Ritardo clamoroso,
lo so, e mi scuso con tutte le persone meravigliose – amiche
e non – che
seguono questa fan-fiction. Grazie per i vostri bellissimi commenti e
per il
supporto.
Ormai siamo quasi
giunti alla fine di questo viaggio, penso che ci saranno al massimo un
altro
paio di capitoli (ma non è detto, lo scopriremo vivendo). In
ogni caso, fan-fiction o meno, il cockles è lì
fuori che ci aspetta, amici miei, e in una quindicina d'anni potremo
goderci anche lo Jest (JJ/West).
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Like fathers,
like children
Chapter 4: I
don’t kiss and tell
Se
da una parte l’esperienza con JJ ha confermato la sacrosanta
pazienza di West
Collins, dall’altra ha ricordato più o meno a
tutti (interessato compreso) che
se il coraggio per lanciarsi col paracadute non gli manca, quello per
affrontare Jensen Ackles due secondi dopo aver quasi baciato la sua
unica
figlia non sembra essere pervenuto.
“J-Jensen”.
Jensen continua a fissarlo e West rimane immobile seduto sul bordo del
letto,
il naso che ancora gli pulsa forte, mentre Jay incrocia le braccia
rigido.
“Jensen, io… mi dispiace. Ma lo sai, io voglio un
bene infinito a JJ, lo sai
che non la farei mai soffrire!” blatera rapido West, gli
occhi sempre
incatenati a quelli dell’altro, il cuore che martella
impazzito nella cassa
toracica. “Lo sai che cosa significa per me JJ. Lo sai che ho
aspettato tanto…
e se tu lo ritieni giusto, Jensen, posso aspettare ancora. Posso
aspettarla.
Anche dieci anni. Dico sul serio”.
Jensen inclina la testa e West
è pronto a giurare che quegli occhi verdi siano
più pieni di tristezza e nostalgia, che di rabbia. Si chiede
che cosa stia
passando per la testa del texano, ma comprendere cosa passi per la
testia di un
Ackles, il più delle volte, è
un’impresa.
“West.
Io mi
fido di te. Sei un ragazzo responsabile, ti ho cambiato persino i
pannolini sul
set quando quell’imbranato di tuo padre non sapeva farlo, ti
conosco bene…”.
Jensen alza una mano, additando l’altro. “Ma ti
avviso. Se la fai soffrire, se
le spezzi il cuore…” la minaccia si ferma, rimane
sospesa. Non c’è molto altro
da dire. Jensen sapeva che sarebbe arrivato questo momento, tutti lo sapevano.
“Te
lo giuro” e
le parole di West grondano sincerità. “Non la
potrei mai ferire. Mai. Se lei mi
vuole, se mi dà una
chance, io sono qui”.
West si alza
dal
bordo del letto e si avvicina a Jensen, che per istinto gli batte una
mano
sulla spalla affettuoso. “Okay, West.
Okay…” Jensen sospira, ridendo amaro.
“Vai giù, ora. Tu sei disposto ad aspettare, ma JJ
non è molto paziente…”
West sorride
e
annuisce, abbracciando rapido Jensen e uscendo poi dalla stanza,
lasciando
l’altro disorientato, a riconoscere che effettivamente Misha
ha ragione. Ormai
i loro figli non sono più bambini, ma adulti. Uomini e donne
con coscienze, che
prendono decisioni, che si innamorano. E’ contemporaneamente
una bella e brutta
sensazione; riconoscere che i tuoi figli sono diventati grandi
è
contemporaneamente straziante e liberatorio: ha dello sconvolgente, ma
ti offre
un nuovo ventaglio di possibilità, ti dà il tempo
di respirare.
E’ questo che passa per
la mente a Jensen quando sta rientrando nella stanza
dei cimeli, dove Misha ancora giace, dove ancora aspetta che lui torni.
Sempre
lì, fermo, solido, una costante incancellabile.
“Mish…
hai
ragione. Dobbiamo parlare”.
****
La giornata, per
grazia divina, è conclusa. Partecipare a Gishwhes
è già di per sé estenuante, sfibrante addirittura – basta
chiedere a
chiunque. Se poi contemporaneamente si cerca di conquistare
l’amore della tua
vita alias amica di infanzia alias figlia del migliore amico di tuo
padre… beh,
la questione diventa un poco più complessa.
