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Autore: Lusivia    02/11/2015    3 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Desclaimer : Il racconto presenta l’inserimento di personaggi inediti (copyright di Lusivia),cui vicende s’intrecciano con quelli presenti nella storyline originale della Ubisoft. L’opera non ha alcun scopo di lucro.


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                                                                                         Capitolo 1

                                                 Se non lo prendi sul serio, non può farti del male.







Ciò che non è preso sul serio, non può farti del male.

Certo che no, altrimenti i vampiri nascosti nell’armadio, i mostri sotto il letto e i troll che vivono nel sottoscala dimezzerebbero la popolazione infantile nell’arco di una sola notte, e nessuno potrebbe dare una spiegazione logica a tutto questo, perché, si sa, i mostri sono solo le manifestazioni incorporee delle nostre paure.
Eppure, per i bambini e tutto così reale.
Loro li vedono, i mostri, e sono convinti di sentirli sussurrare nella notte, anche se i loro genitori hanno controllato sotto i loro letti almeno un centinaio di volte, e, nonostante la scienza smentisca ogni possibilità che accada una cosa simile, la stanza si tramuta all’improvviso in un oscuro regno di ghiaccio.
C’è una grande paura in ciò che non si riesce a capire, o controllare, specialmente se ci si accorge che esso vive solo nella tua testa e che nessuno, neanche i tuoi genitori, possono impedirti di provare nelle viscere quell’indescrivibile senso d’angoscia.
Poi, un bel giorno, capisci che ciò che non va sei solo tu.
E questo fa molto più paura di qualsiasi volto mostruoso che fa capolino sul bordo del letto.
La paura ha una soglia ben precisa che deve essere superata, perché oltre essa, il nostro corpo reagisce al gelo paralizzante con un caloroso impeto di difesa.
Ci si convince, insomma, che ciò che vedi non è reale, anche se è lì, davanti a te, con tutta la sua logica implacabile.
Se non lo prendi sul serio, non può farti del male, e se diventa un gioco non potrà mai toccarti oltre il confine tra realtà e finzione.
Peccato che, nel mio caso, quel confine fosse stato cancellato da tempo.
Una folata d’aria frizzante portò con sé l’aroma del bosco circostante e dei bei fiori d’Aprile, che avevano invaso la vallata e popolato il grande giardino di casa mia, giungendo sulla cima del tetto assieme al fruscio lussureggiante degli alberi e l’odore distante di pioggia.
Per una frazione di secondi le sue gentili raffiche mi gonfiarono i capelli come vele, la maglietta grigia si sollevò all’altezza dell’ombelico e le braccia si aprirono per assorbire l’impatto senza perdere l’equilibrio nelle gambe, tutte avvolte da un paio di jeans scuri.
Mi travolse per pochi attimi, portando con se i frammenti della foresta circostante e gli echi delle grandi rocce innevate di confine tra il Bel Paese e il Vecchio Mondo, nel cui mezzo c’era una certa valle immersa nel verde e custodita dai grandi occhi grigi dei giganti di pietra tutt’intorno, nonché miei amabili vicini di casa.
Non appena le raffiche cessarono, riaprii gli occhi iniettati di bellezza e li rivolsi sull’immensa distesa incontaminata che era la mia dimora dal giorno in cui venni al mondo, provando subito un immenso senso di smarrimento come ogni volta che salivo sul tetto.
Imparare è sempre molto difficile, soprattutto se non si hanno mentori ma solo un disperato bisogno di vedere il mondo dall’alto, in una prospettiva meno squallida, tuttavia, nessun polso slogato o costole incrinate valeva la vista del mio primo crepuscolo riflesso sulle tegole rosse del tetto.
Improvvisamente, proprio sul filo dell’orizzonte tra il bosco e casa, comparve sul selciato una macchina grigia metallizzata che prese ad avvicinarsi a tutta velocità.
Come poteva esser già qui!
Un tumulto lungo la colonna vertebrale risvegliò i miei piedi e subito cominciai a percorrere in discesa le tegole lisce del tetto, rischiando per due volte di scivolare prima di arrivare a bloccare i talloni sulla grondaia, dunque approfittai del precario equilibrio e ritornai ad avanzare verso la veranda di camera mia.
Allungai la mano per aprire il gancio della finestra, quando il piede destro perse la presa sul tetto e mi ritrovai a scivolare per un instante interminabile prima di aggrapparmi con tutta la forza al tetto della mansarda più in basso.
Il contraccolpo contro la sporgenza mi spezzò il fiato in due, per una frazione di secondi pensai di lasciare la presa, ma non appena abbassai gli occhi sotto di me capii che sarebbe stato un errore fatale.
La macchina, nel frattempo, si era fermata in prossimità dell’uscio di casa e una figura in nero era appena uscita dal suo abitacolo.
La guidatrice era una donna con la carnagione scura e liscia, con gli occhi fulgidi e talvolta sfacciatamente sensuali che lasciavano chiunque interdetto quando, superato l’incanto iniziale delle sue movenze pacate e ben misurate, abbassavano lo sguardo sul suo corpo snello e incappavano nell’abito grigio dell’ordine delle Canossiane.
Suor Agata era una donna decisamente troppo smaliziata per indossare il velo, erudita tanto quanto sfacciata, un po’ saputella e decisamente severa, soprattutto con la sua figlioccia appesa tra la vita e la morte sul tetto di casa.
Prima che potessi rischiare d’incappare nel suo sguardo vagante, ritornai con il collo dritto e feci tutta la forza che avevo per issarmi di nuovo sul tetto, dunque, corsi verso la finestra della mia camera. Entrai con un balzo sgraziato, la caviglia si piegò e in meno di un secondo mi ritrovai con la faccia schiacciata contro il pavimento, ma, per lo meno, salva.
Mi alzai sui gomiti con un rantolio dolorante, cercai un appiglio sul davanzale e, una volta ritrovato l’equilibrio sulle mie gambe, richiusi le vetrate per abbandonarmi contro la loro superficie.
La mia camera era molto simile a quella in miniatura di una bambola, le pareti erano color nocciola e i tendaggi di un tenue panna che si allineava con i drappeggi del letto in noce chiaro e il piccolo angolo da tè con tanto di poltrone e cuscini in pizzo sangallo.
