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Autore: Helena Kanbara    25/10/2015    2 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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Keep your head up,
nothing lasts forever.
 
kaleidoscope
 
 
9.    Save me
 
Un rumorio confuso di passi giù per il corridoio mi risvegliò all’improvviso ed aprii gli occhi, purtroppo immediatamente consapevole di quanto mi dolesse la testa. Non ebbi nemmeno tempo di chiedermi come mai che le immagini delle ore precedenti m’affollarono la mente e mi ricordai non solo della mia atroce visione – del lutto che avevo vissuto insieme a Chris ed Allison – ma anche del pianto infinito che l’aveva seguita. Era per quello che mi sentivo così scombussolata.
Deglutii, stiracchiandomi le gambe e passandomi una mano fra i capelli. Avrei voluto restare a letto per tutta la vita, ma sapevo che non mi sarebbe stato concesso. Era l’inizio di un altro giorno e c’erano un sacco di cose che dovevo ancora affrontare. Capii ben presto che per cominciare avrei dovuto mettermi in piedi. E ci provai – provai a scivolare fuori dal letto e vivere – ma le dita di Stiles mi strinsero il polso all’improvviso ed io sobbalzai trattenendo un urlo.
Merda. Mi ero completamente dimenticata di lui.
Lo fissai col terrore negli occhi – sapevo cosa mi sarebbe toccato – e lui ricambiò il mio sguardo, ancora assonnato ma già fin troppo vigile. Non potevo scappare. Non ancora.
«Non provarci», soffiò Stiles nella mia direzione, confermando le mie supposizioni e lasciandomi andare il polso a rallentatore.
Non avrebbe voluto, ma sapeva che in fondo non avrei osato disubbidirgli. Ed io in effetti non lo feci. Abbandonai ogni proposito di fuga e mi rimisi a letto con lui: nel suo letto, nella sua camera – quella che non avevo neanche lontanamente riconosciuto, accecata dal sonno e dalla foga di andar via.
Me ne rimasi in silenzio ad evitare lo sguardo di Stiles, ben sapendo che c’avrebbe pensato lui stesso a parlare ancora. Che bisogno c’era che ci provassi io, quindi?
«Mi spieghi cos’è successo stanotte?».
«Niente».
«Harriet», Stiles richiamò il mio nome – niente soprannomi né nomignoli; solo il mio nome di battesimo completo, segno di tempesta, «Non cominciare, per favore. Pensi che sia uno stupido? Mi sono svegliato nel bel mezzo della notte, terrorizzato dalle tue urla. Sembrava ti stessero uccidendo. Dio! Tu non hai idea di quanta paura ho avuto».
Il suo tono di voce aumentò ad ogni parola, ma non potei far altro che sobbalzare dallo spavento. Non ebbi nemmeno tempo di pensare ad una replica soddisfacente, perché ad interrompere tutti i miei pensieri sconnessi ci pensò la voce vagamente allarmata di Stephen.
«Ragazzi?», chiamò insicuro dal fondo del corridoio. Era stato lui a svegliarmi poco prima col rumore dei suoi passi. Era tornato. «Siete già svegli?».
Non ebbi la forza di rispondergli. Di nuovo lasciai che fosse solo Stiles a parlare. «Arriviamo subito, papà!», rassicurò lo sceriffo, ed io non me lo feci ripetere due volte: colsi immediatamente la palla al balzo.
«Sarà meglio andare». Diedi le spalle a Stiles e provai a scappare. Speravo che lui avesse ormai abbassato la guardia e che sarei finalmente riuscita nel mio intento, ma Stiles mi conosceva tanto bene che non gli servì che più di qualche secondo per immobilizzarmi nuovamente al centro della sua camera.
«Non scappare», mi ammonì, stringendo nuovamente il mio polso tra le dita mentre tratteneva imprecazioni. «Parlami. Parlami, ti prego».
