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Autore: Halley Silver Comet    25/10/2015    8 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 15



- Capitolo Quindicesimo -
Vento di Prove




L
e occhiate maliziose che Vittoria, seduta dall’altro lato del tavolo, continuava a lanciargli lo stavano facendo innervosire non poco: forse, solo le insinuazioni prive di fondamento di sua madre avevano il potere di fargli perdere più rapidamente la pazienza. E questo era tutto dire.
«Per quanto hai intenzione di continuare?» la redarguì Marcello, riservandole un’occhiataccia. 

La giovane gli mostrò un sorrisetto divertito, rispondendogli: «Finché mi andrà. Stento a credere che anche l’incontentabile Marcellino abbia trovato finalmente una ragazza che gli va a genio».
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, ma non rispose, giacché gli sembrava del tutto superfluo ribadire che era consapevole del proprio carattere non propriamente facile, senza contare che non sarebbe mai stato in grado di stare con una ragazza solo per compiacere sua madre o pur di non stare solo, anche perché aveva il sospetto che, qualunque cosa avesse detto, non avrebbe cambiato la situazione: come suo solito, Vittoria si stava divertendo a stuzzicarlo.
«Io non ci trovo niente di strano. A volte, bisogna solo avere il coraggio di aspettare la persona giusta» osservò giudiziosamente Gerardo.
Il biondo indirizzò al suo amico un cenno di riconoscimento: «Per fortuna, almeno uno di voi due dimostra di essere saggio».
Subito, lei assunse un’aria offesa.
«Cosa vorresti dire?»
«Vittoria, si sta facendo tardi» intervenne il fidanzato, guardando distrattamente il proprio orologio da polso e camuffando palesemente un tentativo di distrarre la sua fidanzata. «Se non ci sbrighiamo, il fiorista chiuderà e non potrai chiedergli ciò che devi».
La giovane lo guardò sorpresa, ma, dopo che ebbe verificato l’orario, convenne che era giunto il momento di andare.
«Oh, sì, hai ragione» fece, prendendo la borsa, poggiata sul bracciolo del divano accanto alla porta. Poi, si voltò verso l’amico e, piccata, gli puntò un dito contro: «Per questa volta te la cavi, ma sappi che la prossima non sarai così fortunato!»
Ed uscì dalla porta, con fare teatralmente offeso.
«Le passerà» commentò Gerardo, rassicurante, preparandosi a seguirla. «Ci vediamo domani, buona uscita».
«Anche a te» gli rispose Marcello, salutandolo con un cenno della mano.
Si ritrovò così solo, anche se non gli dispiacque affatto, giacché aveva talmente tanti pensieri per la testa che aveva bisogno della tranquillità necessaria per affrontarli uno alla volta.
Il fatto che Beatrice fosse ospite in quella casa, infatti, rendeva molto probabile, ogni qualvolta volesse vederla, la possibilità di incappare in Vittoria e nelle sue domande e, per quanto volesse molto bene all’amica, il giovane cominciava a sentire la necessità di portare avanti la sua relazione senza dover informare, minuto per minuto, mezza città.
Per giunta, lo scompiglio portato dal rapimento, dall’arresto di Guido e dai continui interrogatori della polizia aveva poi fatto insorgere ancor di più in Marcello il desiderio di essere lasciato in pace, almeno per ciò che riguardava la sua vita privata.
Inoltre, ogni volta che pensava all’imminente incontro tra la fanciulla e la sua famiglia, si augurava che il tutto passasse nella maniera più veloce ed indolore possibile; infine, il dialogo che aveva sentito tra Miller e Colonna l’aveva preoccupato abbastanza, poiché, nonostante non sapesse verso chi fossero rivolte le ire di Carter, intuiva quanto poco il magnate fosse propenso a perdonare i traditori.
Per la sua fortuna, Beatrice arrivò qualche istante dopo, permettendogli di distrarsi con qualcosa di molto più piacevole: la prospettiva di un pomeriggio da passare con lei.
«Scusa se t’ho fatto aspettare» disse la ragazza, mentre entrava nel salotto, intenta ad abbottonarsi un golfino color panna; con il suo arrivo, l’aria venne rinfrescata da una profumata ventata di lavanda.
«Figurati» le rispose il giovane, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi a lei. Si scambiarono un’occhiata intensa e lui si chiese se stessero pensando entrambi alla stessa cosa, ovvero che quella sarebbe stata la loro prima uscita ufficiale, senza più bisogno di sotterfugi o di giocare a nascondino con chicchessia.
«Possiamo andare?»
«Sì, ora son prontissima! Hai già pensato a quale negozio potrebbe andar bene?»
Marcello annuì con rassegnazione, ripensando alla rapidità con la quale Ortensia gli aveva suggerito la boutique per l’infanzia più costosa della città.
«Per non sbagliare, mi sono fatto indicare da mia cognata dove comprano sempre i vestiti ed i regali per la bambina. Tu che ne pensi?» le domandò con gentilezza, sinceramente interessato alla sua risposta.
«E credo che sia un’ottima idea! Per un regalo, l’è sempre meglio sceglier gli stessi negozi del destinatario» approvò Beatrice, con un leggero sorriso.
Rinfrancato dalla sua approvazione, il giovane si rilassò e, con un elegante gesto del braccio, la invitò a precederlo nell’uscire dal salotto.
L’entusiasmo della giovane mitigava senza dubbio la tensione, ma non risolveva certo il problema di fondo: se la Matrona fosse stata diversa, si sarebbero sicuramente potute evitare tante situazioni scomode.

