Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: Lusivia    21/01/2016    2 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
                                                       Image and video hosting by TinyPic
                                                              

                                
                                                                     Capitolo 3
 
                                           La Vecchia Regina Templare





– Mamma, mamma, mi racconti di nuovo la favola dei Sette Fratelli?
– Cosa, di nuovo?… Laura, per favore, non saltare così sul letto, ti farai male! Mi hai sentito? Non salire lì, accidenti!
– Perché?
– Perché lo dico io! Laura Maria Gaia di Chiaravalle, scendi immediatamente da lì!
In bilico sull’intarsio della colonna in legno di noce, volsi le pupille brune oltre la sottile spalla ingombrata dai tessuti plissettati della camicia da notte azzurro- polvere, fissando la donna seduta sul bordo del letto un po’ contrariata.
Col portamento di una ballerina appena adagiata in posizione di riposo, una gamba distesa sul materasso e l’altra piegata internamente sulla coscia, Erica Temperance di Chiaravalle era radiosa nel suo pigiama di seta azzurro coi ricami argentati e aveva raccolto i suoi dorati capelli in una treccia che era completamente priva d’errore nell’elaborazione, una scultura a tutti gli effetti.  
Per contro, la sua adorata figlioletta di sette anni pareva, più che altro, una scimmietta arruffata con grosse guanciotte color rosso fuoco, un bruno caschetto sgangherato sulla testa e un’apertura fischiettante lasciata dai due incisivi da latte qualche settimana fa, tutta avviluppata sulla colonna con le unghie e le dita nude.
– Forza, – ribadì la donna – scendi da lì.
– Se scendo da qui, mi racconti la storia, mamma? – avanzai di nuovo la mia richiesta tediante.
Erica abbandonò pesantemente la testa in avanti, sbuffando via tutta la sua contrarietà per non esplodere in una reazione poco gradevole.
– Va bene. – drizzò il capo – Se ti racconto la tua dannata storiella, andrai a dormire senza fare capricci, che la mamma domani mattina ha da fare? Ti prego.
Annuii con vigore e dispiegai i denti in un sorriso sgangherato.
– D’accordo, allora. Fammi spazio, scimmietta.   
Improvvisamente buona e ubbidiente, saltai giù dalla colonna e con tre balzi fui sotto le lenzuola di flanella ricamate, dunque lei si sdraiò al mio fianco, e con mollezza nel braccio, si apprestò a rimboccarmi la piega sul corpicino, guardandomi attraverso la coltre di ciglia con un sorriso negli occhi.
Lasciò che i primi minuti scorressero placidi. Poi, cominciò a narrare con voce calda e leggera come il fumo.
– Tanto, tanto tempo fa, una nobile vergine venne data in sposa a un virtuoso signore della Borgogna e la loro unione fu gradita al Cielo e benedetta col dono di sette figli virtuosissimi. Il paziente Guido, il giusto Gerardo, il saggio Bernardo, il colto Andrea, l’ambizioso Bartolomeo, l’impavido Nivardo, la gentile e dolce Umbelina erano i fanciulli più nobili e caritatevoli mai visti alla Fontaine-lès-Dijon. Tra i sette, però, Bernardo spiccava per le infinite qualità e l’instancabile devozione all’Altissimo, che lo volle prima monaco cistercense, poi fondatore dell’abbazia di Clairvaux. Accadde poi che, all’indomani del suo ventinovesimo compleanno, il buon Bernardo avesse un tremendo incubo notturno in cui un pellegrino era attaccato alle porte del Santo Sepolcro da tre fiere feroci, due nere e una rossa, con l’intento di divorarlo. Un attimo prima di finire sotto quelle tremende fauci, un baleno di luce purissima arrivò galoppando dalle spalle del pellegrino e tra lampi e clangori di ferro riuscì a disperdere le bestie infernali. Dietro quella grande luce, Bernardo vide un monaco e un cavaliere coesistere su di un corpo solo, due teste distinte, un rosario, una spada celeste. Questi furono gli incubi del monaco per cento notti. Accadde poi che un giorno arrivasse all’Abbazia un barone dalla foresta orientale con tutto il seguito della sua corte, che chiese di parlare con Bernardo, sicché, quando i due s’incontrarono, il monaco lo riconobbe e lo accolse con grande gioia. Il barone, che Hugues de Payns, era, infatti, un caro amico di Bernardo e un uomo molto pio, per questo, quando raccontò del sogno del cavaliere a due teste, il monaco non ebbe più alcun dubbio: il loro ricongiungimento non era stato un caso, ma un disegno divino.
Erica s’interruppe perché volle controllare il mio livello d’attenzione e mi trovò con gli occhietti bruni spalancati e ardenti di trepidante curiosità.
– Continua, per favore. – la esortai a voce piccina.
– Beh, il resto lo sai, Laura. Bernardo e de Payns andarono in Terrasanta e nel 1119 fondarono l’Ordine dei Cavalieri templari, il primo, come Consigliere e guida, il secondo, come Gran Maestro. E con questo, ho concluso la storia di Bernardo di Chiaravalle.
Quasi sospirando di sollievo, Erica provò a sollevarsi dal letto facendo leva sui gomiti, ma io la bloccai per la manica e con sguardo contrariato le imposi fermamente di non lasciare quel letto.
– E il resto della storia? Dov’è? Io voglio sentirla.
– Ma Laura, la conosci già… – osservò.
– Non importa. – le feci un sorriso – Per favore, raccontami il finale. Poi vado a dormire. Te lo prometto.
Erica non parve molto convinta, ma alla fine fu persuasa dalla mia irresistibile malia, e mi accontentò. – … E va bene.
Si sdraiò nuovamente e questa volta cominciò a carezzarmi i capelli, la sensazione delle sue dita era rilassante e il lieve profumo di pepe rosa impregnato sul colletto del pigiama quasi stordente. Era come esser vittima di una trance, ma era dolce e m’invogliava a scivolare nel sonno senza troppe resistenze.  
– Pochi anni dopo il suo più grande operato al servizio del Signore, il Consigliere Bernardo ricevette un’altra visita notturna. – Erica riprese il ritmo naturale del racconto. – Un angelo in abiti di fanciullo, che gli predisse il volere dell’Altissimo di donare al monaco sette figli propri, che non solo avrebbero comparato il padre nelle qualità e nella grandezza morale, bensì avrebbero dimostrato di non avere eguali in tutta la terra. Accadde come predetto dall’angelo. Eh, altroché se i sette dimostrarono sin da tenera età le loro sensazionali attitudini. Quando poi morì il loro santo padre, Giustino, Prudentia, Furio, Fidelio, Temperantia, Carite ed Elpidio, questi erano i nomi dei figli, decisero di prestare servizio alla Causa di Bernardo e in pochi anni furono addestrati a servire l’Ordine Templare.
– Ed erano… bravi cavalieri? – mugugnai a occhi chiusi.  
– Sì, molto. Erano rispettati e ammirati da tutti, nessuno escluso, soprattutto Giustino, che era il più probo dei fratelli, sarebbe diventato Gran Maestro. Insieme, i sette costituivano il casato più antico di tutti. Insieme, erano un’unica entità antica e inarrestabile. Insieme, i Sette Fratelli erano la “ Vecchia Regina Templare”. La prima famiglia. La più sacra e potente mai esistita nella storia dell’Ordine. Questo, fino al 1161.
Poi, la donna si tese verso il comodino e spense la luce giallastra del lume. Calò l’oscurità attorno a noi, pesava come fosse cemento armato e schiacciava e comprimeva quel poco di lucidità che mi rimaneva, ma non per questo dimenticai.
– Mamma… – tentai di fermarla nonostante fossi ormai in uno stato di dormiveglia. – …cosa accadde in quell’anno, mamma…?
Erica inspirò in profondità, lo sentii nell’aria.
– Accadde, Laura, che in quell’anno furono traditi da coloro che chiamavano confratelli.