Era calda e accogliente, un ottimo luogo dove poter rimuginare in solitudine senza sentirmi necessariamente in obbligo di fingere un sorriso, perché solo quando ero lì, coccolata dall’aroma di vaniglia e quello secco dei libri, potevo davvero sentirmi come qualsiasi altra ragazza della mia età.
Mi diressi un po’ zoppicando verso l’armadio con specchio e spalancai le ante con un braccio, facendo subito balzare fuori i tessuti pomposi e i pizzi costosi degli abiti provenienti dalle boutique dei centri storici delle più grandi città del mondo; Londra, Francia, Amsterdam…
Odiavo ogni singolo capo.
Armata di tanta pazienza, infilai le braccia tra la marea di tessuti e bottoni alla ricerca dell’abito regalatomi il giorno del mio diciottesimo compleanno, quello blu scuro dalla linea semplice e le rifiniture nere. Se non ricordavo male, quello proveniva da una boutique francese.
Non appena sentii il suo tessuto sotto le dita, tirai fuori il vestito e lo appesi allo specchio per potermi spogliare velocemente, ma, non appena mi ritrovai con il solo intimo addosso, provai un enorme senso di disagio.
Durante la crescita non mi ero mai confrontata con i canoni estetici tra i miei coetanei, perché non avevo mai frequentato una scuola pubblica, giacché c’era Suor Agata a provvedere per la mia istruzione sin da quando ero una bambina, ma, ora che ero diventata una giovane donna, non potevo non chiedermi se andassi bene così com’ero.
Ero molto alta e pallida, i fianchi prorompenti e le curve morbide e generose, per nulla filiformi, ma le scappatelle frequenti sulla cima del tetto avevano contribuito a rendere i muscoli tonici e in forma, per lo meno.
I capelli, poi, erano eccessivamente lunghi, una cascata di cioccolato fondente che arrivava fino in vita, mentre gli occhi, belli grandi e pieni di ciglia folte, rendevano il mio sguardo sempre un po’ troppo melanconico. Mi sforzai di tirare gli angoli della bocca all’insù, esponendo il diastema tra gli incisivi, ma neanche il mio riflesso credeva a quel sorriso; ormai, aveva imparato a guardare oltre la fessura dei denti e a scendere nella profondità del mio animo, lì dove c’era sempre un gran rumore.
Un rumore assordante, crepitante, sofferente, ma non sapevo se fosse mio o della bestia che mi crescevo dentro e che divorava sempre più spazio, schiacciando giorno dopo giorno il sussurro flebile del mio spirito fino a piegarlo del tutto.
Ma, per mia fortuna, il dolore era stato un buon insegnante: mi aveva tenuto nelle sue grinfie finché non avevo imparato a non provare più nulla, neanche il suo effetto.
Grazie a lui, adesso mi sentivo un po’meno responsabile della mia vita e potevo guardarmi tutti i giorni nello specchio senza odiare ciò che avevo scelto di diventare: me.
Un improvviso rumore di passi nel corridoio catturò la mia attenzione.
Senza indugiare oltre sui miei inutili vaneggiamenti, indossai l’abito appeso sulla gruccia e, una volta richiuso l’armadio, m’infilai sotto le coperte esattamente un istante prima che Suor Agata aprisse con la sua solita irruenza la porta della mia camera.
– Buon giorno, Laura. – mi salutò educatamente. – Hai fatto colazione?
Il mio diastema fece capolino con un sorriso. – Buon giorno, Agata. Sì, ho fatto colazione e anche messo da parte della pizza per te, se ti va più tardi.
La donna si chiuse la porta alle spalle, dunque avanzò con la borsa di pelle nera per i libri scolastici stretta sotto l’ascella. – Pizza? – domandò sorpresa – Di prima mattina?
Io feci spallucce. – Visto che devo provvedere da me per la colazione e il pranzo, almeno mangio qualcosa che non sia verde e dal sapore amaro.
– La verdura ti fa bene, Laura, e devi mangiarla. – disse, prendendo la sedia dalla mia zona di studio.Rimase a sguardo chino sulle sue ginocchia per un po’, poi tornò a guardarmi con aria complice. – La pizza di cui parliamo… per caso è alle acciughe?
Risi di gusto. – Ovviamente, che pizza sarebbe, sennò?
Anche la donna accennò a un sorriso entusiasta, ma lo pressò subito dopo tra le sue labbra scure e carnose. –Magari la mangeremo dopo aver svolto il nostro dovere. Allora, Laura, sapresti farmi un riassunto della lettura per oggi?
– Lettura? Oh… sì, certo, la lettura! Ecco, c’è stato un contrattempo: l’impasto della pizza era finito ovunque, sul piano cottura e sul pavimento, insomma un disastro per scrostarlo via.
Aggrottò la fronte con scontento. – Sicura? Perché, sai, ho quasi avuto la ridicola impressione che tu fossi appesa sul tetto, qualche istante fa.
Nascosi il nervosismo con una risata sguaiata – Io? È ridicolo! Insomma, il mio polso non si è ancora ripreso dall’ultima caduta sulla mansarda!
La suora non parve molto convinta del mio viso serafico ma anche quella volta non mancò di sciogliere la sua gelida compostezza in una cauta apprensione.
– Laura, lo sai come la pensa tua madre. Non vuole che tu faccia sforzi inutili mentre è via per affari, né, tantomeno, che tu ti arrampichi sui tetti scivolosi di casa. – mi ammonì e spinse la sedia difronte al mio letto, dunque si accomodò e prese dalla tracolla il libro arancione di filosofia.
Io la guardai tra l’insofferente e il rassegnato, consapevole di non poter nulla contro la parola autoritaria della padrona di casa, la pluripremiata scienziata cui servigi erano così preziosi da esser richiesta ogni mese in un posto diverso del globo, e li rimaneva per settimane, se non mesi.
Mia madre si chiamava Erica, ed era la donna che tutti avrebbero voluto essere: alta e snella, maestosa come una leonessa dalla chioma bionda e fiera come una regina, intelligente, con abiti sofisticati e un invidiabile capacità di rimanere in equilibrio sui tacchi a spillo per ore.
