Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |      
Autore: Tikal    09/11/2015    3 recensioni
Due figure si stagliano davanti ai suoi occhi, fantasmi cerei contro il cielo scuro e plumbeo, una donna e un uomo, che lo osservano un po’ incuriositi e un po’ preoccupati – l’uomo, che presume essere Eustass Kidd, anche parecchio scocciato –: hanno la pelle pallida, come se non vedessero il Sole da secoli, e uno sguardo strano, che sembra perdersi tra le pieghe del tempo. L’uomo, inginocchiato poco distante, ha i capelli scarlatti e spettinati, tenuti su da un paio di occhiali da aviatore, e sorride, stirando le labbra dipinte di rosso in un ghigno macabro e mostrando un paio di canini stranamente appuntiti – ed è allora che capisce, perché quello non è rossetto, ma sangue.
********
La notte di Halloween, in un vecchio cimitero, cinque storie, raccontate da cinque narratori d'eccezione, e la ricerca della propria, smarrita tra la nebbia. C'è la storia di un amore perduto nel sangue, e la storia di due strani amanti; c'è la storia di un uomo e un ragazzo che hanno ritrovato chi avevano perso, e pure quella di un eroe coraggioso.
Chissà cosa racconterebbero i morti, se solo potessero.
[Attenzione: primo capitolo molto lungo]
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law, Franky/Nico Robin, Rufy/Nami, Sanji/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Postilla dell’autrice prima della storia: non spennatemi viva per la lunghezza, vi prego, ma purtroppo stavolta avevo troppe cose da raccontare e non riuscivo a fermarmi. Spero che non sia un problema per voi, altrimenti potete tranquillamente leggerla un po’ per volta, riprendendola più tardi. Ci si vede sotto, se sopravvivrete.
 
 

Samhain
Ovvero, i morti raccontano le favole?
 
 

Capitolo 1
Seconda possibilità
 
 
 

Il vento sul suo viso è la prima cosa che sente. È un vento freddo, che gli sferza le guance e lo farebbe rabbrividire, ma in quel momento è troppo sorpreso da quello che sente per prestare attenzione alla temperatura esterna: per qualche strano motivo, non si aspettava assolutamente di avvertire di nuovo l’aria sulla sua pelle, e la sensazione è talmente bella – e, allo stesso tempo, nuova e familiare – che nient’altro ha importanza.
Inspira l’aria fredda, assaporandone l’odore misto di fiori e qualcos’altro, che gli pizzica la gola, ed è doloroso ma allo stesso tempo magnifico: sente i polmoni bruciare, come se qualcuno gli avesse appiccato un incendio nel petto, quando l’aria li raggiunge, come se non respirasse da tanto tempo.
Inarca la schiena, cercando di resistere al dolore che gli esplode nel petto, conficcando le dita in quella che al tatto gli sembra terra, un solo pensiero nella mente: brucia.
L’incendio, lasciato libero, si propaga oltre i polmoni, e allora brucia il petto e brucia il suo corpo, e persino la sua mente sembra sul punto di venire consumata dalle fiamme, quando un grido disumano gli esce dalle labbra febbricitanti, e il fuoco all’improvviso si spegne.
Ma lui non smette di gridare, un urlo acuto che gli raschia la gola e lo costringe a conficcare più a fondo le dita nella terra, la schiena inarcata e il capo reclinato – e non sembra un grido umano, ma quello di un mostro colpito a morte. Non osa aprire gli occhi, terrorizzato da quello che potrebbe vedere, e le grida non sembrano intenzionate a finire, finché all’improvviso non cessano, così come sono iniziate, abbandonando per l’ultima volta le sue labbra, mentre una stanchezza inaspettata gli fa perdere i sensi.
E, ne è certo, poco prima di svenire, ha sentito qualcuno, nell’ombra del suo sguardo serrato, mormorare qualcosa che suonava sinistramente come «Abbiamo un nuovo arrivato».
 
Quando riprende i sensi, un grido muto gli è rimasto intrappolato sulle labbra, e nelle orecchie gli riecheggiano ancora le urla di poco prima, come se non fossero mai cessate; ha gli occhi chiusi, serrati, come se il terrore di poco prima gli impedisse ancora di aprirli, e vorrebbe più di ogni altra cosa scappare via da quel luogo che non conosce e odora di fiori, da quelle urla agghiaccianti che non potevano assolutamente essere sue, per scoprire magari che era tutto un incubo, quando una voce lo riporta alla realtà. «La principessa si è svegliata, a quanto vedo!» E’ una voce graffiante, bassa e sfuggevole, con una tinta scura, che si perde nelle nebbie del tempo e gli raggela il sangue nelle vene – e gli conferma quello che, in realtà, già sapeva: quello che sta succedendo non è assolutamente un brutto sogno.
Deglutisce a fatica, e sente la gola fargli male quando inspira profondamente, buttando aria nei polmoni col terrore di sentirli di nuovo bruciare – ma non accade, per fortuna, anche se è terrorizzato dalla possibilità che succeda di nuovo.
«Lo sai che puoi aprirli gli occhi, vero? Non sei mica un prigioniero o altro», è di nuovo la voce di poco fa, che lo fa rabbrividire più di quanto abbia già fatto il vento. Vorrebbe davvero rispondergli che non ce la fa, che ha troppa paura di aprire gli occhi, ma l’unica cosa a lasciare le sue labbra è un rantolo terrorizzato, come se avesse perso la capacità di formulare delle frasi.
«Oh, è pure muto questo babbeo!» Quella voce potrà anche terrorizzarlo per chissà quale motivo, ma sente che se non la smetterà di sbeffeggiarlo allora lo prenderà a calci in culo fino a spedirlo sulla Luna, non importa quanto debole possa sentirsi.
«Ti chiederei gentilmente di smetterla, Eustass-ya. È appena arrivato, sarà terrorizzato a morte.» A interromperlo dai suoi pensieri omicidi è una voce calda e gentile, ma con una vena di autorità che fa gelare il sangue nelle vene; il risultato è una rispostaccia sottovoce da parte di questo “Eustass-ya” che non riesce a cogliere, e soprattutto la fine delle battute su di lui. «E’ tutto okay, ci siamo qui noi ora» adesso la voce gentile si è avvicinata al suo volto, tanto che, steso a terra, può sentire il suo respiro sulla sua pelle. «E’ tutto finito, apri gli occhi, avanti». C’è qualcosa, in quel tono di voce forse, o nella carezza che gli sfiora le palpebre chiuse, accompagnando quelle parole, che lo spinge ad obbedire, aprendo lentamente gli occhi.
 
