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Autore: Bolide Everdeen    05/11/2015    0 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 11, Aaron Hepburn.]
L'unica pioggia era quella interna; le nuvole che quotidianamente si logoravano e si contorcevano.
Le nuvole che non sarebbero mai dovute esistere, eppure erano onnipresenti.
Prima o poi, sarebbe capitato il momento della rivalsa di Aaron. Scatenare quel territorio, far oscillare persino il distretto 6 e comunicare la sua presenza e il suo pentimento alla sua vera famiglia. Sopprimere con un tremolio suo padre. Non dovergli più rispondere.
Non stava capitando, ancora.
Ma avrebbe fatto piovere.
Genere: Generale, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Make it rain

«Dove stai andando, ragazzo?» C'erano talmente tante risposte a quella domanda. Via da qui. Via dalla tua boria. Ad esercitare il mio reale carattere e non la profonda negazione a cui mi state sottoponendo. Eppure Aaron si girò e rispose, semplicemente, alla figura di suo padre eretta sulla porta come se volesse imporgli il terrore che non fluiva più dalla sua sagoma:«Fuori.» E non considerò le voci successive, avviandosi per il vialetto della villa, sperando fosse l'ultima volta in cui percorreva quei passi.

Era inutile, d'altronde. Però aveva questa enorme malformazione, la speranza. La speranza che abrogava le urla di suo padre e faceva riaffiorare i suoi ricordi. Il distretto 6 prima di quello in cui si trovava, del distretto 11, dell'agricoltura e del clima torrido che l'accompagnava. Dell'assenza di pioggia e del pentimento implicito del cielo. Delle persone deperite per le strade.

Ecco dove si stava dirigendo.

Ad essere se stesso.

When the sins of my father
Weigh down in my soul
And the pain of my mother
Will not let me go

Well I know there can come fire from the sky
Till we find the purest of kings
Even though I know this fire brings me pain
Even so, I’m just the same

Il delitto fondamentale di Aaron era la rabbia. La rabbia era trasportata da altri delitti fondamentali, quelli di altre persone. Quello di sua padre. Lui aveva cinque anni, quando loro due si erano trasferiti alla ricerca di una vita migliore dove la povertà reale e relativa del 6 sfumava. Quel posto era il distretto 11. Aaron si chiedeva per quale motivo sua madre e sua sorella Elle non li avessero potuti seguire, per quale ragione erano rimaste indietro a condividere e spartire la fame fra loro due. Non aveva senso. Eppure era avvenuto. E suo padre, il lurido essere di cui portava il cognome, si era sposato con una ricca mercante. Così, per abolire ogni indigenza. Per rendere povero il suo spirito ed accrescerlo di rabbia. Senza mai devastare il ricordo di sua sorella.

Quando loro scapparono, lei aveva tre anni e degli splendidi e sinceri ed eterni occhi verde smeraldo. Talvolta si presentavano spontanei nella sua memoria, ed Aaron ne sorrideva. Non lo poteva evitare. Qualcosa di preoccupato, una misera preghiera e un misero conforto, scorrevano da essi, ed Aaron lo apprezzava. Nel momento in cui scomparivano, però, erano solo fuoco per la sua rabbia.

Allora camminava. Usciva e vagava.

Usciva e osservava il cielo.

Perennemente azzurro.

Non pioveva.

Make it rain
Make it rain down, Lord
Make it rain
Oh, make it rain

 

Aveva un amico; il suo nome era Matt. L'unico a conoscerlo realmente, a saper interpretare le sfumature del suo volto, i momenti in cui affondava all'interno della fame di una famiglia, dei sorrisi e di sguardi concreti di sua sorella, del passato che lo consumava lentamente. Si stava dirigendo da lui, in quella situazione. Sapeva dove trovarlo: per strada, nel quartiere ricco, a racimolare soldi con le sue scaltrezze che miracolosamente rientravano nella legalità. Si erano conosciuti in un'occasione in cui la desolazione di Aaron aveva occupato un intero deserto, non si poteva più rifiutare, nonostante il suo carattere solare sporgesse comunque, come nei brevi momenti in cui la vita lo privilegiava. E non si erano più dimenticati.