Incantava tutti, perfino me, sua figlia, ma a conti fatti ero pressoché un’estranea che la osservava da lontano solo sette giorni al mese e che anelava per esser come lei.
Non sarei mai stata come lei, perché qualcos’altro aveva deciso così per me.
– Dove sei arrivata con la lettura di Hegel? – domandò Agata mentre sfogliava il suo libro.
Io feci un sospiro distratto – Alla biografia. – dissi e mi allungai a prendere il mio volume di testo sulla scrivania.
– Ma… è la prima pagina, Laura!
Mi strinsi nelle spalle e agguantai la matita nel portapenne.
– Va bene… resta concentrata, per cortesia. Oggi abbiamo parecchio da fare. – decise di lasciar passare la mia mancanza con una paziente scrollata di spalle, dunque prese la pagina bloccata dal segnalibro e cominciò a leggere.

* * *

Scoprii di aver la schizofrenia all’età di cinque anni.
Un’età fortunata, per così dire, perché ai bambini è concesso di smussare gli spigoli dolorosi di un’esperienza troppo complicata da poter esser compresa da una mente così semplice, e, in effetti, la mia mente riuscì benissimo a salvarmi dalla triste realtà per un bel po’.
Ancora adesso, i ricordi si mescolavano in continuazione, creando brevi lampi di lucidità troppo distorti e imprecisi per poterci fare un’analisi psicologica, ma con l’esperienza avevo imparato a tradurre i sogni d’infanzia in ciò che erano realmente: i sintomi di una malattia.
Comparve la prima volta un po’ per caso, durante una di quelle serate in cui fuori pioveva e mia madre era in sala da pranzo a sparecchiare la nostra cena per due, e in quell’occasione si presentò con un volto umano.
Stavo giocando alla conta delle scale e saltavo i gradoni con un solo piede per rendere la cosa più interessante, quando, arrivata in cima alle scale, mi voltai esultando e incappai in una figura estranea al centro dell’atrio di casa.
I miei piedini si bloccarono sul pianerottolo, la bocca si dischiuse per lanciare un allarme, quando il ragazzo sorrise e pressò l’indice sulle sue labbra, istigandomi a tacere.
Aveva degli abiti strani, come se fossero fatti di luce bianca, e la pelle era scura come quella della terra in ombra, sui cui spiccavano due sfere dello stesso colore della brina azzurra che si posava sui pini attorno casa nella stagione invernale.
Quando poi mia madre entrò in corridoio per chiedermi di prepararmi per il bagno serale, il giovane intruso si era dissolto nel nulla, lasciandomi paralizzata nel mio stesso sgomento.
I giorni successivi tornò spesso a farmi visita e, anche se io lo ignoravo, lui continuava a seguirmi per le aree della casa, talvolta sostando cavalcioni su qualche mobile per osservarmi mentre giocavo distrattamente con le bambole, nella speranza che sparisse come la prima volta.
La cosa m’infastidiva, ma allo stesso tempo mi riempiva il cuore di una tiepida gioia, perché, compresi man mano, la casa era meno silenziosa grazie ai suoi saltelli da un mobile all’altro.
Alla fine, supponevo avesse conquistato la mia simpatia a furia di smorfie e sorrisi inattesi che mi rivolgeva se alzavo lo sguardo su di lui, e immancabilmente distoglievo il volto con espressione stizzita, senza rendermi conto che il mio viso arrossiva, il respiro accelerava e il mio piccolo cuoricino tremava un po’.
Suor Agata diceva che dovevo esser una bambina speciale, se un certo signore che viveva oltre le nuvole aveva deciso di mandare per me il suo angelo più bello, e ,alla fine, finii col crederci anch’io.
Allora, non potevo di certo sapere che ogni sua visita mi stava portando un passo più vicino al giorno in cui il dolce sonno della mia infanzia si sarebbe tramutato in un incubo rosso.
– La morte non è altro che la rinascita dalle macerie.
Sollevai di scatto gli occhi dal foglio e impiegai qualche istante per metter a fuoco il volto spigoloso di Suor Agata, che mi fissava come se fosse in attesa di qualcosa.
– Come? – balbettai.
Lei alzò gli occhi al cielo – Hegel, Laura. La concezione filosofica della morte intesa come rinascita di un nuovo uomo. – riassunse brevemente il contenuto della lettura che aveva appena fatto, ma che io non avevo ascoltato minimamente.
– Ah…sì, morte. Giusto. Creiamo un superuomo che vinca la morte.
– Cosa? Ma hai sentito ciò che ti ho detto per quasi un ora?
Serrai le labbra con imbarazzo, poi scossi piano la testa e tornai a guardare il foglio bianco su cui avevo preso a scarabocchiare per ammazzare il tempo.
Trasalii dalla testa ai piedi quando realizzai di aver ritratto per metà il volto sbiadito dell’angelo dagli occhi gentili e per una manciata di secondi fui presa da un vago senso di panico.
Stava iniziando.
Mi umettai le labbra con nervosismo, dunque lanciai il disegno e il libro di filosofia in un angolo del letto. – Credo di dover prendere le medicine. Comincio a disegnarlo.
Era sempre così; ogni volta che la schizofrenia incalzava, cominciavo a disegnare gli occhi dell’allucinazione ; non sapevo perché, ma spesso mi ritrovavo con il ritratto per metà realizzato senza che me ne rendessi conto.
Onestamente, la cosa mi turbava sempre molto.
– Oh, beh, allora, vai pure. Ehi, ripassa la lezione, mi aspetto per domani un riassunto dettagliato e, possibilmente, degli schemi scritti.
– Va bene.
Mi alzai di peso dal letto e sorpassai Agata mentre questa aveva cominciato a cercare sull’indice del libro gli argomenti della prossima lezione, quando un pensiero sbadato uscì dalla sua bocca.
– Un tempo, sorridevi spesso, ed eri piena di meraviglia e amore. – osservò – Cosa è successo a quella bambina radiosa?
Mi bloccai in prossimità dell’uscio, dicendo – Vorresti forse che tornassi al periodo in cui parlavo la lingua del demonio? O, aspetta. Erano solo i deliri della schizofrenia.
– Non osare nasconderti dietro la tua acidità, ragazzina. Io voglio solo parlare.