Gli abiti colorati
dei turisti che popolavano Piazza Navona creavano un piacevole contrasto con il freddo marmo della Fontana dei Quattro Fiumi e della facciata di Sant’Agnese in Agone, donando al tutto un’atmosfera allegra e conviviale.
Decisi a raggiungere l’angolo di via Agonale, Marcello e Beatrice si fecero largo a fatica tra la folla chiacchierina, la quale continuamente si voltava ammirata a guardare prima l’una, poi l’altra delle due opere d’arte.
«Guarda la statua del Rio de la Plata: sembra proprio che stia per proteggersi da un probabile crollo della facciata!» esclamò una ragazza, aggrappandosi al braccio di un giovane, così da richiamarne ancor di più la sua attenzione.
«Sì, hai ragione! Bernini voleva dare chiaramente lezioni di architettura al suo rivale» notò l’altro, incrociando le braccia sul petto con beota supponenza.
«Sarebbe una storia perfetta, se il Borromini non avesse iniziato la chiesa dopo che il Bernini aveva già finito la fontana1» bisbigliò Beatrice, con un sorrisetto ironico, rivolgendosi al suo accompagnatore.
Il ragazzo, allora, lanciò un’occhiata distratta ai due, che in quel momento si stavano amabilmente sbaciucchiando, e pensò che, molto probabilmente, si erano voluti impressionare reciprocamente con informazioni sbagliate. 
«Immaginavo che fosse solo una leggenda, i soliti pettegolezzi che si tramandano nella storia» rispose in tono neutro, prendendola per mano e tirando fuori entrambi dalla bolgia di gente accalcata sotto la statua del Nilo, in fila per fare una foto accanto al gigante di pietra.
Una volta che ebbero superato fontana e chiesa, trovarono il passaggio molto più agevole e, finalmente, riuscirono a raggiungere la porta del negozio consigliato da Ortensia senza essere costretti a spintonare nessuno per avanzare.
«C’è qualcosa che non va? L’ho notato da pprima: oggi se’ pensieroso» gli chiese la ragazza, visibilmente preoccupata, mentre lo seguiva senza lasciargli la mano.
«Pensieroso non è l’aggettivo giusto. Direi più... imbestialito» precisò il giovane, arrestandosi proprio davanti alla pesante porta della boutique; si voltò verso di lei e, con tono alterato, proseguì: «Sarebbe stato molto bello presentarti alla mia famiglia, se si fossero comportati normalmente e se fosse stato organizzato tutto nel migliore dei modi. Invece, loro sono terribili e l’occasione, be’... direi che è la peggiore possibile».
A queste parole, Beatrice abbassò lo sguardo, stringendogli la mano, e il ragazzo si rimproverò per essere stato così brusco, visto che la posizione di lei era molto precaria, poiché era chiaro che la signora Claudia le avrebbe dato parecchio filo da torcere. In più, non la conosceva certamente come lui che era pur sempre suo figlio.
«La tu’ mamma non dovrebbe esser attenta all’etichetta?» notò la fanciulla in un pigolio sommesso.
«Mia madre è attenta all’etichetta solo quando vuole lei. Al contrario, quando intuisce che può mettere in difficoltà le sue vittime, non bada più a niente» le rispose, senza cercare di addolcire la pillola. D’altra parte, mentire non sarebbe servito a nulla, anzi, sarebbe stato perfino dannoso per la fanciulla, giacché doveva prepararsi al peggio: quando c’era di mezzo la Matrona, non si poteva mai stare tranquilli.
Tuttavia, scorgendo segni di turbamento sul volto della ragazza, Marcello, nella sua ira, vacillò. Infatti, si era reso conto che, se avesse mantenuto quell’atteggiamento negativo, continuando ad angustiare entrambi, le avrebbe solo fatto del male.
E poi, certamente, non era certo quello il modo giusto per affrontare quella situazione, giacché la negatività non si combatteva con altra negatività: lui non doveva alimentare il tormento, bensì proteggerla e non farle mai mancare il suo appoggio, esattamente come aveva detto Vittoria.
Affrontando insieme le difficoltà, tutto sarebbe stato più facile.
«Scusami, non volevo stressarti, so che hai già altri pensieri» le sussurrò, carezzandole appena una guancia con la mano libera. Lei, allora, rialzò la testa, guardandolo intensamente, come se stesse cercando proprio quel tipo di conforto.

In quel frangente, alcuni clienti uscirono dalla porta, ma i due giovani erano talmente presi che si scansarono appena per farli passare, senza interrompere il contatto.
«Già. Ad esser sincera, sono un po’ in ansia per l’interrogatorio. Senza contare che son preoccupatissima per quel che mi dirà i’ mi’ insegnante, visto che sono molto indietro con il programma!» esclamò, con voce decisamente acuta, cominciando a lasciarsi prendere dal panico.
Questa reazione mortificò non poco Marcello, il quale si rimproverò per non aver realizzato subito che, in quel periodo, Beatrice stava subendo troppi stress.
Immediatamente, si pentì di essere stato così superficiale e di aver considerato solo la punta dell’iceberg di quell’intricata vicenda, e con voce morbida le propose: «Se ti va, posso accompagnarti al commissariato. È lì che ti hanno convocata, vero?»
La ragazza non riuscì a celare un’espressione sorpresa e annuì, all’apparenza leggermente più rilassata.
«Per quanto riguarda lo studio, invece, potrei darti una mano a ripetere qualcosa, se te non ti dà fastidio studiare con qualcun altro».
«Davvero faresti tutto questo per me...?» domandò lei, ora assolutamente esterrefatta.
Con grande piacere, il biondo notò che la tensione era quasi del tutto sparita dal volto di lei e, di riflesso, anche lui si sentì meno contratto e maldisposto, tanto è vero che, abbozzando un sorriso, le disse: «Be’, se mi sono offerto... tu che dici?»
Beatrice sorrise a sua volta, tornando la radiosa ragazza di sempre: «E dico che non posso rifiutare. Non penso sia una proposta che fai tutti i giorni, vero?»

Al contrario di ciò che aveva pensato la fanciulla guardandolo da fuori, l’interno del negozio si rivelò molto luminoso, grazie alla presenza di faretti sparsi sul soffitto e di parquet e mensole in legno molto chiaro.
«Eccomi, arrivo tra un attimo!» disse una voce squillante, proveniente dal retrobottega; evidentemente, la commessa doveva aver sentito il tintinnio dei campanellini appesi alla porta ed aver intuito che era entrato un cliente.
«Faccia con comodo» rispose Marcello, lasciando vagare lo sguardo qua e là.
Beatrice lo imitò, ma, poiché non voleva limitarsi solo a guardare, decise di fare un giro per guardare da vicino gli abitini riposti ordinatamente, piegati o appesi a delle piccolissime grucce.
Le fantasie e i colori delle stoffe erano tutti molto vivaci, ma non eccessivi, perciò li trovò assolutamente perfetti per dei bambini.
«Dovrei dire alla signora Sofia di comprare stoffe di questo genere. Sono allegre e morbidissime!» esclamò, rivolta al giovane, mentre toccava una maglietta per saggiarne la consistenza. «Molte nonne chiedono tessuti pratici e delicati per i loro nipotini».
«A proposito della signora Sofia, Gerardo mi ha detto che ieri sono andati a trovarlo Alessio e Valentina» fece il giovane, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di molto importante. «Hanno detto che vorrebbero riabbracciarti presto».
Il ricordo del sorriso dei due bambini portò la stessa Beatrice a sorridere a sua volta, anche se con una vena di malinconia: da quando era stata liberata, aveva avuto modo di fare solo un paio di telefonate alla sarta e ai suoi figli per rassicurarli e far sapere loro che stava bene. La donna l’aveva rassicurata a sua volta che il posto per lei in negozio ci sarebbe sempre stato e Beatrice ne era stata contenta, poiché ricordava il periodo del lavoro alla merceria come uno tra i più felici della sua vita, contrariamente alla permanenza presso le sue parenti. Infatti, era ben risoluta non voler vedere mai più né la zia, né la cugina; invece, per quanto riguardava Guido, non l’aveva ancora perdonato e non aveva alcuna intenzione di scapicollarsi per andare a trovarlo in carcere. 
«Oh, anch’io non vedo l’ora di rivederli. Non appena avrò sistemato le cose con il professore, andrò da loro. L’è stato tutto così confuso, ultimamente» ammise, pensierosa.
«Non è stato un momento facile» concordò Marcello, con tono pacato e carezzevole.
La ragazza annuì, arrossendo leggermente per la delicatezza che lui le aveva riservato, anche se solo a parole: nonostante non fosse particolarmente espansivo, riusciva sempre a tranquillizzarla, anche solo con uno sguardo rassicurante o con un tono di voce dolce.
Tuttavia, dopo mezz’ora di attesa senza che la commessa desse traccia di sé, la calma del ragazzo venne meno: «Ci sta mettendo un po’ troppo, non ti pare?» sbuffò, appoggiandosi con fare seccato al bancone. «L’altro giorno, mentre passeggiavo con Vittoria, ho visto un negozio per bambini che mi sembrava molto più organizzato di questo».
Per un istante, Beatrice fu alquanto destabilizzata da quest’affermazione, ma la sorpresa durò qualche secondo, perché poi iniziarono ad affollarsi nella mente diverse domande: quando era successo? Perché né lui, né la ragazza le avevano detto che stavano uscendo insieme? Che cosa avevano fatto durante quella passeggiata? Voleva assolutamente avere una risposta esauriente a ciascuno di questi quesiti, eppure dalle labbra le uscì solamente: «Se’ uscito... con la Vittoria?»
«Sì, dovevo chiederle un favore» tagliò corto lui.
La fanciulla si morse l’interno della guancia, dubbiosa. Dopo i chiarimenti ricevuti, non le dava più tanto fastidio che l’amica interagisse con Marcello, ma moriva comunque dalla curiosità di sapere cosa si erano detti e cosa avevano fatto.
D’altro canto, era anche vero che i due ragazzi si conoscevano da quando erano bambini, pertanto era normale che avessero quel rapporto così fraterno, tanto che, pensò Beatrice, l’unica cosa da fare era cercare di fidarsi di entrambi e cercare di placare, una volta per tutte, la propria gelosia.
«Buongiorno e scusate l’attesa, signori, stavo sistemando della nuova merce in magazzino. Allora, cosa posso fare per voi?» trillò la commessa, finalmente riemersa dal retrobottega, con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
«Stiamo cercando un regalo per mia nipote» rispose Marcello, guardandola scettico, come se temesse per la sua salute mentale.
La ragazza mutò subito la sua espressione allegra, trasformandola in una stupita.
«Ah, non è per voi? Per il vostro bambino?»
Mentre il giovane la scrutava sempre più torvo, Beatrice, arrossendo, si affrettò a dire: «Ehm, no».
«Oh, scusate» continuò la commessa, ridacchiando e portandosi una mano davanti alla bocca. «In effetti, signora, lei non sembra incinta. Anche se, a volte, qualche futuro genitore viene a comprare qualcosa già al primo mese di gravidanza, quando la pancia non si vede».
La fanciulla vide Marcello corrugare la fronte, increspare le labbra e portarsi le braccia dietro la schiena, come se volesse vedere fino a che punto si sarebbe spinta la venditrice: in fondo, lo conosceva abbastanza da capire che non doveva aver gradito la sua invadenza, decisamente poco professionale. Eppure, quella boutique era un negozio dal quale ci si sarebbe dovuti aspettare un certo standard nei servizi.
«Va bene, vorrà dire che ora comprerete per la nipotina e, quando lo avrete, tornerete per il vostro bambino!» proseguì quella, dimostrando di essere convinta che fossero in procinto di diventare genitori.
Beatrice, a disagio, arrossì ancor di più e lanciò l’ennesima occhiata furtiva al biondo, per vedere come stava reagendo e rimase alquanto sorpresa, giacché sembrava che il ragazzo fosse più imbarazzato dalla schiettezza della commessa, che infastidito dall’affermazione in sé. Come se, in effetti, l’idea di creare una famiglia con lei non gli dispiacesse.