Ma
West non si è dimostrato solo paziente, negli ultimi anni.
No. Lui è anche
determinato. E sconsiderato. Tutti elementi molto utili per Gishwhes;
tutti
elementi che, con la scusa del doversi svegliare presto domattina per
costruire
un’orca di legno nel giardino di casa Ackles, hanno permesso
a Maison e West di
rimanere a dormire lì.
Ora, West
non sa
esattamente cosa gli sia preso. Se proprio deve dare la colpa a
qualcuno la darebbe
la colpa a Whatsapp, all’ultimo accesso di JJ avvenuto due
minuti prima e alla
prova che è effettivamente sveglia all’una del
mattino – proprio come lui. Che
non riesce a chiudere occhio mentre pensa a quanto è stato
vicino dal baciarla.
Perciò
adesso,
all’una del mattino e qualche minuto, in pantaloni del
pigiama e t-shirt di Stanford,
West bussa alla porta della stanza di JJ, che piano si apre.
Lei, e West
potrebbe essere un attimino di parte ma non troppo, è
stupenda. Ha i capelli
sciolti, appena pettinati, morbidi e gonfi. Ha un enorme maglietta di
jersey dei
Dallas Cowboys e le gambe – West,stai
calmo – nude. Lunghe cosce bianche che…
“West?”
lo
chiama lei e West sobbalza, alzando di scatto gli occhi e appoggiandosi
con
finta nonchalance allo stipite della porta.
“E-ehi…”
ride
nervoso West, mentre pondera quanto strano e potenzialmente perverso
potrebbe
sembrare correre a fare una doccia fredda all’improvviso.
“Vuoi
entrare?”.
JJ inclina piano la testa e sorride a vederlo nervoso. West sa che
l’atteggiamento da imbranato insito nel suo DNA è
adorabile e fa impazzire le
ragazze. Vorrebbe solo che non gli facesse dire idiozie.
“…
entrare
dove?”. Idiozie come questa.
“Nella
stanza,
scemo… vieni qui”. E JJ, buon
dio, lo
tira contro di sé chiudendo la porta piano. Tenendolo per
mano lo fa sedere con
sé sul materasso ed entrambi con la schiena poggiata alla
testa del letto,
cominciano a guardarsi.
West si
chiede
se non dovrebbe quindi far qualcosa, agire, fare
l’uomo. Dopotutto lui è il
più grande, lui è quello cresciuto nella
famiglia super-libera e progressista, col poliamore dietro
l’angolo, con falli
di legno comprati in Polinesia per soprammobili e…
“Westie?”
lo
chiama soffice JJ, col soprannome che usava da bambina e, in un certo
senso, lo
aiuta a tranquillizzarsi, gli rasserena i pensieri. Per un attimo sono
di nuovo
bambini e West è di nuovo piccolo, di nuovo su una barca con
la sua famiglia,
di nuovo in braccio a sua madre mentre guarda i riflessi che il
tramonto fa sui
capelli biondi di JJ.
Almeno sino
a
quando JJ non gli sale a cavalcioni addosso, stringendo le suddette
cosce nude
ai suoi fianchi e allacciando le dita dietro la sua nuca,
improvvisamente donna
e per niente bambina. A quel punto c’è ben poco
che lo lasci ancora lucido.
West la
osserva
a occhi sgranati inarcare la schiena e avvicinare le labbra alle sue.
D’istinto
la cinge, mettendosi seduto dritto e tirandola di più in
grembo, scoprendo per
fortuna – o per sfortuna – che l’unica
cosa che li divide sono solo le sottili
mutandine di lei e i propri pantaloni del pigiama.
Sono fermi,
ora;
l’una addosso all’altro, i respiri pesanti, le
bocche quasi unite. C’è una
tensione nell’aria che rende il tutto letteralmente elettrico
– e forse un po’
troppo per due ragazzi così giovani e che ancora non hanno
trovato il coraggio
di baciarsi. Eppure sembra ancora familiare: fra loro è
sempre stato così,
dopotutto; una carezza, uno sguardo, un abbraccio più lungo
rispetto a quelli
dati agli altri.
JJ si muove,
strusciandosi piano e baciando West sulle labbra, per breve tempo, di
nuovo
timida, e West vorrebbe tanto, ma tanto, essere impotente, in questo
momento:
tutto pur di non far sentire a JJ l’erezione crescente.
