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Autore: Lusivia    01/01/2015    4 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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                                                                                     Capitolo 2
 
                                                                                      Prologo



                                              


Il corpo precipitò verso il richiamo delle acque, il calore di quelle braccia estranee che mi stringevano, il vento, un tonfo, il ticchettio del pendolo che scoccò le sei del pomeriggio.
Un gran mal di testa.
Aprii gli occhi molto lentamente, sentendo la punta di un pugnale immaginario spingere sempre più in profondità da tempia a tempia, finché non riconobbi il frusciare famigliare dei drappeggi damascati attorno al letto e, poco più in là, lo scroscio di una pioggerella sottile bagnare il davanzale della finestra.
Rimasi a fissare i vetri lucidi per qualche istante, poi distolsi lo sguardo e richiusi gli occhi in un sospiro dolorante.
Ero di nuovo a casa…?
O forse, non ero mai partita? Che fosse stata un’allucinazione? Così reale?
Scostai via le lenzuola, scivolando sul pavimento accompagnata dall’ondeggiare del pigiama in lino beige, dunque mi diressi indolenzita verso la finestra e riagganciai l’uncinetto di ferro al suo posto.
Una volta messo a riparo il pavimento dalla pioggia, piroettai sui talloni e m’incamminai verso il corridoio del piano, passando velocemente davanti allo specchio.
Non ricordavo di aver messo la mia camicia da notte di velluto color lavanda, né d’esser andata a letto alle sei del pomeriggio.
Uscii nel pianerottolo tappezzato di quadri e porte, procedendo in punta di piedi lungo il corridoio rosso, il volto rivolto verso le scalinate, poggiai il piede sul primo gradino di marmo e il bisbiglio delle travi cigolanti mi richiamò.
Analizzai silenziosamente gli usci delle numerose camere vuote finché una, in particolare, non accattivò la mia curiosità. La riconobbi anche se ero lontana, perché emanava un calore proprio, come se al suo interno bruciasse costantemente un incendio fantasma. Deglutii, dunque girai i piedi sul parquet e mi avvicinai alla porta, bloccandomi solo quando fui a un palmo da essa.
Negli ultimi tempi, stava diventando sempre più difficile ignorarne il divampare rovente lungo le mura, fin dentro la mia stanza, lusingandomi nel suo vortice con un richiamo antico, che sapeva di fumo e nebbia nera tra i ricordi manomessi della mia infanzia.
Era stato un incidente. Un inutile, maledettissimo incidente avvenuto tredici Natali fa.
Ricordavo che c’era tanta gente per casa, molti adulti e pochi bambini, e che la sala era stata invaso dalle loro risate e i brindisi tra le luci soffuse, un’enorme tovaglia rossa e le stelle natalizie disposte sul camino scoppiettante.
A giudicare dall’altezza dell’albero natalizio di quell’anno, dovevo esser alta poco più di uno scricciolo in abito rosso e rigonfio di pizzo bianco, con grandi occhi profondi e un viso tondo della luna, già allora circondato da un’aura stregante.
Buffo a dirsi, all’epoca amavo che mi si facesse vestire come una bella bambolina d’esposizione, fagocitata da tutti quei fiocchetti legati tra i capelli fini e le calzamaglie candide, ma quel giorno Erica aveva dato una particolare attenzione ai dettagli, per presentarmi al meglio a quella massa d’individui nella sala da pranzo di casa mia.
Non ricordavo i loro volti oltre quelle interminabili colonne che erano le loro gambe, tuttavia, c’era qualcosa nei loro sguardi che mi faceva sentire preziosa, i loro occhi estranei che mi studiavano, le bocche che bisbigliavano all’orecchio del vicino, perfino quei bambini composti che non avevo mai visto prima d’ora mi guardavano con aria di rivalità.
Ed io, con animo puro e incontaminato, che li giustificavo e ricordavo a me stessa che non avrei sminuito il giorno del mio compleanno per inutili invidie.    
Mia madre voleva che ogni cosa andasse per il verso giusto, quella sera, ed era visibilmente in ansia, tuttavia, dissimulava i suoi pensieri con sorrisi laccati di rosso ciliegia e movenze lente del bicchiere di spumante tra le sue dita pallide, osservando tacitamente le persone in quella stanza come fossero uno sciame di vespe velenose.   
Erica prese a parlare di fronte ai presenti con il bicchiere colmo di spumante quando oramai mancava poco allo scoccare della mezzanotte e, a quel punto, la sala si sarebbe riempita dello scoccare assordante del grande pendolo. Mentre i pesi d’ottone spostarono le lancette sull’ultimo rintocco, io mi ero già rifugiata nei piani superiori, tra le ombre tremule riflesse dai lampadari di cristallo nell’ingresso.
Ricordavo della carta damascata color crema, molto simile a quella nella stanza di mia madre.
Una porta laccata di bianco nascosta tra la finestra e il mobile.
Poi, brandelli di una luce insolita, un gran dolore alla testa ,il tepore accogliente della festa nel salone di casa.
Nessuno sapeva cosa fosse successo nella stanza quella notte, né io, né anima razionale.
Forse un’ombra minacciosa proveniente dall’esterno, o la rielaborazione esagerata di un rumore sinistro emesso dalle travi di casa, rimaneva, comunque, che qualcosa i miei occhi l’avevano davvero vista, ed era stato così terribile da far collassare la mente in se stessa.
Passò quasi un mese prima di ricollegare l’incidente al debutto della schizofrenia.
Mia madre era sconvolta. Non poteva perdonarsi per ciò che mi era successo, si riteneva responsabile in qualche modo e finì col chiudersi nella solitudine della sua stanza, perfino la mia situazione catatonica non riusciva a farle prendere una posizione di fermezza.  
Per quasi due anni io e mia madre fummo incapaci di riprendere il controllo sulla nostra vita.
E, quando mi risvegliai dal mio sonno, mi resi conto troppo tardi che lei aveva già deciso ogni cosa al posto mio.
Non mi fu più concesso andare a trovarla nel letto durante i temporali invernali, né entrare in camera sua per cercare il rossetto color ciliegia che metteva sempre, quella porta divenne il capolinea oltre cui il mio corpo non poteva spingersi, perché respinto da un’aura indecifrabile.
A pensarci bene, non sapevo come avessi deciso di non tornare più là dentro. Mi sembrava illogico aver paura, perché, se non lo prendi sul serio, non può farti del male.
Allungai la mano molto lentamente, con l’ombra di un inquietante presentimento sul collo, e pressai le dita sulla superficie liscia, sentendo subito una strana pressione risalire lungo il mio braccio.