Quella richiesta mi strinse il cuore in una morsa e i miei occhi scuri non persero tempo ad imitare quelli di Stiles: si riempirono di lacrime alla velocità della luce. Parlargli era l’unica cosa che avrei voluto fare al mondo. Ma non potevo. E non aspettai più a dirglielo.
«N-Non posso. Ho paura. Ho paura che non mi vedrai più allo stesso modo dopo che te l’avrò detto».
«Cosa, Harry? Cosa non puoi dirmi?». La voce di Stiles si affievolì sempre più ed io tirai su col naso, tentando inutilmente di trattenere nuove lacrime. Lo stavo uccidendo. Gli stavo facendo del male, proprio come sempre. Ero una persona orribile.
Stiles probabilmente capì – ancora una volta – cosa mi frullava nella testa in quel momento, perché proprio un attimo prima che potessi cadere a pezzi mi afferrò il viso con entrambe le mani e mi tenne tutta intera. Di nuovo.
«Harry», mi richiamò in un sussurro, facendo di tutto per attirare la mia attenzione su di sé. «Niente potrà mai cambiare ciò che provo per te. Niente. Mi hai capito?».
Ed era sincero. Ne fui consapevole subito. Me lo suggerirono i suoi occhi ambrati, la morsa delle sue dita sulle mie guance umide, il tono della sua voce. Tutto.
Era sincero. E potevo parlare con lui. Dovevo.
«Ho avuto una visione», sputai infine. «Su Victoria Argent. Derek l’ha morsa e lei si è suicidata».
Vidi Stiles aggrottare le sopracciglia. Ma sul suo viso non passò nemmeno l’ombra del disgusto che ero convinta di trovarci. Era ancora nient’altro che confuso. Prima che riprendesse a parlare, rafforzò la stretta delle sue mani sul mio viso. «È per questo che hai avuto una crisi? Sei triste per Victoria? O per Allison?».
Se avessi avuto un po’ di forza avrei scosso la testa energicamente. Ma mi limitai a parlare, con la voce ridotta ad un sussurro e i sensi di colpa che mi divoravano viva. «Io lo sapevo già. Sapevo tutto. E non l’ho detto a nessuno. Non l’ho detto ad Allison, a Scott… Non l’ho detto a te. Avrei potuto salvarla e non l’ho fatto. Ho coperto Derek».
Bastò quello, e le mani di Stiles lasciarono libero il mio viso – ed io mi sentii andare in pezzi, con le guance fredde e i denti che tremavano nello sforzo di trattenere gemiti. Mi sentii vuota e abbandonata, proprio come credevo di meritare.
«Perché l’ha fatto?», mi domandò Stiles dopo qualche attimo, facendosi lontano da me ma restandomi comunque accanto.
Lui c’era ancora, e me ne resi pienamente conto solo in quel momento. Cercai di non farmi sopraffare da quella consapevolezza, provando a capire a chi si riferisse sul serio. E compresi che volesse sapere di Derek quando vidi la fiammata di risentimento che brillava nel fondo dei suoi occhi ambrati.
«N-Non lo so», singhiozzai, facendo spallucce perché davvero non lo sapevo. «Mi ha detto che avrebbe ucciso sia lui che Scott. Si è difeso».
Cadde il silenzio e Stiles distolse gli occhi da me di corsa, come se non potesse più guardarmi. Si passò più volte le mani tra i capelli cortissimi, prendendo ad imprecare sottovoce mentre girava a zonzo per la stanza e calciava qualunque cosa gli capitasse sotto tiro.
«Perché l’ha detto proprio a te?», urlò, facendomi sobbalzare per l’intensità del suo sguardo. Era infuriato.
«Voleva togliersi un peso, forse».
«Certo, e ha lasciato che dovessi conviverci anche tu. DANNAZIONE!». Raggiunse la scrivania a grandi falcate, sbattendo il pugno sul legno così forte che non potei far altro che sussultare dallo spavento.
«Stiles», soffiai, raggiungendolo di corsa. «Smettila, ti prego».