*       *        *

Riemersi da quell’elaborazione onirica a occhi aperti con un singulto improvviso, e proprio come il giorno fa riemergere la nave dai vapori del mare e ne disperde i fantasmi scricchiolanti, cominciai a scorgere un volto dall’altra parte di quel sogno.
Scorsi con mia assoluta consapevolezza il volto di un giovane uomo. Mi stava parlando.
Se prestavo attenzione, la sua voce era confusa, sfumata da un profondo turbamento che perlopiù passò in secondo piano quando il mio occhio silenzioso ricadde sulla fila di perle tonde e bianche che teneva tra l’arco prominente di un paio di labbra, così squisite che avrei detto appartenere a una fanciulla.
Poi notai che quel ragazzo mi stava anche tenendo per le spalle e che le sue mani erano callose ma caute al tempo stesso, la piattaforma attraverso cui riuscivo a percepire la tensione sbalorditiva dei suoi tendini duri e ramificati alla perfezione all’interno delle sue braccia.
Che strano. Un fantasma non dovrebbe avere corporeità.
Eppure, lui l’aveva. Avvertivo la tangibilità del suo nervosismo nel modo in cui teneva la mascella tirata, attraverso i sussulti nervosi delle ciocche corvine, richiuse a spirale lungo il suo volto squadrato e perfettamente levigato dalla luce del tramonto, e fu allora che la mia mente si frantumò su se stessa.  
Lasciai andare un singulto strozzato.
– Tu… sei vivo. – sussurrai e i miei occhi erano sgranati sino a luccicare di dolore, il cuore batteva, la gola era completamente seccata.
Il bel giovane, che non aveva smesso per un solo istante di tenermi per le spalle e guardarmi diritto negli occhi, si ammutolì all’istante e con fare confuso piegò la testa su di un lato, scrutandomi interrogativo per tutto il tempo in cui il mio colorito cambiò da bianco gesso a rosso acceso, e di nuovo, dal purpureo sconcerto al terrore cadaverico.
Poi, come presa da un raptus folleggiante, ingoiai un gridolino eccitato e mi lanciai a far cozzare i nostri corpi in un abbraccio che tolse a entrambi il respiro e ci riempì il petto di una guizzante carica elettrostatica che ci trapassò le costole e finì diritta a spezzarci il cuore.  
– Perdiana vergine cacciatrice! – esclamai. – Non posso crederci, non posso crederci, sei vivo!
– Mi stai strangolando! – rantolò basso.
– Non dovresti essere vivo! Ero… sicura, che tu fossi morto, Kadar! E per tutto questo tempo, ho accettato la tua scomparsa senza sapere che eri al sicuro qui, e che stavi bene!
Lui fece una tosse secca proveniente dalla trachea. – Un momento soltanto, Chiaravalle. – provò a infilare una mano tra di noi e spingermi via. – Ma che accidenti vai blaterando?
Col cuore in ardore e gli occhi colmi di felicità elettrostatica, mi scostai quel tanto che bastava per guardarlo in viso senza che le braccia si slegassero dalla sua vita, inspessita dalla corazza dell’armatura, e incrociando il suo sguardo oltre la coltre di ciglia nere, ebbi l’impressione di fare un tuffo nelle profondità di un lago cristallizzato.
E il gelo mi penetrò in petto, che si strinse sino a richiudere la gabbia toracica sopra il mio fragile cuore di ghiaccio. – Tu… brutto farabutto bastardo!
Con uno slancio inaspettato del braccio, tirai la mano oltre la mia testa e subito caricai un ceffone che non solo colpì in pieno volto Kadar, ma lo ribaltò indietro di almeno due passi brevi, lasciandolo totalmente ammutolito nel suo rossore improvviso lungo tutto il giovane volto.
– Questo è per avermi fatto credere nella tua morte! – giustificai sudata e stizzita. – Maledizione, Kadar, come hai potuto? Per tutti questi anni, i sensi di colpa mi hanno lacerato l’anima, ed è stato orribile, maledizione, orribile!  
Lo spinsi e lui non reagì, ma rimase a capo chino sul pavimento e con i riccioli neri penzoloni sul volto. Lo guardai e la sua passività mi montò ancora più rabbia.
– Tu… hai idea di quanto sia stato difficile, mh? Di quanto io…abbia sofferto…se solo avessi saputo che eri qui. Se solo tu non ti fossi nascosto, come se fosse solo un dannato gioco. Kadar. Kadar, guardami! Perché non dici nulla, perché ti ostini nel tuo silenzio?
Un altro disperato spintone e come prima ottenni la stessa pacata reazione, ad eccezione di una vena sul collo, che si era ingrossata vistosamente nel rimuginare il nervosismo.
– Kadar, accidenti, parlami! Parlami, e dimmi cosa diavolo sta succedendo! Ti prego, io… sento che sto per impazzire!
Ma lui non rispose. Semplicemente, si limitò a drizzare di poco lo sguardo e scrutarmi con i capelli sulla fronte e lo sguardo denso di pensieri, mentre io rimasi fuori, stremata e afflitta nei miei tremori convulsi lungo le dita delle mani e nel petto che si alzava e abbassava in respiri svelti.
– I miei complimenti. Davvero. Molto brava. – esordì così.
Il colpo mi mandò indietro di mezzo passo. – Che cosa hai detto? – sibilai.
Improvvisamente, il giovane si trasformò sotto i miei occhi in un mastodontico gigante tutto muscoli e tendini in titanica tensione, o forse erano solo gli effetti del tramonto di sangue alle sue spalle, che gli evidenziava i muscoli sino all’inverosimile, ma l’effetto fu davvero scoraggiante e mi spensero il coraggio in un istante.
– Hai messo su una bella sceneggiata, davvero, per poco non mi avevi convinto! – sbottò mentre si tendeva minaccioso.  
– Cosa? Kadar, ma che ti è preso? – mi ritrassi sempre più spaventata.
Di punto in bianco, lui si slanciò verso il mio braccio e afferrò il polso, attirandomi in uno strattone contro il suo grande petto febbricitante.