Attesi qualche attimo e non accadde nulla, anzi, mi sentii abbastanza sciocca da volermi allontanare subito, prima d’esser vista da qualcuno, ma, non appena richiamai il braccio a me, sentii che le dita erano rimaste incollate.
C’era qualcosa, sotto i polpastrelli.
Tesi il collo per analizzare lo strano liquido rossastro più da vicino e avvertii subito un pungente odore di ferro infilarsi nelle narici.
Sangue.
Tirai la mano indietro e la porta lasciò andare volentieri le mie dita, indietreggiai di scatto e andai a sbattere violentemente contro il muro, spostando il quadro sopra la mia testa di qualche centimetro.
Portai le dita all’altezza delle pupille dilatate e il mio cuore si zittì all’istante.
Non c’era niente sui polpastrelli. Neanche la benché minima traccia di sangue, neppure sulla porta.
Sentivo che il corpo tremava ancora tutto quando vidi la porta della stanza aprirsi sul corridoio, facendo emergere la testolina bionda di mia madre, così indaffarata con le rotelle della sua valigia da non accorgersi che la stavo fissando.
Notai che aveva un abbigliamento insolitamente sciolto, una camicetta rossa dallo scollo accennato e un pantalone a vita alta che esaltava la sua figura esile e muscolosa.
Erica sollevò lo sguardo per un istante, incrociò il mio volto pallido e immediatamente le sue dita divennero come di ghiaccio, facendo cadere la valigia sul tappeto del corridoio.
– Mamma…– sussurrai – dove stai andando?
Un leggero panico le riempì gli occhi, poi si chinò per raccogliere l’impugnatura della valigia e, sorpassandomi con una piroetta perfetta, disse – C’è stato un contrattempo, amore mio. La mamma deve partire prima, ma stai tranquilla, tornerò prima della fine di questa settimana.
– Settimana? – ripetei, andandole subito dietro sulle scale – Ma i tuoi viaggi di lavoro non durano mai una settimana. E, soprattutto, non vai a un congresso conciata così.  Mamma. Che sta succedendo?
– Torna in camera tua. – mi ammonì e cominciò a trascinare la valigia verso il portico.
– Neanche per idea, non senza una dannata spiegazione! Avanti, cosa è successo, perché stai scappando? Mamma!
Sbatté la valigia in prossimità della porta.
– Niente, niente, non è successo niente, Laura! – sbottò, colpendo col suo tono rabbioso con abbastanza precisione da lasciarmi ammutolita per qualche istante.  
Era evidente che qualcosa non andava, glielo si leggeva suo volto, ora contorto in una rabbia ingiustificata, e sulle mani, rosse e nervose mentre scorticavano la fronte, ma ciò che non vedevo era quanto fosse spaventata in quel momento.
– Ascoltami, ti prego... ho bisogno della tua comprensione. – sussurrò sotto i capelli. – Rimani qui con Agata. Continua a fare tutto normalmente e non chiederti dove sono, né cosa sto facendo, nulla.– singhiozzò. – Buonanotte, Laura.
– Ma…ma dove vai? Mamma!
Cercai di afferrarla per la manica prima che superasse la soglia di casa, ma non fui abbastanza svelta e mi ritrovai con un pugno d’aria.
La vidi salire su un fuoristrada verde muschio appostato lungo il sentiero, parecchio distante da casa, quindi ebbi tutto il tempo di vederla trascinarsi con la valigia, aprire la portiera e saltare sul veicolo un attimo prima che il suo conducente sgommasse verso il bosco.
Da quando mio padre l’aveva abbandonata, Erica non dava più l’addio a nessuno, invece, augurava la buonanotte, perché la notte, diceva, non può durare per sempre.
Per la prima volta, vidi davanti a me la notte più lunga di sempre.

*     *     *

Erano passati cinque giorni da quando avevo lasciato che mia madre salisse su quel fuoristrada parcheggiato lì da chissà quanto tempo, l’avevo vista sparire su di esso mentre ero ancora affacciata sulla soglia di casa e, la cosa peggiore, fu che non potevo far nulla.
Mi sentii tagliata fuori dalla sua vita, dalla nostra, e questo mi fece sentire più sola che mai.
Quella stessa sera, Agata arrivò a casa con il suo valigione, sempre pronto per ogni partenza improvvisa della padrona di casa, e mi trovò nel pieno dei miei esperimenti culinari, spesso tacita valvola di sfogo per pensieri tarlanti che non avevano il coraggio di esprimersi apertamente.
Durante la nostra breve cena io non dissi molto e la suora, dal canto suo, non tentò d’indagare sul mio umore neanche una volta; più semplicemente, si limitò a sparecchiare e a rifilarmi la compressa prima di andare a dormire.
– E non osare mai più saltare l’assunzione, signorina. Sai, preferirei non trovarti di nuovo svenuta nell’ufficio, quando, invece, dovresti esser sulla lettura di Hegel. Laura, sul serio. Non provarci mai più.
Anche quel giorno, annuii meccanicamente, in una nauseata accondiscendenza che aveva portato stanchezza, non quella tipica della lotta, bensì era più simile ai dolori del prostrarsi ai voleri di qualcun altro.
Fissavo il rifratto della luce su quella piccola sferetta bianca, e pensavo, sempre più stanca, sempre più avvilita, sempre più incapace di capire quando fosse iniziato.
Quand’è che avevo deciso di non lottare più?
Ma, soprattutto, quand’è che mia madre aveva cominciato ad avere dei segreti con me?
– Dovresti impegnarti in letture meno frivole. Se non sbaglio, ti avevo assegnato un passo dell’Antigone, perché leggi le follie di quel romanzetto per bambini?
Sollevai gli occhi dal libro azzurro poggiato sulle mie gambe, sapientemente avvolte dal gonnellone nero, e sorrisi al profilo austero del suo naso infilato in uno dei suoi saggi tascabili, quelli che sfilava dalla sua veste ogni qualvolta avesse un po’ di tempo a disposizione.
– Cos’hai contro Alice? – chiesi, fermando un segno con il pollice.
La donna scrollò le spalle con diffidenza. – Quale ragazza seguirebbe un coniglio col panciotto dentro una tana un po’ ambigua?
Sollevai le spalle attraverso la blusa bianca.– Io lo farei. Giusto per dare un’occhiata.
– Laura, sul serio. È ridicolo.