La prima cosa che vede, quando a fatica apre le palpebre, è un cielo scuro e senza Luna, contro il quale si staglia la chioma scheletrica di qualche albero; non ci sono stelle, ma soltanto nuvole grigie addensate assieme sulla sua testa, che fanno presagire un temporale coi fiocchi per quella notte.
«Stai bene?» è di nuovo la voce gentile a parlare da un punto impreciso alla sua destra, e sembra realmente preoccupata, diversamente da quella di quell’Eustass-ya, che la interrompe brusco. «Come pensi che stia? A guardarlo mi sembra difficile che questa mammoletta sia sopravvissuta al processo», ogni parola gli fa venire più voglia di spedirlo dall’altro lato della Terra con calcio, anche se deve ammettere di non avere la minima idea di come sia il suo aspetto – anzi, la sua mente in quel momento è tabula rasa: non si ricorda nulla, a partire dal suo nome per finire a come sia capitato in quel posto, e la cosa non gli piace per niente.
«C- C- Cosa ci faccio qui?» mormora a fatica, talmente piano che è costretto a ripeterlo di nuovo per farlo capire ai suoi interlocutori; la voce è debole e tremante, e ogni respiro ed ogni parola è una pugnalata nel petto, non osa muoversi o alzarsi, per paura di riaccendere di nuovo quel fuoco che lo ha consumato fino a poco fa. È la donna accanto a lui – sentendo la sua voce, ormai è certo che sia una donna – a rispondergli, anticipando l’altro: «Be’, è un po’ difficile da spiegare dopo che ti sei appena ripreso. Diciamo che avevi delle questioni in sospeso.» Forse è per via del tono, o della situazione in generale, ma quando sente quelle parole, un brivido gli attraversa la spina dorsale, propagandosi fino alla punta dei capelli.
«Già, questioni in sospeso… tra la vita e la morte» la voce di Eustass è come il rumore del gesso sulla lavagna, eppure è appena sussurro che lo fa sobbalzare.
«Ti pregherei di smetterla, Eustass-ya. Si è appena svegliato,» lo rimbecca la donna, posando una mano sul suo petto; forse è il vento freddo che sferza le chiome degli alberi senza nome sopra di lui, forse è per via della situazione non proprio rosea, ma al contatto rabbrividisce, come se la mano fosse fatta di ghiaccio. «Ti ricordi qualcosa? Cosa stavi facendo prima di svegliarti qui?»
Se solo ne avesse le forze, scuoterebbe la testa: i suoi ricordi iniziano da quando si è risvegliato in quel posto, prima c’è il nulla, come se qualcuno avesse resettato tutta la sua vita. Tossisce, cercando di articolare una frase di senso compiuto. «N-N-No. Non – altro colpo di tosse – ricordo nulla».
«Puah! È inutile, questo idiota deve aver perso la memoria, mi chiedo come sia possibile che un mentecatto del genere sia anche solamente sopravvissuto al processo» anche se in quella posizione la sua visuale è limitata al cielo sopra di lui, è quasi certo di potersi immaginare Eustass intento a fare qualche gestaccio nella sua direzione, come se tutta quella situazione fosse colpa sua, che nemmeno riesce a ricordare come ci sia finito, lì – insomma, potrebbero anche avercelo portato loro, magari sono un duo di rapitori inesperti che lo ha sequestrato per chissà quale motivo. Le ipotesi sono tante, e soltanto pensarle gli fa venire un terribile mal di testa.
«Non starlo a sentire. Io sono Robin, e quell’idiota è Eustass Kidd» la voce della donna ancora una volta interrompe il turpiloquio dell’uomo che raggiungerebbe altrimenti picchi di volgarità mai sperimentati prima da orecchie umane.
«Robin…» mormora con voce spezzata, assaporando sulla lingua quel nome insolito e nuovo, mentre il suo sguardo vaga sul cielo scuro, cercando di cogliere almeno un piccolo dettaglio di quella insolita coppia, ma senza successo: al minimo cenno di movimento ogni cellula del suo corpo grida di dolore, rendendogli impossibile ogni spostamento – perché la situazione non poteva essere peggiore, vero?
Perlomeno, adesso può dare un nome alle due voci, Kidd e Robin, come se sapere come chiamarli lo aiuti a esorcizzare in qualche modo la paura, per quanto poco funzioni.
«Almeno poteva essere più in carne, ci avrei guadagnato una bella cena. Invece mi ritrovo a fare la balia a uno scricciolo del genere, che potrebbe essere soffiato via al minimo colpo di vento» borbotta acido Kidd, e di nuovo un brivido gli corre su per la spina dorsale: quel tipo è un cannibale, per caso? Basta l’idea a terrorizzarlo a morte, come se qualcuno potesse davvero nutrirsi dei propri simili – è un terrore che lo assale e lo blocca, lo stesso che ha provato quando le fiamme si sono impadronite dei suoi polmoni, per poi propagarsi per tutto il suo corpo.
«Basta, non spaventiamolo più di quanto non lo sia già. E comunque, non avresti potuto in qualsiasi caso. Non sono tutti come me o te, e lo sai», interviene Robin, e all’improvviso la mano sul suo petto sembra diventare ancora più fredda, fino a scottare. «Se è sopravvissuto vuol dire che non è così debole come sembra», aggiunge, come se una notizia del genere dovesse in qualche modo tranquillizzarlo – se è così, l’effetto non è di sicuro quello desiderato.
«Chi siete?» riesce a domandare alla fine, con un filo di voce appena udibile, quando il silenzio diventa troppo pesante per tutti e tre i presenti.
Nessuna risposta per diversi istanti che sembrano durare secoli, finché due mani – grandi, rozze, diverse da quella che ha sentito sul suo petto fino a poco prima, ma ugualmente fredde – si insinuano dietro la sua schiena, tirandolo a sedere bruscamente, talmente velocemente che nemmeno fa in tempo ad accorgersene e già l’hanno abbandonato, poggiandolo inerme contro qualcosa di duro alle sue spalle.
Due figure si stagliano davanti ai suoi occhi, fantasmi cerei contro il cielo scuro e plumbeo, una donna e un uomo, che lo osservano un po’ incuriositi e un po’ preoccupati – l’uomo, che presume essere Eustass Kidd, anche parecchio scocciato –: hanno la pelle pallida, come se non vedessero il Sole da secoli, e uno sguardo strano, che sembra perdersi tra le pieghe del tempo. L’uomo, inginocchiato poco distante, ha i capelli scarlatti e spettinati, tenuti su da un paio di occhiali da aviatore, e sorride, stirando le labbra dipinte di rosso in un ghigno macabro e mostrando un paio di canini stranamente appuntiti – ed è allora che capisce, perché quello non è rossetto, ma sangue.
 
