qualcosa che posso fare? – chiese comunque, non intenzionata ad arrendersi.
La risposta non tardò a giungere.
- Puoi darmi una vita diversa?
Belle scosse il capo triste.
- E allora non puoi fare nulla.
 
 
 
On a lonely highway.
 
 
 
Cora si sentiva soddisfatta. No, anzi: non soddisfatta, a suo agio. Come se finalmente il mondo fosse tornato in equilibrio e ogni disordine, ogni contrasto appianato per sempre.
Come previsto, Robert si era dimostrato pusillanime e non aveva narrato alla camerierina i trascorsi americani. L’espressione dell’uomo alla vista della Zelenyy era stata impagabile: se mai aveva davvero avuto potere su una persona, Cora ne era certa, era stato in quel momento. A un suo cenno Rebecca avrebbe potuto ritirarsi e lasciar scorrere intatta l’esistenza di Gold; ma anche nella remotissima ipotesi in cui una parte di lei fosse stata mossa da pietà, Cora se lo sarebbe impedita a ogni costo. Non era in fondo suo caritatevole dovere aiutare una sventurata già segnata dalla vita quale Belle French a capire con che razza di bestia avesse a che fare?
Aveva gioito non poco al trauma della miserabile; tuttavia, doveva ammettere, ne aveva sottovalutato la franchezza – o la stupidità. Non avrebbe mai scommesso che la più giovane avrebbe preso l’amante per trascinarlo a discutere proprio lì, davanti agli occhi curiosi dell’intera Londra bene. Quanto accaduto dai Feinberg era sulla bocca di tutti, e i primi articoli erano già stati pubblicati: chiunque avanzava tesi e ipotesi, mentre gli eventi venivano gonfiati di ora in ora.
“- Robert Gold è stato schiaffeggiato dalla bella sconosciuta!
- Ma quale sconosciuta: la ragazza è lady Ally, la figlia del barone FitzWalter! 1
- No, è la nipote del governatore di Australia!”
Cora rideva, rideva sotto i baffi e si mostrava altrettanto scandalizzata – deliziata – chiacchierando con le altre dame e fingendo d’ignorare ogni retroscena.
Ma, per quanto interessante, la questione non era più di sua competenza. La sua era una vendetta indiretta, distruggere senza sporcarsi le mani: d’ora in avanti sarebbe stata Rebecca la protagonista, e certo la sua furia e i suoi contatti lavorativi difficilmente avrebbero dato tregua a Gold. Cora si sarebbe limitata a offrirle supporto economico – già le aveva affittato una villetta in cui alloggiare – e morale da lontano.
Mentre l’interregno di Belle French volgeva a termine, le priorità della Contessa erano altre: riportare a Belgravia l’irriconoscente creatura che rispondeva al nome di Regina Mills. Quando una tremante Mary Margaret aveva ammesso la sparizione della ragazza e la vanità delle ricerche della servitù – nessun commento da Gold, ovviamente –, dopo lo stupore e l’ira iniziali la nobildonna non si era persa d’animo: non dubitava che lo stalliere avesse parlato all’adolescente dell’incontro, dandole magari un indirizzo di riferimento, e che ella vi si fosse recata nel tentativo di trovare il suo amato.
Amato che aveva causato infiniti problemi, e che ne avrebbe causati altri persino da morto.
Cora si vantava di essere una persona chiara: aveva ordinato ai suoi di dare una nuova lezione a Locke, stante l’inutilità della prima. Ora, cosa ci fosse di equivoco nel comando lei proprio non riusciva a capirlo: con dare una nuova lezione intendeva batterlo per bene, spezzargli qualche osso, fargli capire per una volta per tutte che la Contessina era troppo per lui. Magari picchiarlo tanto da fargli perdere i sensi, buttarlo sul primo vascello in partenza e farlo risvegliare a miglia da Londra, ecco, questo sarebbe stato perfetto.
E invece, invece, quegli incapaci senza cervello lo avevano ammazzato. Così facendo, avevano risolto definitivamente il problema – cosa di cui Cora non poteva che essere grata –, ma senza dubbio avevano anche aizzato l’odio di Regina… Odio che ella avrebbe ovviamente riversato sulla madre.
Cora era conscia che senza prove quella storia sarebbe rimasta una tigre di carta, né lei intendeva confessare il misfatto; ma sapeva anche che la figlia non era stupida e non avrebbe avuto bisogno di indizi per scoprire la mandante.
Chi la sopporta, adesso?
Ma questo non faceva certo demordere la Mills: Regina andava ritrovata. Sua figlia, colei che aveva cresciuto perché un giorno dominasse il mondo, non poteva sparire così; e non poteva, come le indagini avevano poi confermato, sguazzare nel sudiciume, trascinarsi nei bassifondi da cui lei era riuscita a sfuggire.
Regina si nascondeva nell’orfanotrofio gestito a Whitechapel da quella Rose Barrie che qualche anno prima aveva scandalizzato il mondo rinunciando ai beni paterni e iniziando a giocare alla buona samaritana.
Ma i ragazzini cenciosi che vivevano di elemosina, furtarelli o peggio – lo sapeva bene, lei, era stata una di loro – non erano il mondo adatto per Regina
Era scesa a qualsiasi compromesso per dare alla figlia le possibilità che lei non aveva avuto: non le avrebbe permesso di rovinare tutto.
L’avrebbe riportata a casa.
 