Risi a denti scoperti, poi tornai nella narrazione con una scrollata di spalle. – Sarà, però, chissà, la sorella maggiore di Alice mi ricorda una certa suora…
Lei esitò per un po’ sul mio volto con espressione lievemente spazientita, dopo di che fece scivolare gli occhi in un sospiro pensieroso, lasciando che facessi come mi pareva
Quel pomeriggio, Agata aveva preparato un angolo lettura nel giardino sul retro, sistemando un telo a scacchi rosso sul praticello fresco e dispiegando un’enorme quantità di the, biscotti e libri tutti sparsi attorno a noi come un tappeto di foglie gialle.
Molto simile a un paradiso terrestre, il vivaio era stato edificato come un parco monumentale di siepi ad arco e lunghi corridoi tappezzati di fiori di ogni specie, dalle selvatiche rose canine alla soffice lavanda nelle aiuole.
Star lì mi faceva bene in quel momento, perché zittiva il pullulare costante di quegli strani pensieri che si erano impossessati della mia testa, sostituendoli, invece, con le vibrazioni potenti della siepe, dell’erba, delle montagne, dei libri distesi a pancia all’aria sul prato attorno a noi.
Almeno in quegli attimi, sentivo il mio corpo fondersi con il cuore del giardino e, con esso, anche la sofferenza si acquietava per un po’. Era da un po’ che avevo smesso di prendere i farmaci, e la cosa cominciava a pesarmi un po’.
Ultimamente, mi sentivo malata. Davvero, malata.
– Vado a prendere altri biscotti. – annunciò d’un tratto la suora, alzandosi agilmente da terra mentre mi chiedeva –Tu vuoi qualcosa in particolare, Laura? Cioccolata, caffè…?
Scossi la testa senza staccare gli occhi dalla lettura, quindi, sentendosi ignorata, Agata si allontanò a passo mogio fino alla veranda dell’ufficio, ove sparì per qualche minuto.
Alzai la testa un po’ di sottecchi, cercando con lo sguardo la sua figura grigia in qualche vetrata, poi sospirai e piegai la fronte sulla carta profumata del libro, dove rimasi finché lo ritenni opportuno.
Quel ronzio, non voleva proprio cessare.
Sollevai la testa con uno scatto deciso, dunque mi sporsi su un fianco e cominciai a cercare tra la pila di libri accatastati a destra, nella speranza di distrare la mia mente abbastanza da non sentirlo più.
Rovistai superficialmente le copertine lucide e così ben curate, che finirono inevitabilmente col far risaltare un vecchio tomo verde tutto consumato, che pareva quasi ammiccare sotto la catasta.
Ubbidendo subito al suo richiamo, m’inginocchia sull’erba e scartavetrai la superficie di volumi fino ad arrivare a vedere “Il Milione” di Marco Polo, il primo compagno d’avventure che ebbe mai il dono di trasportarmi dalla mia stanza in luoghi lontani.
Avevo letto, anzi, divorato quelle pagine, nella speranza di diventare io stessa la carta tinta di mappe, terre e volti umani che avevano decorato i diari dell’avventuriero veneziano, ma alla fine dovevo sempre tornare nelle mie pallide membra umane.
Fu una fortuna ritrovare lì quel libro, visto che Agata lo aveva sottratto dalla mia libreria personale da diversi anni, e lo presi come un segno del destino.
Iniziai a sfogliare il bordo delle pagine con cautela, sentendo le immagini riesplodere dietro i miei occhi riga dopo riga, le voci delle antiche metropoli riprender vita e i possenti castelli riedificarsi nella mia testa, ma la loro rinascita venne rasa al suolo da un piccolo, seghettato dettaglio.
Una pagina era stata brutalmente strappata dall’insieme, lasciando orfano di un intero capitolo un piccolo appunto di poche righe, probabilmente il finale di qualcosa di ben più complesso e interessante.
Rimasi per un momento a carezzare il taglio frastagliato a destra della pagina così crudelmente amputata, immaginando chi mai avrebbe potuto compiere un tale atto. La risposta mi colpì come un fulmine violaceo dal cielo.
Agata odiava quel libro, ma non avevo mai capito perché. Possibile che fosse stata lei? E perché mai, d’altronde?
Bisognosa di risposte, le cercai tra le righe sopravvissute. La descrizione meravigliosa di un eden fiorito da qualche parte tra le montagne siriane, lì dove si erigeva la rocca di un potente signore, mago, teologo, mistico, che era riuscito ad affondare le radici di un’antica setta nel lontano medioevo, era tutto ciò che rimaneva su quel libro.    
Nessun nome, neanche un accenno sul luogo, ma solo un incerto interrogativo che si espandeva attorno a quella mistica figura persa nel tempo: “Il Veglio della Montagna”, lo chiamava Marco Polo.
Strinsi le labbra in una smorfia insoddisfatta, muovendo il pollice sul bordo per chiudere il libro prima del ritorno della suora dalla cucina, quando qualcosa di viscido fece scivolare il polpastrello lungo la pagina.
Notai per la prima volta la presenza di un alone vischioso, lucido come inchiostro rosso, maleodorante come una vecchia ferita lasciata a cuocere sotto il sole. Chinai il naso sulla pagina, tirando un unico, chiarificante respiro.
Il petto tremò in un respiro mozzato, il mento si alzò impettito ma gli occhi rimasero piegati in basso, atterriti, increduli, curiosi.
Pigiai l’unghia contro la macchia rossa, scorticandola molto delicatamente.
In quel preciso attimo, qualcosa di incredibilmente pesante piombò sulla mia gonna e la bagnò di rosso vivo. Non urlai, non mi chiesi nulla, solo lasciai che le braccia si slanciassero a lanciare via il libro maledetto, che atterrò qualche metro più in la sull’erba tinta di sangue vivo.
Mi portai una mano al cuore, sentii di dover guardare sulle mie gambe, ma non ci riuscii.
– Laura, va tutto bene?
La voce di Agata riemerse come una macabra rielaborazione di un incubo e, percependola come tale, non riuscii a strappare i miei occhi da quell’incanto finché non sentii il ronzio nella mia testa cessare definitamente.
La suora era lì, davanti a me, con un vassoio di biscotti alla vaniglia, e mi osservava con una velata preoccupazione.
Guardai titubante qualche metro più in là, aspettandomi di trovare un lago di sangue attorno al libro, ma le pagine avevano smesso magicamente di sanguinare, anzi, non ve n’era la benché minima traccia, né sulle mie gambe né altrove.
Strinsi le dita contro il tessuto della blusa, ma non riuscii a calmare il respiro. Non me l’ero immaginato, le pagine avevano… avevano preso a sanguinare.