Vorrebbe
sapersi
trattenere, sapersi controllare, non mostrarle quanto la desidera e
quanto fa
male sentire di dover aspettare. JJ però lo tenta e lui
è solo umano. Così le
scosta i capelli, scoprendole un lato del collo, e mentre lo fa non
smette di
baciarla, non smette di godersi il respiro affannato di lei che si
mischia al suo. Le
accarezza la
schiena, mentre piega il capo per baciarle il collo. Punta la bocca
sulla
giugulare che pulsa frenetica, e in un istante West ribalta le
posizioni,
schiacciandola contro il materasso e incastrandosi fra le sue gambe con
la
facilità di chi sembra fatto per stare esattamente
lì, in quel modo.
JJ lo guarda
dal
basso, i capelli sparsi sul cuscino bianco e West si ferma ad
osservarla.
Guarda le sue guance rosse, le labbra già gonfie dai baci,
il petto che si alza
e si abbassa. Sorride e accarezzando la coscia destra coi polpastrelli,
si
sposta, stendendosi al suo fianco e baciandola di nuovo. “Va
bene così… vero?
Abbiamo tutto il tempo del mondo…”.
JJ annuisce
e
sorride contenta, abbracciandolo forte e baciandolo.
****
Chiaramente
non
vi sono regole precise da seguire dopo che hai passato praticamente la
notte a
pomiciare con la ragazza dei tuoi sogni (asciutti e
bagnati). Per cui West in un certo senso si limita a seguire la
corrente e a cercare di non annegare.
Più
o meno.
La cosa
buffa è
che, per quanto sia lui che JJ si sentano estremamente esposti e
diversi,
nessuno sembra notare qualcosa di differente in loro. Né
nella loro riscoperta
intimità, né negli sguardi furtivi che si
lanciano da tutto il giorno tra un
item assurdo di Gishwhes e l’altro. Nemmeno Thomas, nel suo
essere un perenne
guastafeste rompipalle, sembra agire in modo diverso intorno a JJ.
Sua sorella
Maison, dal suo canto, mastica una chewing-gum leggendo un libro
più vecchio di
lei di circa trent’anni mentre aspetta che il suo ritratto
fatto di lenticchie
di William Shatner (buonanima) si asciughi.
Per quanto
riguarda i senior, invece, West non è proprio certo di
quello che sta
succedendo a suo padre. Sì, di solito è molto
impegnato con Gishwhes a cercare
di non far crollare i server di Gishbot, ma in questi giorni
è… strano. E
non strano in mio-padre-è-Misha-Collins-che-vuoi-farci;
strano in c’è qualcosa
che mi turba,
c’è qualcosa di cui ho bisogno di parlare.
Misha
è in
effetti alquanto evasivo. Dal momento in cui ha varcato la soglia di
casa
Ackles – da solo, stranamente senza Vicki al seguito
–, non sembra dar peso a
molto di quello che gli sta succedendo intorno, troppo concentrato nei
suoi
pensieri.
West pensa
che
forse dovrebbe andargli a chiedere che cos’ha. E’
lì lì per mettere in pausa il
montaggio di alcuni item video quando Jensen, scendendo le scale
– anche lui,
stranamente solo in casa sin dal mattino presto – passa in
cucina a baciare JJ.
“Piccola,
sto
uscendo. Chiamami per qualsiasi cosa. E non
date fuoco alla casa. Qualsiasi danno verrà ripagato col
sangue, lo sapete”. JJ
rotea gli occhi, ascoltandolo annoiata, ma annuisce e gli dà
comunque un bacio
sulla guancia.
“Tranquillo,
papà… ci sentiamo dopo”. Un altro bacio
veloce sulla tempia della figlia e
Jensen si avvia fuori casa, seguito da Misha, che effettivamente non si
era mai
mosso dall’entrata, spiccicando appena qualche parola ai suoi
stessi figli.
****
Per
la prima
volta in oltre vent’anni d’amicizia, Jensen e Misha
non sanno assolutamente
cosa dirsi.
Sono
seduti sui
sedili posteriori del fuoristrada di Jensen, ognuno con la schiena
poggiata al
proprio sportello. Jensen trova che la posizione sia estremamente
scomoda,
vista la maniglia dello sportello che sente conficcata dritta in un
rene o
suppergiù, ma è comunque una situazione
familiare, questa. Tanto, tanto tempo
fa lo facevano spesso. Parlare seduti nei sedili posteriori
dell’Impala, tra una
pausa e l’altra sul set.