Non volevo che Stephen ci sentisse. Non volevo che Stiles si facesse male. Non per me. Né tantomeno per Derek. 
Sembrò calmarsi, ma non osò rivolgermi mezzo sguardo. Mi permise di restargli accanto, ma si comportò per diversi minuti proprio come se non esistessi. Ed io mi lasciai soffocare dal silenzio pesante sceso nella stanza, almeno finché non lo reputai abbastanza.
«Ce l’hai con me?», gli chiesi infine, anche se avevo terribilmente paura di ciò che avrebbe potuto dirmi.
«Non lo pensare neanche», ordinò Stiles, guardandomi nuovamente negli occhi dopo quelli che m’erano parsi secoli. «Non sei una persona orribile, Harry. Anche se so che ne sei convinta. Tu non sei come Matt».
Matt. Matthew Daehler. Il fratellastro di Victor. Il padrone del kanima. L’assassino.
«È lui, non è vero?».
Stiles non ebbe nemmeno bisogno di chiedermi a cosa mi riferissi. Lo sapevamo entrambi benissimo. Semplicemente annuì.
«Cosa farai adesso?».
Stiles ci pensò su brevemente. «Cercherò di farlo capire a papà». Poi mi guardò di nuovo, più attento che mai. «Tu cosa vuoi fare?».
Anche a me bastarono solo pochissimi secondi per decidere cos’avrei fatto allora.
«Parlerò col fratello di Matt».
 
«Ciao!».
Sobbalzai sotto il suono di quella voce cristallina, ricercandone il proprietario con estrema curiosità. Mi ritrovai di fronte una donna bellissima, dai capelli dorati e gli occhi azzurri come il cielo d’estate. Non avevo idea di chi fosse, ma potevo benissimo immaginarlo. Ero andata a casa Daehler come da piano e la signora aveva deciso di aprirmi quando ormai avevo perso ogni speranza, cogliendomi completamente di sorpresa.
«B-Buonasera», balbettai, ancora un po’ scossa dalla sua apparizione improvvisa. «Victor è in casa?». Andai subito al punto, non avevo certo tempo da perdere.
La giovane donna annuì, regalandomi un altro radioso sorriso. «Certo». Ma non provò nemmeno ad invitarmi dentro. Ed io avvampai al solo pensiero di ciò che avrei dovuto chiederle.
«Potrei… entrare? Sono una sua amica».
«Prego». Ce l’avevo fatta. Misi piede – di nuovo – in casa di Victor, attendendo spiegazioni prima di muovermi ancora. «È nella sua stanza. Prima porta a destra, di sopra».
Ringraziai brevemente quella signora bellissima, poi seguii le sue indicazioni fino a giungere alla porta chiusa di quella che aveva tutta l’aria di essere una normalissima camera da letto. La camera da letto di Victor Daehler.
Dall’interno proveniva della musica a volume altissimo, ma provai comunque a bussare nella speranza che potesse sentirmi. Cosa che ovviamente non successe, tanto che alla fine decisi di ricorrere a rimedi estremi. Io stessa infatti spalancai la porta d’ingresso, catapultandomi nella stanza come una furia. Gli occhi di Victor mi furono subito addosso.
«Cosa ci fai tu qui?», quasi urlò, scattando in piedi sulla sedia di fronte alla scrivania sulla quale era stato seduto fino a poco prima.
Pareva stesse studiando. Con la musica a palla? Che concentrazione invidiabile.
«Dobbiamo parlare».
Victor sollevò un sopracciglio con aria scettica, fissandomi a lungo. «Sei venuta a scusarti con me, per caso?».
Scusarmi con lui? «Non vedo di cosa dovrei scusarmi».
Ma in realtà lo immaginavo bene e i miei sospetti furono confermati proprio da Victor.