Una mano delicata carezzò la mia spalla, poi afferrò anche l’altra, finché Agata non mi ebbe intrappolato nel suo sguardo profondo e burrascoso, che premette sulla mia pelle in un’espressione mortificante, di chi aveva l’amaro in bocca per la frustrazione.
– Che cosa stai combinando, piccola ingrata? – sibilò a denti stretti – Cosa credi di dimostrare, non prendendo più gli psicofarmaci, eh? Credi di essere grande, così?
Sussultai – N… no…
– Pensi di essere così spavalda da poter gestire una cosa del genere da sola?
– Io…– deglutii con fermezza. – Senti da che pulpito! Come osi farmi la predica quando tu stessa mi nascondi le cose?    
– Di che stai parlando?
– Mia madre, Agata! Mia madre è sparita da un momento all’altro su un fuoristrada appostato fuori la magione, ed è come se non fosse mai accaduto! È questo che ti ha detto di fare? Di fingere che andasse tutto bene, che questo fosse un altro dei suoi improvvisi impegni di lavoro?
– Non dovresti fare queste domande, Laura. Lo sai bene.
– Perché? – sbottai – Perché no? Cosa c’è di così terribile da non potermi dire?
– Sei un’ingrata! – la sua voce scoppiò di rabbia, ma la sua espressione era disperata, di chi aveva le spalle al muro. – Ho votato la mia esistenza alla tua protezione, ragazzina, per proteggerti, e tua madre… lei ha dovuto affrontare scelte difficili, piene di sacrifici, perché non sei abbastanza forte, e questo tuo comportamento ne è la prova! Come possiamo proteggerti, se ti ribelli così?
– Proteggermi da cosa? Dal mostro sotto il letto? Dalla possibilità di rompermi il collo quando sono sul tetto? O dal demonio che mi sta divorando il cervello, Agata! Da quello chi mi salva? Voi? O quelle fottutissime caramelle al gusto di limone con cui mi avete imbottito un’intera vita?
– Basta così! Vai in camera tua, sei in punizione per il resto della tua vita, mocciosa arrogante! – sputò e, con quest’ultime parole, mi lasciò andare, puntando risoluta l’indice destro verso casa.
Con la gola ancora piena di rabbia e il cuore pesante, sgusciai via dal suo sguardo arcigno, afferrai per un lembo il gonnellone nero e mi misi a correre in direzione del suo braccio teso. Arrivai all’entrata dell’ufficio rosso e per poco non inciampai nei miei stessi piedi, allungai la mano verso la veranda. Presi la maniglia con forza.
Un colpo tremendo all’altezza delle gambe, poi comincia a piegarmi sulle mie stesse ginocchia un istante troppo tardi per i miei riflessi.
Le braccia della suora arrivarono alle mie spalle come una folata di vento improvviso, sorreggendomi forti mentre appendevo la testa in avanti, spalancando la bocca in un singhiozzo spezzato a metà.
– Laura! Laura, cos’hai?
Immobile com’ero a mezz’aria, provai a spiegarle la dolorosa sensazione di bruciore al centro della fronte, ma, non appena focalizzai le parole, sentii di nuovo quel fastidioso ronzio mordicchiarmi nei timpani.
Sentivo che stavo per andarmene. Che da un momento all’altro il mio corpo sarebbe schizzato fuori.
E di questo se ne accorse con orrore anche Agata.
Con uno strattone deciso, ella mi tirò su di peso e allacciò prontamente il braccio attorno alla mia vita, mentre, con l’altra mano, mi teneva il polso oltre le spalle.
Cominciò a trascinarmi verso la veranda un saltello dopo l’altro, tremando ogni volta che vedeva la mia testa penzolare in balia delle vertebre distese, cercò di trascinarmi dentro l’ufficio ma il peso legato alle mie caviglie divenne talmente insostenibile da crocifiggerla sulla soglia, impotente e frustrata.  
A stento riuscii a capire l’imprecazione che aveva lanciato dalla bocca di una tale suora licenziosa, provando un leggero dolore alle tempie quando, ridendo debolmente, abbandonai il capo contro la sua clavicola destra.
– Sai, adesso, me lo ricordo… – sussurrai.
La donna mi guardò spazientita. – Cosa? Stai dando di matto, ragazzina!
Feci girare la testa contro la sua clavicola, socchiudendo gli occhi il tempo necessario per vedere la sua espressione alla mia risposta.
– Kadar. Aveva detto… di chiamarsi Kadar.
Poi, il buio calò davanti ai miei occhi.
Finalmente, il brusio era cessato.

*     *    *

Percepii qualcosa di caldo carezzarmi la guancia, poi, uno spiraglio si aprì nel buio e lasciò che il calore stantio e secco della camera trafiggesse il pulviscolo sulla finestra incrostata.
Le gambe erano addormentate in posizione fetale e la faccia sprofondata nel groviglio della mia chioma, le coperte bollivano del tempore pastoso del sonno e non si udiva altro nell’aria se non il mio dolce respiro.
A riattivare i miei sensi fu la presenza di un profumo estraneo sul cuscino, un misto di paglia e oli profumati, con un accento aspro, chiaramente virile.
Faticai a scollare le palpebre e ancor più a mettere a fuoco la trama ruvida del guanciale su cui ero appoggiata, dunque, mi sollevai pesantemente sui palmi e raccolsi la manica per strofinarla sugli occhi.
Mi bloccai quando vidi steso sul mio braccio il tessuto sottile del lino, ramificato lungo il mio corpo in una sottoveste pulita e perfettamente aderente a ogni centimetro nudo del mio corpo, ad eccezione delle mani e dei piedi, nudi e liberi.
Scesi le gambe dal letto con molta circospezione, traballando un istante prima di aggrapparmi al tavolo della toilettatura, smuovendo l’acqua nella bacinella, per ritrovare una parvenza d’equilibrio, ma non ero ancora soddisfatta, avevo bisogno di alzare lo sguardo sulla stanza per capire che il mondo si era letteralmente rovesciato sotto sopra.
Ero evidentemente in un alloggio abitato, grigio e asettico nonostante gli evidenti affetti personali del suo ospite, come un calamaio imbrattato di nero sullo scrittoio, i vestiti che fuoriuscivano dalla bocca socchiusa della cassapanca, un letto sfatto e imbottito di paglia.
Se solo avessi avuto la prontezza nel reagire, probabilmente mi sarei lasciata cadere di nuovo sul letto, ma non lo feci, ero paralizzata sulle mie gambe.
Dove mi trovavo?
Improvvisamente, dalla finestra risalì il rumore di un corpo ferroso che cozzava con qualcosa di sottile e veloce, in uno schema di colpi che illuminò la mia mente come una lampadina.