Ben presto, però, il bancone fu riempito di vestitini di tutti i colori e modelli e lei fu costretta a focalizzarsi sul motivo per il quale erano lì: trovare un regalo per la nipotina di Marcello.
Mentre la commessa continuava a ciarlare, la ragazza sollevò un paio di abitini dalla pila che si era formata davanti a lei,
guardandone anche il prezzo e intuendo così il motivo per cui, in quel momento, loro due erano i soli clienti.
Poi, ne scartò alcuni perché troppo pomposi, altri perché troppo costosi per quella che, a parer suo, era la qualità offerta ed altri ancora perché di stoffa troppo pesante, considerando che il caldo sarebbe arrivato nel giro di un mese.
«Cosa ne dici di questo? Mi sembra molto carino» disse alla fine, mostrando al fidanzato un vestitino bianco con la gonnellina cosparsa di minuscoli fiorellini. «La fantasia è primaverile e starebbe davvero bene alla tu’ nipotina, biondina com’è!»
Per di più, è uno dei pochi che non costa un patrimonio!” aggiunse mentalmente, contraria al fatto che, per fare il regalo alla nipote, il ragazzo dovesse spendere a tutti i costi una fortuna, pur potendoselo permettere. Lo trovava un inutile spreco di soldi, perché la bambina stava ancora crescendo, quindi, di sicuro, le sarebbe andato bene solo per un lasso di tempo molto ristretto.
«Forse è fin troppo semplice per il gusto di sua madre, ma a me piace» rispose lui, prendendo in mano un lembo dell’abitino e osservandolo con attenzione, davanti e dietro.
La commessa si complimentò: «La signora ha davvero un ottimo gusto, quello è arrivato proprio ieri, fa parte della collezione nuova. Sarà di gran moda!»
«Oh, mi ha colpita appena l’ho visto» spiegò Beatrice, facendo spallucce, «senza contare che sembra molto fresco. L’ho trovato adatto all’estate».
«Sapevo che mi saresti stata di grande aiuto» la ringraziò Marcello. «Meglio se è leggero, così Claudia non morirà di caldo».
Sentendo quest’ultimo commento, la fanciulla sorrise, certa che, nonostante l’apparente severità, quel giovane sarebbe stato un ottimo padre.
***

La fatidica domenica, a parere di Marcello, arrivò davvero troppo presto.
Dopo essersi svegliato all’alba, per giunta di cattivo umore, uscì di casa per andare a seguire la funzione nella Basilica di San Pietro in Vincoli, dove aveva appuntamento con Vittoria, Gerardo e, naturalmente, Beatrice. Aveva invece lasciato, senza alcun rimpianto, che madre, cognata, fratello e nipotina andassero a fare la consueta sfilata tra i banchi del Laterano, al contrario di suo padre che avrebbe certamente scelto, in virtù del suo spirito secessionista, le solite retrovie.
Mentre si avvicinava alla chiesa, notò che molte famiglie si stavano mettendo in auto con pacchi, cestini e barbecue smontabili, di sicuro diretti nei dintorni per fare qualche bella gita fuori porta: il clima abbastanza caldo era un invito troppo appetibile per poter dire di no, specialmente dopo l’inverno rigido appena trascorso. Anche se non era nevicato come nel 1982, infatti, non era mancata qualche gelata di troppo.
Il giovane si ritrovò inconsciamente ad invidiare tutte quelle persone che avrebbero trascorso la domenica in maniera spensierata, incuranti di quello che attendeva invece lui e Beatrice. Decisamente, gli sarebbe piaciuto molto di più portarla a vedere i Castelli Romani, organizzando, magari, un pic-nic nei boschi intorno a Castel Gandolfo, piuttosto che essere costretto ad un tremendo pranzo con i suoi parenti.
Che senso avrebbe avuto avere davanti tutte quelle succulente portate, se poi non ne avrebbe potuta gustare nemmeno una a causa del nervosismo che gli avrebbe causato sua madre? Sarebbe stato meglio persino un semplice panino in una delle fraschette2 di Ariccia, perché almeno avrebbero mangiato tranquilli, godendosi il tempo trascorso insieme; mentre pensava a questo, gli sembrò che la canzone di Al Bano e Romina3 acquistasse finalmente un senso.
Dopo essersi abbandonato ad un sospiro sconsolato, il giovane rifletté sul fatto che, indipendentemente da tutto, l’idea di una piccola gita da fare con Beatrice, nei dintorni di Roma, fosse da prendere seriamente in considerazione: glielo avrebbe proposto senz’altro, appena ne avrebbe avuto l’occasione, sperando di trovarla d’accordo.