Abbandonò la scrivania velocemente, raggiungendomi sull’uscio della camera con un paio di falcate. «Di questo, forse?», domandò, indicandosi l’occhio divenuto nero in seguito al pugno carico di rabbia che gli avevo sferrato la sera del rave.
Indurii la mascella, incrociando le braccia al petto con aria decisa. «Non ti chiederò scusa per quello. Te lo sei meritato».
«Ah, sì? E perché?».
Deglutii. Victor era davvero troppo vicino. Ma costretta contro la porta com’ero, non avevo possibilità di scappare.
«Mi terrorizzi. E credi di potermi dare ordini», spiegai, cercando di non far tremolare la voce. Dovevo dimostrarmi forte, ancora una volta. «Al rave non volevi lasciarmi libera e ho dovuto metterti KO».
A quelle parole, Victor si aprì in una risata improvvisa che mi fece rabbrividire. Aveva qualcosa di profondamente storto. Ma come al solito, non avrei saputo dire cosa.
«Come vuoi», concesse infine, con un ultimo sorriso tutto fossette. «Abbiamo finito? Starei studiando».
«No che non abbiamo finito. Ho bisogno di farti delle domande su Matt».
Di nuovo il sopracciglio dorato di Victor svettò verso l’alto. «Matt? Cosa vuoi da mio fratello?».
Di nuovo decisi di andare subito al punto. «Voglio sapere qual è il suo problema».
«Il suo…», Victor boccheggiò confuso, poi l’irritazione ebbe la meglio, «Qual è il tuo problema, Harriet!».
Mi urlò contro quelle parole con tutta la cattiveria di cui era capace, ma cercai di non farmi scalfire affatto da queste ultime. Ero stanca di tremare.
«Non fingere di non saperne nulla, perché so che stai mentendo!». Alzai la voce anch’io. Purtroppo, con pessimi risultati.
«Mio Dio. Io ho preso una botta e tu sei impazzita?».
Quasi sgranai gli occhi, incredula. Victor sembrava genuinamente sorpreso. Quell’idea mi trapassò la mente all’improvviso, regalandomi una fitta di consapevolezza molto più forte delle altre. Premetti due dita sulla tempia e fu in quel momento che capii: vidi sul serio la confusione di Victor e tutto mi fu chiaro all’improvviso, senza che potessi spiegarmi sul serio come diavolo potessi esserci riuscita. Mi era sembrato quasi di essere nella sua mente.
«Tu non ne sai niente sul serio», soffiai infine con aria sconfitta.
E Victor continuò a confermare le mie supposizioni.
«Non ho idea di cosa tu stia dicendo», mormorò, accennando poi alla porta. «Puoi andartene adesso?».
Evitai di boccheggiare solo perché ci tenevo a portare avanti la mia farsa fino all’ultimo, eppure la voce mi venne fuori fin troppo tremolante. «S-Sì. Vado».
E ci provai, ma ad un passo dalla porta ebbi l’ennesimo ripensamento e mi voltai a chiamare ancora il nome di Victor.
«Cos’altro c’è?». Lui m’inchiodò sul posto coi suoi occhi nerissimi e l’aria scocciata.
Capii che dovevo fargli la domanda giusta, perché quella era l’ultima possibilità che mi sarebbe stata data. Deglutii. «Tuo fratello ce l’ha con qualcuno, per caso?».
Bastò l’espressione di Victor a rappresentare alla perfezione quanto avessi toppato. «Che domanda è? Si può sapere cosa vuoi da Matt?».
Ma non avrei ancora mollato. «È pericoloso. E se c’è anche solo una piccola cosa che sai… ti prego, devi dirmela».
«Pericoloso? Ha sedici anni, Harriet!», Victor alzò la voce di nuovo, tanto che questa quasi prevalse sulla musica altissima.
«Credimi», lo scongiurai quasi. La mia era una preghiera. Ma Victor non la colse affatto.
«Non so niente. Ora va’ via».
Avevo perso.
 
Di’ all’agente che sei con noi. Se insiste a non farti passare, chiamaci.