Il rumore di un combattimento.
Una fitta alla tempia.
Un mercato. Delle guardie, il fango, poi tanto bianco e sangue.
Un risucchio, e la mia mentre rientrò nel corpo con un sussulto.
Puntai lo sguardo sulla finestra e non pensai molto prima d’imporre ai miei piedi di scattare in quella direzione, spalancando le vetrate impolverate con un colpo solo.
La pressione del vuoto mi colpì sotto il naso senza alcun preavviso, le orecchie vennero ferite dal grido di uno stormo di uccelli in volto sopra la torre e gli occhi rimasero incantati dalla maestosità di una catena montuosa, giganti a protezione della vallata.
Fu grazie alla traiettoria degli uccelli, che sorvolarono in volo i profili delle antiche mura grigie, delle possenti file di bastioni, delle torri e torrette di controllo, se trovai il coraggio di percorrere tutta la magnificenza del castello in cui mi ero risvegliata, ma ancora non ero in grado di dirmi sveglia o al centro di un sogno medievale.
Di nuovo, il rumore di spade che cozzavano risalì dal campo diversi metri in basso e, inibita dalla vista, mi sporsi dalla torre quasi dimenticandomi dell’altezza.
Oltre la ramificazione di finestre e merlature, al centro di un modesto recinto polveroso, alcune ombre pallide si addestravano con le spade, gridando e grugnendo a ogni fendente che andava a segno o cascava nel vuoto assoluto.
Notai uno, in particolare, che gonfiava le sue spalle erculee e sfidava le punte di ferro dei suoi avversari come un vero sbruffone.
All'improvviso, qualcosa lacerò il buio nella mia testa, mandandomi indietro sul bordo della torre, nell’aria statica e stantia dell’alloggio.
Altaïr.
Mi ricordavo di lui. Cosa voleva dire la sua presenza, lì? Che mi avesse trascinato nel suo covo, tra la sua gente fantasma?
Mi pulii gli angoli della bocca con un gesto della mano, adocchiai sul pavimento un paio di sandali femminili accanto alla cassapanca e mi precipitai a infilarli, portandomi davanti ai chiavistelli della porta pesante con un fastidioso bisogno di risposte.
Mi affacciai nell’androne del castello, scontrandomi subito con l’odore dolciastro d’incenso e quello floreale delle piante dentro i vasi, che facevano a gara con le grandi finestre gotiche sull’altra sponda, arrivando con lo sguardo fino al balcone affacciato sul giardino del castello.
Non mi era ancora chiaro se fossi effettivamente in un’allucinazione, ma per adesso non potevo far altro che indagare con prudenza.
Sgattaiolai lungo i muri, cercando di non far troppo rumore nonostante la scomodità di quei dannati sandali, quando, giunta in prossimità dell’arcata, udii gli schiamazzi di due ragazzini provenire dalla gola del corridoio adiacente.
Feci appena in tempo ad appiattire la schiena contro il muro che vidi i due sparire sui gradoni di marmo delle scale, spingendosi e scherzando fino a quando le loro voci riuscirono a rimanere a galla tra le viuzze della rocca, dunque, tornò di nuovo la calma.
Se quei due scapestrati erano così frettolosi, probabilmente era perché volevano assistere a un po’ di sana violenza, ragion per cui decisi di seguirli giù per le scalinate, seguendo gli echi dei loro schiamazzi come un vecchio marinaio col canto delle sirene.
Grazie a loro, giunsi tra le librerie di un ufficio abbandonato con soli due giri nell’ala ovest, dunque, lasciai che le mie guide ignare mi precedessero verso la piazzola esterna, da dove proveniva un gran baccano di voci e lame.  
Arrivai sotto il portale di pietra appena in tempo per assistere alla clamorosa vittoria di Altaïr sui suoi due avversari.
Altaïr aveva isolato ognuno di loro in un angolo del recinto, per affrontarli singolarmente, e la cosa stava funzionando, perché, se il più giovane col cappuccio grigio era paralizzato vicino alla palizzata, quello più grosso era sfinito e boccheggiava col sudore che grondava copiosamente giù per la mandibola.
Sapeva che avrebbe perso entro tre colpi, per cui, l’omaccione decise di provare un’ultima, disperata difensiva.
Tentò di caricare un montante e Altaïr schivò il colpo spostandosi agilmente a destra, il bestione grugnì rabbioso e cercò di colpirlo il fianco, ma anche quella volta riuscì a parare il colpo prendendolo solo sull’avambraccio corazzato.
Una volta assorbito l’impatto del pugno, senza perdere l’equilibrio perfetto neanche un istante, Altaïr cominciò a sommergere il suo avversario di colpi all’altezza della testa, stordendo le orecchie di quello il tempo sufficiente per lasciarlo inerme a un calcio sulla milza, che lo mandò definitivamente a terra.
Dovevo ammetter d’esser rimasta senza fiato per quell’impressionante successione di agilità e brutalità, ma capii ben presto che l’incontro non era ancora giunto al termine. Difronte la sconfitta del più vecchio, il ragazzo attaccò impavido Altaïr, approfittando della guardia bassa per riprendere del fiato.
Per un istante credetti che non sarebbe riuscito a schivare il colpo e, invece, mi ritrovai di nuovo a sorprendermi quando lo vidi piroettare indietro, ghermendo il braccio steso del rivale e storcendolo fino a costringerlo con le ginocchia a terra.
Le grida agghiaccianti del ragazzo arrivarono fin dentro il castello, ma ,un secondo dopo, vennero zittite del suo brutale avversario, che piantò il gomito sulla sua terza vertebra con precisione pressoché medica.
Il giovane stramazzò sconfitto a terra, il combattimento si concluse e i ragazzini accorsi lì per vedere inneggiarono il vincitore con fischi e applausi.
Altaïr si risollevò sullo sconfitto con un sorriso vittorioso e il mento superbamente puntato in alto, si riempì della piccola gloria di quel momento ma, allo stesso tempo, continuava a cercare con lo sguardo il prossimo rivale, la prossima vittima da umiliare.
Era come un animale addestrato per aizzarsi con il minimo pungolo al fianco.
– Cosa ci fai tu, qui, in questo stato, senza pudore! Avrebbe potuto vederti qualcuno o, peggio, il Gran Maestro!
Qualcuno arrivò correndo alle mie spalle, afferrandomi il polso così rapidamente che rimasi completamente spaesata quando incappai nel volto avvampato del giovane cenerino incontrato in città, scioccato per qualche ragione.