– Scommetto che sarai contenta, adesso. – soffiò sul mio volto. – Adesso conosci la strada per arrivare al Gran Maestro, sapete come colpirlo, e questo stupido idiota col cappuccio che ti ha salvato a Damasco, non ti serve più.  
– Ma cosa dici? – strattonai decisa col polso. – Io non ti ho ingannato!
Kadar fece un sorriso impietosito e lentamente ricacciò un ciuffo lungo la mia guancia sinistra, accompagnandolo nella sua naturale linea sinuosa sin sotto la mandibola. Arrossii vistosamente, ma attribuii l’azione inopportuna del mio corpo all’ira che incalzava dalle viscere.
– Sono sicuro che sarebbero stati orgogliosi del tuo risultato, i tuoi signori, piccola Chiaravalle.Peccato, però, che non uscirai più da qua per riferire.
Un istante dopo, mi ritrovai a piroettare su me stessa e a esser costretta di spalle con i polsi stretti dietro la schiena, tuttavia, quella posizione causò presto la sofferenza dei miei tendini tirati, che cominciarono a opporsi e a lottare rabbiosamente per ritornale nella loro naturale dimensione.  
In verità, la lotta fu breve, perché Kadar perse subito la pazienza e, per farmi capire che non scherzava, cacciò fuori il suo pugnale a molla e me lo appuntò nel solco della schiena, scatenando una vera e propria tempesta elettrostatica che incendiò i miei nervi spinali e li costrinse a uno slancio, un grido fisico che però venne subito schiacciato sotto il peso di una grande mano olivastra.
– Calma, – sussurrò – non ti farò del male, basta che ti comporti bene…
Non concluse la frase, perché il dolore dei miei incisivi affondati nella sua carne lo costrinsero subito ad allontanare la mano e a guaire di dolore.     
– Cazzo…!
– Aiuto, qualcuno mi aiuti! Kadar è impazzito!
– Accidenti a te, Chiaravalle!
– Aiuto!      
Mi zittì con uno strattone deciso. – Basta, tanto a nessuno qui interessa di una Templare, lo vuoi capire o no?
Riuscii a malapena a rivolgergli un’occhiata alle mie spalle, gli occhi erano iniettati di puro panico elettrostatico. Ma cosa?  
– Io non sono una Templare!  
– Certo. Come no.
– Kadar, ti prego, devi credermi! C’è stato un enorme sbaglio, lascia che ti spieghi!
Lui non disse una sola parola. Invece, rafforzò la presa quel tanto che bastava per non farmi fuggire e con spintarelle decise cominciò a dirigermi verso le scale interne della torretta. L’effetto del tramonto proiettato lungo le pietre era caleidoscopico, le feritoie illuminavano le scale in squarci di luce rossastra e l’aria risaliva dal basso verso l’alto solo per rimanere incastrata sotto il tetto, producendo un rombo tetro che faceva vibrare tutta la torre come se fosse sul punto di crollarci addosso.
Con l’invito della lama, Kadar mi costrinse a iniziare la discesa. Di nuovo, la nube elettrostatica s’insidiò tra le mie vertebre, ma quella volta, fu la miccia che riaccese il mio ardore combattivo e mi fece piantare i talloni a terra.
– Fermati, fermati, fermati! – sbottai.
Lui obbedì un po’ di malavoglia.
– Che cosa ti prende adesso, eh, Templare? Devi liberarti la vescica?
– No, no, no! Ascoltami, io non sono una Templare, accidenti, non so neanche perché tu insita tanto con quest’assurda storia! Io non… non dovrei neanche essere qui!
Lo sentii chioccare la lingua sotto il palato. – Ma per favore.
Allora provò a farmi riprendere la marcia, ma io mi opposi a costo d’infilarmi l’intera lama nella schiena, riuscendo, con notevole sforzo dei tendini, a scorgere il volto annoiato di Kadar oltre la mia spalla sinistra.
Un pensiero mi trapassò la mente, lasciandomi a dir poco senza parole.
– È perché sono una Chiaravalle, che mi tratti così? – domandai – È per questo, che… credi che io sia una Templare? E per questo che ti comporti da folle?
Un sorriso aguzzo fiorì tra le sue belle labbra. – Esattamente. Perché sei una Chiaravalle, e tutti qui conoscono la storia dei Chiaravalle. Tutti conoscono la Vecchia Regina Templare e di ciò che le accadde. – Rifletté. – Fu sulla strada per il Regno? O al mercato di Gerusalemme?
Il sangue mi si raggelò nelle vene. – Cosa…?
– Ah, ora ricordo. – finse di sorprendersi. – Fu al mercato di Gerusalemme. Nel 1161, esattamente trent’anni fa da adesso. Quel giorno fu disastroso per la tua famiglia, eh. Il maggiore dei sette, condotto dai suoi stessi confratelli in un’imboscata fatale. Quanto tempo ci misero gli altri, a morire ammazzati? Cinque, sei giorni?
Non provai neanche a rispondergli. La Vecchia Regina Templare, i Sette Fratelli, l’imboscata al mercato. Era tutto come aveva sempre raccontato mia madre.
Improvvisamente, mi ritrovai bloccata tra i venti impazziti che mi frullavano in testa, che mi rimescolarono e rimescolarono ancora, ininterrottamente, fino a farmi tornare all’alba della mia esistenza.
Io avevo sempre saputo.
Che i Chiaravalle erano stati cavalieri del Tempio, Erica non me l’aveva mai tenuto nascosto, ma aveva sempre raccontato le cose come stavano un millennio fa.
I Chiaravalle erano stati la più grande famiglia Templare che sia mai esistita. E questa, era un’altra cosa con cui non avrei mai retto il confronto, né eguagliato nelle aspettative.
– Come fai a sapere tutte queste cose, Kadar? – la mia voce fu un sussurro scioccato, sul mio viso era evidente la confusione che mi stava rimescolando l’anima in quel momento.
Lui drizzò il busto con serena indifferenza, lo sguardo era freddo come il ghiaccio. – Non preoccuparti di questo. Piuttosto, pensa a cosa farai quando sarai di nuovo al cospetto di Al Mualim.