Vorrebbe gridare, ma non ci riesce: la voce è bloccata in gola, gli occhi fissi sui canini sporchi di sangue dell’uomo – vampiro, si corregge, perché quel tipo non è umano, per quanto lui fatichi ad accettarlo – inginocchiato davanti a lui, quasi ipnotizzato dai denti del cacciatore, mentre la donna lo osserva… divertita?
È un sorriso quello dipinto sulle labbra sottili di Robin, mentre Kidd continua a fissarlo come se lo stesse puntando; i suoi occhi saettano a cercare quelli castani della donna in cerca di aiuto, e, quando li trovano, non vi leggono preoccupazione o terrore, soltanto genuino divertimento. «Ho sempre amato Halloween, possiamo mascherarci come vogliamo e uscire tra gli esseri umani» esclama, spazzando via delle foglie dalla gonna del suo abito. «Kidd non ti farà niente, anche perché non può, non è vero?» aggiunge, sorridendo naturale – come se parlare con un vampiro la notte di Halloween fosse la cosa più normale del mondo.
Kidd ringhia, mostrando ancora una volta i canini insanguinati, prima di rialzarsi in piedi. «Sei fortunato, scricciolo: i fantasmi non sono sul mio menù».
«F-F-Fantasmi? State scherzando, vero?» borbotta, stringendo i pugni sporchi di terra – può accettare l’esistenza dei vampiri, ma i fantasmi? Non c’è nessuno che trascina le catene in vecchio maniero, mentre i lamenti si spargono per i corridoi bui; è impossibile ritornare dall’oltretomba.
Lo realizza solo dopo che le parole hanno lasciato la sua bocca, ed è come un fulmine a ciel sereno: Kidd si è riferito a lui come fantasma.
«No» non trema, non piange. Semplicemente, si drizza a sedere dolorante e solleva le mani davanti agli occhi, osservandole nel buio della notte: sono pallide, quasi trasparenti, e concentrandosi molto riesce quasi a vederle scomparire, come se fosse un gioco di magia. «Non posso esserlo… non posso essere-» si blocca, incapace di pronunciare quella parola, perché altrimenti diventerebbe all’improvviso vero: è impossibile, lui è vivo, è lì, eppure le sue mani trasparenti dicono il contrario.
«Cosa?» sbuffa Kidd, alzando gli occhi al cielo. «Morto? Guarda che lo siamo tutti, qui.» Sembra quasi di essere in un film dell’orrore di serie z, con mostri e vampiri che si divertono a fare dello spirito – peccato soltanto che è tutto vero, e che, in qualche modo, il suo cuore abbia davvero smesso di battere.
«Kidd» lo richiama Robin, leggermente irritata. «Ti pregherei di evitare, non vorrei che si prenda un altro spavento» la voce della donna gli arriva distante, ovattata, come se si trovasse dietro un vetro, ma lui non la ascolta, non riesce: le orecchie gli rimbombano del silenzio assordante di quella sera senza stelle e senza Luna, l’immagine di due mani trasparenti gli balena davanti agli occhi – non ha senso, i fantasmi non esistono, si ripete, ma una parte di lui non riesce a non pensare che sia vero.
Alza lo sguardo, cercando di mettere a fuoco il luogo in cui si trova: l’unica fonte di luce è una piccola lanterna abbandonata ai piedi di Kidd, che getta un piccolo cono di luce abbastanza grande da illuminare quanto basta i volti dei suoi due interlocutori, eppure nel buio della notte riesce man mano a distinguere la sagoma scheletrica di un vecchio albero – un cipresso, riconosce quando la sua vista si adatta all’oscurità, con le foglie secche in procinto di cadere al minimo colpo di vento – e poco più in là, in un tripudio di marmi dalle più fantasiose forme e colori, una fila ordinata di lapidi. Un cimitero.
Si gira lentamente, le membra in fiamme che protestano ad ogni movimento, mettendosi a carponi, il volto fisso sulla lapide davanti ai suoi occhi, dove era appoggiato fino ad un istante fa: c’è scritto un nome che non riesce a decifrare, sopra una foto coperta da un vaso di fiori secchi e che non vengono cambiati da troppo tempo, come se quella tomba fosse stata dimenticata persino da coloro che hanno portato per ultimi i fiori.
«Prima che tu te lo chieda, non è la tua. È ancora troppo presto perché tu ti trovi qui» la voce brusca di Kidd lo riporta alla realtà, facendolo trasalire. Non si gira, rimanendo a osservare assorto il nome sulla lapide, cercando di decifrarlo inutilmente: le lettere non riescono ad avere un senso ai suoi occhi, come se avesse disimparato a leggere.
«Non riesco a leggere…» mormora, sfiorando con un dito pallido le lettere di metallo che un tempo per qualcuno avevano significato qualcosa, ma che adesso non hanno più senso, fiori secchi che nessuno cambia più da troppo tempo. «Perché non riesco a leggere?» si gira di scatto, ignorando le proteste del suo corpo e puntando gli occhi su Robin, che lo osserva con compassione.
«E’ uno degli effetti collaterali del processo» risponde lei, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Per qualche ora potresti non riuscire a leggere o compiere altre azioni che in vita ti venivano naturali, perché il tuo cervello, la tua coscienza, deve abituarsi a questa nuova forma».
«E la mia memoria? Non riesco a ricordare niente. Sempre che tutto questo non sia un sogno» risponde, cercando di alzarsi in piedi. Inutile. Si appoggia alla lapide, fa leva su di essa, ordina alle gambe di reggerlo, ma cade prima ancora di raggiungere la posizione eretta, un dolore lancinante che gli attraversa il corpo, o qualsiasi cosa esso sia.
«Idiota. Non dovresti sforzarti troppo, rischi soltanto di peggiorare la tua situazione» commenta Kidd, incrociando le braccia.
«A dir la verità non vedo l’ora di rimettermi in piedi, così da poterti prendere a calci in quel tuo culo gelato» risponde acido, stringendo la terra tra le dita e sollevando la testa nella sua direzione.
«E poi chi ti aiuta a capire che cazzo ti è successo, ectoplasma dei miei stivali?»
«Di sicuro non tu, succhiasangue da quattro soldi»
Kidd si irrigidisce di colpo, gli occhi spalancati mentre le ultime parole ancora risuonano nella radura silenziosa, un’offesa che brucia sulla pelle – e non solo – del non-morto dai capelli rossi come non faceva da fin troppo tempo – quanto è passato, da quando ha sentito l’ultima volta quell’insulto? Un secolo, due? Il tempo passa in modo strano, quando hai tutta l’eternità davanti.
Gli istanti di silenzio passano e pesano quasi quanto un’eternità, prima che la voce (soave) di Kidd lo riduca in mille pezzi. «COME CAZZO MI HAI CHIAMATO?!»
«Fatti sotto, se hai coraggio, succhiasangue da quattro soldi!» rincara la dose l’altro, preparandosi a combattere nonostante non riesca praticamente a reggersi in piedi.
«Con immenso piacere, ectoplasma di merda!» Kidd ringhia, scoprendo i gradini e accovacciandosi, pronto a spiccare un balzo come un felino sulla propria preda, fronteggiando con il fuoco negli occhi il giovane fantasma.
E probabilmente avrebbero davvero dato il via ad una rissa tra creature sovrannaturali, infischiandosene del fatto che i fantasmi, in quanto tali, sono incorporei, se un braccio non fosse atterrato tra di loro, spuntando da chissà dove.
Un braccio pallido, segnato da decine di punti di sutura, con il pugno aperto e il dito indice che si muove lentamente, e, soprattutto, staccato dal resto del corpo.
«Calmate i bollenti spiriti, entrambi» la voce di Robin ha l’effetto di un calmante: le grida si placano, e Kidd ritira i canini, non rinunciando però a lanciarsi occhiatacce con il più giovane. «Se continuate così, non verremo più a capo di questa storia, okay?» la donna, nel suo vestito da festa, si avvicina al braccio, lo raccoglie da terra, e, come se nulla fosse, lo riattacca alla propria spalla, da cui pendeva vuota la manica dell’abito.
«Kidd, non avevi un appuntamento? È quasi mezzanotte, credo che a breve sarà qui» Robin sorride tranquilla, gli occhi fissi in quelli del vampiro, ancora ardenti per l’ira: la voce è calma, chiara, che tranquillizza gli animi dei due quel tanto che basta perché Eustass giri sui tacchi e se ne vada sbuffando come un treno a vapore e borbottando imprecazioni contro i fantasmi a non finire. «E adesso, veniamo a te» sussurra la donna, quando la schiena di Kidd scompare tra gli alberi, posando gli occhi sul fantasma accovacciato a terra, incapace di alzarsi.
«Cosa vuoi?» domanda, indietreggiando verso la lapide. Non sa perché, ma, se Kidd gli fa venire voglia di prenderlo a calci, quella donna gli fa venire voglia di nascondersi sotto terra e non tornare mai più; ha un non so che di terrificante, in quel volto angelico e dai lineamenti raffinati, incorniciati da una tenda di capelli corvini – poi, di sicuro, vederla staccarsi il braccio come niente fosse non aiuta di certo a non morire dalla paura.
La osserva avvicinarsi lentamente, sempre più vicina, mentre lui indietreggia, finché le sue dita non incontrano la pietra della lapide, e ci passano attraverso come niente fosse, quasi senza accorgersene. Chiude gli occhi, aspettandosi di tutto, ma, quando li riapre, l’unica cosa che vede davanti a sé è una mano pallida, un invito a tirarsi su. Il suo sguardo risale il braccio solcato da cicatrici e punti di sutura, fino alla spalla, avvolta in un complicato ed elegante pizzo di un vestito ottocentesco, e su per il collo pallido, le labbra stese in un sorriso privo di malizia, le guance bianche, finché non incontra gli occhi, castani, vivi, che lo osservano inteneriti e determinati. «Abbiamo tante cose di cui parlare, avanti» sussurra Robin, talmente sottile da perdersi nel vento, eppure piena di decisione. La guarda negli occhi per un altro istante, prima di afferrare, titubante e incerto – i fantasmi sono incorporei, no? –, la sua mano fredda, per poi tirarsi, lentamente, in piedi.
 
I primi passi è come se gli scorresse fiele nelle vene, che brucia e lo logora: capire come muoversi è difficile, farlo ancora di più, ma Robin non gli lascia la mano nemmeno per un istante, neanche quando cade in ginocchio a terra, incapace di rialzarsi, e si china accanto a lui, un tappeto di foglie secche sotto i loro piedi, e gli sorride, aiutandolo a rialzarsi e a continuare il cammino.
«Che cosa sei?» la sua domanda un po’ imbarazzata rompe il silenzio, interrotto soltanto dal rumore delle foglie calpestate sotto i passi della donna. Ha il capo chino, e, se potesse ancora, arrossirebbe di colpo, quando Robin si volta a guardarlo in viso: si aspetta una scenata per una domanda così inopportuna, ma la donna si limita a distogliere lo sguardo dal suo viso, puntandolo davanti a sé, verso un percorso nascosto dalle ombre della notte, un sorriso malinconico e tirato dipinto sulle labbra – e in quell’istante fitto di malinconia, si chiede perché stia facendo tutto questo, cosa la spinga ad aiutarlo quando potrebbe essere da qualche altra parte, mentre invece è in un cimitero avvolto in una cappa di oscurità la sera di Halloween.
«Sono…» mormora Robin, lo sguardo perso in un tempo diverso, lontano, tristezza e gioia che si mescolano assieme sulle sue labbra, in un sorriso di sicuro non rivolto al giovane fantasma al suo fianco. «una seconda possibilità» e, per quanto vaga, quella risposta dice tutto.
 