Una volta giunto davanti alla chiesa, si rese conto di essere di umore leggermente migliore rispetto a quando si era alzato dal letto e lo prese come un buon segno, giacché avrebbe dovuto fare appello ad ogni traccia di calma rimasta, per fronteggiare le frecciatine di sua madre e, probabilmente, anche di suo fratello.
«Con quale piede è scesa dal letto tua madre, stamattina?» furono le prime parole che gli indirizzò Vittoria, non appena gli fu abbastanza vicina da farsi sentire.
«Non mi sembra proprio il momento adatto per fare la spiritosa» gli rispose lui, seccato, lanciando un’occhiata obliqua a Beatrice: era molto carina nel suo vestito lilla con una larga fascia in vita, ma ciò non sarebbe stato abbastanza per impressionare la signora Claudia, sapendo che la donna non si sarebbe lasciata incantare nemmeno se la fanciulla fosse stata ricoperta d’oro.
«Ciao, Marcello» lo salutò, sorridendogli incerta. Anche se non sembrava particolarmente provata, si intuiva che non era comunque tranquilla. 
«Ciao, Beatrice» le rispose, cercando di mantenere un tono calmo e rassicurante. «Come stai?»
«Abbastanza bene, tu?»
Il ragazzo le avrebbe tanto voluto dire che c’erano stati momenti migliori, tuttavia non gli sembrò opportuno, sapendo che, in una circostanza simile, avrebbe potuto avvilirla di più, pertanto si limitò ad un fugace: «Abbastanza bene anch’io, direi».
Lei alzò le spalle, come per dire che, in qualche modo, era normale sentirsi così; in fondo, si trattava pur sempre della presentazione ufficiale alla impossibile famiglia di lui.
«Vittoria, ricordati di dare la pianta a Beatrice» si intromise Gerardo che, fino ad allora, era rimasto in disparte. «Mi avete fatto cercare in lungo ed in largo per trovarla!»
«Di quale pianta parlate?» chiese Marcello, voltandosi verso i suoi amici.
Vittoria agitò la mano e, con noncuranza, spiegò: «Abbiamo preso un’orchidea da portare a tua madre, per ringraziarla dell’invito. L’etichetta prevede che il giorno dopo l’incontro si mandino dei fiori alla padrona di casa con i ringraziamenti, ma per rendere le cose più semplici ho pensato che una pianta fiorita fosse un buon compromesso».
«Secondo la Vittoria, la tu’ mamma si lamenterà comunque, ma, almeno, io avrò fatto la mia parte» aggiunse Beatrice, sospirando. «Così ci siamo messe a pensare a quale fiore fosse il più indicato per l’occasione ed ho scelto l’orchidea, perché l’è un fiore regale» concluse, probabilmente facendo allusione ai gusti della signora Claudia.
«Ormai abbiamo perso il conto di quante volte Vittoria ci ha salvato in calcio d’angolo» commentò Gerardo all’indirizzo del biondo, scoccando un’occhiata d’apprezzamento alla sua ragazza.
L’altro aggrottò la fronte, scrutando la sua amica seriamente colpito.
«Come diavolo fai a tenere tutto sotto controllo?» domandò alla giovane donna, chiedendosi davvero come avrebbe fatto senza di lei. Ricambiare il saluto di quella vivace bambina con le trecce, quel torrido pomeriggio di giugno di ventuno anni prima, era stata una tra le scelte più felici della sua vita.
«Qualcuno deve pur farlo, no?» fece lei, strizzandogli l’occhio.
***