 
 
How can we 
turn around the heartache?”
 
 
 
Ritrovarsi sua madre davanti era l’ultima cosa che Regina avrebbe desiderato in quel momento.
E invece fu proprio quel che accadde.
Quando la vide, la ragazza provò solo il desiderio di mettersi a urlare, di cacciare via tanto Cora quanto Belle che non rispettavano i suoi spazi, non accettavano il suo dolore, che erano tornate per riportarla là dove lei non avrebbe più messo piede.
Ma Regina non gridò, non si mise a strillare o a piangere.
Fece qualcosa di peggio: rimase in silenzio.
Avrei dovuto immaginarlo, si disse Cora. Quell’irriverente servetta, non paga di aver già scompigliato abbastanza la quiete della sua vita, si era piazzata in prima fila per ficcare il naso anche in questo. Probabilmente sapeva da sempre dove fosse Regina, era al corrente dell’assurda liaison con Locke – magari l’aveva anche incoraggiata – e aveva corrotto i domestici di Gold affinché non aprisse bocca con lei.
Sarebbe stata proprio una mossa da Belle French, patrona dei diseredati; ma, qualunque ne fossero stati gli intenti, stavolta avrebbe dovuto demordere.
Qui non era un uomo qualunque a essere oggetto di contesa, ma Regina Mills.
Sua figlia.
E la puttanella avrebbe fatto meglio a tacere.
Quando vide Cora, Belle deglutì. Le parve che ogni goccia di sangue fosse defluito dal suo corpo, lasciandola priva di vita; il freddo prese possesso di lei, costringendola a un silenzio, a un’immobilità che avrebbe saputo giustificare solo in un modo.
Paura.
Eppure avrebbe dovuto essere grata alla Contessa: le aveva fatto aprire gli occhi, l’aveva costretta a fronteggiare le falsità in cui viveva; l’aveva aiutata.
Ma l’aveva fatto per i propri fini. Belle non era una sciocca: non c’era stato alcun intento amichevole nelle mosse della rivale – perché, nonostante tutto, si trattava ancora, si trattava sempre di quello –, ma solo la volontà di ferire. Di farla sentire una stupida incapace di interpretare i segni; di ricordarle che il tempo passava e Robert aveva scelto lei, ma che mai l’uomo si sarebbe liberato del fantasma della sua maestra.
Di colei che l’aveva istruito, manipolato, trattato come un mostro
Di colei che l’aveva reso tale.
Che gli aveva rovinato la vita.
No, non era paura quella di Belle.
Era l’istante che precedeva la rabbia.
- Regina cara, – Cora esordì morbida, muovendo alcuni passi verso la figlia e fingendo di non notare un’altra presenza – Ti cerco da giorni, e scopro solo ora la tragedia. Non ho parole per dirti quanto mi dispiaccia: sai che per me lo stalliere…
- Daniel, – Regina ruggì senza preavviso – Si chiamava Daniel!
La donna spalancò appena gli occhi, come sorpresa dallo scatto della figlia, ma non perse la calma.
- Daniel, – lo nominò accondiscendente – Era per me una valido aiuto. Un lavoratore instancabile e un giovane ammodo. Mi mancherà. Stante le nostre recenti incomprensioni non mi crederai, ma è così.
L’adolescente alzò il capo. Il volto della madre la fissava inespressivo: nei suoi occhi quasi non c’era spazio per la partecipazione al dolore della figlia.
- Ti presenti qui ora che Daniel se n’è andato, e per cosa? Per rigirare il coltello nella piaga?
- No, Regina cara, l’ho fatto per te. Nessuna madre può vivere serena sapendo infelice la propria creatura... Sono orgogliosa che anche in questo frangente tu abbia pensato ai più deboli, ma hai fatto abbastanza: è giunta l’ora di tornare a casa – decretò, annuendo alle sue stesse parole – È per questo che sono qui: voglio offrirti la possibilità di tornare a Belgravia, di ricominciare a vivere come meriti e come hai fatto finora.
- Non voglio che tu mi offra niente, – la più giovane sibilò sprezzante.
- Ma lo farò lo stesso, perché voglio solo il meglio per te.
- Hai uno strano modo di dimostrarmelo.
… Che sappia?
Cora ignorò il sospetto e sorrise triste
- Lo dice ogni figlia. E ogni figlia capisce che avrebbe fatto meglio a seguire i consigli della madre quando è ormai troppo tardi.