– Non è acidità, la mia, ma negativismo, un altro ricordino della schizofrenia. Ricordi? Scusami, ma ora devo proprio andare. – tagliai corto e aprii la porta sul corridoio.
– Parlavi con le allucinazioni, Laura, e desti a una di loro anche un nome.
Esitai, tirai un sospiro e dissi – No, ti sbagli. L’unica allucinazione con cui parlavo aveva già un nome, e fu proprio lui a dirmelo.
Detto questo, uscii a passo svelto in corridoio e mi lasciai alle spalle il pianerottolo per percorrere le scale verso il piano inferiore, superando le grandi stanze della piccola magione di famiglia mentre erano ancora immerse nel loro perenne silenzio surreale.
Entrai nell’ufficio di lavoro di mia madre, una stanzetta con le pareti di un rosso acceso provvista di scrivania, un enorme quadro raffigurante un veliero sul camino e almeno mille tomi di medicina, astronomia, storia e cucina disposti nella libreria.
Essendo rilegata in casa da praticamente una vita, avevo riletto tutti i miei libri e mi ero cimentata perfino sui volumi di fisica quantistica che mia madre consultava ai tempi dell’università, quindi potevo ben dire di avere una conoscenza enciclopedica.
In ogni caso, non mi sarebbe servita a niente, giacché ero abbastanza convinta che mia madre e la suora avessero preparato per me una vita da monastero, ma dubitavo ugualmente che le altre novizie avrebbero voluto una ragazza che parlava fluidamente la lingua infernale.
Mi portai pigramente verso la scrivania della stanza e aprii il cassetto in basso a destra, presi dal suo fondo un flacone trasparente con l’etichetta blu e spostai la poltrona girevole con un calcio, abbandonandomi di peso con l’amarezza sul volto.
Analizzai distrattamente le piccole sferette bianche che riflettevano attraverso la superficie, deglutendo il loro pessimo sapore ancor prima di saggiarle, giacché, oramai, ero così abituata al loro sapore amaro da poterlo sentire ogni volta in bocca con l’esatta consapevolezza che quella fosse l’ennesimo tassello di una catena infinita.
Il primo anello della serie, però, lo ricordavo perfettamente: arrivò in un pomeriggio di fine primavera e aveva il colore lucente del sangue vivo, cui riverbero accecò per sempre la mia innocenza, strappandomi per la prima volta dall’illusione in cui avevo vissuto fino a quel giorno.
La schizofrenia si era finalmente mostrata con il suo vero sguardo, ed era giallo come la paura, che mi schiacciò in un baratro che più profondo di così non si poteva.
La mia mente si era aperta in due, le immagini davanti a me si creparono e deformarono fino a diventare illeggibili, tuttavia, qualcosa di quel ricordo era riuscita a sopravvivere dopo tutti quegli anni. Gli occhi spalancati dell’angelo raggomitolato in un angolo della stanza, mentre, esanime in una pozza di rosso, guardava impotente l’uomo che lo aveva ucciso avvicinarsi a me con gli artigli zuppi di sangue.
I ricordi di quel momento s’interrompevano un attimo prima che quella mano assassina arrivasse ad acchiapparmi sul letto, ma ancora ricordavo il passo pesante di quegli stivali consumati e scoloriti.
Qualcosa era cambiato, da quel giorno, e sia io che mia madre avevamo capito nella maniera più feroce che la nostra normalità ci era stata strappata via in pochi, irripetibili istanti.
Poi, un giorno, la speranza si riaccese con l’arrivo a casa di una scatola piena di psicofarmaci.
Bastava che continuassi a prendere le compresse, ed io e mia madre avremmo potuto tornare come un tempo. Bastava che ingoiassi quelle sferette bianche nel flacone, e tutto sarebbe andato per il meglio.
Io non ero pazza. E mia madre sarebbe stata di nuovo felice di starmi accanto.
Sì, era così.
Però, adesso, ero di nuovo sola.
– Dovresti metter più spesso quell’abito, sai? L’ho pagato davvero molto ed è un peccato che tu lo preferisca a quelle squallide magliette dell’Hard Rock.
Alzai lo sguardo quasi per inerzia, attirata dalla voce in direzione della porta, e fu allora che incrociai gli occhi verde brillante di mia madre.
Come sempre, anche dopo un estenuante viaggio in aereo, era impeccabile: i tailleur grigio non erano per niente spiegazzati, il volto roseo freddato in un’espressione composta e i capelli, portati corti da qualche anno, erano raccolti in una crocchia perfetta.
Ma come, era passato già un mese?
– Beh? – chiese. – Non vieni ad abbracciare tua madre?
Esitai per poco dietro la scrivania, dopo di che mi alzai e andai ad abbracciarla.
– Ben tornata, mamma. – sussurrai contro i suoi vestiti.
Lei non disse nulla, solo mi baciò la fronte e mi tenne stretta a se per un altro po’, mentre io ero completamente paralizzata dal timore di rovinare quell’evento così timido e impacciato.
Il collo alla diplomatica della camicia era impregnata dall’aroma di forza e autonomia, ma anche da un velo di tristezza e maternità.
– Agata è qui? – domandò poi.
Mi allontanai per vederla meglio in volto e notai che i suoi begli occhi verdi erano gonfi per la stanchezza. – Sì, abbiamo appena terminato una lezione. Mamma, sembri stanca. La conferenza in Spagna è stata stressante?
– Ah, niente d’ingestibile! – cercò di rincuorarmi con un sorriso sfatto. – Sai come funziona, Laura: loro propongono le proprie ricerche credendo di aver fatto una grande scoperta, e poi arrivo io, che ridicolizzo i loro risultati come fossero scolaretti di prima elementare.
– Insomma, la solita modesta.– sorrisi.
La donna ricambiò il sorriso con una carezza sui miei capelli, finché il suo sguardo non ricadde volontariamente sull’etichetta azzurra degli psicofarmaci.
– Vedo che abbiamo quasi finito la dose di questo mese. – osservò, facendo scivolare la mano con pesantezza – Sei stata precisa nel prendere le compresse negli orari prestabiliti? Sai che non puoi tardare, Laura, altrimenti cominci di nuovo a star male.