*
 
Sul finire di un secolo cesellato di caos e cambiamenti, in una notte scura come il buio più profondo, un uomo vagava per le tortuose strade di un paese molto lontano da qui, tenendo stretto nelle sue grandi braccia un grande fagotto.
L’uomo si chiamava Cutty Flam, e ciò che teneva stretto al suo petto, sostenuto da un paio di grosse mani, non era affatto un fagotto, ma il corpo avvolto in una coperta di una giovane donna dai capelli corvini, il capo abbandonato sul suo braccio e il volto disteso in un’espressione serena, quasi come se fosse stata addormentata.
Quasi, per l’appunto, perché chiunque avesse sfiorato quella pelle pallida non avrebbe sentito il calore sotto le dita, né il sangue scorrere nelle sue vene o il cuore battere ritmicamente nel suo petto.
Un cadavere.
Cutty Flam, il volto coperto da un cappuccio nero, teneva stretto tra le sue grosse braccia il corpo senza vita di una giovane donna, il volto irrigidito in un’espressione eternamente serena, ultimo ricordo della morte che l’aveva presa con sé durante il sonno, troncando la sua vita prima di compiere i trent’anni.
L’uomo sospirò, sistemando meglio la testa a ciondoloni della giovane, per poi riprendere a camminare a passo spedito, lontano dalla luce dei lampioni, lasciando dietro di sé soltanto il ticchettio dei suoi passi sul selciato.
 
«Chopper! Sono tornato!» fu la voce del suo socio a risvegliare il giovane medico, profondamente addormentato sulla scrivania, un rivolo di saliva che pendeva dalla bocca semiaperta. Aprì lentamente un occhio, poi l’altro, mettendo man mano a fuoco l’ambiente circostante: il caminetto davanti alla scrivania, dove le braci morivano lentamente, la libreria stracolma di libri quasi fino a scoppiare, la vecchia poltrona di pelle, un gigantesco uomo dagli assurdi capelli azzurri…
Un gigantesco uomo dagli assurdi capelli azzurri?
Il medico scosse la testa, cacciando via gli ultimi rimasugli di sonno, e puntò lo sguardo sulla porta, dove il suo socio aspettava pazientemente, un fagotto scuro stretto tra le braccia.
«Franky!» esclamò, alzandosi impacciato per accogliere l’uomo. Cutty Flam sorrise, entrando a grandi passi nello studio dell’amico, lasciando minuscole goccioline di sangue lungo il percorso. «Ho qualcosa per te» disse, indicando con un cenno del capo ciò che teneva tra le braccia. Chopper annuì, avvicinandosi timidamente all’involto e scostando un lembo del lenzuolo, rivelando il volto pallido di una giovane.
«Credo possa andare benissimo» sussurrò, coprendo di nuovo il volto della ragazza. «Quanto a te, sei ferito o sbaglio?» domandò preoccupato, corrucciando la fronte alla vista della scia di sangue sul suo tappeto.
Il sodalizio che li univa era principalmente economico, ma anche culturale: Chopper, giovane e curioso medico, ambiva a trovare un modo per guarire quante più malattie possibili, e se raggiungere il suo scopo significava arrivare a trafugare cadaveri, era pronto ad accettare a dover convivere con il senso di colpa per dover privare quei corpi distrutti dalla miseria e dalla malattia del loro riposo; all’obbiettivo del giovane, negli ultimi mesi, si era unita la collaborazione con Cutty Flam, meglio conosciuto come Franky, che, grazie alle sue conoscenze nel campo del sottobosco criminale del paese, era la persona migliore alla quale affidarsi per un lavoro del genere. Inizialmente, il loro rapporto era stato basato soltanto sul denaro che il medico sborsava affinché l’altro gli portasse cadaveri da analizzare, ma, man mano che la loro collaborazione aumentava, Chopper e Franky si erano avvicinati, instaurando un’insolita amicizia costruita su esperienze e interessi condivisi, nata grazie anche alla passione di Cutty Flam per l’ingegneria e la meccanica, che l’avevano portato ad aiutare il giovane medico nella riparazione dei geniali marchingegni utilizzati per le analisi.
Non ci si deve stupire quindi se il giovane Chopper si preoccupasse per la ferita di Franky: l’uomo raramente ne riportava, e ancora più raramente si faceva scoprire.
«E’  tutto a posto, davvero» rispose, scostandosi al contatto con le dita dell’amico. «Mi medicherai dopo, adesso è meglio mettere al sicuro questo» borbottò, indicando con un cenno del capo il corpo della giovane.
Chopper annuì, facendo strada all’amico verso il suo laboratorio; dietro di lui, Franky camminava lentamente, cercando di non storcere il naso a causa della ferita. Tutta colpa di quel Lucci, che, mentre si ritornava da Chopper, lo aveva beccato, costringendolo ad aprirsi una via di fuga a furia di spallate e calci, facendolo scappare come il codardo che non era e lasciandogli come ricordo una ferita sanguinante alla gamba, cosa che non aveva trovato affatto super.
«Mettila pure lì, mi occuperò di lei più tardi» disse Chopper, una volta entrati nel suo laboratorio.
Il giovane medico aveva avuto la fortuna di essere stato cresciuto da Kureha, una vecchia e arzilla donna dal quale aveva appreso gran parte delle sue conoscenze che, qualche mese prima, poco prima di partire per un viaggio, aveva deciso di lasciargli il castello arroccato su una collina fuori città dove abitava da anni, cosa che gli permetteva di avere molto spazio a disposizione dove condurre i suoi esperimenti.
Il laboratorio, in questo caso, era ciò che Franky usava definire completamente “Suuper!”: mesi prima, era partito come un semplice studio dove condurre i propri esperimenti, ma, grazie all’aiuto di Franky, si era trasformato in un luogo avveniristico, il paese dei balocchi di qualsiasi scienziato.
Non a caso, Franky era un vero e proprio genio: otto anni prima, era rimasto vittima di un incidente che lo aveva portato a scontrarsi con le forze dell’ordine che lo aveva lasciato in fin di vita; grazie alle sue capacità era riuscito a scampare alla morte, reinventando il suo corpo da zero con lamiere e attrezzi di fortuna, diventando ciò che, in futuro, avrebbe definito “cyborg”.
Un anacronismo vivente, insomma. Da allora, Franky aveva deciso di aiutare il giovane Dottor Chopper, fresco di laurea, a trovare una cura a diverse malattie che infestavano il paese, mettendo al suo servizio le sue abilità nel creare macchinari utili alla ricerca e le sue conoscenze della malavita locale per recuperare cadaveri da analizzare per comprendere meglio le patologie da debellare.
Il tutto, naturalmente, nell’ombra, all’oscuro dell’intero paese che, se avesse scoperto gli esperimenti dei due uomini, probabilmente non ci avrebbe pensato due volte a farli penzolare dal patibolo.
Inoltre, Franky non era affatto ben visto in città: un uomo strano, dagli assurdi capelli azzurri e con componenti meccaniche, fin troppo chiassoso per una piccola cittadina era impossibile venisse accettato tranquillamente dalla comunità – senza considerare i suoi trascorsi con la legge, che lo credeva morto da un pezzo.
Insomma, la situazione non era affatto delle più rosee, e presto sarebbe anche peggiorata.
«Franky» Chopper si avvicinò all’amico, seduto sotto la finestra, pronto a sistemare la ferita. «Fammi vedere la gamba, sei arrivato fin qui da solo, e inoltre con un peso, devo sistemarla prima che peggiori».
Il cyborg sbuffò, ma porse ugualmente la gamba sinistra, il cui polpaccio era attraversato da una ferita lunga, costellata da minuscoli cristalli di vetro. Chopper storse le labbra, iniziando ad estrarre lentamente le schegge: ogni tintinnio di vetro caduto a terra, corrispondeva una smorfia dell’uomo, che non emesse tuttavia alcun lamento; quando finì di curare la ferita, il giovane medico la ricucì e la fasciò, assicurandosi di stringere bene le bende.
«Bene, credo che possa andare» sorrise Chopper, osservando soddisfatto il proprio lavoro. «Credo che adesso mi metterò all’opera. Potrei aver trovato un vaccino per la malattia che sta infestando in questo periodo il villaggio, ma ho bisogno prima di fare degli ultimi accertamenti. Mi servirebbe una mano per controllare i macchinari però, te la senti?»
Franky annuì sorridente, alzandosi in piedi come se niente fosse. «Stai attento! Ho appena finito di ricucirti!» protestò il medico, gesticolando agitato.
«Io? Stai tranquillo piccolo Chopper, questa settimana mi sento particolarmente suuper!» rispose, sorridendo tranquillamente e avviandosi verso gli enormi macchinari del laboratorio.
Chopper sorrise, scuotendo allegramente la testa di fronte all’atteggiamento di quel folle cyborg: era inutile, Franky non sarebbe mai cambiato.
 