Belle assisteva alla scena in imbarazzato silenzio. Non aveva diritto di partecipare alla discussione, ma doveva riconoscere che Cora aveva ragione. Era stranissimo, assurdo pensarlo, ma era così: l’aveva già detto a Regina, restare lì non le avrebbe fatto bene. Neanche dalla permanenza con la Contessa la giovane avrebbe tratto beneficio – i rapporti tra le due non erano idilliaci –, per lei l’ideale sarebbe stato tornare dallo zio, ma forse sarebbe stato già un primo passo…
- Regina, forse è meglio se…
- Oh! – Cora si voltò verso l’altra donna. Lo stupore che finse nel vederla non mascherò il tono sprezzante – Belle! Non avrei mai immaginato ci fossi anche tu qui. Avrei voluto passare per sincerarmi delle tue condizioni, ma, sai, ignoravo la tua nuova residenza e Robert,  – mentì – Non ha voluto rivelarmela.
Belle sussultò appena. Avrebbe voluto mostrarsi insensibile, non essere toccata dal riferimento; ma la sola idea che Gold avesse parlato con Cora e ignorato lei le fece male. Non riusciva a far finta di niente; e forse non ci riusciva perché in fondo non lo voleva.
- Forse non considera neanche voi abbastanza degna di fiducia.
- Che faccenda disdicevole, – un sorriso cattivo accompagnò il commento mentre si rivolgeva alla figlia – Vedi, Regina cara: la nostra Belle conferma i miei moniti. Tuo zio le ha mentito, le ha omesso dettagli alquanto scabrosi e rilevanti, e ora la nostra povera amica si ritrova di nuovo sola e derelitta. Il che prova la mia teoria, – Cora sospirò teatralmente – L’amore è una debolezza per donne forti come noi.
Non te lo permetto.
Ho amato e sofferto ancora, ma questo non te lo permetto.
La voce di Belle trasudava furia malgrado l’apparente calma.
- Non consento a nessuno di parlare per me. Soprattutto se a parlare è una persona nota per covare rancore nei miei confronti.
- Ti correggo, mia cara. Serbare rancore è passatempo per menti oziose, e ti assicuro che la mia non lo è. Sarebbe ridicolo aggrapparsi al passato per conservare ancora qualcosa di colui che ci ha lasciate, non trovi? 2
- C’è chi si rende ridicola senza rendersene conto.
- Vero, – riconobbe Cora, un ghigno da sfinge a curvarle la bocca – E c’è chi si rende ridicola facendosi spezzare il cuore ogni volta. Perché è questo, Regina – si avvicinò alla figlia fino a carezzarla, le scostò le ciocche ribelli dalla fronte. Ma non c’era dolcezza in quel gesto, quanto controllo, desiderio di una figlia perfetta – È questo ciò che lascia l’amore: un corredo di sogni e cuori spezzati. Te l’ho detto, bambina mia – non c’è alcun vantaggio. Non ne vale la pena.
Fu in quel momento che Belle ne ebbe la conferma. Come aveva potuto credere che Regina sarebbe stata meglio con la madre? Cora aveva un blocco di ghiaccio là dove avrebbe dovuto avere il cuore: perché il male che aveva perpetrato verso lei e Robert, anche le insinuazioni su Helena erano nulla rispetto a ciò che stava facendo alla sua stessa figlia; perché una madre mai avrebbe sfruttato il dolore di una ragazzina per indottrinarla, per inculcarle i suoi distorti principi.
Per renderla la sua creatura.
Fece per intervenire, ma Cora la precedette.
- Ti ho portato un regalo, – la nobile depose un pacco tra le mani di Regina. Vedendo che la figlia non accennava a destarsi, fu lei stessa a scartarlo, rivelando uno scialle di un celeste chiarissimo – Meriti solo gioia, bambina mia, e da oggi l’avrai. Torna da me. Ricominciamo daccapo. Ricordi quando eri piccola? Tutto andava bene. Eravamo così felici.
Le parole di Cora erano un ronzio in sottofondo. Regina lasciò scorrere le mani sul tessuto. Ne aveva notato solo un particolare: il colore. Il suo colore preferito. Non credeva che Maman, così poco attenta a lei, lo sapesse: non conosceva i suoi gusti, ignorava i suoi passatempi preferiti, non si fermava mai a parlarle.
E ora all’improvviso si diceva desiderosa di riprendere da lì dove si erano fermate.
Dall’inizio.
Le porgeva un dono, la prova che forse non era sempre stata distratta, che forse quel legame non si era interrotto il primo di febbraio di quindici anni prima; le porgeva un’offerta di pace così semplice d’accettare.
Bastava stringere lo scialle, ringraziarla.
Bastava così poco…
Un rumore secco.
Un futuro che finisce in un vicolo cieco.
Due lembi di tessuto caddero sul pavimento.
 