Grazie a quell’sms inviatomi da Stiles avevo speso l’intero tempo impiegato nel tragitto casa Daehler-centrale di polizia a pensare a delle scuse tanto convincenti da permettere all’agente nell’ingresso di lasciarmi via libera senza troppi sforzi. Sapevo che la vicesceriffo Deyes fosse una tipa tosta, ma mi ero preparata fior fior di argomentazioni per metterla da parte ed ero soddisfattissima. Ecco perché quando misi finalmente piede nella centrale e non trovai anima viva alla reception, sentii un flebile moto di delusione fare di me la sua preda. Sapevo che avrei dovuto essere semplicemente grata di poter passare oltre e basta, ma la delusione si trasformò presto in allerta e un brivido di terrore mi scosse la spina dorsale. Perché mai l’agente Deyes non era lì?
Continuai a chiedermelo mentre avanzavo lentamente nella direzione della reception, cercando di scacciare via dalla mia mente – con pessimi risultati – la paura cieca che mi aveva colta. Non avrei nemmeno saputo spiegare perché, eppure sentivo che ciò che avrei trovato dall’altra parte avrebbe potuto non piacermi affatto. E ne ebbi la dolorosa conferma nel momento in cui mi sporsi oltre il bancone in legno. Quella visione mi provocò un violento conato di vomito tanto doloroso e disgustoso che dovetti piegarmi sulle ginocchia nella speranza di non finire a rovesciare l’intera cena di quel giorno.
Rosa Deyes era sul pavimento, avvolta da una pozza di sangue fuoriuscito dal petto squarciato. Erano profondi segni di artigli quelli che le avevano lacerato la pelle, uccidendola. E capii subito a chi appartenessero.
Una nuova ondata di terrore mi tolse il respiro, ma prima ancora che potessi anche solo provare a scappare da quel posto, la mia coda alta ondeggiò smossa da qualcosa e un’improvvisa fitta di dolore al retro del collo mi accecò la vista. Prima ancora che potessi anche solo rendermene conto, ero completamente immobilizzata. Dal kanima.
Mentre sentivo la presa delle mie dita sul bancone venire meno e finivo a terra con un tonfo, provai ad urlare. Stiles, Stephen e Scott erano lì e stavano bene – perlomeno, così speravo. Se fossi stata un minimo fortunata, avrei ricevuto l’aiuto di cui avevo bisogno. Ma sentivo le corde vocali completamente atrofizzate e il mio urlo si ridusse ad un flebile gemito.
Ero caduta di pancia sul pavimento, quindi non potevo guardare il kanima negli occhi. Ma lo sentivo sibilare alle mie spalle e muoversi: ad un certo punto una sua zampaccia mi artigliò la spalla e mi voltò di schiena sul pavimento. Poi prese a trasportarmi per un polso verso chissà dove, proprio come se fossi nient’altro che una vecchia bambola da buttare. Non mi ero mai sentita più impotente di così. Avrei voluto urlare e ribellarmi, ma non potevo far altro che starmene nelle grinfie di quell’essere viscido, sperando che non mi avrebbe uccisa.
«J… J-ack-son», sillabai con immensi sforzi, sperando che sarebbe riuscito a captare il mio sussurro. Sapevo che il mio fosse un tentativo molto azzardato, ma dovevo quantomeno provare a salvarmi la pelle. «Questo non sei tu».
Era vero. E la verità, si sa, fa sempre male. Il kanima arrestò di botto la sua camminata decisa, balzandomi addosso e togliendomi il respiro col suo peso imponente. Poi, con l’aria di qualcuno che si era quasi offeso, mi ringhiò contro tutta la sua rabbia. Ed io non potei far altro che strizzare gli occhi, mentre pregavo che l’incubo finisse una volta per tutte. Ma era appena iniziato e me ne resi conto solo due secondi più tardi, quando le zampe del mostro si chiusero attorno alla mia gola e persi il respiro per decisamente troppo tempo.