Il campanile del paese rintoccò la mezzanotte e i due erano ancora al lavoro, senza che nessuno desse alcun segno di stanchezza, impegnati a fare esami e rilievi sui corpi di persone decedute a causa della malattia che stava decimando il paese.
Chopper sorrise, posando un attimo i suoi strumenti per contare silenziosamente i rintocchi. «Dodici rintocchi» mormorò, pulendosi le mani con un panno. «Buon Halloween, Franky».
Il cyborg alzò lo sguardo, puntandolo sul giovane dottore. «Buon super Halloween, Chopper» rispose, posando i suoi attrezzi. «Che ne dici, facciamo una pausa? Ho proprio bisogno di un po’ di cola.»
Chopper annuì, sorridendo divertito; in seguito all’incidente, Franky si era dovuto adattare alle situazioni, trovando un carburante alternativo per i suoi circuiti, che si era rivelato nient’altro che la cola, quella strana bevanda messa sul mercato poco tempo prima e che il cyborg utilizzava per ogni cosa: all’epoca, aveva persino insistito affinché i macchinari medici andassero a cola, ma Chopper aveva gentilmente declinato l’offerta, preferendo sistemi più tradizionali. «A me sta benissimo, così dopo possiamo metterci al lavoro su di lei» rispose, indicando il corpo della ragazza portato quella sera da Franky, collegato alle apparecchiature e pronto ad essere analizzato.
«Super!» fu la risposta di Franky, mentre i due si avviavano verso le cucine del castello, ignari di ciò che sarebbe successo di lì a breve.
 
La luce accecante di un lampo squarciò il cielo, seguita dal rombo di un tuono; il cielo plumbeo faceva presagire un temporale coi fiocchi, che avrebbe probabilmente causato gravi danni alle case e alle strade del villaggio, già di per sé dissestate. L’ultima volta, decine di persone si erano trovate ad abbandonare la propria casa con l’acqua alle ginocchia, e Franky, osservando il cielo minaccioso, una bottiglia di cola in mano, si augurava vivamente che non accadesse anche quella volta. Aveva anche progettato un modo per isolare le case in situazioni del genere e drenare l’acqua dalle strade, ma naturalmente il villaggio l’aveva respinto, considerandolo troppo assurdo e pericoloso.
«Si preannuncia un brutto temporale» mormorò Chopper, sedendosi di fronte all’amico con una tazza di cioccolata calda in mano. «Forse è meglio se ti fermi qui a dormire, non so quanto sia saggio uscire con un tempo del genere»
Franky annuì, sorseggiando la sua cola. «Hai ragione. È ancora vuota la stanza al secondo piano?»
«Vivo da solo» rispose Chopper, allargando le braccia come ad abbracciare l’intero castello. «Di spazio ce n’è più che in abbondanza, per me puoi restare finché vuoi»
I minuti successivi passarono in silenzio, ognuno intento a rimuginare sui propri pensieri, lo sguardo perso nelle nuvole scure cariche di pioggia. Chopper pensava alla formula del vaccino, così vicina ad essere completa ma contemporaneamente così lontana, Franky non riusciva a togliersi dalla mente il volto sereno della giovane: chissà che tipo era, una volta? E la sua voce, come doveva essere? Magari le sarebbero piaciute le sue invenzioni, o forse le avrebbe ritenute sciocche come tutto il resto del villaggio?
Per quanto ci rimuginasse su, non riusciva a trovare nella sua memoria un nome da legare a quel volto pallido, e né un perché al fatto che nessuno sembrava essersi preoccupato per la sua morte: in paese non aveva sentito nessuno piangere disperato, nemmeno una minima chiacchera; eppure, gli sembrava di averla già vista da qualche parte, anche se era abbastanza certo di non averla mai incontrata in città.
«Franky! Franky!» la voce agitata di Chopper ebbe lo stesso effetto di un secchio d’acqua ghiacciato in pieno viso, riportandolo bruscamente alla realtà. «Franky, un fulmine ha appena colpito il castello, dobbiamo andare a controllare il laboratorio!» il giovane medico era saltato in piedi di scatto, e stava gridando, gesticolando a non finire per cercare di richiamare l’amico.
«Cosa?» domandò incredulo il cyborg, quando afferrò la situazione, «un fulmine? Come è possibile?» si era preoccupato lui stesso di rendere sicuri i propri macchinari, ma non aveva preso in considerazione la possibilità dei fulmini. Scattò in piedi come una molla, precedendo di corsa l’amico nel corridoio che portava al laboratorio, mentre cercava di fare mente locale circa ciò che poteva andare storto o poteva danneggiarsi a causa di un fulmine: i macchinari usati da Chopper per le analisi erano direttamente collegati a degli altri macchinari sul tetto in una piccola stanza costruita appositamente, dove il medico poteva sperimentare coi virus e batteri più pericolosi senza il rischio di diffondere le malattie in tutto il castello, quindi se erano stati colpiti quelli, molto probabilmente tutti erano stati danneggiati.
Quando i due arrivarono di fronte alla porta chiusa del laboratorio, una fitta cortina di fumo proveniente dalla stanza si spandeva lentamente per il corridoio. I due si scambiarono uno sguardo d’intesa, prima che Franky aprisse piano la porta, tossendo per il fumo.
Quando la nube si fu leggermente diradata e l’aria fu nuovamente respirabile, Franky fece qualche passo avanti, osservando sconfortato il laboratorio nel caos: i macchinari erano ridotti ad un cumulo di lamiere contorte e roventi, la cui esplosione aveva scagliato un tavolo di lato, rovesciando a terra decine di provette, becker e strumenti medici, facendo volare nella stanza pile di documenti, che ancora volteggiavano nell’aria assieme alla polvere.
Nell’aria risuonarono i passi affrettati di Chopper, prossimo al pianto di fronte a quello scempio: inginocchiato a terra tra frammenti di vetro e fogli bruciacchiati, cercando disperato di salvare i pochi oggetti sopravvissuti; le piccole dita raschiavano il pavimento di pietra quasi fino a sanguinare, mentre minuscole schegge di vetro si insinuavano maligne nella sua pelle, lasciando che piccole gocce di sangue colassero lungo i suoi palmi. Mesi di lavoro, ricerca e analisi andati perduti, esperimenti distrutti, andati in pezzi come i vetri sul pavimento.
Avrebbe voluto gridare, ma l’unica cosa che uscì dalle sue labbra fu un singhiozzo sommesso, seguito da tantissimi altri, sempre più forti, mentre le lacrime scorrevano sulle sue guance: ci aveva provato, voleva aiutare il villaggio e cosa ne ricavava? Insulti e mesi di lavoro andati in polvere con quell’esplosione.
Una mano, grossa, calda, premette sulla sua spalla ossuta, cercando di fermarlo. Franky, le lacrime agli occhi alla vista delle sue creature distrutte, osservava con lo sguardo vitreo l’ambiente attorno a lui, il petto scosso dai singhiozzi, incapace di mormorare alcuna parola di conforto. Quel laboratorio era la prova che le sue invenzioni non erano necessariamente sinonimo di distruzione: per un breve periodo aveva stretto la felicità tra le mani, ma adesso tutto ciò che rimaneva non era altro che polvere dorata che gli scivolava tra le dita, senza la possibilità di raccoglierla.
Il medico continuò a piangere, incurante della presenza dell’amico dietro di sé, raschiando il pavimento con le dita finché la pietra non si colorò di rosso; allora si fermò, lo sguardo vitreo puntato sul sangue che gli scivolava lento tra i palmi, lacrime amare che scorrevano sulle sue guance, incapace di accettare davvero ciò che era successo. E rimase così, quasi inebetito, sordo ad ogni rumore o lamento, che alle sue orecchie arrivava ovattato, mentre l’amico alle sue spalle si lasciava andare in un pianto sconnesso, interrotto da mesti singhiozzi. Quella sera, in quel luogo ormai troppo vuoto, dove le polveri dell’esplosione ancora si adagiavano a terra, entrambi, dottore e cyborg, avevano perso qualcosa: il primo la speranza di riuscire a trovare una cura, l’altro la sua seconda possibilità.
 