*           *           *

Tornammo tra le mura del casello in totale silenzio, e appena in tempo per l’ora di cena.
I corridoi, resi caldi e accoglienti dai tappeti damascati appesi come quadri, profumavano di spezie e carne arrosto sulla legna delle grandi fornaci attive, i draghi di pietra e legno che tenevano in vita il castello con i loro respiri infuocati e le luci, che di notte illuminavano l’intero castello sino a renderlo visibile sulle montagne fumose.  
Kadar aveva deciso di consegnarmi al suo Gran Maestro, perché era convinto che, essendo io una Chiaravalle, fossi ancora al servizio dell’Ordine dei Templari, proprio come un tempo lo furono i miei illustri antenati. Ma era il passato. I Chiaravalle non erano più cavalieri da un millennio e il nostro titolo di Vecchia Regina Templare era decaduto da così tanto tempo che era impossibile dare una data. Allora, perché Kadar era così convinto della mia colpevolezza?
Un momento.
Perdiana.
Damasco. A Damasco avevo incontrato dei cavalieri. Fratelli del Tempio in pattuglia.
No, non… non poteva essere. Dovevo essermi confusa, di certo.
Però.
E se non mi fossi sbagliata? E se, partendo da trent’anni fa, come diceva Kadar, io mi ritrovassi ora a vivere l’anno… 1191? Allora, avrebbe avuto ragione a credere che fossi una Templare, perché la Terrasanta era nel pieno della Terza Crociata, in quell’anno.
No. Ma come…?
Ero finita nella… Terza Crociata?
Perdiana. Che accidenti stava succedendo?
– “Nulla è reale, tutto è lecito”. Hai detto proprio questo, a Damasco. Lo ricordo molto bene.
Senza rallentare il passo di marcia, mi rigirai un po’ sul fianco sinistro, incrociando lo sguardo buio di Kadar che vegliava sulla mia nuca. Il corridoio in cui stavamo procedendo era quasi in penombra e la fila di vetrate a destra creavano mutevoli giochi di luce sui nostri corpi, distanziati da una lama e mezzo polso.
– Kadar…
– Sai perché ti ho portato qui, dopo che cademmo nel canale, Laura di Chiaravalle? – domandò a bruciapelo.
Feci cenno di no col capo.
– Perché mi ero ripromesso che, al tuo risveglio, ti avrei domandato il motivo per cui conoscevi il nostro Credo. Quello che sembri conoscere tanto bene, e per cui ho pazientato oltre il tempo concessomi.
Silenzio. – Il vostro Credo? Di… di cosa stai parlando, adesso?
All’improvviso, Kadar mi spinse contro le vetrate e l’impatto del mio corpo le fece vibrare pericolosamente su di noi, ma questo passò in secondo quando, riaprendo gli occhi per riprendermi dallo spavento, mi ritrovai col pugnale a molla premuto nella pancia.
– Ti do una sola possibilità, quindi vedi di pensare attentamente alla risposta, Laura di Chiaravalle.Allora, chi ti manda, veramente?
Pose quella domanda preciso e deciso, dalla sua espressione s’intuiva che non scherzava, ma proprio come prima, la paura mi aveva totalmente pietrificata nel mio corpo, rendendomi impossibile evitare la sua reazione contrariata.
Infatti, Kadar aggrottò subito la fronte e, seppur a malincuore, accennò a una lieve pressione sulla pancia, un avvertimento, chiaramente, che però riuscì a provocarmi i brividi incontrollati di un’impennata sulle montagne russe, con conseguente discesa in corsa e ginocchia molli come fatte di creta sciolta.
– Te lo ripeto di nuovo. – l’espressione del ragazzo era tesissima – Chi ti ha mandato da me, Laura di Chiaravalle, ah? Come fai a conoscere il mio nome? Chi ti ha detto il Credo? Un amico? Un traditore, una spia, i Saraceni, chi?
Sebbene ancora sotto shock, riuscii a focalizzare nella nebbia un pensiero ben preciso e che si rivelò decisivo in quella situazione. Kadar era completamente impazzito, o, per lo meno, non si ricordava più di me.  
Non sapevo cosa accidenti stesse succedendo, né perché mi trovassi nella Terza Crociata, né la causa oscura per cui la pressione della lama nello stomaco mi provocasse i sudori e i conati di vomito, ma di una cosa ero certa. Non era la solita allucinazione. Quella volta, era vera, e riusciva a farmi sentire delle cose come se fossero vive sulla mia pelle.
Ad esempio, l’imminente sentore che stesse per succedere qualcosa di molto brutto, se non mi affrettavo ad assecondare quella situazione e, soprattutto, Kadar.
– Se… se te lo dicessi, tu non mi crederesti mai. – biascicai incerta, completamente in balia dell’evolversi improvvisato degli eventi.
Subito l’attenzione di Kadar si riaccese, e disse – Avanti, allora, ti ascolto.   
– M-mia madre. Quand’ero piccola, lei… lei mi diceva questa frase per farmi passare i brutti sogni, ecco. So che è stupido, ma funzionava.
– … Mi stai forse prendendo in giro?
– Cosa?
– Dico, ti sembra che io abbia la faccia di un cretino, Laura di Chiaravalle?
Indugiai troppo sulla risposta e lui se ne accorse. Tuttavia, fu abbastanza abile a nascondere l’imbarazzo e montò, invece, un’aria di finta sufficienza dietro quel rossore verginale sulle gote.
– È impossibile che tua madre sapesse del nostro Credo. – biasciò secco. – Esso è il principio sacrale su cui si fonda l’intero Ordine e il suo agire, viene tramandato al momento dell’iniziazione e nessuno,  eccetto il Gran Maestro e l’Iniziato, è autorizzato a presenziare in quel momento. Quindi la tua affermazione è semplicemente ridicola.  
– Invece ti ho detto la verità.
– Non è vero. Sei una Templare, è naturale che tu menta.
– Allora, se sei così sicuro, perché hai scelto la via più lunga per riportarmi al tuo Gran Maestro?
La verità, ben studiata durante il cammino nella fortezza, lo colpì con la forza di una raffica di vetri appuntiti.
Vittima della confusione e di un angosciante dubbio, il giovane dal cappuccio cenerino mi afferrò con forza le spalle e fece compiere al mio corpo un breve volteggio lattescente, che avrebbe dato al sensazione di una danza, se solo non mi fosse ritrovata a esser lanciata contro la vetrata a destra. Le finestre tremarono spaventosamente, il fiato mi si spezzò in gola e nel drizzare lo sguardo mi ritrovai il volto di Kadar vicinissimo, i miei occhi bruni rimandavano il riflesso del mio viso nei suoi, duri come il ferro.
– Tu…– sussurrò. – Tu stai giocando col fuoco.
– Io non ho paura di ciò che mi farai.
– Stolta.
Gli strinsi forte l’avambraccio, ribadendo sicura – Io non ho paura. Kadar, guardami, non ho paura, perché so che presto finirà ogni cosa. Come sempre. Come deve.
Percepii le sue irridi dilatarsi per la paura, ma forse, era il riflesso del mio viso.
– Laura. Laura… di Chiaravalle. – pronunciò il mio nome come se d’un tratto si fosse ricordato di me, e questo, seppur debolmente, mi diede una nuova speranza.
– Kadar. – mi sporsi verso di lui, la mano sinistra tesa verso la sua guancia.
La lama che pressò pericolosamente sul mio stomaco. Impietrita nel colorito, tornai lentamente contro le vetrate.
– Kadar…?
– Non voglio sapere chi tu sia. – mormorò deciso. – Non voglio sapere perché conosci il mio nome. Non voglio sapere perché… guardarti mi provochi tanto turbamento. Non voglio… fidarmi di una Templare. Ciò che sto per fare, lo faccio per proteggere i miei fratelli.
Sentii la lama spostarsi sulla mia gola, di lungo sul filo tagliente.
Non ho paura, non ho paura. Ma comincia a far male, la pressione…  
No, no, ciò che non prendi sul serio, non può farti del male, Laura. Non è reale, non è reale, neanche questo dolore, questa sensazione terrificante...
Un rivolo di sangue scivolò sull’orlo del vestito immacolato. Un intenso bruciore. Un istinto. Un’idea. Una speranza. L’unica.
La bugia che mi avrebbe salvato da un destino ben peggiore della morte.
– Sono tua sorella, Kadar!
A quel punto, la pressione alla mia gola cessò bruscamente. Scivolai dalle inferriate col fiato corto e prosciugata nelle forze, il sangue mi pompava come un treno nelle vene e le dita dei piedi e delle mani scottavano, e seppur titubante m’imposi di guardare in faccia Kadar.     
Era visibilmente sconvolto, stava tremando come in preda alle febbri e il suo viso era pallido come un lenzuolo, ma i suoi occhi, quelli erano vigili e inchiodati su di me, immobili, fantasmi.      
Mio dio.
Che cosa avevo fatto?