Credetti che sarei morta così, soffocata da una bestia infernale e senza la minima possibilità di anche solo provare a difendermi, ma un rumore improvviso gelò il kanima e lo fece balzare via dal mio corpo. Anche se continuavo a non potermi muovere, mi sembrò di essere comunque in Paradiso. Tossii violentemente, cercando di riacquistare almeno metà di tutto l’ossigeno che il kanima mi aveva rubato. Mi doleva la gola terribilmente ed ero convinta che la pelle sensibile del mio collo forse ormai rossa da morire. Ma ancora sentivo come se il peggio dovesse ancora arrivare.
Il kanima mi afferrò nuovamente il polso, trascinandomi giù per uno stretto corridoio dal pavimento… bagnato? Aggrottai immediatamente le sopracciglia. Strano. Molto strano. Quella di cui si stavano imbrattando i miei capelli e il retro dei miei vestiti non sembrava nemmeno acqua. Era qualcosa di molto più denso.
E allora capii. Vidi ammassati in un angolo i corpi senza vita di altri tre agenti e scoppiai a piangere silenziosamente. Mi stavo bagnando del sangue che avevano versato a causa di quella creatura immonda e del suo padrone – Matt. Per un attimo provai il violento impulso di ucciderli entrambi con le mie stesse mani, ma sapevo che non ne sarei stata in grado – non in quel momento – e mi limitai a subire ancora.
Il kanima alla fine mi lasciò andare nel bel mezzo di una grande stanza vuota. Si fece lontano da me e mi osservò dall’angolo, la coda che ondeggiava pigramente e gli intensi occhi gialli che mi perforavano da parte a parte. Ed io semplicemente continuai a piangere mentre facevo volare i pensieri e capivo che mi avesse portata lì per tenermi ben lontana dagli altri. Non ero mai stata in quella zona della centrale prima, ma ero sicura che fosse più che distante da dove erano in quel momento lo sceriffo, Stiles e Scott. In nessun modo avrebbero potuto aiutarmi.
Chiusi gli occhi, esausta, e rimasi in quella posizione per attimi infiniti. Almeno finché non ridonai un’occhiata fugace al kanima e scoprii che avesse finalmente distolto lo sguardo dalla mia figura sofferente. Era distratto tanto che all’improvviso mi piombò in testa un’idea suicida. Gli altri non avrebbero potuto raggiungere me, ma io avrei provato comunque ad andare da loro. Magari l’effetto del veleno paralizzante era scemato almeno un po’ e sarei riuscita a muovermi. Un centimetro alla volta avrei potuto farcela.
La speranza è l’ultima a morire, dicevano. La mia sfumò nel giro di due secondi. Avevo appena appena mosso l’indice quando gli occhi gialli del kanima mi ritornarono addosso di slancio ed evidentemente avevo scritto in faccia il mio piano oppure era anche un sensitivo, fatto sta che mi ripiombò addosso in un attimo, più irritato che mai. Mi ringhiò contro furiosamente e falciò il mio petto coi suoi artigli, strappandomi un urlo fortissimo e riducendo la mia maglia a brandelli. Ripresi a piangere, maledicendo tutto e tutti mentre il kanima continuava a farmi soffrire in ogni modo. Non voleva uccidermi, ma punirmi. Mi artigliò anche un braccio e una gamba e il dolore ad un certo punto fu così forte che semplicemente mollai la presa e mi lasciai andare nel baratro buio di sofferenza che già da fin troppo tempo mi aspettava a braccia aperte.
Un’altra volta ancora avevo perso.