 
 
“Oh, I,
I'm alone tonight,
babe.”
 
 
 
Chi cerca trova, aveva imparato in una carriera da cronista.
Ma alle volte, le ricerche sono molto più difficili di quanto si possa immaginare.
Impossibili.
Sin da prima di imparare a leggere e a scrivere, August Booth – nato Collodi  – amava raccontare storie. Il padre Marco, falegname italiano, era stato contentissimo delle velleità letterarie del figlio: con innumerevoli sacrifici aveva acquistato abecedari e quaderni, inchiostro e calamai e con ancor più lodevole pazienza aveva fatto fronte all’iniziale reticenza per le lezioni del pargolo. Dopo tutta una serie di brutte avventure e pessime compagnie, il ragazzino aveva ricompensato gli sforzi paterni: si era convinto – rassegnato – a dover studiare per poter diventare scrittore e, per aiutare il bilancio familiare, aveva iniziato a lavorare come strillone.
Era stato allora che August aveva scoperto la sua vera, naturale attitudine: il giornalismo. Vendeva le copie, ma ne conservava una sempre per sé: leggeva ogni articolo, studiava ogni trafiletto, lo divorava, lo faceva proprio; notizie urlate, dicerie sussurrate, opinioni e proclami, per il giovane August non c’era differenza: ammirava quelle pagine che gli spiegavano ciò che lo circondava e al tempo stesso lo facevano volare lontano, capire che esisteva un altro mondo oltre le strade lerce di Whitechapel – un altro mondo che lui voleva, doveva scoprire.
Sognando di essere anche lui tra gli eletti in grado di svelare la realtà, si era ritrovato a riportare fatti di cronaca senza quasi rendersene conto; e, dopo innumerevoli delusioni, un giorno aveva intravisto la luce in fondo al tunnel: un suo articoletto era stato pubblicato, poi un altro, e poi un altro ancora, e alla fine era stato assunto. Il padre l’aveva festeggiato come se fosse asceso al trono, senza notare la delusione di August: il giovane aveva sperato in grandi testate, e invece si ritrovava in un giornaletto di quartiere!
Però – questo glielo si doveva riconoscere – nel suo lavoro August era bravo. A furia di leggere gli altri, aveva imparato a esagerare, a ingrandire le notizie per spacciarle. Nessuno vuole la verità nuda e cruda; alle volte, imbellettare è il modo più diretto per conquistare.
Per questo non si era arreso: aveva continuato a sostenere colloqui e a proporsi, quasi sfacciato, e alla fine aveva avuto la meglio: era stato assunto nella redazione di Liverpool di un quotidiano decisamente più importante.
E così, sebbene rattristato dall’idea di salutare il padre, si era trasferito a Nord, dove aveva incontrato la moglie Kate e dov’era nata la piccola Jane.
Però – ormai avrebbe dovuto saperlo – per August la vita non poteva mai essere tranquilla: uno scandalo locale da lui svelato aveva indotto il direttore a proporgli una promozione condizionandola però a un’ultima prova. L’aveva spedito a Londra con un compito impossibile.
- Se troverai la compare di Gold, tornerai a casa caporedattore.