*     *    *

Uno spicchio di luce lacerò il velo d’oscurità e penetrò attraverso le membra sottili delle mie palpebre, risvegliando, poco a poco, tutti i miei sensi principali.
Il naso infreddolito captò l’odore inconfondibile del legno e quello più difficile della paglia, un gran bel covone, a giudicare dall’intensità del profumo, e il tatto mi suggerì che era molto vicino, direi impastato sulla mia guancia con la saliva di un’intera nottata.  
Poi, le orecchie cominciarono a captare scricchiolii e fruscii distanti, mentre le membra si risvegliavano e riprendevano le loro naturale vibrazioni, tendendosi e stirandosi lentamente sotto i venticelli caldi che entravano dalla finestra.
Quella domenica mattina, notai subito, era particolarmente calda e umida abbastanza da incollarmi i vestiti addosso, ma quello era l’ultimo dei miei problemi. Infatti, l’abitudine mi aveva insegnato che, se c’era una finestra aperta di domenica mattina, Agata doveva essere già nei paraggi a sbrigare le faccende di casa.
Così, iniziai il mio piagnisteo per convincerla a lasciarmi riposare un altro po’.
– Agata, ti prego, ho avuto una nottata agitata e sono davvero decisa a non svegliarmi prima dell’ora di cena. Lasciami dormire…
– Cena? Ma dove accidenti credi di essere, in un ostello di Gerusalemme?
Una voce cavernosa, calcata nello sforzo di camuffare un forte accento inglese. Una voce che, decisamente, non poteva esser di Agata.
Colta nella confusione del primo risveglio, non mi resi conto d’esser sdraiata su un covone di fieno e finii col cascare sul terriccio cosparso da pagliuzze dorate, impedita dalla sottana arrotolatosi tra le mie ginocchia. Col fiato grosso per la sorpresa, andai subito a sbrogliare il groviglio che mi bloccava a terra, quando il nitrito di un cavallo riecheggiò nell’aria e fu allora, mentre drizzavo gli occhi confusi verso l’entrata, che incrociai lo sguardo burbero di un omaccione con una folta barba bruna e la stazza colossale di un lottatore.
Indecisa su come reagire dinanzi a quel perfetto sconosciuto, dovetti passare in rassegna i suoi indumenti, scarselle di pelle in vita e stivaloni consunti, per stabilire che egli era un mastro fabbro, o più probabilmente uno stalliere, ma non ebbi tempo di pensare ad altro, che quello si avvicinò con tre falcate ampie e si chinò a riporre qualcosa sul pavimento.  
Abbassando gli occhi, vidi che si trattava di una tavoletta di legno con sopra un po’ di pane speziato e un grappolo d’uva verde e turgida d’acqua zuccherina.
– Spero che tu abbia fame, ragazzina, perché Kadar si è raccomandato calorosamente che tu divorassi fino all’ultimo boccone. – commentò mentre si rimetteva in piedi.   
Guardai incerta l’offerta di cibo per un altro po’, poi rivolsi l’attenzione sull’uomo e, oltrepassandolo, verso il corridoio alle sue spalle, illuminato dai fasci caldi del primo giorno, e fu allora che mi tornarono alla mente brevi barlumi della notte scorsa. Il profumo dell’ebra carezzata dalla brezza notturna, piccoli puntini luminosi nel cielo, poi un grosso casolare di legno e una lanterna sbiadita appesa sopra una grande porta.
– Queste sono le scuderie del villaggio… dei cappucci bianchi, non è vero? – domandai con un fil di voce.
L’uomo arcuò le sopracciglia scarmigliate. – Mangia, o Kadar mi romperà i coglioni per tutto il dannato giorno. – fu tutto ciò che disse.   
Quando l’uomo uscì dallo scomparto per ritornare ai suoi affari, decisi all’istante che l’avrei seguito, dunque arrancai svelta per rimettermi in piedi tra la gonna e il fieno secco e mi precipitai in corridoio.
Una gran luce e pulviscoli d’oro che fluttuavano nell’aria, poi il muso scontroso di uno stallone color Sauro che s’impennò sulle robuste zampe posteriori e gridò all’intruso, sbattendo così forte gli zoccoli contro il divisore del suo recinto da mandarmi a terra senza emetter fiato.
Sbattei con forza il sedere, contorcendomi per il dolore con la bocca stretta e gli occhi puntati sull’enorme bestia che continuava ad agitarsi e calciare in preda al panico, neanche fossi una serpe emersa dal fieno, quando un ragazzino in tunica grigio proiettile entrò di corsa nella mia visuale e si precipitò a calmare il cavallo prima che facesse saltare via le giunture dalla porta.
Non seppi perché, ma la sola vista della sua mano che si tendeva verso i denti della bestia mi fece balzare sulle ginocchia.
– Per la miseria, ragazzino, allontanati subito di lì, o ti farai male! – esclamai e mi tesi ad acciuffarlo.
Ma non ce ne fu bisogno.
Infatti, assistetti con meraviglia alla magia quel moccioso, poco più che undicenne, che riuscì a domare il Sauro con poche carezze gentili e svelte. In pochi istanti, il cavallo si acquietò ed io rimasi lì, ammutolita e stupefatta in mezzo al corridoio delle recinzioni.
– Eh, hai paura dei cavalli, pulzella. E comunque, non te la prendere per il ragazzo, è sordo come una campana.
Voltai leggermente il capo a sinistra, scrutando con la fronte sconvolta finché non vidi lo stalliere mentre era intento a svolgere il suo poco rimunerato lavoro, quello d’inforcare la paglia, sollevarla e dividerla equamente tra i cavalli, che avrebbe poi strigliato, pulito e curato, finché un cavaliere non sarebbe andato lì e gli avrebbe richiesto di separarsi da una delle sue preziose creature.
Sbuffai. Maledizione. Ero ancora bloccata in quel sogno.
– Non so bene cos’abbia. – continuò poi. – Credo che abbia le orecchie otturate da qualche tipo di male, ora non sto qui a raccontarti quale, perché, insomma, non sono un dannato medico, ma un guardiano. – borbottò.
– Ve l’ha detto lui? – domandai mentre mi rimettevo in piedi.  
– Magari. Manco parla, quello là. – tagliò corto e riprese a inforcare il foraggio dei cavalli. – Ma che t’importa di un comune garzoncello, se posso chiedere?
Non risposi subito, perché il mio sguardo deviò per un attimo sul moccioso, beatamente chiuso nella sua bolla di silenzio mentre continuava a coccolare il cavallo, dunque tornai sullo stalliere e sbuffai. Non dispiacerti, Laura. È solo un sogno.
– Avete detto che è stato Kadar a portarmi la colazione, questa mattina. – dissi a quel punto.
– Non proprio. Ho detto che mi avrebbe annoiato se, venendo qua, ti avesse trovato ancora addormentata e senza nulla nello stomaco. A proposito, che hai contro l’uva, perché non vai a mangiare?   
Diedi uno sguardo alle mie spalle, deglutendo a vuoto. In effetti, avevo un piccolo languorino…
Un attimo, ma cosa andavo a pensare?