Sono
in un
parcheggio poco fuori Austin, dove la vista è ottima e dove
soprattutto è difficile
incontrare turisti che abbiano l’età giusta per
riconoscere uno di loro. Jensen
si guarda le mani e si accorge di star rigirandosi i pollici, nel
peggiore dei
cliché.
“Jensen,
volevi
parlarmi. Sono qui. Parliamo”.
Giusto.
Parlare.
Sembra facile.
“Misha…”
mormora. “Io…” sospira e alza gli occhi
al cielo, fissando le raffinate
cuciture interne del tettuccio della macchina.
“Mish… lo sai che… insomma, ci
conosciamo da tanti anni. Davvero, davvero tanti. Siamo invecchiati
insieme, in
un certo senso…” finalmente volge lo sguardo a
Misha. “Ma mi sembra che abbiano
ancora delle cose in sospeso”.
“Penso
proprio
di sì”. Jensen sbuffa una risata amareggiata alla
risposta neutrale di Misha. Vuole che parli
io, vuole sentirmelo dire.
“Non
è che io
voglia che il nostro rapporto cambi dopo aver messo in chiaro certe
cose. E’
che non trovo giusto… tutto questo”.
E’
Misha ora a
sbuffare. “Tutto questo cosa?
Avermi detto
che non ricambiavi quando era assolutamente falso e lo sapevano tutti,
compresa
tua moglie?”
Jensen
abbassa
gli occhi, trattenendo una smorfia. “Quello,
sì… ma anche averti lasciato in
pausa per così tanto tempo. Io credo
che…” sospira pesante, Jensen, come se
dire queste parole gli facciano male fisicamente. “Credo che
tu sia rimasto ad
aspettarmi per troppo tempo. E’ che i sentimenti che
c’erano fra di noi…”
“Che
ci sono, Jensen, non mentire a te
stesso.”
lo interrompe Misha seccato.
“…
i sentimenti
che ci sono fra di noi non sono quello che cerchiamo, non sono
abbastanza per…
per… non dopo così tanto tempo, Misha, non
dopo… umpf!”.
Di
certo
ritrovarsi Misha a cavalcioni su di sé non era il risultato
che Jensen sperava
di ottenere con una discussione del genere. Prova a muovere il capo, a
scuoterlo, a prendere Misha per le cosce e a spostarlo.
Perché non è giusto e
non si merita un contatto del genere.
Le
dita di Misha
incrociate dietro la sua nuca, però, gli impediscono di
muovere il capo e
quegli occhi blu, quei dannatissimi occhi
blu, lo ancorano al sedile.
“Jensen.
Jensen,
guardami. Guardami, ehi.” Misha
lo fissa, non lo lascia andare. “Io ti amo. Ti ho aspettato
quindici anni e ti
assicuro che altro tempo non cambierà nulla… il
punto è che tra un po’ non avrò
più l’età per salirti così
sulle ginocchia e il mio sesso orale potrebbe essere
accompagnato dall’utilizzo di una
dentiera…”
Jensen soffoca una risata, ma guardandolo sempre a occhi sbarrati,
incredulo.
“Ma,
ehi, io
sono qui. Se lo ritieni giusto, ti aspetto altri dieci anni.”
e Jensen sussulta
a quelle parole, il cuore in gola. “Mi sta bene. Credi che se
avessi potuto non
avrei smesso di soffrire per te? Credi che se fosse stato nelle mie
capacità
non avrei permesso a me stesso di smetterla di rincorrere chi non aveva
il
coraggio di desiderarmi? A questo punto, amarti è una parte
di me. E se ti
sembro sdolcinato, è okay, perché è
esattamente quello che sono in questo
momento e… cosa? Cos’è quella faccia?
Quella smorfia?”.
“Mish…”
mormora
Jensen, gli occhi quasi lucidi e le braccia adesso intorno alla schiena
di
Misha, tonica, incredibilmente, esattamente come l’ultima
volta che lo ha
stretto a sé così. “Ho voglia di
baciarti”.
“Oh…”
“Oh?
Tutto qua?”.
“Che
vuoi che ti
dica? Sono quindici anni che aspettavo di sentirtelo dire ad alta
voce”.