Passarono minuti, ore, prima che qualcosa accadesse, mandando in pezzi l’immobilità del laboratorio, come un vetro distrutto che si frantuma in centinaia di cristalli.
Un colpo di tosse.
Lieve, quasi impercettibile, eppure presente; qualcuno, nella stanza, aveva tossito; una tosse lieve, della quale sulle prime soltanto il cyborg si accorse, e anche allora penso si trattasse di un’allucinazione nervosa.
Di nuovo.
Qualcuno tossì, e questa volta Franky fu più che certo di averlo sentito: se prima era appena percettibile, adesso il rumore era stato forte e chiaro, fin troppo reale per essere un’allucinazione.
Si voltò di scatto, asciugandosi gli occhi lucidi, e fu allora che veramente il vetro scoppiò, spargendo schegge ovunque, e la stanza riprese a vivere, ritornando a respirare dopo aver trattenuto il fiato.
Una mano apparve all’improvviso da dietro il tavolo rovesciato, seguita dall’ennesimo colpo di tosse, ancora più forte questa volta. Franky sbatté le palpebre, perplesso, la tristezza confinata per un momento in un angolo della sua mente; non poteva esserci nessuno, e soprattutto nessuno poteva essere rimasto in vita dopo l’esplosione dei macchinari.
Eppure, dopo la mano spuntò un braccio, pallido, fragile, e dopo un altro, identico al primo – e Franky se lo ripeteva, che era impossibile, ma poi dietro le braccia apparve un corpo anch’esso fragile, fasciato in un vestito viola e stracciato. Ed infine, apparve una testa di capelli corvini spruzzati dalla polvere bianca e spettinati, cornice di un viso affilato e astuto, nel quale erano incastonati due occhi scuri, stanchi ma brillanti di curiosità.
Franky strabuzzò gli occhi, un’espressione più che sorpresa dipinta sul volto: la giovane – anzi, la donna – che aveva portato al castello di Chopper, qualche ora prima, e soprattutto, senza vita, adesso lo fissava disorientata e incuriosita, il viso sporco di fuliggine. «Mi scusi, dove mi trovo?» domandò, al che il cyborg si sentì sul punto di svenire.
 
Mezz’ora più tardi, Franky sedeva al tavolo della sala da pranzo, una cola ghiacciata stretta tra le mani per riprendersi dal suo quasi svenimento e gli occhi fissi sulla donna davanti a lui, intenta ad osservarsi intorno incuriosita.
Non glielo aveva ancora detto, non ne aveva avuto il coraggio. Quando gli aveva rivolto la parola, non era riuscito a mettere insieme una risposta coerente, e si era limitato a osservarla ad occhi sgranati, prima di scuotere la testa e raccogliere da terra Chopper inerme, che non si era accorto di niente, e imboccare la porta, certo che l’avrebbe seguito.
E così era stato; l’aveva seguito come un’ombra, traballante sulle gambe ancora fin troppo rigide, guardandosi intorno incerta, alla ricerca di qualcosa che le desse il minimo indizio di dove si trovasse, gli occhi ricolmi di una viva curiosità, una fiamma che li animava e che era impossibile spegnere.
Dopo aver posato Chopper sul sofà nel salotto, l’aveva osservata attentamente, dirigendosi verso la sala da pranzo: i suoi gli occhi guizzavano veloci da un dipinto all’altro, si beavano delle complicate architetture, un elegante miscuglio tra barocco e rococò, per poi soffermarsi avidi di immagini sui mobili ricolmi di libri, e ricominciare il giro.
L’aveva vista così viva, mentre accarezzava assorta i dorsi dei libri impilati sugli scaffali, un timido sorriso che si faceva largo sulle sue labbra, e non ne aveva avuto il cuore, di metterla al corrente della sconcertante verità, del fatto che lei, appena poche ore prima non era altro che un corpo freddo e esanime. Ci sarebbe stato il tempo per quello più tardi.
E quindi adesso era lì, seduto di fronte a quella donna dai capelli corvini che lo osservava curiosa di sapere, di sentirlo parlare, indeciso sul da farsi. Prese un sorso di cola, posando con forza la bottiglia sul tavolo, tanto da farlo tremare, ma lei non si scompose.
«Quindi…» iniziò, osservando il liquido nella bottiglia, improvvisamente interessante. «Ti ricordi nulla? Come ti chiami?»
La donna lo osservò, puntando su di lui i suoi occhi marroni, improvvisamente velati. «Io… io credo di chiamarmi Robin» rispose, torturandosi le dita pallide e affusolate. Ci rifletté su un istante, quasi a voler saggiare sulla lingua il sapore di quel nome. «Sì, sono Robin, Nico Robin» la sua voce si era fatta più sicura, meno tremante, come se la consapevolezza di ricordarsi il proprio nome le desse abbastanza forza per ricordarsi tutto il resto. «Da un paio di anni vivo in una piccola casa al di là del fiume, fuori città. Non vado spesso in paese, perché…» Robin si interruppe, e il suo sguardo si fece scuro, come se all’improvviso un brutto ricordo le fosse tornato alla mente. «Non lo so bene il perché, non riesco a ricordarlo.» sussurrò con un filo di voce, cercando con lo sguardo gli occhi del cyborg. «Perché non lo ricordo?»
Franky sospirò, cercando di cercare qualcosa da dire, ma invano, qualsiasi cosa sembrava inadatta, superflua: cosa puoi dire a qualcuno che hai appena incontrato e che ha perso la memoria? «Vai avanti. Qual è l’ultima cosa che ricordi?» disse semplicemente, incoraggiandola a continuare, alla ricerca di un dettaglio che le facesse tornare la memoria.
Robin – a proposito, era così bello poterle dare finalmente un nome – inspirò, lo sguardo deciso, e riprese a parlare. «Ricordo che ero a casa mia, stavo leggendo un libro, uno dei miei preferiti. Non mi sentivo tanto bene, quindi stavo cercando di distrarmi. All’improvviso, mentre voltavo la pagina, ho sentito un freddo terribile avvolgermi, come se mi fosse entrato nelle ossa…» Robin rabbrividì, alzando lo sguardo verso il suo interlocutore. «E’ l’ultima cosa che ricordo. Poi mi sono svegliata in quel posto distrutto, e ho trovato voi».
Franky prese un ultimo sorso di cola, concedendosi quell’istante per ponderare ancora una volta la sua decisione. Quando posò la bottiglia ormai vuota sul tavolo, i suoi occhi cercarono quelli di Robin, curiosi, disorientati, spaventati. Vivi. «Robin,» iniziò, prendendo un respiro profondo. «ti trovi in questo posto perché, almeno teoricamente, sei morta».
 