Socchiusi la bocca in un tremito viscerale, sentendo subito i miei sensori logici vacillare sotto la presa di quella mano, così forte e calda, ma non appena ricordai d’aver il polso bloccato esplosi in un ringhio d’avvertimento.
– Non toccarmi con quella mano, lurido omicida! – sbottai, dando uno strattone forte, senza successo.
– Dove pensi di andare in giro, con addosso solo l’intimo? – replicò scioccato lui, arrossendo così violentemente sotto il cappuccio da spingerlo a distogliere lo sguardo e lasciare la presa.
Abbassai lo sguardo con aria scettica. – L’intimo? – ripetei, sbirciando sotto lo scollo della veste e imbarazzandomi quando appresi d’esser totalmente nuda lì sotto.
Lui annuì nervosamente mentre controllava che nessuno sopraggiungesse dalle scale, o fosse affacciato dai piani superiori. – Sì, l’intimo! – insistette – Cos’è, non l’hai mai indossato una sottoveste, prima d’ora? Eppure, l’abito che portavi a Damasco non sembrava così differente!
– Damasco? – sentii le braccia cadermi lungo i fianchi. – Un attimo. Intendi… quella Damasco?Quella, quella?
Lui si voltò a guardarmi e piegò la testa di lato, azzardando un’occhiatina innocente lungo tutta la mia figura pallida, come quella di uno spettro notturno.
Osservandolo adesso, mi resi conto che non era molto più alto di me, ma i muscoli gonfi e la spada al fianco lo facevano sembrare decisamene più minaccioso di ciò che era, forse anche troppo.
– Non credo ci siano altre città in tutta la Terrasanta con quel nome. – osservò ironico lui e stranamente la sua postura si addolcì di poco – Suppongo che tu sia confusa, adesso. Strano, credevo che sapessi almeno dove fossi approdata.
Sollevai gli occhi tra le rughe delle sopracciglia, chiedendo a fil di voce – A… approdata? Ma come ci sono finita qui? Un momento… sono… sono una prigioniera? Dove mi trovo? È… è uno scherzo, vero? Suor Agata vi ha assoldato per metter su questa buffonata, per farmi spaventare?
La sua bocca di dischiuse in un lieve imbarazzo. – Non ho idea di chi sia questa suora, ma hai l’aria spaventata. Tranquilla, qui nessuno ti farà del male, sei al sicuro. Calmati.
Un senso di spossatezza mi ghermì la bocca dello stomaco, presi un intenso respiro, dunque tentai di far un po’ di ordine nel pantano di domande che avevano ostruito i miei pensieri. Ci riuscii.
– Cosa sei, tu? – chiesi.
Lui aprì le braccia sui lati, dicendo – Ciò che vedi. Un giovane uomo incappucciato con un insolito interesse per la fanciulla in azzurro che guizzava via come una biscia nel disordine di un’imboscata.
– Imboscata? Parli di quei poveracci che avete massacrato come porci al mercato?
Lui fece una risata nasale. – Un fragile fiore come te non dovrebbe intromettersi in argomenti così delicati. Piuttosto, cosa sei tu? Sei una popolana? Una viaggiatrice? Una pellegrina? – esitò. – Una puttana?
– Come osi!
– Perdonami. È che i tuoi abiti…sai, non dovresti mostrare le ginocchia in quel modo. La prossima volta, potresti davvero finire nelle gattabuie di qualche città.
Camuffai la stizza con un broncio esemplare. – Adesso basta, ne ho piene le tasche. Sputa il rospo, cappuccio grigio! Dove mi trovo?  Come ci sono finita qui, veramente? Chi diavolo siete, voi?
Il ragazzo rimase fastidiosamente impressionato dalla mia perseveranza. – Ma guarda, sei un tipetto insistente, eh. Non ti hanno insegnato da bambina a non molestare chi ha una spada? O forse, dove sei stata cresciuta tu, ti hanno insegnato a usarla, la spada? – il suo volto s’incupì – Perché non mi dici da quale terra sperduta provieni?
Gettai istintivamente un’occhiata in basso, sull’elsa che sbucava al suo fianco, la sua bocca si tese in un’espressione spazientita e fece per parlare, quando fummo interrotti dal richiamo graffiante di una voce umana.
– Ah, vedo che la nostra giovane ospite è sveglia. Eppure, avevo dato precise disposizioni di non lasciarla girovagare sperduta nel castello… soprattutto con addosso la sola sottoveste.
Sulla cima delle scale, una presenza oscura aveva appena infestato l’atrio, manifestandosi in lunghi abiti neri e con la barba che scendeva candida dal cappuccio, dispiegandosi sul suo petto come un centrino.
Immediatamente, il giovane al mio fianco fu percorso da un timore inspiegabile e subito si affrettò a colpirsi il petto con il pugno, rimanendo con lo sguardo fermo e i piedi uniti per tutto il tempo in cui il vecchio uomo scese le scale.
Procedeva imperioso tra le rifiniture damascate dei suoi abiti, decisamente più preziosi di quelli dei giovani nella fortezza, e, sebbene il suo corpo fosse evidentemente provato dall’età, c’era qualcosa nel suo petto che ostentava un antico passato da guerriero. Si fermò al centro dell’atrio, squadrandoci dall’alto in basso con il suo occhio cieco solcato da una cicatrice violacea.
– Mi è stato detto che parli fluidamente la nostra lingua, quindi, non avrai problemi a capirmi se non indugio troppo sulle parole. – cominciò disponibile.
Deglutii la secchezza alla gola, quindi mi sforzai di sostenere lo sguardo profondo delle sue pupille senza lasciare che il panico mi sopraffacesse.
– Lingua? – mormorai. – Perché, che lingua parlate? In che lingua parlo… io?
Il vecchio sollevò il sopracciglio con scetticismo, dunque posò lo sguardo meditabondo sul ragazzo e quello reagì con un irrigidimento involontario dei muscoli.
– Al Mualim…
– Credevo di averti detto di vegliare su di lei finché non si fosse destata, ragazzo. È evidentemente disorientata.  
Il ragazzo arrossì. – Non potevo immaginare che sarebbe uscita senza neanche coprirsi.
– E questo perché sei stato incauto, Novizio! Ti sei fatto abbindolare dal suo aspetto rassicurante, hai ignorato la mia raccomandazione di tenerla d’occhio, esponendo, in tal modo, le attività dei tuoi confratelli agli occhi curiosi di questa donna!
– Non era mia intenzione ficcanasare in giro, solo ero alla ricerca di un’uscita. – mi affrettai a precisare, seccata.