Ora: trovare una donna di cui aveva solo il nome, una vaga descrizione e un’ancora più vaga localizzazione – come se l’East End fosse stato piccolo! – esulava dalle umane capacità.
Se non altro, si era consolato l’uomo, ne avrebbe approfittato per far visita a Marco. Non lo aveva messo a parte del guaio per non crucciarlo, ma il padre lo conosceva fin troppo bene per non indovinarne le inquietudini; senza forzarlo, gli aveva consigliato di recarsi nella locanda gestita da una sua cara amica e di bere una birra mettendo da parte i problemi per un paio d’ore.
August lo aveva accontentato, nella speranza che le riflessioni smettessero di farsi più fosche minuto dopo minuto.
- Salve! Cosa vi porto? – una cameriera mora lo fece ridestare dalla ridda di pensieri. Un gran bell’esemplare di cameriera mora, non si esimette dal commentare tra sé e sé: aveva sì un anello al dito e una bimba a casa, ma ciò non lo aveva affatto accecato, anzi! Se anche il resto del personale fosse stato di così bella presenza, l’osteria avrebbe fatto affari d’oro.
- Una pinta, – sfoderò il suo migliore sorriso. Mentre la ragazza segnava la comanda, August si disse che valeva la pena tentare. In fondo, Liverpool era lontana… – Sarà di sicuro una faticaccia per una ragazza così giovane e bella come voi servire tutto il giorno questi brutti ceffi… – indicò vago la varia umanità che affollava il locale, lasciando scivolare molto casualmente le dita sulla mano che la serva aveva posato sul tavolo.
Ruby si ritrasse soffocando un sussulto stizzito.
- …Come voi? – la ragazza si impose di non alzare gli occhi al cielo. Possibile che la storia si ripetesse con quasi ogni avventore sconosciuto? Cosa in lei suscitava tale parvenza di dubbia reputazione? Se simili reazioni non le facevano piacere prima, ora che era sempre più legata a Viktor la esasperavano e basta.
Viktor, si concesse di pensare per un istante. Malgrado l’esordio, lui non la trattava come gli altri. Non la considerava un oggetto o un frutto da mordere: la rispettava. Non la forzava: i baci che si erano scambiati erano tutti stati dettati dal sentimento indefinibile e sincero che nutrivano, non da altro.
Ruby non si illudeva: dopo quanto successo nuovamente a Belle, i timori erano tornati. Appartenevano a due mondi diversi: come poteva Viktor, un medico colto, signore e padrone di ville e terreni, voler bene a lei?
Eppure, nonostante le paure, una parte di Ruby – una parte incoraggiata, nonostante tutto, proprio da Belle – voleva sperare. Non si sarebbe illusa, non avrebbe costruito castelli in aria col rischio poi di vederli cadere: sarebbe vissuta giorno dopo giorno, accettando ciò che la sorte avrebbe riservato a quella storia così stramba, rispettandosi e pretendendo di essere rispettata,
Il resto erano solo chiacchiere… E quello, in effetti, non era il momento di perdersi in chiacchiere: doveva fare buon viso a cattivo gioco, non spaccare un boccale in testa al cliente e sottolineare la sua reale professione nella speranza di raffreddare ogni bollente spirito.