– Dì un po’, sei l’amante di Kadar? – fece quella domanda a bruciapelo.
Drizzai lo sguardo con un rossore stizzito lungo il naso. – È questo che vi ha raccontato? Che sono la sua amante?
L’uomo si fermò dallo spalare, scrutandomi tra il pensoso e l’incerto. – No. No, non l’ha detto. In verità, non ha detto granché sul tuo conto. Solo che dovevo trattarti bene, e di non perderti d’occhio neanche per un istante.
– Capisco. – sospirai. – Per cui, sarò bloccata in questo posto ancora per molto, suppongo. Bene.
– Accidenti, deve farti davvero schifo Masyaf.
– Ma…Masyaf?
– È il posto in cui ti trovi, dolcezza. Ma non farti impressionare dal puzzo di culo d’asino e la noia di un piccolo villaggio di montagna, perché, se consideri che la guerra qui non arriva, e che le estati sono belle fresche, allora, vedrai, Masyaf non è peggiore di Acri, o Arsuf.
Rimasi in silenzio mentre l’uomo riprendeva a inforcare nel fieno, assimilando, seppur a fatica, le nuove informazioni acquisite e sempre più complesse. Di tutte le epoche in cui potevo capitare, dovevo proprio finire nelle Crociate?
– Voi non sembrate di qui. – osservai poi, tanto per fare conversazione.
– No, infatti. Nel mio sangue ci sono le praterie verdeggianti del Sussex e le acque incontaminate del fiume Crawley, dove passavo le estati della mia infanzia a giocare con mia sorella, la piccola  Bessie. – raccontò con un mezzo sorriso. – Lei è rimasta a casa, povera donna, a curare quel vecchio bastardo e violento di nostro padre. Io, invece, me la sono squagliata con la prima nave verso Damasco. Credevo di trovare fortuna, là. –  poi, indicò col mento il ragazzino. – E invece, ho trovato lui.   
– Cosa vi è accaduto?
– Mi sono ritrovato ad accettare questo lavoro come spala merda, mentre il ragazzino mi è venuto dietro perché era rimasto solo al mondo. Così, eccomi qua, a curare queste belle bestie, e di tanto in tanto affitto uno scomparto ai ragazzi su al forte che vogliono dedicarsi ai giochi concupiscenza, di tanto in tanto vengo a sapere qualche segretuccio…
– Che voi, Richard Frye, stalliere e  amico gradito alla Confraternita, non direte mai ad anima viva, non è vero? – una voce s’intromise da bordocampo, entrando ben presto anche nella nostra visuale.  
Kadar arrivò col cappuccio ardesia calato sul viso, sicuro e ammaliante mentre incedeva a noi nei suoi abiti cavallereschi, sicché anche il garzoncello venne attirato dalla sua fulgida persona e ne rimase ammirato, ed anche io, che avrei dovuto sperare di non vederlo mai più, mi ritrovai con lo stomaco scombussolato da uno strano formicolio caldo.
Per contro di noi giovani, l’attempato Richard squadrò Kadar con cruccio tutt’altro che pacifico.
– Ma guarda, chi non muore si rivede, eh. – brontolò infatti, sporgendosi verso di lui mentre bisbigliava – Dannazione, Kadar, eravamo rimasi che saresti stato qui al suo risveglio, io non so trattare con le ragazzine, te l’ho detto!
Il giovane, però, sminuì la cosa ritraendosi dall’alito acidulo dell’uomo con un sorrisino puerile.
– Suvvia, Richard, non mi dirai che ti sei fatto mettere alle strette da una ragazzina. – poi lanciò un’occhiata vispa al garzone che lo fissava ininterrottamente dal suo arrivo, aggiungendo – In oltre, confidavo che il moccioso l’avrebbe tenuta impegnata sino al mio arrivo. Mi sembrava così entusiasta, ieri, all’idea di avere una bella ragazza per le scuderie.  
Uno scambio strano di sguardi e movimenti delle sopracciglia, poi il garzoncello tirò un’espressione imbarazzata e, guardandomi di sfuggita, tornò di spalle con uno scatto impacciato. Il più grande dei due gongolò soddisfatto.
– Lascia in pace il garzone, razza di disgraziato. – Richard non esitò a difendere il suo pupillo. – Piuttosto, va’ a calmare quelle scimmie ammaestrate che chiamate Professi, che non la smettono di scorrazzare per il villaggio a creare confusione. Quando diavolo andranno nel recinto?
Messo un po’ alle strette dall’incalzare tedioso dell’uomo, il ragazzo prese respiro calandosi il cappuccio sulle spalle, scoprendo, con mia sorpresa, un volto teso e stanco, probabilmente i segni di una nottata insonne passata a rigirarsi convulsamente nel letto.
– Presto, Richard, presto. – lo rassicurò sereno.
– Lo spero. – bofonchiò, aggiungendo prima di congedarsi – Ah, e vedi di risolvere con la tua ragazza, Kadar, perché non posso tenere le stalle chiuse ancora per molto. Domani ci sono dei rientri.
Kadar sorrise. – Lo so.  
Quando il burbero custode si allontanò nelle scuderie, il ragazzo si rivolse al garzoncello, che era rimasto in dispare nel tentativo di leggere la discussione sulle nostre labbra, e con un buffetto gentile gli fece cenno di lasciarci soli. Il ragazzino obbedì senza storie e si dileguò alla svelta nel corridoio.
– Mi guardi con aria trucida, Laura di Chiaravalle. – esordì di punto in bianco.
Colpita nel vivo, mi raddrizzai svelta sul busto. – Non… non ti guardavo trucida. – balbettai.
Lui roteò le irridi cristalline su di me, dicendo con un sorriso – Va bene. Tranquilla. Hai il diritto di guardarmi così. Ma abbi pazienza, è stato tutto molto… veloce. Ed io mi sento ancora confuso, molto, confuso. Capisci?
– Sì, capisco. – e abbassai la testa.
Perdiana, che cosa avrei dovuto fare, adesso? Dovevo tirare di nuovo in ballo la storia che ero sua sorella? O far finta di nulla, sperando che la cosa scivolasse da sola nel dimenticatoio?
Ma soprattutto, se gli avessi raccontato quella menzogna, che mi ero studiata così attentamente prima di crollare sul letto di fieno la notte prima, ebbene, ci avrebbe creduto?
– Ascolta, Kadar, io devo dirti una cosa…
– Sai, quando avevo dodici anni, ogni giorno, all’ora del tramonto, mi recavo sul bastione e incontravo un mio caro amico per trastullarci nel gioco degli scacchi. – cominciò a raccontare soprappensiero. – Era un ragazzino decisamente competitivo e di solito io perdevo in poche mosse, ma quella volta riuscii a strappargli un’esigua somma di denaro e lui non resse la sconfitta. Sferrò due spinte innocenti, nulla di che, ed io inciampai nel parapetto del bastione. Impiegai tre mesi prima di riprendere a zoppicare nel cortile, sei ad abbozzare una camminata pulita. Ma un dolore occasionale alla gamba è un prezzo ragionevole per aver avuto salva la vita quel giorno, non credi, Laura di Chiaravalle?
Indugiai. – Perché mi dici questo?
Mi guardò. – Perché quel giorno mi venne data una seconda possibilità. Quindi, avanti, racconta pure. Raccontami pure la tua storia. “Sorellina”.