«Ehi, fratello!» lo salutò da lontano Matt. Riusciva sempre ad avvertire il suo avvicinamento. Aveva dei sensori straordinari, da quel punto di vista, dei sensori che confortavano sempre Aaron.«Ehi!» replicò lui, stringendogli la mano a mezz'aria, in una fervida e spontanea azione di euforia ingiustificata e tangibile.«Come butta?»

«Non c'è male. C'è bel tempo. Ma' e il resto della famiglia sono a lavoro, perciò sono venuto qui.» Matt era eccessivamente vivace per i rigidi possessori dei campi in cui il resto della famiglia era impiegata e lui stesso si era cimentato; non era adeguato allo schematizzare i suoi movimenti e renderli dei surrogati dei desideri di un unico individuo. Semplicemente, cantava, danzava, esultava dei minimi trionfi relativi alla piantagione. Troppo esuberante. Lo avevano scacciato. Perciò Matt si era adeguato a quel mestiere. Senza mai dilapidare le sue energie e replicarle con quelle degli altri.

«C'è un bel tempo.» Aaron lo ripeté lentamente, saggiando quelle parole. Chissà come era quello del 6. Non lo ricordava. Evidentemente, non era sensazionale. “Non c'è male”. Ogni volta che lo vedeva, Aaron trovava l'amico ancora più scarno. Ancora più punito. Ancora più privato. Aaron aveva il terrore di onde di rimorsi che si sarebbero potute presentare se lui avesse visitato il quartiere di Matt. Osservare la reale fame. Rimanerne costernato a causa del regime che imperversava dentro alla sua casa. Un regime che li accomunava più ad una famiglia di distretti con un numero minore che all'11. Aaron lo sapeva. Aaron se ne rammaricava.

The seed needs the water
Before it grows out of the ground
But it just keeps on getting hard
And the hunger more profound

Well I know there can come tears from their eyes
But they may as well be in vain
Even though I know these tears come with pain
Even so, I’m just the same

«Tieni. Ti ho portato qualcosa da mangiare.» Aaron porse un pezzo di pane il quale avrebbe potuto sostenere per almeno due giorni, o almeno così lui riteneva, la famiglia di Matt. Si erano dimostrati talmente gentili, nei pochi momenti in cui l'avevano trovato. Un poco austeri, nei suoi confronti, inquietati dalla figura del ragazzo ramato e pallido del quartiere ricco. Però Aaron li aveva coinvolti, invitati fra le sue simpatie, e talvolta si trovava a giocare con i fratellini minori di Matt. Alcune delle rare occasioni in cui riusciva ad esaminarsi e scorgersi allegro, a scorgersi come se stesso. A dimenticare, e stare bene. E stare bene.

Matt lo afferrò, ne strappò un pezzo e lo condusse alla bocca.«Grazie, amico. Se una volta mi porti una torta, non te la tiro in faccia, sappilo.» Parlava masticando, senza badare alle regole di educazione, senza alcuna regola di educazione. Con la fame. Esistevano differenti varietà di fame, accomunate dalla quantità. Una quantità che li trainava a comprendersi e sostenersi. Aaron sorrise e giustificò:«Non sai quanto sono cattive le torte della stronza. A volte sospetto che ci metta qualche veleno per uccidermi.»

Matt iniziò a ridere, sempre impegnato con il suo cibo. Nel loro codice, “la stronza” era la seconda signora Hepburn, l'usurpatrice.

Ogni tanto, Aaron aveva l'impressione che fosse lei con il suo esercizio di mercante a rubare le nuvole, e rendere emaciati Matt e i fratelli e la madre ed il padre e le persone che si univano a loro per dipingere un quadro di povertà. Spesso Aaron si domandava come potesse rivoluzionare la situazione. In quelle situazioni, l'impotenza si gettava su di lui come se fosse l'unico elemento esistente. Non scorgeva alternative. Ed il senso di colpa si accentuava, includeva nel suo terremoto anche il volto di Elle a tre anni. Di nuovo, la necessità di uscire si manifestava. Erano le azioni più comuni per Aaron. Poi scomparivano quando incontrava Matt. Tutto perdeva senso, conquistandolo. Ammirando.