Ecco che lo faceva di nuovo. Non appena avevamo qualche minuto per noi, lei erigeva un muro impenetrabile e concentrava tutti i suoi pensieri sulle scorte a disposizione in casa.
Poggiai stizzita la mano sul suo braccio, indietreggiando di due passi verso la libreria. – Tranquilla, mamma, sto male solo se prendo i farmaci. In oltre, Suor Agata è scrupolosa almeno quanto te. Mi controlla per bene e si assicura che prenda fino all’ultima compressa.
– Laura, per favore, non iniziare.
– Iniziare cosa?
– A parlare senza la giusta misura o riguardo, come quella volta che spiattellasti ai quattro venti che eri diventata atea, così, senza tatto per Suor Agata.
– È una mia scelta personale, mamma, ma non per questo non rispetto la spiritualità altrui.
– Non è questo il punto, Laura. Sai, dovresti smetterla di nasconderti dietro la scusa del negativismo e riflettere sulle conseguenze delle tue azioni, perché coinvolgono anche gli altri. Non sei più una bambina, lo capisci?
Non risposi, solo mi presi qualche minuto per assorbire il colpo con totale indifferenza, come ogni volta che aprivamo quell’argomento, o ci trovavamo in disaccordo su qualcosa; praticamente, sempre.
– Hai bisogno di qualcosa, mamma? Perché io dovrei studiare. – cercai di tagliare corto alla discussione, indirizzandomi a passo spedito verso la grande libreria a sinistra.
Sentii la donna sbuffare sonoramente mentre prendevo a passare in rassegna con l’indice il dorso dei tomi di medicina, fingendo di cercarne uno in particolare solo per evitare di affrontarla direttamente.
Poi, dei tacchi a spillo che si avvicinavano alla scrivania e, subito dopo, il peso di un corpo slanciato che si abbandonava stanco sulla poltrona girevole.
– Laura, guardami.
Alzai lo sguardo dallo scaffale in basso, esitai, poi le gettai un’occhiata da sopra una spalla.
Adesso che la sua postura era un po’ più sciolta, diventava evidente quanto Erica fosse provata per il viaggio, infatti si era appoggiata con i gomiti sulla scrivania e teneva la testa tra il pollice e l’indice tirato sulla tempia.
– Va bene. – dissi e mi girai ad affrontarla di petto – Scusami, sono stata maleducata. Ma sai quanto divento nervosa se non prendo gli psicofarmaci.
Annuì distante. – Capisco. Ebbene, ti porterò via poco tempo. Durante il mio viaggio di lavoro, ho incontrato un vecchio amico che non vedevo da tanto tempo. Abbiamo lavorato insieme, in passato, e adesso avrebbe una grossa opportunità di lavoro in Scozia, ma è un lavoro complicato che richiede parecchio tempo.
– D’accordo…
– Ciò che sto cercando di dirti, Laura, è che mi ha offerto la possibilità di visitare i nuovi centri di ricerca vicino ad Aberdeen. Sai, lì avrei la possibilità di confrontarmi con nuove e geniali menti, per non parlare degli strumenti di laboratorio…
– Ma.. è meraviglioso, mamma! E dimmi, quando parti?
La donna esitò, visibilmente nervosa. – Ecco… una settimana prima della vigilia natalizia.
Silenzio.
Poi, una risata tesa vibrò nella mia gola.
– Ma… ma è poco prima del mio compleanno, mamma.
Erica deglutì la secchezza alle fauci. – Lo so.
Mi staccai dalla libreria, le unghie si conficcarono nervosamente sui palmi e il petto venne pervaso da una ramificazione dolorosa, che alzò di un’ottava la mia voce quando esclamai – Non puoi farmi questo! Ti rendi conto che, se manchi tu, io festeggerò il mio diciannovesimo compleanno totalmente sola?
– Non saresti sola, Laura. Ci sarà Agata con te, come tutti gli anni.
– Non provare a rabbonirmi! Ho accettato per anni la tua assurda condizione sui compleanni, ho festeggiato ogni singola candelina in solitudine nella sala da pranzo di casa, senza nessuno che mi cantasse gli auguri, né amici, né parenti, perché tu hai deciso così!
Erica spinse indietro la sedia con le ginocchia, tendendosi nella mia direzione con il dito puntato su di me. – Ne abbiamo già parlato, mi pare. Non l’ho deciso io tutto questo, Laura. Né io né tuo padre…
Il mio cuore s’incrinò dolorosamente.
– Non nominarmi quel bastardo codardo!
Il boato di uno schiaffo su una guancia indifesa, e subito avvertii la carne arrossarsi nell’esatto punto in cui Erica mi aveva compito senza pietà, ciononostante non versai una sola lacrima, non ci riuscivo.
Faceva male, ma non fisicamente: era qualcosa di più vecchio e profondo.
La donna era ancora immobile in quell’atto brutale col petto, che respirava affannosamente ed occhi lucidi, quando, rabbrividendo, si pentì della sua azione e provò a rimediare con un abbraccio, tuttavia le sue braccia andarono a vuoto perché non le permisi neanche di sfiorarmi.
Fu un duro colpo da mandar giù per lei e la ferì abbastanza da indurla a infliggermi un ultimo, micidiale colpo.
– Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle: tu sei mia figlia e sei la discendete dei Chiaravalle, il casato di tuo nonno, lignaggio dell’illustre Bernardo il francese. Io ti ho partorito, io ti ho cresciuto e non ti ho fatto mai mancare nulla, tuttavia, non posso costringerti a portare rispetto per un uomo che non ti ha voluto fare da padre. Ma non scordare che, nolente o volente, lui fa parte di te. E faresti meglio ad accettarlo, come ho fatto io a mio tempo.
Detto questo, Erica uscì dalla stanza coi suoi tacchi a spillo, lasciandomi nel silenzio dei miei stessi pensieri.

* * *

Sull’etichetta delle indicazioni, gli psicofarmaci neurolettici provocavano rigidità dei muscoli, rallentamento dei riflessi, impotenza, pressione alta e altri disturbi di cui non ricordavo neanche l’iniziale.
Ero abituata a sentir soffocare il mio corpo e per questo, quando cominciai a provare una strana pressione contro la mia fronte, non ebbi il benché minimo sospetto, almeno finché non mi resi conto che avevo la mente completamente svuotata.