 
Furono il rimbombo di un proiettile e delle urla lontane a riportarmi a galla all’improvviso. Sgranai gli occhi lucidi, terrorizzata dall’idea di chi avesse sparato e di chi fosse stato ferito. Preferii non pensarci. Non potevo peggiorare la situazione con un attacco di panico, davvero. Perciò mi limitai a richiudere gli occhi mentre prendevo dei grossi respiri e pregavo intensamente che almeno qualcosa di buono mi succedesse. Capii dopo pochi minuti che il mio desiderio fosse divenuto realtà quando riprendendo a guardarmi intorno scoprii che il kanima mi avesse lasciata sola. Pensai di sbagliarmi – che era tutto troppo bello per essere vero – ma del kanima non c’era sul serio più traccia. E allora quasi sorrisi, capendo che avrei dovuto approfittarne per scappare.
L’effetto del veleno paralizzante era un po’ scemato, ma comunque non mi sentivo né il braccio né la gamba sanguinanti e il petto mi doleva da morire – molto più del collo arrossato. Continuai comunque a strisciare verso la porta, trattenendo gemiti e pregando che tutto andasse bene almeno quella volta. Ma di nuovo la mia fuga fu interrotta all’improvviso e quella volta da un blackout che capii subito fosse stato tutt’altro che casuale. Non appena la centrale fu avvolta dal buio completo, infatti, un’ondata di spari la travolse e il rumore della sparatoria peggiore della mia vita mi riempì le orecchie. Strizzai gli occhi, immobilizzata dalla paura e desiderando solo di non poter sentire più tutto quel rumore. Non avevo idea di chi stesse sparando e perché, ma non volevo saperlo. Volevo solo silenzio e lo ottenni. Ma durò pochissimo.
Il sogno si sovrappose alla realtà e delle immagini sfocate mi brillarono sotto le palpebre serrate: dapprima vidi Chris Argent affiancato da Allison e Gerard, poi mio padre. Un torrente violento d’emozioni m’investì a quella vista improvvisa, tanto che persi la concentrazione e la visione sfumò velocemente via dai miei occhi. Ma strinsi i denti e la catturai di nuovo, osservando Philip che affiancava Chris con un’aria a dir poco disturbata in volto.
«Smettetela di sparare!», urlò ad un passo dal viso del cacciatore. «C’è mia figlia lì dentro! È ferita!».
Solo allora capii. Phil mi aveva vista, proprio come io avevo visto lui. Ed era lì per salvarmi.
 
Mi resi conto di aver perso nuovamente i sensi solo nel momento in cui li riacquistai, sollevata da un paio di braccia che sapevo già avrei imparato a conoscere bene. Aprii piano gli occhi stanchi, cercando di abituarli al buio della centrale, e allora lo vidi. Philip Carter era lì di fianco a me, mi teneva tra le sue braccia e mi guardava come se fossi la cosa più preziosa del mondo intero, con quei suoi grandi occhi azzurri e lucidi. Avevo bisogno che qualcuno mi salvasse e lui era arrivato. Finalmente.
«Papà», soffiai, cercando inutilmente di stringere le dita sulla sua giacca profumata.
Ma ancora avevo la tossina in corpo e non riuscivo a muovermi bene. In più il dolore mi rendeva così tanto frastornata che temetti fosse tutto un mio stupido sogno. Ecco perché richiamai mio padre ancora ed ancora, finché lui non decise finalmente di rispondermi.
«Sono qui, bambina». Era lì. Sorrisi, socchiudendo gli occhi.
«Fa m-male». Da morire. Faceva male da morire, tanto che non mi sentivo più la gamba e riuscivo a malapena a respirare. «Non voglio morire».
Philip mi accarezzò piano i capelli incrostati di sangue, tirandomi meglio a sedere. «Non morirai. Siamo qui per salvarti».
L’utilizzo del plurale mi colpì immediatamente, per quanto avessi il cervello ormai fin troppo annebbiato dal dolore. Avrei voluto chiedergli a chi si riferisse, ma non ne ebbi la forza. Mi limitai semplicemente a seguire la direzione dello sguardo azzurro di Philip e la persona che vidi al suo fianco mi fece sgranare gli occhi dalla sorpresa. Non poteva essere.