- Ci sono abituata, – spiegò disinvolta, quasi a smorzare la brutalità della battuta precedente. Lavoro qui da sempre, e meglio questo che altro.
- Non lo dubito, ma sgobbare per tante ore vi rovinerà la salute. Sedetevi un minuto e beviamo un…
Un frastuono improvviso coprì l’offerta di August: a pochi passi da lui un’altra cameriera aveva rovesciato un vassoio e ora cercava di rimediare al disastro combinato. In un batter d’occhio la bella mora, incurante di lui, le fu accanto.
- Belle, – August la udì dire preoccupata, aiutandola a raccogliere gli orcioli caduti – Belle, tutto bene?
Il giornalista tese le orecchie. Come si chiamava la pasticciona? Era colpa dell’ossessione per il nuovo incarico, o aveva davvero udito il nome “Belle”?
La ragazza, ancora sul pavimento, mormorò qualcosa, forse delle scuse.
- Che vai predicando, sorella? – le rispose un uomo dall’aspetto arcigno, anche lui accorso ad aiutarla – Non sei tu a doverti scusare. Solita French.
Un tremolio impercettibile increspò l’aria
No.
Non poteva esser vero. Neanche un intervento divino avrebbe garantito tanto: l’oggetto della sua caccia, quella Belle French che aveva l’obbligo di trovare e non sapeva dove cercare… Di fronte a lui, in carne e ossa.
Il nome poteva essere un caso.
Forse anche l’aspetto fisico: le brunette dagli occhi chiari non erano poi una gran rarità, come lui ben sapeva.
Ma il cognome?
Se un indizio è coincidenza e due sospetto, tre sono certezza.
Booth non sapeva cosa ci facesse in una mescita di terz’ordine la misteriosa accompagnatrice di Robert Gold, ma l’istinto gli suggeriva che si trattava di lei. Si trattava di lei, e…
- Maaa’! – una bimbetta dell’età di Jane irruppe in sala. Senza esitare, si diresse verso Belle French – Mamma, che hai fatto? Sei caduta?
- Già, tesoro, – Belle French rispose tirando su col naso. Un finto sorriso le increspò il volto, alleggerendo appena l’ombra grave che le velava le iridi – La mamma è un disastro…
La piccola sospirò con la foga di un predicatore rassegnato.
- Papà lo dice sempre. Torniamo a Kensington? Ti ho detto che ho lasciato lì Bae!
August deglutì appena.
Il giorno più felice della sua vita non era quello in cui era stato assunto a Liverpool.
Il giorno più felice della sua vita era questo.
Diede un’occhiata al locale. Un paio di ubriaconi – frequentatori abituali, poco prima la bella mora li aveva chiamati per nome – sedevano a tre tavoli da lui.
Sapeva perfettamente cosa fare.
- Miss, – appena Belle French si rimise in piedi fece cenno alla sua cameriera– Correggo l’ordine: tre pinte, per me… E per i miei amici, – fece cenno ai due, che lo guardarono stupefatti mentre si avvicinava loro.
- E te chi cazzo sei? – uno gli chiese truce quando il giornalista gli sedette accanto.
- Io, – August rispose compiaciuto – Sono quello che vi pagherà da bere se risponderete a una domanda.
 