«Cosa intendi fare?»
«Non lo so! Di certo non possiamo lasciarla da sola, come farebbe altrimenti? L’intero villaggio la crede morta!»
«E lo è, Franky! Ho controllato il suo battito, il cuore è completamente fermo! Lei è, a tutti gli effetti, morta!»
In generale, sia Chopper che Robin erano riusciti a metabolizzare abbastanza bene quello che era successo.
Appena Robin aveva sentito le parole di Franky, era scoppiata a ridere, certa si trattasse di uno scherzo; quando però si era accorta che la risata del cyborg non si era unita alla sua, il suo sorriso era scomparso, sostituito da un’espressione seria e malinconica. Non aveva urlato, non aveva pianto. Aveva semplicemente abbozzato un sorriso mesto una volta ascoltata la storia di Franky, mormorando qualcosa che era suonato come «Be’, prima o poi sarebbe successo. E perlomeno sembro avere questa seconda possibilità»
Da allora Robin aveva quasi messo radici nel castello, passando le sue giornate a vagare alla ricerca di libri da leggere, e di nuovi luoghi da esplorare, curiosa di indagare di più circa quella sua nuova vita.
Due giorni dopo l’esplosione nel laboratorio invece, Chopper si era trascinato con aria apatica fino alla sala da pranzo, dove Franky era intento a sorseggiare una cola sfogliando il giornale, mentre Robin, seduta al tavolo, leggeva un libro con aria assente.
Sulle prime, il giovane medico non si era quasi accorto della nuova inquilina, limitandosi ad osservarla con lo sguardo vitreo senza riconoscerla; quando poi lei, alzando gli occhi dal suo libro, l’aveva salutato chiamandolo “Dottor Chopper”, lui era praticamente saltato sulla sedia, riconoscendo in lei il cadavere che Franky gli aveva portato qualche giorno prima.
Superato la sorpresa iniziale, entrambi avevano man mano iniziato a fidarsi l’uno dell’altra, aiutandosi silenziosamente a vicenda per superare le vicende passate; Robin aiutava Chopper a recuperare i suoi appunti e esperimenti, Chopper le permetteva l’accesso alla sua biblioteca personale, ricca di tomi antichi e preziosi, che spaziavano negli argomenti più svariati.
La sera, poi, Robin gli teneva compagnia, seduta al tavolo della sala da pranzo, mentre lui era intento, una matita in una mano e una bottiglia di cola a fianco, a riempire di schizzi e appunti i fogli dei progetti dei macchinari, allungando ogni tanto il collo incuriosita. Non parlavano molto, entrambi presi dalle loro attività: Robin leggeva, gli occhi che saltavano veloci da una riga all’altra, e Franky disegnava, testa china sul foglio e espressione concentrata. Quello che però la donna non sapeva era che la mente del cyborg non era rivolta esclusivamente ai progetti: capitava infatti, senza che lei non se ne accorgesse, che i suoi occhi si posassero sul suo viso concentrato nella lettura, accarezzando delicatamente il profilo del naso e il taglio elegante degli occhi. Robin non lo sapeva, ma Franky conosceva il suo viso quasi meglio del proprio, ne avrebbe potuto tracciare i contorni ad occhi chiusi.
Erano passate due settimane dall’esplosione, e entrambi i due uomini sapevano benissimo di non poter continuare in quel modo: Robin ogni giorno si faceva sempre più nostalgica, desiderosa di vedere il mondo fuori dal castello, di riprendere la vecchia vita che aveva quasi del tutto dimenticato.
Eppure, gli esami che Chopper aveva condotto parlavano chiaro: niente polso. Il cuore di Robin era completamente fermo, eppure lei era lì, e parlava con loro, li osservava lavorare, cercava di aiutarli.
Non potevano continuare a tenerla segregata nel castello, ma di certo Robin non poteva andarsene in giro per il paese come se nulla fosse, non dopo che ogni persona del villaggio la credeva morta.
«Dobbiamo trovare una soluzione,» disse Chopper, passandosi una mano sul volto stanco. «Appena avrai finito di sistemare i macchinari riprenderò gli esami, dato che sono riuscito a recuperare gran parte del materiale scritto. Certo, alcune cose dovrò per forza ripeterle, ma spero di ottenere la formula»
Franky annuì, reclinando il capo sulla poltrona dello studio del giovane medico. «Ho quasi finito di ultimare i progetti, credo che entro domani potrò iniziare a recuperare il materiale che mi serve» fece una pausa, lasciando che il silenzio calasse tra loro. «Quanto a Robin…» prese un respiro profondo, cercando di mettere in ordine le idee. «Domani pensavo di accompagnarla alla sua vecchia casa, dall’altra parte del lago. Magari farle visita l’aiuterà a recuperare la memoria».
«Ne sei sicuro? La sua è una situazione particolare, non so bene quanto potrà resistere il suo corpo in quelle condizioni» rispose Chopper, intrecciando le dita sotto al mento. In quelle due settimane si erano entrambi affezionati a quella donna silenziosa, con la curiosità negli occhi, ma il medico aveva ragione, non potevano sapere quanto sarebbe durata.
Franky annuì, fissando deciso negli occhi l’amico. «Sono certo che ne sarà felice»
 
Quella sera, Robin si presentò in sala da pranzo, una bottiglia di cola in una mano e un libro nell’altra. «Ti dispiace se resto un po’ qui?» domandò come se ce ne fosse il bisogno, porgendogli la cola. «Mi sentivo sola di là. Sempre che non ti sia di disturbo, è logico» si affrettò ad aggiungere, osservando i fogli dei progetti che il cyborg si stava accingendo ad ultimare.
Al contrario, Franky sorrise, indicando la sedia di fronte a lui. «Nessun disturbo, siediti pure».
I minuti passarono lenti, avvolti dal silenzio ovattato e leggermente imbarazzato dei due: da quando Robin si era svegliata, aveva trascorso più tempo con Chopper che con Franky, escludendo la chiacchierata la prima notte, con la quale il cyborg le aveva rivelato perché si trovasse in quel castello.
«Quindi…» iniziò l’uomo, cercando di rompere il silenzio. Voleva darle la bella notizia della loro prossima uscita, ma temeva di sembrare scortese, o di risvegliare la Robin malinconica che ogni tanto prendeva possesso della donna, nei momenti in cui si ritrovava con lo sguardo perso verso il vuoto, gli occhi che si velavano di tristezza; era strano, vederla in quella situazione, svuotata della curiosità che l’animava di solito. «Cosa leggi?» domandò invece, osservando il libro tra le mani della donna.
Robin sorrise, girando la copertina. «Questo? È un libro di Chopper, si intitola “Storia della tortura attraverso i secoli”, lo trovo una lettura interessante, anche se in alcuni punti è parecchio confusa» Franky rabbrividì, pensando ai contenuti che un libro del genere poteva riservare, preferendo sorvolare sul perché Chopper lo avesse nella sua biblioteca.
«Tu invece? A che punto sei coi progetti?» domandò Robin, allungando il collo per sbirciare le carte.
Franky annuì silenzioso, alzando il braccio per mostrarglieli meglio. «Quasi finiti» disse orgoglioso. «A breve potrò iniziare a costruirli per rimpiazzare quelli che sono andati distrutti la notte…» aggiunse imbarazzato. Il sorriso di Robin vacillò per un istante, e gli occhi si scurirono di un velo di malinconia, troppo veloce perché il cyborg se ne accorgesse, e, se lo fece, non lo diede a vedere. «Meglio così,» sorrise la donna, poggiando il libro sul tavolo. «almeno Chopper riuscirà a trovare un vaccino per la malattia che sta infestando il paese».
E, con queste parole, il silenzio cadde tra i due, barriera impenetrabile che li separò per alcuni minuti, ognuno impegnato nella sua attività, finché non fu Franky a spezzarlo: «Allora…» esordì incerto. «Ti manca casa tua?»
Robin alzò lo sguardo dal libro, cercando disperata gli occhi dell’altro per capire se la stesse prendendo in giro; ma Franky era serio, più di quanto non lo fosse stato da tempo. «Perché, sai, stavo pensando che potrei accompagnarti a fare un giro dall’altra parte del fiume, visto che sono settimane che non esci di casa» concluse la frase con un sorriso incoraggiante, a cui la donna rispose felice. «Davvero? Non credevo saresti stato disposto a farlo»
«Non dirlo nemmeno per scherzo: lo faccio più che volentieri, l’unica condizione è non farsi scoprire, perché in quel caso non so come potrebbe reagire il paese» Robin annuì, seria. Se il villaggio la credeva morta, doveva continuare a farlo.
 