C’era solo una fittissima nebbia che oscurava ogni cosa.
All’improvviso, dei lacci caldi come la carne attorniarono le mie braccia e spinsero verso l’alto come per issarmi su dei ganci, dunque cominciai ad avanzare senza che il mio corpo fosse in grado di farlo, anzi, era del tutto penzoloni mentre veniva trascinato di peso lungo una superficie vischiosa e bagnata.
Iniziai a distinguere dei brusii, uno sciame di luci e colori imprecisi che si mescolavano in un'unica, grande macchia lucente, poi le prime sagome alte di palazzi e quelle umane di passanti, finché il mondo non si aprì dinnanzi ai miei occhi.
Strizzai gli occhi per focalizzare meglio i due individui che mi stavano trascinando di peso lungo la via, un brivido ridestò le gambe dal loro torpore e, prima che potessero accorgersi del mio risveglio, affondai di scatto i piedi nella fanghiglia e mi liberai dalla loro presa con uno strattone deciso.
Lo slancio del corpo mi mandò a sedere con uno scroscio sonoro in una pozzanghera, l’abito s’inzuppò d’acqua impantanata e subito la bocca si spalancò per ansimare la sbigottimento, quando delle risate mi portarono a sollevare le ciglia umide verso l’alto.
Alcuni passanti si erano fermati ad osservare la scena e non avevano resistito all’occasione di perdere un po’ del loro inutile gironzolare per additarmi e deridermi apertamente, scombussolandomi ancor più di quanto quella doccia fredda non avesse fatto.
La fisionomia dei loro volti mi era totalmente nuova, dai tratti marcati e scuri, lucenti perle nere nascoste da una folta coltre di ciglia e dita scure che mi additavano da abiti rozzi e bislacchi, lunghi fino alle caviglie sia per gli uomini che le donne.
Vedevo turbanti, copricapi colorati, sandali sudici di fango e strada, ed ebbi la netta sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato. Era chiaro come il sole che i miei abiti stonassero nell’ambiente circostante.
Non sapevo dov’ero, ne come ci fossi finita. Ero bagnata e spaventata. Desideravo solo riscaldarmi e trovare un angolo buio dove potermi nascondere.
Mentre ero ancora atterrita dallo schiamazzare della folla, uno dei miei sequestratori si chinò cauto verso di me e tese la mano in segno di clemenza, ma, non appena poggiai gli occhi sulle lamine lucenti del suo guanto corazzato, arretrai col sedere di almeno due salti.
I due uomini che mi avevano catturato, notai, non erano dei briganti qualsiasi, bensì cavalieri
vestiti di calzettoni scuri e lunghe tuniche bianche con sopra una croce scarlatta, spade appuntite ai fianchi e camaglio coronato da un elmetto. Avevano un aspetto vissuto, forte, ma allo stesso tempo erano spaventati dall’essere in abito blu che avevano davanti.
– Arrivano, arrivano! – qualcuno nella folla cominciò a strillare.
La guardia inginocchiata a offrirmi aiuto si voltò indietro, completamente sbiancato in volto, e, non appena intuì il pericolo, cercò lo sguardo del suo compare quando lui era già scattato con il guanto sull’elsa della spada.
– Arrivano, sono sui tetti! – ripeté qualcun altro e, in quel preciso istante, un’ombra sul tetto vicino corse sui miei occhi, obbligandomi a sollevare di scatto il mento all’aria.
– Assassini, Assassini, Assassini!
Una donna scappò gridando, l’uomo al suo fianco piroettò freneticamente su se stesso e il suo vicino lo spinse via per darsi la fuga, finché quella reazione a catena non si diffuse a macchia d’olio; da un istante all’altro, la strada ghermita di gente si tramutò in una rete da mattanza.
Non sapevo cosa stesse accadendo, ma in quel momento ero così spaventata che volevo solo sparire da lì.
Dunque, approfittando della confusione di corpi e della distrazione delle guardie, mi rimisi a malapena in piedi sulla pozzanghera e diedi una grossa spinta alle mie gambe in direzione del sentiero di fuga comune.
Durante quegli istanti, tutto ciò che riuscii a pensare era correre.
Corri.
Spinsi una o due persone in prossimità di un imbocco verso una strada secondaria e fu a quel punto, mentre gli occhi si alzavano distrattamente verso il cielo plumbeo e umido, che vidi le facciate estranee di un complesso di case basse con finestre di legno forato. Qualcosa nella mia testa cominciò a suonare come una sirena, ma non riuscii a capire perché.
Qualcosa non andava.
Non dovevo trovarmi lì, non ero al mio posto.
Distolsi lo sguardo stravolto dagli edifici, la bocca si spalancò per prendere aria ma ciò che uscì fu un lamento sottilissimo, dunque costrinsi le mie gambe a tentare un ultima, disperata corsa.
Il flusso di fuga era diminuito notevolmente quando imboccai la via chiassosa di un mercato locale, che colpì in pieno viso i miei sensi per le infinite varietà di spezie colorate e per i tendoni dipinti a mano sulle centinaia di strutture in legno.
Anche lì, fui testimone del rovesciamento del pigro equilibrio dei passanti.
Le guardie di prima erano arrivate correndo nella strada, ferite e tutte imbrattate di sangue, una di esse si lanciò al centro della piazza e ordinò alla folla di disperdersi, quando, proprio sotto i miei occhi, qualcosa calò giù dal cielo e uccise il soldato davanti agli occhi di tutti.
Di nuovo, vidi la folla di persone tramutarsi in un orda di animali in fuga.
Non volli neanche sapere cosa fosse stato, né se l’uomo fosse ancora vivo, tutto ciò che volevo in quel momento era sottrarmi alla forza d’urto della gente che si strattonava, così incanalai tutte le mie energie nel setaccio delle bancarelle. Finalmente, inciampai nel telo arancione di una bancarella di spezie e, senza esitare oltre, corsi verso di essa.
Scivolai sotto l’impalcatura e lì, nascosta dietro il tendaggio, assistetti impietrita al turbine convulso di piedi e polvere, dunque udii i grugniti di un combattimento, il cozzare di lame, il sussulto di una gola sgozzata, poi la calma.