Non appena ebbero varcato il cancello della villa, Beatrice si fermò, come se un qualche ostacolo fisico le stesse impedendo di avanzare oltre. Aveva abbassato lo sguardo ed incurvato le spalle, stringendo il vaso dell’orchidea e assumendo l’atteggiamento di chi non si sente all’altezza del posto in cui si trova e questo, a Marcello, provocò una fitta di dispiacere, tanto che tornò indietro e le cinse la vita con un braccio.
«Andrà tutto bene, vedrai» le sussurrò, incoraggiante. Dopo tutto quello che aveva passato quella ragazza, la cattiveria gratuita della Matrona era qualcosa di assolutamente superfluo ed immeritato.
A quel punto, lei alzò il capo verso di lui e, a bassa voce, disse: «E se a la tu’ mamma davvero non dovessi piacere?»
Il ragazzo inclinò la testa da un lato, cercando le parole giuste per esprimere ciò che sentiva, giacché non voleva darle false speranze, ma nemmeno permettere che si deprimesse, convincendosi che sarebbe stata una brutta giornata.
«Sinceramente, credi che cambierebbe qualcosa tra di noi?» le chiese, deciso. «Io non cerco l’approvazione di mia madre, non l’ho mai cercata. E a mio padre, invece, piaci già ed anche tanto, direi!»
«Davvero?» domandò Beatrice, piacevolmente sorpresa.
«Sì, è molto contento che io... mi sia interessato a te» le confermò il giovane, lasciando trasparire un leggero sorriso.
La fanciulla sistemò meglio il vaso con l’orchidea fra le mani e, per qualche secondo, parve riflettere sulle ultime rivelazioni, infine constatò: «L’approvazione del tu’ babbo, però, ti interessa».
«Sì, lo ammetto, ma siamo sempre andati d’accordo: lui non mi ha mai deluso ed io altrettanto» affermò Marcello, incurante di aver fatto trapelare chiaramente la preferenza che accordava al padre e la poca tolleranza riservata, invece, alla madre. D’altronde, secondo lui, non aveva senso mentire, soprattutto in un’occasione come quella.
«Sembra davvero una brava persona» concordò lei, di gran lunga più sollevata.
«Lo è» ribadì il giovane, togliendole delicatamente la pianta dalle braccia. «Dai, la porto io. Andiamo!»
Beatrice lo ringraziò con lo sguardo e annuì, affrettandosi a seguirlo su per il vialetto in pendenza, alla fine del quale c’era ad attenderli il signor Giancarlo.
«Siete arrivati in perfetto orario» li accolse, mostrandosi soddisfatto. «Buongiorno, mia cara, come stai?»
«Oh, io bene, signore. Lei?» fece la ragazza, arrossendo appena e tendendogli la mano, che l’uomo prontamente prese e strinse con energia.
«Non c’è male».
«Papà, questo è un pensiero di Beatrice, per ringraziare dell’invito» disse Marcello, consegnando al padre il vaso infiocchettato. Almeno, qualcuno avrebbe gradito il pensiero che avevano avuto la sua ragazza e la sua migliore amica.
«Oh, ma che bella! Sai che non ne abbiamo di questo colore? La prendo in custodia io... Magari, prima la facciamo vedere a tua madre e poi la porterò a far compagnia agli altri fiori» disse il signor Tornatore, sinceramente ammirato. «Sai, Beatrice, che nel retro del giardino, ho una serra dove mi dedico al giardinaggio?»
«Oh, sì, Marcello m’ha detto che si prende cura di ogni piantina che cresce qui» replicò timidamente lei.
«Esatto, lo trovo molto rilassante. Adesso, venite con me, ci aspettano tutti dentro».
La fanciulla si voltò istintivamente verso il giovane, il quale la prese per mano, con l’intento di rassicurarla, mentre la conduceva all’interno della villa.
I venti scalini che portavano dal giardino all’ingresso non gli erano mai sembrati così difficili da salire e, in quel frangente, si sentì davvero come un condannato che avanza verso il patibolo del boia; c’era però da dire che non temeva tanto per se stesso, quanto per Beatrice, non sapendo davvero come avrebbe potuto reagire sua madre, poiché, come aveva avuto modo di apprendere in venticinque anni di vita, quando c’era di mezzo lei, al peggio non c’era mai fine.
Non riusciva proprio ad immaginare come avrebbe potuto accogliere la ragazza, essendo la prima fidanzata che portava a casa e dopo che non si era pronunciata bene nei suoi confronti. L’avrebbe insultata? Oppure derisa?
Purtroppo, ebbe occasione di scoprirlo molto presto, giacché, prima che salissero gli ultimi gradini, la donna, affiancata da figlio e nuora, si parò davanti a loro come una regina davanti alla sua corte.
«Alla buon’ora, Marcello! Si può sapere perché non sei venuto ad assistere alla funzione con noi?» domandò la Matrona, inquisitoria, agitando un enorme ventaglio dal pavese in pizzo e con la base in legno,
alla pari delle ricche señoras delle telenovelas argentine che amava tanto guardare; infatti, anche se si reputava molto raffinata, la signora Claudia aveva dei gusti alquanto discutibili.
Il giovane contò fino a dieci prima di rispondere, cercando di non lasciarsi sfuggire parole poco carine, per rispetto di Beatrice.
«Ieri sera ti avevo detto che sarei andato con Beatrice, Gerardo e Vittoria a San Pietro in Vincoli».
«E perché mai? La Farnese sta raccogliendo fondi per conto di qualche altra miserabile associazione? Sai bene che non dovresti continuare a dare corda a quella perdigiorno».
Marcello avrebbe tanto voluto risponderle per le rime, ma cercò di contenersi.
«Vittoria cerca sempre di rendersi utile» disse di rimando, a denti stretti.
«Claudia, cerca di comprenderlo» cercò di blandirla il marito. «Piuttosto, vieni a conoscere Beatrice! Guarda che bella rag...»
«Certo, certo me lo dirai dopo» fece la donna, interrompendolo, annoiata. Poi, con un colpo secco, chiuse il ventaglio e si voltò, in direzione della porta-finestra. «Ortensia, vai a prendere la bambina e tu, Tiberio, avvisa in cucina che il pranzo deve essere servito».
L’uomo e sua moglie annuirono, poi, senza dire una parola, scomparvero oltre la porta.
Lì per lì, Marcello non fece caso a ciò che era appena successo, tanto era concentrato a reprimere la rabbia crescente, ma, quando incrociò lo sguardo di una stupefatta Beatrice, la realtà si manifestò davanti i suoi occhi in tutta la sua indecenza: suo fratello, sua cognata e, soprattutto, la Matrona avevano ignorato del tutto la fanciulla.
«Claudia, ma... non hai salutato Beatrice!» esclamò proprio in quel momento il signor Giancarlo, tra il disorientato e il deluso. «Ha portato anche questa bellissima orchidea» continuò, mostrandogliela.
La donna si voltò appena, guardandolo come se avesse appena detto qualcosa di assolutamente senza senso, poi, increspò appena le labbra e disse: «Non fare tardi a tavola, un ritardatario basta e avanza».
Senza aggiungere altro, entrò in casa, inghiottita subito dalla penombra dell’ingresso.
Sconcertato, il giovane si avvicinò alla sua fidanzata, non sapendo proprio cosa dire per giustificare un simile atteggiamento.
«Non... non l’è andata tanto male, avrebbe... a-anche potuto insultarmi» sussurrò lei, con voce tremante, forse cercando di farsi coraggio.
«Oh, Beatrice...» fece Marcello, addolorato e spaesato, «credimi, non ho parole per...»
«Tua madre ha fatto una cosa molto grave» disse il signor Giancarlo, severo. Quindi si rivolse alla giovane: «Mia cara, come stai?»
La ragazza provò a parlare, ma non ci riuscì, anzi, si portò immediatamente la mani alla bocca, come se fosse sul punto di piangere e non volesse farlo.
Allora, l’uomo le poggiò una mano sulla testa e le accarezzò i capelli: «Non piangere, Beatrice. Non meritano che una ragazza così forte come te pianga per loro».
Dopo quelle parole gentili, lei ricacciò indietro le lacrime e rimase in silenzio qualche secondo, come per ritrovare il suo equilibrio, mentre Marcello avvertiva per la prima volta il dolore di vederla in uno stato simile per colpa della condotta riprovevole di sua madre. In quel momento, nonostante andasse contro i suoi stessi ideali di tolleranza, promise a se stesso che gliel’avrebbe fatta pagare. E con gli interessi!
«A lei dispiace se frequento suo figlio?» chiese la fanciulla, guardando spaurita l’uomo.
Il giovane, sorpreso da quella domanda, mise da parte i suoi propositi di vendetta e concentrò la sua attenzione sull’espressione del genitore.
Il signor Giancarlo, invece, le scompigliò affettuosamente i capelli fulvi e le rispose: «Assolutamente no! Sono davvero felice che Marcello abbia trovato qualcuno che riesce a sopportarlo».
«Ma... papà!» esclamò il giovane, punto sul vivo.
«A me puoi dirlo, se lo trovi un po’ bacchettone» continuò l’uomo, mettendosi una mano davanti alla bocca, come se volesse essere udito soltanto da lei. «Non glielo andrò a riferire, promesso» aggiunse, ammiccandole.
Beatrice si sciolse in un sorriso sereno e, nel guardarla, il biondo dovette riconoscere che, se non ci fosse stato suo padre, la situazione sarebbe drammaticamente degenerata.
«Ce la fai a venire a tavola? Se te ne vai ora, la darai vinta a mia moglie».
«Sì, credo di sì...»
L’uomo sorrise, per poi rivolgersi al figlio: «Guai a te se ti lasci scappare questo fiore di ragazza!»

Qualche minuto dopo, ignorando le occhiatacce di sua madre, Marcello fece accomodare Beatrice tra lui e suo padre, sfidandola apertamente a contraddirlo. Infatti, se da una parte, essendo solo sei a tavola, le coppie si sarebbero dovute separare, costringendo la fanciulla a sedersi vicino a Tiberio, dall’altra era anche vero che tale regola non si applicava ai fidanzati ufficiali.
La Matrona comunque corrugò la fronte, ma non disse nulla, limitandosi a diventare livida di rabbia, perché non voleva essere costretta a sentirsi dire che suo figlio era ufficialmente fidanzato con quella ragazza.
La bambina, invece, era adagiata nel passeggino, accanto a sua madre e vicina al nonno, impegnata a dormire placidamente e ignorando, come sembravano aver fatto anche gli altri, che l’unica vera festeggiata, quell’oggi, sarebbe dovuta essere lei.
«Gli abitini estivi che hai regalato a Claudia le vanno divinamente» esordì Tiberio, interrompendo bruscamente quel silenzio ostile. «Indovini sempre tutto, mamma».
A tal complimento, la signora sorrise compiaciuta, dando un lieve cenno d’assenso con il capo.
«Marcello, abbiamo ricevuto il tuo regalo. È... carino» si sforzò di dire Ortensia, visto che erano entrati nell’argomento.
Il ragazzo lanciò in risposta alla cognata un’occhiata talmente gelida che la fece sussultare.
«Non è solo da parte mia» precisò, «ma anche da parte di Beatrice, come scritto sul biglietto. Sai, avreste dovuto leggerlo prima di scartare il pacco».
La donna storse appena la bocca, irritata, ma lasciò cadere la questione.
Poco dopo, fu servito l’antipasto e, a quel punto, Tiberio si alzò, prendendo dal contenitore con il ghiaccio alle sue spalle una bottiglia di vino.
«Questo è un Tarquinia rosso secco, eccellente abbinato a sapori decisi come quelli che prevede il menù di carne di oggi» spiegò, roteando il cavaturaccioli per stapparla e sciorinando tutta la sua abilità da sommelier. «L’ho scelto personalmente, cara mamma, e sono certo che saprà deliziare le tue papille gustative».
«A fine pasto saprò dirti. Finora non hai mai sbagliato» gli concesse la madre, condiscendente.
Marcello alzò gli occhi al cielo, esasperato e nauseato: se quella era l’antifona, tanto valeva sperare di arrivare presto alla frutta, così da potersela dare a gambe e dare un senso a quella giornata. Se la fortuna avesse girato dalla sua parte, magari, avrebbe potuto perfino fare una passeggiata solo con Beatrice, prima di riportarla a casa di Vittoria, così da non lasciare nella memoria della fanciulla un ricordo del tutto negativo.
Quando fu servito il primo, il signor Giancarlo le chiese se avesse mai mangiato i porcini colti nei dintorni e lei gli rispose di no, così l’uomo si lasciò andare nel raccontare divertenti aneddoti di gioventù riguardanti una gara con dei suoi amici per scovare il porcino più pesante, riuscendo anche a farla ridere in più di un’occasione.