*      *     *

Non ero mai stata una brava bugiarda, ma quando mentivo ci mettevo di fantasia, forse, anche troppa. Quella volta, però, confidai che la mia tendenza all’esagerazione mi avesse fruttato una buona storiella da raccontare a Kadar, qualcosa su cui potesse ricamare ciò che volesse, senza però poterne mai trarre delle conclusioni soddisfacenti.
Odiavo mentire, ma non vedevo come avrei potuto convincerlo a fidarsi di me. Così, misi su un bel affresco bucolico e avvolsi una matassa di vicende assurde, così intricate che, alla fine, Kadar non avrebbe potuto far altro che fidarsi, o condannarmi per sempre.    
– Provengo da un villaggio modesto, dove il tempo è sempre buono e le pestilenze non arrivano grazie all’inverno freddo che ne impedisce la diffusione. – raccontai. – Le campagne vicine davano ogni anno un raccolto vigoroso e la gente cresce allo stesso modo, piano e in ombra sotto l’abazia della collina. I monaci erano dei santoni schivi e riservati, che studiavano dalle enormi vetrate la vita di sotto e passavano la maggio pare del loro tempo a studiare nello scriptorium, piegati come campanule tristi sui cinquanta leggii. La loro riservatezza aveva scatenato qualche pettegolezzo di pauese su presunti rapporti sacrileghi e riti magici, così, quando si venne a scoprire che a turno i monaci venivano nella nostra casa per portarci noci dall’albero del chiostro e utensili per la casa, le dicerie si triplicarono. Da quando ne ho memoria, io e mia madre abbiamo sempre dovuto provvedere alla nostra sopravvivenza, ma tutto sommato ci riusciva bene, questo anche grazie all’aiuto dei monaci.
– Perché i monaci vi aiutavano? – domandò Kadar.
– Il monastero risaliva al periodo della fondazione dell’ordine cistercense, e i suoi seguaci avevano ancora un profondo rispetto per il capostipite dei Chiaravalle, anche se ormai eravamo ridotti in povertà. Ci vendevano i manufatti dell’abazia a poco prezzo e noi li rivendevamo il doppio al mercato, perché, checché se ne dica, chi disprezza compra, e molto anche. Durante il pomeriggio, poi, andavo alla collina, per le lezioni dei maestri nel giardino.
– Sapevi che i Chiaravalle avevano servito l’Ordine Templare, quando erano in Terrasanta?
– Sì. E credo che i monaci mi avessero accettato alle loro lezioni perché, in cuor loro, speravano di veder risorgere la Vecchia Regina.
Mi presi un minuto di pausa, respirando e cercando ispirazione nell’area circostante. Richard Frye era fuori assieme al garzoncello per rifornire alcuni secchi al pozzo, i cavalli stavano sgranocchiando il foraggio e la sentinella al forte aspettava l’arrivo di qualcuno per avere il cambio nella sesta ora del giorno, quando l’aria si fa così pesante da rallentare l’intera vita circostante, anche nell’immaginario villaggio di Masyaf. Noi eravamo seduti poco più in là, sotto la finestra difronte all'entrata.
– Andava tutto alla grande, davvero. – dissi. – Poi, neanche un anno fa, mia madre si è ammalata irrimediabilmente di una febbre letale.
Il giovane, che fino a quel momento era rimasto in silenzio meditativo su una pagliuzza di fieno che rigirava tra le dita, si volse su di me con uno sguardo perso e con la fronte gridava alle condoglianze.  
– Mi dispiace. Davvero.
Per contro, lo rassicurai dandogli uno schiaffetto distratto sul ginocchio.  
– L’inverno scorso è stato uno dei più difficili della mia vita. – ripresi. – Nessuno voleva più comprare da me, mi scansavano come un’appestata, e, come se non bastasse, i monaci avevano perso la speranza di veder risorgere la Vecchia Regina Templare. Interruppero i miei studi, si tennero tutti i segreti che avevano promesso di svelarmi per loro, e, quando andai sotto le loro porte per delle spiegazioni, tutto ciò che dissero fu: “ la Vecchia Regina non può rinascere dal ventre freddo di una ragazzina che non conosce nemmeno il suo passato.” Allora, capii che sapevano qualcosa, ma ne ebbi la conferma solo quando, un giorno, mentre rovistavo nel baule nella stanza di mia madre, trovai una pila di vecchie lettere.
Kadar rimuginò intensamente, poi chiese – Una committenza d’amore?
Annuii senza pensarci, quasi precipitandomi per paura che trasparisse l’incertezza nel ricamare filo dopo filo la tela velenoso della mia lingua.   
– Alcune lettere erano davvero vecchie, risalivano a un anno prima della mia nascita. – spiegai. – Certe erano davvero difficili da interpretare, perché non erano scritte nella mia lingua. Credo fosse un sistema per tenere il contenuto privato, scrivere in lingue diverse. Comunque, ho maneggiato quelle lettere almeno mille volte, ma era impossibile capirci qualcosa conoscendo solo metà della committenza.
– Per cui? – domandò Kadar, non senza un certo snervato scetticismo. Deglutii.
– Decisi di recarmi nell’abazia, alla ricerca di qualcuno che potesse tradurmi l’altra parte della committenza. Ma ogni monaco, dal primo all’ultimo, non appena ascoltava del mio ritrovamento, mi scacciava come se avesse il diavolo in corpo. Solo uno dei maestri che faceva lezione nel giardino, e che frequentava la casa assiduamente quando mia madre era ancora in vita, ebbe il coraggio di concedermi udienza nello scriptorium. Sebbene la sua relativa giovinezza, il monaco era tra i più eruditi in fatto di lingue e seppe tradurmi alla perfezione l’altra parte della committenza, ma non fece solo questo. Mi disse che mio padre aveva dovuto allontanarsi da mia madre quando era incinta, che era ripartito con la nave su cui era arrivato tempo prima, perché il loro desiderio di famiglia era irrealizzabile in questa vita. Ciononostante, lei non smise mai d’aspettarlo.
Senza tradire la traiettoria del mio sguardo, vidi sott’occhio Kadar che rimuginava intensamente su un’immagine esatta.
Una nave che solcava mille leghe d’acqua salata, le coste salmastre di un’antica terra di limoni e conchiglie, e lì, sulla riva di una spiaggia straniera, vide una donna che aspettava con la sua figlioletta in braccio.    
Quell’immagina non apparteneva ai suoi ricordi, ma era comunque bellissima, e lo toccò più di quanto avrei creduto possibile, più di quanto avrei potuto sperare.
– Io non sapevo della vostra esistenza, Kadar. – incalzai ora che il ferro era caldo. – Anzi, non… non so neanche cosa facciate, voi incappucciati, né perché ce l’abbiate tanto coi Templari, o la mia famiglia. Ma so che mia madre ha amato uno di voi, e che questo non andava bene. So che ci ha lasciate perché doveva. E so, Kadar, che quell’uomo era tuo padre.   
– Come puoi dirlo con certezza?
– Le lettere, Kadar. Parlavano anche di te. Proprio non vuoi vederlo? Il Credo, il nostro incontro a Damasco, tra milioni di persone in cui avremmo potuto perderci… ci siamo ritrovati proprio noi. È stato il destino, a volerci riunire. Fratello. Guardami. Tu mi credi, non è vero?
Gli presi il viso tra le mani e Kadar fu costretto a guardarmi negli occhi.
Era sul punto di crollare, ormai. Le crepe avevano minato la fortezza della sua mente, era solo questione di attimi e mi avrebbe dato ragione su tutto. Ed eccolo, che dischiuse le labbra, e dirmi…
 – Io non ti credo.
Il colpo mi finì incastrato in gola. Ritirai le braccia lungo il corpo, fissandolo ammutolita mentre mi portavo un pugno stretto al cuore.
– Kadar…
Non mi diede il tempo che si alzò di scatto sulle gambe. Tirò il cappuccio sulla sua chioma corvina, nascose i lacrimoni che gli avevano inondato gli occhi e s’incamminò prima che iniziassero le mie grida.
– No, Kadar, Kadar! Non puoi andartene così! Non puoi lasciarmi, non puoi! – ruggii.
Gli corsi dietro nel tentativo d’aggrapparmi alle sue vesti, ma lui mi scivolò tra le dita, come fumo bianco.
– Non puoi abbandonarmi così! Non di nuovo! Kadar! Kadar!
Lui, però, m’ignorò e spalancò l’uscio scricchiolante con un solo braccio. Un ultimo, disperato slancio verso le sue mani, e ricevetti il rimando della porta in faccia.  