Un silenzio surreale.
Socchiusi la bocca a stento, per lasciare che la tensione spirasse assieme all’anidride carbonica dalle mie labbra, poi un rumore improvviso richiamò i miei occhi sul telo, lì dove, adesso, si proiettava l’ombra di un essere umano.
Non fiatai, non accennai neanche il benché minimo movimento quando, a filo dell’orlo arancione, vidi un paio di stivali di cuoio consumati fermarsi a qualche metro da lì.
Lentamente, staccia la mano dal petto e la portai all’altezza della bocca, premendo con abbastanza forza da uccidere il gemito che stava per erompere dal mio povero petto tremante.
In quel momento, desiderai disperatamente strappare il velo oscuro steso sulla mia memoria, sugli ultimi istanti di lucidità nell’ufficio rosso di casa, ma non ci riuscii, non potevo, ero terribilmente bloccata.
Mi tappai le orecchie con i palmi e chiusi gli occhi nella ricerca di un luogo sicuro, lontano da lì.
Una cameretta avvolta dall’antico lumino da notte cominciò a formarsi dietro le palpebre, qualcosa si fece strada nella penombra dei miei ricordi. Le labbra di mia madre che bisbigliavano certe parole vaporose.
“Non devi aver paura, Laura. Ricorda che ciò che non prendi sul serio, non può farti del male, quindi, anche se per la tua mente tutto è lecito, bada: non è reale.”
– Nulla è reale… – sussurrai. – Ma tutto è lecito.
Spalancai gli occhi, proiettandoli in una nuova e sbiadita consapevolezza, ma prima che potessi acciuffarla totalmente, prima che potessi risvegliarmi da quel sonno indotto, un guanto di cuoio scivolò sotto la bancarella e mi acchiappò la caviglia.
Strillai e mi dimenai come una pazza sul terreno, tenendo le palpebre sudate ben chiuse mentre venivo trascinata fuori dal mio nascondiglio buio e umido,
La prima cosa che vidi fu un bianco accecante, che circondava per intero una figura umana, poi una gran quantità di grigio cenerino che si appoggiava su delle spalle e saliva fino a una testa.
Per un momento credetti d’aver davanti un fantasma, o, peggio, ma, non appena la mai vista si riabituò alla luce naturale, mi resi conto con stupore che la famigerata ombra dei tetti non erano altro che un ragazzino incappucciato.
Non seppi dire con esattezza cosa ci trovai in quel volto nascosto per metà, bruno e sbarbato come quello di un sedicenne, ma lessi sulla sua bocca dischiusa in un respiro che doveva esser confuso almeno quanto me.
– Tu… chi sei? – chiese e il suo accento, chissà perché, mi parve subito strano.
La mia bocca rimase impastata, completamente bloccata, finché qualcun altro giunse nei pressi della bancarella con la sua spada intinta di sangue fresco.
– Che cosa hai trovato, Novizio?
Il giovane difronte a me non si alzò dalla sua posizione acquattata, bensì guardò l’uomo in avvicinamento da sopra una spalla – Ecco, è una fanciulla, Altaïr. Credo d’averla vista dal tetto mentre scappava dalle guardie.
La grande ombra bianca bloccò i suoi stivali consumati a pochi metri da noi, la barbetta gli si increspò in un sorriso lascivo e, con superba abilità nel braccio possente, ripose la spada insanguinata nella fodera al fianco.
Quell’individuo era visibilmente più maturo del suo giovane amico, con un corpo possente e ben disciplinato nell’arte del combattimento corpo a corpo così come con la spada, come ben si poteva intuire dal numero notevole di armi che portava con se, in oltre, differentemente dal ragazzo, che aveva un cappuccio cenerino, sul suo capo ne torreggiava uno bianco latte.
– Ebbene, allora dovrebbe tornare a casa dal suo maritino, questa bella colombella smarrita. – convenne l’uomo bianco, schernendomi con un cenno del mento che fece rabbrividire me e, di conseguenza, ghignare lui.
– Non dovremmo, innanzitutto, assicurarci che stia bene? – osservò il ragazzo in grigio.
Quello schioccò la lingua sotto il palato. – Da quando in qua ti prodighi per le puttane?
– Puttana? A chi hai dato della puttana, brutto pezzo d’asino!
I due guerrieri calarono gli occhi sconcertati su di me, l’uno avvampato in volto, l’altro con il giovane volto ammutolito per lo stucco.
– Oh, ma guarda, parla, allora. – commentò con una smorfia Altaïr – E anche troppo, direi, per una donna del lupanare. Comincio ad essere curioso. Ehi, ragazzina, da dove vieni?
Cappuccio grigio fece per dire qualcosa, ma il dubbio impresso sulla sua bocca lo costrinse ad ingoiare e ad attendere sott’occhio la mia reazione, che tardava ad arrivare, perché, se inizialmente ero spaventata a morte, adesso desideravo solo capire.
– Come ci sono finita in questo posto? Cosa sta succedendo? – domandai scossa.
– Non dovresti rispondere a una domanda con un’altra domanda. – ribatté saccente quello – È sintomo d’insicurezza. Stai forse nascondendo qualcosa?
– Altaïr, è solo una ragazza… – cercò di acquietarlo l’altro.
Quello rispose con una scrollata di spalle, allargando le narici in uno sbuffo mentre faceva incontrare le braccia sotto la grossa gabbia toracica. Io lo osservai, sentendo perfettamente il suo sguardo perforare il lembo di stoffa bianco calato sui suoi occhi e setacciare il mio volto con accuratezza.
Qualcosa lo contrariò profondamente, e di questo se ne accorse anche il compare, che decise a quel punto di intervenire con più dolcezza.
– Ascoltami. – si rivolse a me con un sorriso tenue – Comprendo il tuo spavento, di certo non dobbiamo essere troppo rassicuranti con questi cappucci e le armi, ma non ti faremo del male, hai la mia parola d’onore.
– Certo che no, sarebbe da codardi! – irruppe Altaïr, sciogliendo le braccia lungo i fianchi. – Ma è meglio non rischiare. Allora, vediamo un po’ cosa riesco a leggere su quel tuo bel visino?