Se la Matrona mangiava a bocca stretta, Tiberio, invece, cercò di inserirsi più volte nella conversazione, ma fu prontamente ignorato dal padre, con grande soddisfazione di Marcello: forse finalmente avrebbe capito cosa si provava a non essere considerati, anche se il biondo dubitava che il fratello avrebbe fatto comunque tesoro dell’insegnamento.
Il giovane aveva appena accettato il fatto che il pranzo, in quel clima di reciproca indifferenza, non fosse poi così male, quando la piccola si svegliò e cominciò a piangere disperatamente.
«Oh, come mai la piccina piange? Era così tranquilla!» bisbigliò Beatrice all’orecchio del ragazzo.
«Non credo che sia una colica, il pediatra ha detto che dovrebbe averne molto meno, a quest’età».
Ortensia si alzò immediatamente e si diresse verso la bambina, prendendola dal passeggino e mettendosela in braccio.
«Cosa c’è?» le chiese, scuotendola, più che cullandola.
Tiberio si alzò a sua volta, tendendo le braccia per farsi dare la figlia.
«Perché la mia principessa piange? Cosa ti fa male?»
La Matrona, invece, posò elegantemente forchetta e coltello sul piatto e, dopo essersi pulita le labbra con il tovagliolo, chiese alla nuora: «Ortensia, hai fatto mangiare la minestrina a Claudia?»
La donna impallidì e si guardò intorno, smarrita.
«Ecco... veramente... No, non c’è stato tempo. Ma chiederò alla cuoca di prepararne un piattino, quando avremo finito di pranzare».
«La tua cura personale viene prima di quella di tua figlia?»
«No, ma...»
«Niente ma!» gridò la signora. «Tiberio, se tua moglie è un’oca senza cervello, devi supplire tu alle sue mancanze!»
«Mamma, devi sapere che...»
«Silenzio!» strillò, isterica, spaventando la nipotina, che pianse ancor più forte di prima.
Marcello e Beatrice a quel punto si scambiarono uno sguardo accigliato, rimanendo in silenzio.
«Sono circondata da idioti! Mi avete fatto scoppiare mal di testa!» sbraitò, scansando la sedia dal tavolo e alzandosi in piedi. «I miei figli sono due falliti, due poveri falliti! Ne ho abbastanza di voi, oggi, siete stati capaci di mandarmi di traverso anche il pranzo!»
Raccattò quindi il su
o scialle e se ne andò, uscendo dalla sala a grandi passi, proprio mentre Ortensia dava prova delle sue incredibili abilità di attrice svenendo e scivolando al suolo.
Allora il ragazzo, rinunciando alla possibilità di far passare la sua famiglia per normale e conoscendo a memoria il copione, incrociò le braccia sul tavolo e rimase ad osservare, immobile, tutta la sequenza: il pianto di Ortensia, la sua richiesta di essere portata dallo psicologo di turno (finché questi non si stancava di lei e scappava lontano, lasciandola nelle mani di un altro) e Tiberio che, senza salutare nessuno, la trascinava via, lasciando la sua principessa a casa dei nonni, affidata alla cure del caso.
Il signor Giancarlo, invece, che fino a quel momento era rimasto seduto, senza mutare espressione, si versò dell’acqua e la bevve con calma, mentre la nipotina continuava a strillare.
«Ehm... Marcello, non credi che dovremmo, ecco, fare qualcosa?» domandò la fanciulla, preoccupata, non riuscendo a distogliere gli occhi dalla bambina che piangeva.
«Credo sia un’ottima idea» convenne l’uomo. «Marcello, Beatrice, per favore, occupatevi di questa povera piccolina. Chiedete ad Annetta e vi aiuterà a preparare un po’ di pastina, magari aggiungendoci un po’ della carne di oggi, frullata».
Il giovane sospirò, sicuro perché, come al solito, sarebbe toccato a lui prendersi cura di Claudia. Non che gli dispiacesse, ma, oramai, era come se avesse l’adottata.
«Sì, papà, andiamo subito» rispose, appoggiando il tovagliolo sul tavolo ed alzandosi, prontamente imitato dalla ragazza.
«Ecco, bravi. Quando avrete finito, ricordatevi che c’è la mousse al cioccolato, in frigo. Se qualcuno dovesse dirvi qualcosa, be’, riferite che vi ho autorizzato io a mangiarne quanta ne volete!»