«Come vanno oggi le vendite?» chiese Aaron, osservando i ciondoli pendenti dalla cintura dell'amico.«Sono tutti fratelli della stronza?» Un modo più tenue per adoperare la parola “stronzi”.

«Ah ah. Esattamente. Se sapessero che questi amuleti hanno un valore e reale e riverseranno la loro vendetta verso di loro...» replicò Matt, allargando le braccia come per inquietare l'aria ed i riluttanti Ottenne solo il divertimento di Aaron.

Matt si mostrò in tutta la sua integrità.

Aaron scorse la scompostezza di essa.

And the seas are full of water
Stops by the shore
Just like the riches of grandeur
Oh, no no, never reach the poor

And let the clouds fill with thunderous applause
And let lightning be the veins
Fill the sky with all they can drop
When it’s time to make a change

Camminarono, passeggiarono dialogando delle loro giornate, divertendosi su quelle. Distruggendo i dettagli che spesso erano i mostri dietro ai loro pianti, alle loro urla. Non erano comuni, come gesti; la loro magia però era fondamentale per loro due. Semplicemente per loro due. Il modo all'esterno veniva dimenticato. Non se ne dolevano. Avveniva già troppo spesso.

«Cosa capiterebbe se iniziasse a piovere anche sul distretto 11? Cioè, qui piove, però non piove mai veramente. Sono sempre trenta gradi.» Senza alcuna ragione e senza timore per questa privazione, Aaron rivolse il suo dubbio all'amico. Come lo potevano sopportare? Era la base o la conseguenza della loro permanenza in quel posto? Nonostante abitasse nel distretto 11 da tredici anni, non si era mai immedesimato nei spiriti dei conterranei, fra lui e quel passaggio si frapponevano decine di incomprensioni e di abitudini.

«Festeggeremmo. E sarebbe troppo strano perché succeda veramente» replicò Matt, scorgendo le nuvole. Le nuvole inesistenti. Immaginando le nuvole, evitando accuratamente il Sole che si confondeva fra la funzione di salvezza e di morte.

Festeggeremmo. Quelle che condividevano ogni giorno non erano delle feste. Erano dei metodi per sopravvivere.

L'unica pioggia era quella interna; le nuvole che quotidianamente si logoravano e si contorcevano.

Le nuvole che non sarebbero mai dovute esistere, eppure erano onnipresenti.

Prima o poi, sarebbe capitato il momento della rivalsa di Aaron. Scatenare quel territorio, far oscillare persino il distretto 6 e comunicare la sua presenza e il suo pentimento alla sua vera famiglia. Sopprimere con un tremolio suo padre. Non dovergli più rispondere.

Non stava capitando, ancora.

Ma avrebbe fatto piovere.

 

Make it rain
Make it rain down, Lord
Make it rain
Make it rain

Make it rain
Make it rain down, Lord
Make it rain
Oh, make it rain.

 

Spazio autrice

Suppongo di aver toccato il fondo. Sento come se questa one shot fosse differente dalle altre nella serie di cui è parte, “500 – Behind the scenes” che racconta dettagli delle vite dei tributi dell'edizione straordinaria degli Hunger Games in occasione del 500° anniversario, raccontata nella fan fiction interattiva “500”. Attenzione: è un'interattiva, perciò i personaggi non sono miei. Qui abbiamo Aaron Hepburn, distretto 11. Non racconto oltre.

La canzone di cui è riportato il testo è “Make it rain”, canzone che conosco solo sotto forma di cover di Ed Sheeran, ma scritta da Foy Vance. L'ho ascoltata prima di iniziare, e mi sono domandata: di cosa parla questa canzone? Qual è il suo testo? Ed eccoci qua.

Per chi si domanda come mai questa ancora non ha smesso di rompere le scatole con le sue storie, avverto che sono determinata a concludere la serie per una questione di rispetto verso tutti i creatori. Tutti hanno diritto a “vedere per l'ultima volta” i loro personaggi, che siano “celebrati” da one shot. Questioni di equità. Ne mancano ancora cinque, se non erro. Perseverate.

Alla prossima,

Bolide

  
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