*      *      *

Quando il manto notturno scese e portò con sé il fresco aroma delle piante lungo il pendio, e quello speziato della cena dalle cucine, mi tornò alla mente il ricordo di Agata che si arrotolava le maniche della tunica fin sopra i gomiti e faceva saltare la frittata di uova e cime di cipolla nella padella, una, due, tre volte, prima di serviva a cena con del vino, rigorosamente, un Brunello di Montalcino trafugato dalla preziosa enoteca di mamma.
Ma quella, era per adesso un’altra vita.
Dopo averlo convinto che stavo bene, e che gli occhioni rossi non erano dovuti al pianto, Richard Frye si sincerato di potermi lasciare da sola per andare ubriacarsi di cibo e chiacchierare con degli estranei nella locanda in fondo alla strada, mentre il garzoncello, che mi sembrava meno sincero a lasciarmi sola, alla fine si dileguò senza neanche curarsi di chiudere la porta principale.
Un po’ sospettai che la sua non fosse stata semplice sbadataggine, che avesse intuito le mie intenzioni nel corso della serata, quando mi aveva intravisto mettere la colazione di quella mattina in un fazzoletto da viaggio, e che avesse deciso di rendermi le cose più facili, costringendomi a cogliere quella che forse sarebbe stata la mia unica occasione di fuga.
E così stavo facendo.
Avevo raggiunto il recinto del Sauro, stretta nei modesti abiti con una mano al petto e l’altra alta a sorreggere la lampada a olio, nel mio scomparto avevo già pronta una sella con le bisacce piene per il viaggio. Mi sincerai che il corridoio fosse deserto, dunque mi rannicchiai sulle ginocchia e  illuminai con la flebile luce la serratura del recinto.
Non sapevo cosa stavo facendo, in verità. L’unica cosa che riuscivo a pensare era che dovevo andar via.
Via da Masyaf, via da Kadar, via da tutta quella follia e da un passato che stava risalendo con gli artigli dalla parte più oscura della anima, lacerando, spezzettando, dissolvendo…
Il rumorino del gancio a uncino che era scivolato con successo dal chiavistello, mi riportò alla realtà.
Rincuorata, mi affrettai nel buio a tirare fuori il cavallo dal recinto, quando, all’improvviso, giunsero dal fondo del corridoio flebili nitriti allarmati. Lentamente, decisi di agganciare la lampada al muro vicino. Scrutai un po’ nel buio…  
E il cuore mi piroettò in petto. Un ombra.
Col rischio di torcermi una caviglia nello slancio, mi precipitai di corsa a nascondermi in uno scomparto vuoto, aggrappandomi in scivolata al muro e schiacciandoci subito il petto sopra per farmi piccola piccola, un insetto così minuscolo da rendersi invisibile nel buio…
Captai dei passi.
Passi cauti, e decisi allo stesso tempo, che stavano avanzando a invadere il corridoio, mentre i cavalli nitrivano e si ritraevano terrorizzati nel fondo dei loro recinti.
Rimasi in attesa finché non sentii quei passi fermarsi davanti al recinto del Sauro, pochi metri più in là, c’ero io, rannicchiata a pregare con la fronte e le ginocchia sul muro.
Drizzai lo sguardo solo perché avevo paura di perdere del tutto fiato, e fu allora che notai sopra la mia testa una fessura a forma di crisalide, che avrebbe potuto darmi una visuale sicura sul corridoio.
Con l’adrenalina che mi pulsava nelle tempie, riuscii a drizzarmi quel tanto che bastava per sbirciarci dentro.
C’era un uomo massiccio fermo davanti al recinto, con il cappuccio calato sulla testa e il corpo sinuoso in posizione di riposo, mano poggiata sull’elsa intarsiata della spada e stivali divaricati a terra, che ispezionava con le sue rote di fuoco ogni centimetro, ogni ombra, ogni granello che fluttuava nell’aria immobile delle scuderie.  
Riconobbi l’inconfondibile portamento altezzoso di Altaïr, giunto fin lì in quel che mi parve una esser battuta di caccia notturna, forse, una missione di recupero per conto del demone Caronte, che era ormai troppo vecchio e stanco per correre dietro alle anime fuggiasche dall’inferno, così mandava lui, che era di gran lunga il più spaventoso, il più veloce e letale tra tutti i suoi figli, a compiere il lavoro sporco.
Ma se Altaïr fosse lì per me non era qualcosa che volevo scoprire in quella vita, che, d’altronde, si trattasse di sogno o realtà, era l’unica che mi era stata data, così optai per la scelta più saggia; una silenziosa e vile fuga.
Il fato volle, però, che, mentre io mi raccoglievo per correre verso la porta alla prima occasione, il giovane uomo si calasse il cappuccio con un movimento fluido, intingendo sotto la flebile luce i  suoi capelli, irti e di un caldo biondo scuro, e la pelle ambrata, e la barbetta lungo il volto asciutto, perfino la sensuale vena sul lato destro del collo, che si stese in tutta la sua lunghezza quando si girò a guardare il recinto del Sauro.
Di certo, tra tutti i figli di Caronte, Altaïr doveva essere anche il più affascinante, perché il cuore mi si bloccò in petto, indeciso su quale lato dover cadere.
Fu allora, quando avvertii le guance tingersi di rosso e il petto venir smosso da uno strano calore,  che due lacci di carne uscirono sparati dall’oscurità e afferrarono il petto del giovane con impudente sicurezza e paralizzante sensualità, cominciando così a carezzarlo, a ghermirlo, a sedurlo come solo le mani dolci di una femmina esperta potevano fare.    
Infatti, dalle possenti spalle dell’uomo emerse una creatura dall’aspetto modesto e con una cascata di peccaminosi ricci scuri che le ricoprivano l’intero corpo opulento, un’odalisca di miele e seta verdognola, che cominciò ad arrampicarsi come un’edera lungo tutto il corpo Altaïr.
Lo toccava, e lo stuzzicava strofinando i seni sul suo petto, infilando le dita tra la sua chioma, muovendo le ciglia e guardandolo diritto negli occhi mentre le sue labbra sussurravano parole svelte, promesse che non riuscii a carpire. Poi, proprio sotto i miei occhi, Altaïr, cui natura rimaneva pur sempre umana, soccombé a lei e si lasciò andare ai bisogni della carne.
La prese per i fianchi e se la incollò al bacino, provocando il sorrisino compiaciuto di lei mentre lui si sporgeva e addentava il primo, intenso bacio di una lunga serie, la più perversa, avida, violenta successione di baci che avessi mai visto con i miei occhi vergini.
Persino lo schiocco delle loro lingue, che si scontravano e arrovellavano, riuscì a provocarmi imbarazzo e disgusto per me stessa.
D’un tratto, qualcosa cambiò nello schema di potere. La donna provò a infilare le mani nei suoi pantaloni e, nel mentre, saggiare la nuova cicatrice sulla bocca di Altaïr, ma lui la interpretò come un’invasione e subito la spinse contro il muro, sopraffacendola in tutta la sua enormità.
Le slacciò i vestiti contro la sua volontà, affrettò le cose e se la caricò subito subito sul bacino, tenendola forte a se per le gambe brunastre, ma proprio quando lei stette per gridare allo stupro,   Altaïr cominciò a baciarle il collo, e a carezzarle le gambe, la coscia il sedere, a respirare dolcemente il profumo lungo quella mandibola sottile, a desiderarla piano…
Qualcosa si mosse dentro il mio stomaco. Era… invidia.
Quando poi il loro amoreggiare andò ben oltre le capacità d’immaginazione di una sciocca verginella, decisi di distogliere lo sguardo, e di scivolare a terra a stringermi forte le gambe al petto.
All'improvviso, avevo voglia di vomitare.




Angolo autrice:

E concludiamo con questa bella immagine di Altaïr, che si gode la vita da scapolo ora che può ( avrà sempre meno occasioni, in futuro, di fare quello che gli pare! ).
Allora, I Chiaravalle, o la “Vecchia Regina Templare”, come erano famosi all’epoca, erano templari, e Laura lo sapeva, eh! Certo, neanche io avrei voluto trovarmi nella fortezza degli Assassini di Masyaf se fossi stata in lei, ma questo ancora non lo sa, quindi, vedremo come reagirà, quando scoprirà che “nulla è come sembra”! E Kadar?  Beh, di certo la notizia di avere una “presunta sorella” l’ha scombussolato parecchio, ma è ancora presto per cantare vittoria, e Laura dovrà conquistarsi la sua fiducia, e non sarà il solo… “ci saranno dei rientri!”
Ricordo che quest’opera è di finzione e che la discendenza di Laura è inventata, per cui, la “genesi” della famiglia all’inizio del capitolo, i Sette Fratelli ecc… sono solo frutto della mia fantasia (ad eccezione delle informazioni sull’infanzia di Bernardo, su quelle mi sono informata xD).
Detto ciò, mi scuso per la lunghezza del capitolo, spero d’esser riuscita a proporvi qualcosa di decente e di non avervi fatto aspettare troppo! ^^”
Post scriptum: Sì, lo so, “Richard Frye”. Consideratelo l’antenato ignoto dei gemelli Frye! ;-)

Baci, Lusivia.


          
   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: Lusivia