 
 

“Baby, wait a lifetime
before  you love somebody new.”

 
 
 
Quella mattina Rebecca Zelenyy si svegliò di ottimo umore. Tutto era accaduto troppo velocemente perché riuscisse a leggere le bozze, ma i suoi contatti glielo avevano assicurato: quel giorno sarebbe andato in stampa un articolo da non perdere.
E la dignità di Belle French sarebbe andata in pezzi.
Un largo sorriso le ornava il volto mentre prendeva il giornale; un largo sorriso che svanì nell’istante stesso in cui gli occhi le si posarono sul sommario.
Provò a leggere i paragrafi, ma le righe si confusero tra loro come onde di un mare tempestoso, un’unica parola a sovrastarle.
Perché, a quanto pareva, Cora aveva omesso un dettaglio.
Un dettaglio fondamentale.
Cora le aveva mentito.
 
 
 
Ella Feinberg poteva dirsi soddisfatta: se i balli dimostravano potere, il suo ricevimento l’aveva confermata una delle signore incontrastate delle soirée.
La festa del dodici agosto si era rivelata uno degli eventi più riusciti della Stagione… Malgrado Rebecca, Robert e la sua bella.
La gentildonna era rimasta sbigottita quando aveva avvistato la cugina: com’era possibile fosse lì, se lei stessa l’aveva accompagnata in stazione? E come aveva fatto a entrare senza invito? Se ci era riuscita, dovevano esserci delle falle nell’organizzazione, falle i cui responsabili andavano immediatamente individuati; e così Ella, impegnata nell’inveire contro la sicurezza, si era persa il dramma in atto.
Aveva scoperto il fattaccio il giorno seguente, chiacchierando con altre dame tra cui la Mills; e l’ereditiera aveva intuito all’istante che Cora non fosse estranea a quella sordida vicenda: il fatto che avesse taciuto non mutava certo il suo convincimento.
I cronisti – aizzati sicuramente dall’ora irreperibile Rebecca – si stavano divertendo non poco nell’avanzare ipotesi sugli eventi; ma dai protagonisti della vicenda non perveniva alcuna dichiarazione. Se Isabelle French era in qualche modo riuscita a preservare la propria identità, era strano che Gold non si fosse già erto a difesa del proprio nome…
Ella fece per dare una scorsa al giornale, ma l’irruenza di un titolo la colpì.
No.
Intrigata, proseguì la lettura trovando conferma riga dopo riga.
E così, non riuscì a non pensare una volta giunta alla fine, Robert Gold e Isabelle French nascondevano un piccolo segreto.
 
 
 
Graham correva più veloce che poteva. Era di turno, e per quanto si fidasse dei colleghi se la sua assenza fosse stata notata sarebbe finito in guai seri; ma quando aveva visto quella prima pagina, aveva deciso.
Non poteva restare lì inerte. Non poteva lasciarle sole ad affrontare la tempesta tanto improvvisa quanto violenta che si stava abbattendo su di loro.
Per colpa di quel disgraziato, ancora una volta Belle ed Helena erano sotto attacco.
Dovevano proteggerle prima che fosse troppo tardi.
Ma quando si trovò davanti la ressa di giornalisti e Granny, Ruby e Tink Barrie che cercavano invano di scacciarli, gli mancò la voce.
Fu solo in grado di formulare un pensiero.
È troppo tardi.
 
 
 
Emma Nolan non era mai stata molto diplomatica: la quiete muliebre che alle volte sua madre ancora le augurava le era estranea. Perciò, quando Killian le aveva allungato il giornale quasi senza commentare quella notizia, lasciandole solo paventare le conseguenze, la bionda aveva deciso: qualcuno era rimasto chiuso in casa fin troppo tempo.
Era giunta l’ora di costringerlo a reagire.
Si presentò nello studio quasi senza bussare.
- Dearie, – malgrado le circostanze, il sarcasmo del proprietario non si fece attendere – Spero che sul giornale che porti sia annunciata l’apocalisse per stasera. Così nessuno dovrà più lamentarsi del lavoro, e tu meno di tutti – tu sei già licenziata.
- L’apocalisse è già in atto , – lanciò la pagina incriminata sulla scrivania, costringendone l’occupante a ritrarsi e attirandosi un’occhiata minacciosa.
- Presumo tu sappia che… – la voce gli morì in gola quando vide la fotografia di un luogo ben noto.
Il titolo fu un proiettile in petto, l’occhiello una conferma superflua.
 