Con un irruente spintone del polso, mandò a terra cappuccio cenerino e prese il suo posto dinnanzi a me, sedendosi sui talloni così speditamente da non permettermi di ritrarmi il tempo necessario per svincolarmi dalle sue dita uncinate.
Le ginocchia affondarono nella terra e il mio peso cedette in avanti, sorretto dai palmi aperti, mentre cappuccio bianco mi tirava a se con l’intenzione di spogliarmi l’anima velo dopo velo.
In un attimo, mi ritrovai con la mandibola intrappolata e gli occhi costretti a guardare l’anima giallastra dei suoi occhi, evanescenti e spettrali sul volto del bellissimo uomo siriano.
Fu come se l’anima mi stesse bruciando in petto.
D’un tratto, vidi i suoi occhi assottigliarsi in un’espressione disorientata. – Interessante…
Difronte al suo sorriso lascivo, cappuccio grigio si fece coraggio e lo afferrò saldamente per una spalla, provando a dissuaderlo. – Adesso basta, mentore, lasciala stare…
Mossi il ginocchio in fretta, un colpo secco all’altezza dell’inguine dell’uomo appena distratto, e immediatamente sentii le sue dita contorcersi per il dolore sulla mia mandibola.
Non appena quello mi ebbe offerto il suo fianco corazzato, su cui si dispiegava una fila di coltellini da lancio, gli sottrassi goffamente una lama.
L’uomo si voltò con gli occhi gialli che lampeggiavano, tese il corpo in un ringhio animalesco e immediatamente reagii gettando in avanti il pugnale stretto in mano, che si scontrò con la sua bocca e lo costrinse a indietreggiare.
Il suo compare ebbe appena il tempo di strabuzzare che vide il più vecchio piegarsi su se stesso e con la mano insanguinata stretta sulla bocca, sicché non riuscì a reagire quando mi vide strisciare via e rimettermi a malapena in piedi contro la bancarella, dove cercai sostegno mentre setacciavo il mercato per una via di fuga. Fu a quel punto che vidi i cadaveri delle due guardie, crocifisse ai piedi della fontana allagata del loro stesso sangue. L’impatto visivo fu brutale, i polmoni si svuotarono per il terrore e ,non appena catturai il movimento cauto del ragazzo in grigio, che stava procedendo con il palmo aperto in avanti, crollai fragorosamente.
– Non osare avvicinarti a me, omicida! – strillai e agguantai un’oggetto alla cieca disposto sul bancone, tirandoglielo addosso con tutta la forza che avevo.
Il ragazzo schivò l’arancia volante con agilità, esclamando – Ti prego, non aggravare di più la tua situazione!
Invece di prestargli ascolto, gettai un’occhiata veloce sopra la spalla per individuare un’oggetto più pesante e, quando trovai un coccio pieno di curcuma in polvere, non esitai a lanciarlo con tutto il suo contenuto, che si cosparse sul corpo di quello in una nube soffocante.
Senza lasciare il pugnale con la lama tinta di sangue, mi lasciai alle spalle il mercato e scappai da quei due mentre erano ancora storditi dai miei tiri mancini, rifugiandomi nella zona est della città, su ponte di un putrido canale di scolo.
Mi fermai quando vidi Altaïr fermo dall’altra parte della sponda, con le grosse spalle tese nell’attesa di un mio prossimo scatto.
Come aveva fatto a precedermi così in fretta?
Le ginocchia mi tremarono per la paura, tentai di ripiegare indietro e finii col scontrarmi nel petto di cappuccio grigio, anche lui misteriosamente comparso dal nulla e ricoperto di polvere gialla . In un attimo, mi disarmò del pugnale e lo gettò a terra, dunque mi afferrò per i polsi prima che potessi ritentare qualsiasi tiro mancino.
– Cosa hai detto, prima, sotto la bancarella? – domandò svelto, con l’interno della bocca sporco di polvere gialla.
– Cosa? – balbettai.
– La frase che hai pronunciato! Chi te l’ha detta?
– Di quale frase stai parlando? Lasciami, dannazione, mi fai male!
Mi diedi una spinta con la schiena e riuscii a liberarmi da lui abbastanza per arretrare di pochi passi, finché non inciampai nel parapetto del potte con le ginocchia.
Il ragazzo mi agguantò per il braccio, io lo trascinai nel peso della caduta e in un attimo ci ritrovammo entrambi a sprofondare nelle acque putride del canale.




Angolo autrice:

Suppongo che siate confusi, o addirittura contrariati. Torno dopo tutti questi mesi, e che faccio? Riprendo da capo la storia? Ebbene, lasciate che vi spieghi quale diavolo mi abbia preso per arrischiare un progetto simile. Mi rendo perfettamente conto che è una mossa pericolosa la mia, perché potrei apparire insicura del mio lavoro, o noiosa, chissà, ma lasciate che vi dica quanto questo progetto sia stata una meraviglia per me, dalla sua nascita fino a questo punto. Non avrei mai pensato di arrivare fin qui, davvero. Avevo paura di lasciarmi andare troppo, credevo che sarebbe stato tempo perso, ma poi ho visto i primi commenti, le critiche, che mi hanno aiutato tanto a crescere ( chi sa capirà! ^^) e ,improvvisamente, mi sono ritrovata con dei lettori veri, scadenze e aspettative che non volevo assolutamente deludere. Potrà sembrare sdolcinato, ma mi sono affezionata a voi e, soprattutto, a questa storia, a cui purtroppo ho dedicato troppo poco tempo, ma ora capito che potevo far di meglio.
So che vi sto chiedendo molto, ma spero che mi seguirete in quest’ultimo, folle atto, altrimenti, sono comunque orgogliosa di ciò che ho fatto finora, perché proviene direttamente dal mio cuore.
Sostituirò man mano i vecchi capitoli con la nuova versione ( li distinguerete da quelli che non ho ancora aggiornato perché avranno l’immagine di copertina, in oltre, v’informerò direttamente dalla descrizione ), con la promessa, però, che la storia non subirà cambiamenti dal punto di vista narrativo. Andrò solo ad aggiustare e aggiungere dove servirà, ma non preoccupatevi, la storia è sempre quella ;)
Grazie. Di tutto.
E, con questo, ricominciamo.

Baci, la vostra Lusivia.
   
 
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