«Mamma?», la chiamai, sperando con tutte le mie forze che non si trattasse dell’ennesimo doloroso sogno.
Ma Jenette Good – precedentemente in Carter – era sul serio lì, e la osservai mentre nella penombra della stanza abbandonava la sua posizione rigida per inginocchiarsi vicino a me. Al fianco di mio padre, il suo ex-marito, l’uomo col quale aveva deciso di mettermi al mondo.
Vederli l’uno accanto all’altra – come non mi era mai stata data la possibilità di fare – mi riempì gli occhi di lacrime. Non scoppiai a piangere solo perché mia madre mi parlò, distraendomi.
«Piccola mia», mormorò con la voce già rotta dal pianto mentre mi accarezzava con lo sguardo.
Ancora non riuscivo a credere che fosse sul serio lì – di nuovo insieme a me quando ne avevo più bisogno che mai – ecco perché feci un ulteriore test. «Non sono morta, vero?».
Philip scosse immediatamente la testa bionda, fissandomi con aria divertita mentre mi stringeva un po’ più forte nel suo abbraccio protettivo.
Ma io tenni gli occhi fissi su mia madre: era da lei che volevo sentirmi dire la verità. L’osservai a lungo, finché non la vidi trattenere un sorriso e scuotere la testa.
«Non sei morta, sei qui con noi», mi rassicurò, stringendomi forte una mano.
C’era ancora una cosa che avevo bisogno di chiarire. «Non mi odi?».
Jenette scosse la testa ripetutamente. «Non potrei mai, piccina. Ti voglio bene».
Non avevo bisogno di sentire nient’altro. Semplicemente sorrisi, lasciandomi poi andare al sonno esausto che pensavo di meritarmi. Mio padre non aggiunse nulla, limitandosi a sollevarmi tra le sue braccia. Lo sentii nel dormiveglia mentre ordinava a mamma di seguirlo e mi sembrò che dicesse qualcosa tipo: «Ti portiamo al sicuro, Harry», ma non ne sono sicura. Solo una cosa sapevo per certo: ero finalmente salva.
E avevo di nuovo una famiglia.
 
 
 
 
All lies into a degree,
losing who I wanna be.
 
 
 
 
Ringraziamenti
Agli Avenged Sevenfold, perché
Save me è la meraviglia e mi ha ispirata un sacco. Sono una fan del genere di musica che fanno loro, eppure ho sempre creduto che non mi sarebbero piaciuti. Save me ha dimostrato l’esatto contrario e sono molto felice di averla scelta per questo capitolo.
 
Note
Le sentite le campane che suonano a festa, no? Spero di sì, perché ciò significa solo una cosa: pace. Avete capito bene, finalmente è arrivato il momento! D’ora in poi vi prometto che le cose si appianeranno sempre più, anche se i nostri guerrieri avranno ancora qualche altra piccola battaglia da affrontare (e per chi ricorda gli avvenimenti della 2x11, capirete già cosa intendo).
Anche se non è ancora niente di definitivamente tranquillo, la situazione si è già risolta in più punti e davvero manca pochissimo perché ogni nodo venga al pettine e il puzzle sia completo anche stavolta. Solo pochissimi capitoli ci separano dalla fine ed io sono davvero orgogliosa di questo ennesimo viaggio che ho fatto insieme a voi e di come ho sviluppato kaleidoscope. Spero che penserete altrettanto!
Matt ormai è fuori dai giochi, ma per Victor… Ecco, non chiedetemi di Victor perché ancora non so cosa ne farò di lui. AHAHAH. Ma riguardo alla sua scena, non avete notato niente di strano? *hint-hint*
Vi giuro che saprete tutto quando sarà il momento (nel prossimo capitolo ci saranno altri indizi consistenti). Ma nel frattempo… Jenny is heeeere! E anche se Cassandra ancora non s’è vista, vi assicuro che c’è anche lei. La mia bimba ha sul serio di nuovo una famiglia.
   
 
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