Nello stesso istante in cui si accomodò sugli sgabelli della cucina, Beatrice realizzò che, nel bene e nel male, il tanto temuto pranzo era andato, anche se aveva avvertito talmente tante emozioni contrastanti, che ci avrebbe impiegato un bel po’, prima di metabolizzarle. La meraviglia che aveva avvertito nell’ammirare le bellezze della villa, dall’arredamento ai soffitti stuccati, si era infatti tramutata in terrore, quando la Matrona l’aveva bellamente ignorata, per poi evolvere in sollievo davanti alla gentilezza del signor Giancarlo.
Il teatrino finale, invece, l’aveva lasciata perplessa, giacché davvero non si aspettava qualcosa di simile da persone di tale estrazione sociale; sembrava quasi che Marcello e suo padre appartenessero ad un’altra famiglia.
«Prendi il pentolino nel mobile accanto al frigorifero, per favore. Dovrebbe essere il primo sul secondo ripiano» le chiese il giovane, mentre si toglieva la giacca e si arrotolava le maniche della camicia fin oltre il gomito.
La fanciulla ubbidì, trovando ciò che le era stato chiesto senza difficoltà.
«Posso metter già l’acqua sul foco
«Sì, grazie, ma non metterci il sale, la carne frullata è già abbastanza sapida» disse lui, prendendo dal frigorifero un vasetto di vetro e osservandolo in controluce. «Per fortuna, la cuoca ha già ridotto l’arrosto ad omogeneizzato».
«Come mai non c’è nessuno in cucina, piuttosto?»
«Perché mio padre ha detto loro che adesso Claudia doveva mangiare e non dovevano esserci troppe persone nei paraggi» spiegò il giovane, prendendo un altro pentolino e riempiendolo d’acqua, per poter scaldare il barattolo a bagnomaria. «Sparecchieranno più tardi».
«Ah» disse Beatrice in risposta, riaccomodandosi.
Lanciò uno sguardo alla bambina, che stava cercando di afferrarsi i piedini con le mani: sembrava essersi calmata, come se avesse intuito che qualcuno si stava adoperando per farla mangiare. A quel punto la ragazza spostò la sua attenzione sull’intera stanza, notando che era molto più grande della cucina della zia e che tutti gli utensili appesi alle pareti davano l’idea che fosse molto attrezzata; tutt’intorno maioliche finemente decorate e mobilio bianco-grigio con sottili venature più scure.
Non aveva mai visto una cucina così chiara, dato che di solito erano tutte in legno scuro, e si chiese se la signora Claudia non si fosse lasciata influenzare da qualche stile in voga all’estero nella scelta dell’arredamento.
Marcello allora si sedette accanto a lei, osservando la nipote.
«Oggi farai pranzo e merenda con lo stesso pasto» le disse, rassegnato. Poi si rivolse a Beatrice: «Dobbiamo aspettare che l’acqua cominci a bollire».
Lei annuì e Claudia emise uno dei suoi versetti allegri.
«Ancora non parla?» domandò la ragazza, incuriosita.
«No, ma ogni tanto si limita a ripetere qualche sillaba».
«E... cammina?»
«Neanche. Non è adeguatamente stimolata dai suoi genitori e ai bambini bisogna dedicare tempo ed attenzioni, se si vuole che apprendano» sentenziò il giovane, con una smorfia di disapprovazione, manifestando apertamente ciò che pensava del modo in cui suo fratello e sua cognata stavano crescendo la loro figlia.
«Almeno tu ti dedichi a lei» notò la fanciulla, afferrando una manina della bambina e scuotendola in modo giocoso, mentre la piccolina rideva contenta.
«Non basta» disse lui, sconfortato. «A proposito dei miei parenti... Beatrice, mi dispiace davvero per tutto quello che è successo oggi».
«Be’, ad esser sincera, nonostante mi avessi preparata, non credevo che sarebbe stato così... così...»
«Tremendo? Mio fratello e sua moglie si sono comportati malissimo, per non parlare di mia madre... ha dato il peggio di sé!»
«Se l’è presa anche con l’Ortensia, però».
«Ma a lei non piace sua nuora, le va bene solo perché è ricca» spiegò Marcello, alzandosi per andare a controllare le pentole sui fornelli; spense il fuoco del pentolino più piccolo e mise tre cucchiai di pastina all’interno dell’altro, in evidente ebollizione.
«Oggi, avendo deciso di ignorarti, non ti ha potuta insultare e ha scaricato tutta la sua frustrazione su Ortensia. Aveva ragione, certo, ma non era quello il modo di esprimere le sue opinioni» proseguì, prendendo un piatto fondo dalla credenza e mettendolo sul piano di lavoro.
Beatrice rimase colpita dalla precisione con cui il giovane stava cucinando, intuendo che dovesse essere avvezzo a quel tipo di attività e, dopo quello che aveva visto quella mattina, non faticò a capire come stessero le cose: a causa delle mancanze dei genitori, doveva essersi preso cura di Claudia in più di un’occasione.
«C’è la possibilità che la tu’ mamma cambi idea su di noi?» gli domandò, incrociando le braccia sul tavolo e sporgendosi leggermente in avanti.
«No» rispose lui, asciutto, rimestando la pastina, per evitare che si attaccasse al fondo del pentolino. «Ma a me non importa. Per quanto mi riguarda, puoi ignorarla a tua volta, non sarai mai obbligata a frequentarla».
Trascorsero qualche istante in silenzio, durante il quale il giovane scolò l’acqua in eccesso dalla pentola e mise la minestrina nel piatto, mescolandola accuratamente con il preparato di carne per qualche minuto. Dopo di che prese un cucchiaino e ne assaggiò una quantità irrisoria, per verificare che fosse di buon sapore e non troppo calda.
Infine, prese un bavaglino dalla borsa attaccata al passeggino e lo mise alla nipote, facendola sedere sulle proprie ginocchia.
«Adesso, Claudia, apri la bocca, su, fai A!»
Come incantata dalle parole dello zio, la bambina ubbidì senza fare nemmeno un capriccio, ennesima prova del fatto che era abituata ad essere imboccata dal ragazzo.
Beatrice, rapita a sua volta dalla scena, si mise comoda, poggiando prima un gomito sul tavolo e poi una guancia sul palmo aperto.
«L’impeccabile messer Tornatore, imprenditore di successo, che gioca con la nipotina pur di farla mangiare» commentò, sorridendo.
«Be’, non posso certo lasciarla morire di fame» rispose lui, anche se si vide chiaramente che era lievemente arrossito. Tuttavia, non smise comunque di imboccare la bambina.
Le luci filtranti dalla finestra in fondo alla stanza avevano ormai cambiato intensità, divenendo più fioche e suggerendo che il primo pomeriggio doveva essere finito da un pezzo; ciononostante, per la prima volta da quando si era svegliata, Beatrice avvertì distintamente un po’ di serenità.
«In fondo, la giornata sarebbe potuta andare anche peggio, non trovi?»
«Sarebbe potuta andare anche meglio, però» ribatté il ragazzo, spostando per un istante lo sguardo su di lei. Parve riflettere per un attimo e quindi aggiunse: «Ti piacerebbe fare una passeggiata ai Castelli, una di queste domeniche?»
L’idea le piacque così tanto che non esitò a rispondere: «Oh, sì, sarebbe bellissimo se si facesse una piccola gita!»
Marcello fece un cenno d’assenso, poggiando il piatto sul tavolo e prendendo un tovagliolo per pulire la boccuccia della bambina.
«Posso imboccarla io?» si offrì Beatrice, approfittando della pausa. In realtà, avrebbe voluto chiederglielo molto prima, ma non ne aveva avuto il coraggio, temendo che la piccolina potesse stranirsi nel vederli invertirsi di posto.
Il biondo guardò prima lei, poi Claudia ed in ultimo il piatto, quindi annuì e passò quest’ultimo alla ragazza, sistemandosi meglio la bambina in braccio.
«Tieni lontano il piatto dalla sua portata, perché se ci mette le mani dentro, la pastina finirà anche sui muri» si raccomandò.
«Va bene» replicò lei, prendendo il piatto e spostandosi più vicina a loro; prese un bel respiro d’incoraggiamento e disse: «Piccina, ora fai vedere allo zio Marcello che fai la brava anche con me, d’accordo?»
Per un istante che le sembrò interminabile, Claudia non si mosse, poi, aprì molto lentamente la bocca.
Sorridendo di gioia, la fanciulla, con la mano un po’ tremante, avvicinò il cucchiaio e... la bimba mandò giù subito tutto il boccone.
«Abbiamo un’altra candidata all’assistenza nel momento pappa, a quanto pare» commentò Marcello, palesemente interessato ai risvolti che aveva preso la vicenda. «Non è così, zia Beatrice?»
Nel sentirsi chiamare così, la ragazza rimase a bocca aperta e, dopo essersi scambiata un’occhiata eloquente con il ragazzo, ammise che, in fondo, quell’appellativo non le dispiaceva affatto.
***