L’occhio grigio del vecchio si posò ferino sul mio capo, facendo rabbrividire il ragazzo in grigio fino alle ossa. – Mentore, la prego, lasci che la porti via senza punizioni…
La mano rugosa del vecchio si alzò per ridurlo in silenzio e quello ubbidì con un singulto sommesso.
– Mi sono state riferite molte cose su di te, ragazza. – cominciò, abbassando lentamente gli artigli ossuti lungo le sue vesti scure. – Che hai attaccato i miei uomini senza alcun riguardo della loro posizione. Che hai osato sottrare l’arma a un uomo. Che, addirittura, li hai sopraffatti con bassi metodi, evirandoli e ricoprendoli di curcuma, neanche fossero mocciosi alle prime armi! Ebbene, mi chiedo, chi diavolo sarà mai questa donna!
Sia io che il ragazzo vibrammo al trono penetrante della sua voce e mi ci volle un secondo prima di ritrovare il coraggio in fondo alla gola.
– Io voglio solo tornare a casa. Lasciatemi tornare a casa, per favore. – conclusi asciutta, negli occhi nessun accenno di paura, e ciò sembrò solo accentuare l’amarezza del vecchio.
Ora, aveva il volto contorto in una grottesca maschera teatrale.
 – A questo punto, direi che la nostra conversazione è a un punto morto. – borbottò – E, supponendo che neanche tu abbia tempo da perdere, direi che è giunto il momento degli addii.
Con queste parole cupe, l’uomo colpì i suoi abiti per fargli compiere una ruota perfetta e risalì nell’ufficio sovrastante, ma, prima di pestare sotto gli stivali l’ultimo gradino, tornò a guardarci da sopra la spalla destra.  
– Ma, maestro… – obbiettò incerto il ragazzo –… e il deserto?
– Lo attraverserà, così come ha fatto per arrivare qua.
– Però potrebbe perdersi.  
A quel punto, l’uomo sbatté spazientito il palmo sul parapetto massiccio delle scale e, con occhi fiammeggianti, gridò – Ho accettato che tu portassi quella donna in casa mia e, non solo, ho messo a disposizione per lei il mio medico personale giorno e notte, in nome dell’alta considerazione che ho di tuo fratello maggiore! Ma questo castello non è un ospedale, né un luogo per donne, ed è arrivato il tempo di rimettersi a lavoro! Così è deciso e così si farà, senza discussioni!
Non appena il soprabito nero di Al Mualim svanì al piano superiore, l’eco del suo imperativo fu risucchiato dalle mura e sia io che il ragazzo ci riscoprimmo ad aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.

*    *    *

Le cantine del castello erano davvero immense, lunghi corridoi avvolti dalla penombra di qualche sporadica lanterna posta tra un’arcata di pietra e l’altra, sotto cui distinsi i profili illuminati di provviste di grano e botti piene del loro contenuto, che, a giudicare dall’odore, non era solo acqua.
Il cappuccio cenerino camminava spedito nel sottosuolo della montagna, mischiando i suoi passi con una perdita da qualche parte in quel posto tetro, ed io lo seguivo a una certa distanza di sicurezza badando, però, a non rimanere mai troppo indietro.
La luce aveva cominciato a diradare la nebbia, finalmente.
Ricordavo il mio nome per intero, il volto di Agata e a voce gentile di mia madre, il giardino fiorito dietro casa, il “Milione” e il fiume di sangue sul prato vergine, ma per il resto solo un’enorme voragine.
– Non volevo che le cose andassero così.– disse d’un tratto.
Alzai lo sguardo con fare distratto. – Scusami?
Il ragazzo davanti a me scrollò le spalle, spiegando – Il maestro è solitamente un uomo paziente, ma capisci bene che non è possibilità di un adepto contraddire il suo volere, per quanto ingiusto sia.  
Sospirai appena. – Non importa. Ciò che desidero, adesso, è tornare da mia madre.
Il giovane sbirciò alle sue spalle con aria incuriosita. – Dalla tua espressione, direi che non sei molto felice di tornare a casa. Devo pensare che ci sia qualcosa lì, che ti ha costretto a fuggire lontano. Allora, è così? No, perdonami, non sono affari miei.
Sorpassammo una catasta di sacchi abbandonati su del fieno e un ratto guizzò veloce da un angolo all’altro prima che la luce della fiaccola lo illuminasse col suo bagliore tremulo, squittendo nel buio fino a quando non ci ebbe superato del tutto e la sua voce divenne solo un cinguettio lontano.  
Non osavo neanche immaginare quanti topi ci fossero lì sotto.
– Come… come ti chiami?– domandò d’un tratto.
Alzai gli occhi di sottecchi, soppesando attentamente la risposta da dare.
– Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle. Ma puoi chiamarmi Laura, se ti va.
Si voltò di scatto, la bocca dischiusa in un gemito sorpreso. – Una… una discendente dei Chiaravalle? Qui?
Indietreggiai di un passo, calando un velo perplesso sulla mia fronte.– Per caso ci conosciamo, noi due?
Anche il suo volto si scurì, ma in un pensiero più profondo, impossibile da carpire per colpa dei solchi d’ombra proiettati dalla fiaccola in mano.
– Incredibile… non si sentivano notizie del casato del monaco di Cîteaux da quasi trent’anni. – un lampo balenò sul suo volto, che si trasformò in un amareggiato epilogo. – Ora capisco tutto. Sì, ora… tutto ha un senso.   
Il giovane compì un passo verso di me, gelandomi per un istante il sangue nelle gambe.
Lo fissai lì dove avrebbero dovuto esserci due occhi umani, e una sensazione di pericolo m’assalì.
– Di cosa stai parlando? – ebbi il coraggio di tirare fuori la voce.
– Cos’eri venuta a fare a Damasco, straniera? – sibilò nell’oscurità e compì un altro, impercettibile passo verso di me.
Avvertii le mie budella tremare per la tensione e, improvvisamente, mi fu chiaro che dovevo andarmene via da lì.
Fuggi nelle viscere buie del corridoio a destra.
Non sapevo dove andare, mi sentivo come un topo in trappola. Correvo, sentivo il mio respiro, alle mie spalle solo l’oscurità.
La fiaccola era stata spenta, per rendere più facile la caccia al predatore.
Mi schiantai con la spalla sinistra in una porticina, cascai fuori dalle cantine e, immediatamente, un fendente di luce rossastra mi ferì gli occhi. Sbattei via le lacrime con foga, riconoscendo le feritoie interne di una delle torri di controllo, dunque alzai il naso all’aria, scorgendo un’arcata splendente da dove potevo intravedere il cielo.  