- Ecco cosa so, – Emma lo guardò dura – E ora, se volete, licenziatemi pure..
 
 
 
“Come and turn the lights down
so I can feel your hand in mine,
‘cause I'm never gonna love again.”
“Never gonna love again” – Lykke Li
 
 
 
1: I baroni FitzWalter esistono, non li ho inventati io – https://it.wikipedia.org/wiki/Barone_FitzWalter. Per il nome della “figlia” del nobile mi sono ispirata ad Ally Craig, il personaggio interpretato dalla de Ravin in “Remember me” – ormai a ogni aggiornamento Euridice ve spaccia un film; e quanto alla nazionalità del governatore random, beh… Scelta obbligata, direi! XD
2: da ”Black Friars – L’ordine della penna” della divina Virginia de Winter/Savannah ♥;
3: Il cognome Collodi è un riferimento all’autore di “Pinocchio”, mentre i nomi attribuiti alla moglie e alla figlia di Booth sono casuali. Chiedo scusa ai/alle fan di August, ma mi serviva un personaggio un po’ “faccia da schiaffi” e il burattino mi è parso perfetto!
 
 
 
N. d. A.: Boom, baby! :)
Torno con un capitolo di passaggio che non mi fa impazzire, malgrado sia – che rarità per Euridice100! XD – dominato dall’angst e dal risentimento: da una parte c’è Gold dal cuore spezzato che si crogiola nel dolore anziché darsi una mossa, dall’altra Belle che, amareggiata dall’ennesima prova di sfiducia dell’uomo pur sempre amato, agisce e ragiona sull’onda della rabbia e della delusione… È ovvio che, malgrado la vicinanza di chi le vuole bene, il suo umore non sia dei migliori. Preciso che la protagonista ha davvero solo usato una scusa, non è incinta, eh! Anzi, quel paragrafo è volto a dissipare eventuali dubbi, non a suscitarli. Se le facessi avere un figlio a ogni rottura sarei impietosamente ripetitiva. X’D
La French non è la sola a vivere un momentaccio: la storia di Regina e Daniel si è conclusa nel peggiore dei modi. Mi scuso con chi shippa StableQueen, ma ho deciso di seguire il telefilm: anche stavolta lo stalliere è stato ucciso, sia pure indirettamente, da Cora. Almeno qui la Contessina decide di interrompere bruscamente i rapporti con la madre: una scelta drastica, ma necessaria, le cui conseguenze spiegherò meglio nei prossimi capitoli, ma… Sarà davvero la fine per le Mills? E a cosa porterà questo nuovo capitolo della storia di Regina? #nospoiler, ovviamente! :P
Come sempre, segnalatemi eventuali errori di ogni tipo, caratterizzazione in primis – ed Emma compresa: sapete che alle volte ho problemi a gestirla. XD
Ringrazio di cuore chi segue la storia leggendola, aggiungendola a una categoria e/o recensendola: i vostri commenti e il vostro sostegno non sono mai scontati, e ogni volta cerco di farne tesoro per non deludere le aspettative. Mi spiace pubblicare meno frequentemente, ma sono in piena redazione tesi: da mane a sera mi devo dedicare a quella e riesco a sbrigare solo la metà delle “incombenze fanfictionarie” rispetto a un tempo. Mi scuso anche per i ritardi nel rispondervi e/o recensire: mi metterò in pari quanto prima!
La prossima volta aggiornamento infrasettimanale: “arrileggerci” qui martedì 24 novembre e più spesso sulla mia pagina Facebook “Euridice’s World”!
Tanti baci, Dearies! ♥ :) ♥
Euridice100
   
 
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