Come era stato stabilito, il mattino seguente Vittoria e Beatrice si recarono di buon ora a casa del signor Rossiglione.
Da una parte, la ragazza aveva fretta di incontrarlo, giacché era passato molto tempo dall’ultima volta che l’aveva visto e temeva di essersi persa numerose novità riguardo il suo esame di maturità; dall’altra, però, voleva ritardare quel momento il più possibile, perché, una volta saputo come stavano sul serio le cose, non avrebbe più avuto scusanti.
E, a dire il vero, dopo la domenica appena trascorsa, non aveva molta voglia di apprendere cattive notizie.
Per fortuna però, a quel riguardo, Vittoria era stata molto discreta e si era limitata a fare qualche domanda non troppo specifica. In fondo, anche lei conosceva la signora Claudia ed era stata spesso vittima delle sue ingiurie, quindi era certa che l’avrebbe capita, ma non se la sentiva comunque di rivelarle come era stata trattata.
Perfino con Marcello aveva temporeggiato nel raccontargli come la trattavano a casa, proprio perché preferiva prima rielaborare le cose per conto suo e poi confidarle ad altri. Non voleva la compassione di nessuno, anche se era certa che l’amica non l’avrebbe mai trattata con pietà.
Arrivate davanti al portone del palazzo, dove abitava l’insegnante, situato nei pressi del Parco della Caffarella, Beatrice esitò per una frazione di secondo, prima di suonare.
«Cosa c’è?» domandò Vittoria, preoccupata.
«Ho come il presentimento che siano in arrivo brutte notizie» sussurrò la fanciulla, rabbuiandosi.
«Ma non devi pensare a queste cose, altrimenti vedrai tutto in negativo e ti succederanno davvero cose spiacevoli. Su, ora suoniamo!» disse l’altra con il suo solito entusiasmo, premendo il pulsante dell’interno sette.
Dopo qualche secondo, una voce profonda e parzialmente distorta dal microfono del citofono, anche se non abbastanza da essere riconoscibile, domandò: «Chi è?»
«Professore, buongiorno. Son la Beatrice» disse la ragazza, con tono dimesso.
«Beatrice!» rispose l’uomo, chiaramente meravigliato. «Santo cielo, che fine hai fatto? Sali, cara, sali pure!»
Il portone venne aperto all’istante e Vittoria spalancò altrettanto rapidamente il battente.
«Avanti, dopo di te! E non aver paura, nessuno vuole mangiarti!»
Dopo aver percorso qualche rampa di scale, le due giovani trovarono l’insegnante ad aspettarle, in piedi sulla porta del proprio appartamento.
«Oh, eccoti, finalmente! Sono stato anche a casa tua, ma non mi hanno voluto dire dove fossi finita! Cosa ti è successo?» domandò, piuttosto concitato.
«L’è una storia lunga» spiegò Beatrice. «Perfino io stento a credere che sia vera».
Il signor Rossiglione annuì.
«Dai, entra dentro, così mi racconti. Lei è una tua amica?»
«Esattamente» rispose l’altra, tendendogli la mano con fare affabile. «Sono Vittoria, piacere di conoscerla!»

L’uomo fece subito accomodare le due ragazze sul divano dell’ampio e luminoso salotto, offrendo loro da bere e dei biscotti, scusandosi di non poter offrire loro di meglio, poiché sua moglie, anche lei insegnante, era andata in gita scolastica con la sua classe e non c’era nessuno che sapesse fare la spesa come si deve.
Quando si fu seduto anche lui sulla sua poltrona di velluto blu un po’ spelacchiata, la fanciulla poté finalmente iniziare il suo racconto, andando avanti per una buona oretta e mezza. Fu interrotta soltanto da qualche esclamazione del precettore, a volte di rabbia, altre di disgusto o di angoscia.
«Povera ragazza, non avrei mai potuto immaginare che stessi passando tutto questo!» commentò lui, alla fine.
«Non le han detto proprio niente la mia zia e i mi’ fratello?»
«Assolutamente niente e, comunque, ho incontrato solo la signora Assunta. Anzi, è stato già un miracolo che mi abbia permesso di prendere le tue cose!»
«Le mie cose?» domandò lei, confusa.
«Sì, hanno venduto la villa e hanno traslocato al nord, credo vicino a Pavia. Solo per miracolo, quindi, sono riuscito a portare qui le tue cose» spiegò Rossiglione, pulendo gli occhiali con un fazzoletto estratto dalla tasca della giacca. «Non ne sapevi nulla?»
Beatrice guardò smarrita Vittoria e quest’ultima alzò le spalle, altrettanto incredula.
Nel vedere tanto sgomento, l’uomo mise le mani sulle ginocchia e si diede la spinta per alzarsi.
«Venite con me» disse loro, invitandolo a seguirlo.
Furono condotte entrambe in una piccola stanzetta, dove c’erano un asse da stiro ed una cesta di vimini contenente un mucchio di vestiti ancora da stirare e, nella penombra, non riconobbe subito il paravento e la macchina per cucire che erano appartenute alla contessa Elena, tenuti lì in un angolo.
Vittoria chiese qualcosa a Rossiglione e lui le rispose, ma lei non li sentì, frastornata dalle nuove rivelazioni.
Riuscì a mettere a fuoco gli oggetti molto lentamente, precipitandosi solo in un secondo momento ad assicurarsi che tutti i suoi effetti fossero lì, per rendersi poi conto che parecchie cose erano rimaste a Villa dei Salici, sempre che non fossero state vendute dalle parenti.
«Ovviamente, manca il libro...» sussurrò a bassissima voce, non trovando il prezioso regalo che le aveva fatto Marcello. In effetti, lo aveva nascosto sotto la tavola del doppio fondo dell’armadio, dove era certa che nessuno sarebbe andato a ficcanasare, quindi, se la fortuna era dalla sua parte, aveva ancora qualche possibilità di ritrovarlo.
«Meno male che sei venuta tu, perché io non sapevo proprio dove cercarti. Sono andato a scuola e hanno detto che gli esami preliminari sono stati fissati per il quindici maggio» disse l’insegnante, richiamando la sua attenzione.
«Per il quindici? Ma l’è tra poco più di due settimane!» rispose lei distrattamente, continuando a frugare tra le sue cose e facendone mentalmente l’inventario.
«Purtroppo, Beatrice, non è questo il vero problema» continuò lui, grave. «Vedi, il programma di fisica che portano i tuoi compagni, per scelta del loro professore, è molto più ampio di quello che abbiamo fatto noi».
«E quindi?»
«Il commissario d’esame si adeguerà a loro».
All’improvviso, la fanciulla si fermò, capendo finalmente ciò che le era stato appena detto e si voltò lentamente verso Vittoria e Rossiglione, scorgendo sui loro visi espressioni tutt’altro che confortanti.
«A-Aspettate un momento» balbettò, ancor più confusa. «Questo vuol dire che... che... son rovinata!»



***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie mille anche alla mia Anto che mi consiglia in fase di stesura.
***

[N.d.A]
1. se il Borromini... la fontana: la leggenda si basa, infatti, su un forte anacronismo, giacché la statua è stata scolpita tra il 1646 e il 1651, mentre la chiesa è stata iniziata nel 1652.
2. fraschette: non so se qualcuno già le conosce, sono dei tipici locali che si trovano nella zona dei Castelli Romani, abbastanza “rustici”. Qui vengono servite diverse specialità locali, tra le quali spicca il famoso panino con la porchetta;
3. la canzone di Al Bano e Romina: ovviamente, Marcello sta pensando a Felicità, arrivata seconda al Festival di Sanremo del 1982;
***


Salve!
In un modo o nell’altro, questa storia sta procedendo, lentamente, ma procedendo. Purtroppo vivo in funzione dello studio e per la scrittura ho sempre meno tempo, anche se non è assolutamente mia intenzione lasciare incompleto ciò che ho iniziato.
Ringrazio chi mi ha lasciato una traccia del suo passaggio al capitolo precedente e a chi ha messo la storia tra le seguite/ricordate/preferite.
Se tutto va bene, il prossimo capitolo dovrebbe essere pronto per metà del prossimo mese o giù di lì, comunque, se volete rimanere informati con più precisione, vi invito, come sempre, a fare un salto sulla mia pagina facebook, dove riprenderò a pubblicare estratti dei capitoli futuri e altre cose.
Alla prossima, per chiunque continuerà a darmi fiducia (sarete ricompensati e ne vedrete la fine, ve lo prometto) e a seguire questa storia.
Halley S.C.

  
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