I piedi andavano veloci sui gradoni scivolosi, incuranti della tromba delle scale che s’infossava man mano che mi avvicinavo al bagliore della libertà.
Entrai nel teschio della torre e il mio corpo accaldato trovò subito refrigerio dalla brezza proveniente dalle montagne, ora coronate da un bagliore rossastro, che soffiava attraverso le aperture circostanti.
A coronare il tutto, come spine di una corona, quattro ballatoi si affacciavano sul burrone circostante, scricchiolando e resistendo al vento con temeraria forza.  
Un’ondata gelida sopraggiunse dalle stanze, portando con sé l’immagine di un giovane fantasma silenzioso. Lo sentii arrivare, ma non ebbi il coraggio di voltarmi per la paura.
Si appostò dietro di me, sentivo il suo respiro infrangersi contro i miei capelli.
– Ucciderai anche me… come quelle guardie al mercato? – sussurrai a voce secca.
Lui non rispose subito.
– Forse lo farò, ma non senza averti dato un’onesta possibilità di aver salva la vita. Tu parlerai. E ti difenderai, figlia dei Chiaravalle.
In meno di un secondo, la sua mano spinse sul mio petto e ghermì lo scollo dei vestiti fino a sformarlo, io tentai di gridare ma l’innesco cupo di un meccanismo dal suo polso destro spezzò le mie corde vocali all’istante.
Dal bracciale legato al polso, vidi sotto gli occhi la figura slanciata di una lama raffinata e la sua punta, pressata contro la mia giugulare con una delicatezza quasi surreale se paragonato al fervore scoppiettante nella vena sul collo del giovane.
Il suo cappuccio mi guardò diritto negli occhi, sbarrati in un baratro senza fondo, e immediatamente la sua bocca manifestò disprezzo.
– Che cosa sta succedendo? – fu la sua prima domanda. – Cosa ci fa una dannata Chiaravalle qui, in Terra Santa? Come avete osato presentarvi di nuovo ai nostri mercati, nelle nostre città? Cos’è, avete trovato di nuovo terra dove affondare le vostre radici velenose?  
Sebbene la paura mi avesse sottratto la voce, l’orgoglio del sangue fu più forte di ogni cosa e dimenticai per un istante di avere una lama alla gola. – C… come ti permetti? La mia famiglia discende da un uomo buono, di chiesa, Bernardo di Chiaravalle! Chi ti credi d’essere, per infangarci così?  
– Ma guarda, hai l’indole tipica di un dannato Templare, eh. – schioccò la lingua con aria annoiata.
A quel punto, richiamò il pugnale nel polso e lasciò che il mio corpo potesse tornare a muoversi libero. Subito strinsi la gola per assicurarmi che non ci fossero tagli e sospirai flebile nel sentire che fosse tutto intatto, ma potevo ancora avvertire quella gelida sensazione di morte appuntata al collo.
– Di cosa stai parlando? – incalzai con tutto il coraggio che avevo. – Cosa diavolo hai contro la mia famiglia, si può sapere?
Lui rise amareggiato. – Dì un po’, hai almeno la benché minima idea di dove ti trovi, Laura di Chiaravalle? O hanno una così bassa considerazione della tua vita, quelli del tuo Ordine, da mandarti nella tana del nemico senza informarti del pericolo? Scommetto che ti hanno imbarcato nella prima nave per Damasco senza neanche una valida spiegazione. Sbaglio?
Quelle ultime parole contribuirono a imprimermi un persistente, insostenibile senso di nausea. Fu come avere il presentimento di una tempesta, ancora troppo lontana per esser avvista, ma l’elettricità era già nell’aria e si sentiva a pelle.
Ovviamente, ignorai il presagio come si farebbe con una mosca fastidiosa.
– Chiudi quella dannata bocca! Non osare insinuare cattiverie sulla mia famiglia, noi non abbiamo niente da nascondere, loro… loro non mi nascondono niente! Niente, hai capito? E ora, col tuo permesso, me ne torno a casa, e non me ne frega dei vostri stupidi protocolli per la sicurezza, io ci torno adesso!
Detto ciò, diedi le spalle al ragazzo e mi tesi in direzione delle scale.
– “Nulla è reale, tutto è lecito”. Sono le parole che hai pronunciato al mercato, o sbaglio?
Indugiai sui piedi per pochi secondi, dunque marciai verso di lui con gli occhi fissi su quell’inquietante, improvviso pensiero che aveva preso a battere in un angolo recondito della mia testa.
– Come conosci queste parole…? – sussurrai.
– La domanda è… come le conosci tu, Laura di Chiaravalle.
Lo fissai.
Poi, mi diressi a grandi falcate verso di lui, gli occhi spalancati sul suo volto celato per metà, il cuore che infuriava in petto, il mondo aveva preso a vorticarmi improvvisamente attorno.
Allungai la mano verso la sua testa quand’ero ancora lontana, un ultimo passo e cappuccio grigio mi bloccò per il polso, costringendomi a fermarmi a pochi centimetri dal tessuto sulla sua testa.
– Tutto questo… non è reale.  
Sospinsi un po’ più in là le dita, riuscendo ad acciuffare il cappuccio ruvido.
Lo calai sulle sue spalle e capii che la mano del ragazzo non oppose resistenza, invece, mi accompagnò in quella scoperta.
–È… solo delirio.
Un paio di occhi azzurri.
In quell’istante, la nebbia si diramò dai miei occhi, fui travolta dalla conferma di una verità inaspettatamente ovvia e sentii il mondo capovolgersi sotto i miei piedi, come se la realtà fosse oltre il filo d’acqua su cui ero affacciata io.
Ero in un’allucinazione.





Angolo autrice:

Ben ritrovati a tutti! Allora, avrete di certo notato l’inserimento di una storia famigliare per Laura, con un capostipite molto famoso, Bernardo di Chiaravalle. Tanto per essere chiari, io sono come la Ubisoft. Qualsiasi manipolazione del personaggio storico, aldilà del mio credo personale, è mirata a uno scopo prettamente creativo e non c’è intento informativo, perché, chiaramente, tutto cadrà casualmente a fagiolo per lo sviluppo delle nostre vicende.
Per chi ha letto la prima versione, potreste trovare il Kadar di questo capitolo un po’ brusco, sostanzialmente perché non si fidi della giovane forestiera bianca, ma non disperatevi, il suo carattere affabile tornerà presto alla carica. Ne approfitto per ribadire che la storia non è cambiata, solo… determinati avvenimenti avverranno in maniera più “casuale”. Con questo, vi saluto e al prossimo aggiornamento!

Baci, Lusivia.
   
 
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