I rami scricchiolavano sotto i passi delle due figure che, avvolte in lunghi mantelli, camminavano spediti oltre la riva del fiume, in un tappeto di fango, foglie e ramoscelli secchi. L’autunno era nel pieno della sua vita, e si manifestava nei colori sgargianti delle foglie degli alberi che si apprestavano a cadere, nei sentieri ricoperti di ricci e castagne, negli scoiattoli che schizzavano veloci sui rami, intenti a racimolare le ultime provviste prima dell’arrivo dell’inverno, ogni cosa era avvolta in un tiepido torpore, in quelle ultime settimane prima che la neve cominciasse a cadere, avvolgendo il mondo in una bianca coperta. Il canto del cigno della natura e degli uomini, se così si può definire, prima che l’inverno portasse con sé una bianca pace, osservata da dietro un vetro appannato dal calore del camino; in quei giorni, il mondo dava il meglio di sé, sbizzarrendosi in colori vivaci e caldi, e le persone regalavano agli altri i sorrisi più grandi, prima dell’arrivo del gelo, quando avrebbe fatto troppo freddo perché le foglie sventolassero allegre sugli alberi e i sorrisi si sarebbero cristallizzati in piccole sculture di ghiaccio.
Robin sorrise spensierata, poggiando una mano pallida sul tronco di una quercia nodosa, antica di chissà quanti anni, e inspirando profondamente, quasi a voler entrare in contatto con essa, per lasciare che le raccontasse le storie viste con i suoi occhi centenari. In due settimane, Franky aveva avuto modo di osservarla, di vedere i suoi occhi accendersi di rinnovata curiosità alla vista della cosa più quotidiana, che per lei non era altro che un’altra scoperta, qualcosa di nuovo da comprendere e fare proprio, in quel mondo così diverso da prima, ma sostanzialmente lo stesso, e ogni volta non poteva far altro che pensare al sé stesso più giovane, quello sopravvissuto a quell’incidente mortale e alle prese col suo nuovo corpo da cyborg, che si meravigliava delle cose più comuni e osservava il mondo affamato di sapere come funzionasse, perché quella situazione non era la stessa di prima, e tutto funzionava diversamente: i misteri delle cose si svolgevano davanti ai suoi occhi, rivelandosi in un altro modo rispetto a come facevano prima.
E così era per Robin, gli occhi curiosi e affamati di sapere, che guardava gli alberi, la foresta, il mondo, persino sé stessa, e vedeva  cose diverse, nuove, che prima si spiegavano a lei in modi differenti.
I passi si fermarono quando giunsero in prossimità di un laghetto circondato dagli alberi, oltre i quali si scorgeva la porta di una piccola casa.
«Siamo quasi arrivati» mormorò incoraggiante Franky, temendo che quella scarpinata potesse nuocere al corpo della giovane.
Robin sorrise di gusto, osservando determinata la casetta oltre il lago, «E’ lei, la casa dove vivevo. Mi chiedo come abbiano fatto a trovarmi, allora.»
Franky annuì, ripensando alla notte in cui si era trovato a fuggire da Lucci, il corpo di Robin stretto tra le braccia – e adesso quella stessa donna era lì, davanti a lui, il volto sorridente e gli occhi determinati a scoprire la verità. «Me lo chiedo anch’io. Da che ne so, è raro che qualcuno venga in questa parte di bosco.»
Stavano riprendendo a camminare, quando Franky udì il fruscio delle foglie alla sua destra, seguito dal rumore dei rami spezzati, come se qualcuno ci stesse camminando sopra; senza perdere tempo, afferrò Robin per la vita, caricandosela in spalla, e si nascose con lei dietro alcuni alberi e cespugli, al riparo da chiunque fosse arrivato in prossimità del laghetto.
Di fronte a loro, sbucarono due figure a lui conosciute, avvolte in due mantelli pesanti per proteggersi dal vento freddo che aveva preso a spirare da nord.
«Ne sei sicuro?» domandò una delle due figure all’altra. Il cappuccio gli copriva il viso, ma il timbro di voce era inconfondibile, al che Franky sussultò nel sentire quello del suo compagno.
«E’ proprio così. Qualcuno nell’ultimo periodo ha trafugato il corpo di quella strega, anche se non si sa ancora il motivo», rispose l’altra figura, abbassando il cappuccio e rivelando un volto dai tratti felini, i capelli mori raccolti in un codino basso. Lucci sorrise maligno, riprendendo a camminare. «Fosse per me, quella poteva anche rimanere a marcire nella sua casa. Se l’abbiamo trovata è stato soltanto perché dovevamo venire ad arrestarla, ma ci ha battuti sul tempo»
L’altro uomo, dal lungo naso squadrato, annuì serio, tenendo il passo dietro di lui. «E’ stata fatta giustizia, perlomeno, e di questo mi rallegro.»
Accanto a lui, Robin soffocò un singhiozzo, una mano sulle labbra e gli occhi lucidi di pianto alle parole dei due uomini. «Robin…» mormorò Franky, accertandosi che i due fossero ormai lontani, verso la piccola casetta, avvicinando una delle sue grandi mani al visto freddo della donna. «E’ tutto okay, davvero. Sei ancora viva, no?»
Robin scosse la testa, lasciando andare un piccolo singhiozzo, mentre le lacrime premevano per scorrere sulle sue guance. «Non è per quello», mormorò. «Non solo almeno. Io quei due uomini li conosco! Volevano uccidermi!» Franky la osservò sorpreso, incapace di articolare parola. Era vero, Lucci non era un uomo molto pietoso, ma addirittura ucciderla? «Cosa intendi? Perché ucciderti? Hai ricordato qualcosa?»
La donna annuì, lentamente e incerta, lo sguardo basso, puntato verso terra, quasi come se si vergognasse. «Io… Io non sono, cioè, non ero, una brava persona» mentre parlava, il suo volto si incupiva sempre di più, e la sua voce si incrinava, come se ogni parola fosse una coltellata. «Almeno, non lo ero per loro. Io volevo la libertà, e quindi passavo alcune informazioni su questo paese ad un uomo, un uomo che questo posto lo avrebbe voluto cambiare, renderlo diverso, migliore… ma mi hanno scoperta» la voce di Robin si incrinò un po’ di più, ma allo stesso tempo Franky riuscì a leggerci una minuscola traccia di… orgoglio? Era orgogliosa di ciò che aveva fatto, coraggiosa e fantastica donna. «Mi sono rintanata qui per cercare di evitare che mi prendessero, ma la malattia mi ha ucciso prima» Robin tacque, incapace di continuare, mentre i ricordi delle malelingue e degli insulti ricevuti si facevano largo nella sua mente, e tutto attorno a loro calò il silenzio, come se anche la natura stesse offrendo l’estremo saluto a quella donna così coraggiosa.
Franky boccheggiò, incapace di trovare le parole giuste da dire. Per quanto ci provasse, niente gli risultava appropriato, e ogni cosa gli sembrava vuota quanto una casa abbandonata. Fu Robin a risolvere il problema, cercando la sua mano e portandosela al petto, dove il suo cuore aveva smesso di pompare il sangue, fossilizzato in quell’ultimo battito coraggioso. «Senti…» sussurrò, premendo più forte la sua mano sul suo petto. E Franky chiuse gli occhi, e ascoltò, e ciò che sentì fu… niente. Nessun battito, nessun “tu-tum tu-tum”. Soltanto silenzio. E, nonostante sapesse cosa aspettarsi, i suoi occhi corsero lo stesso al volto di Robin, dove incrociarono il suo sguardo deciso, ammantato di tristezza. «Il mio cuore è fermo. Io stessa sono un insulto all’essere umano, che si prodiga per rimanere in vita. Non dovrei esistere, il fatto che io sia qui, e stia parlando con te è un controsenso, perché dovrei essere morta, ma non lo sono. Sono un caso fortuito, uno scherzo della natura, nato perché volevate aiutare delle persone. Io-»
Non finì la frase. Franky l’aveva osservata parlare, gli occhi tristi e il volto contrito, incapace ancora di parlare, e allora aveva fatto una follia, staccando per un secondo il cervello che gli gridava con tutte le sue forze quanto fosse stupido quello che aveva fatto.
L’aveva baciata.
Era stato un bacio breve, fatto di sorpresa, durato quel poco che bastava per assaggiare le sue labbra fredde e sentirne il sapore sulla lingua, prima di separarsi, una mano posata sulla sua guancia, certo di aver fatto una vera e propria cazzata. Invece Robin l’aveva guardato sorpresa, incapace di realizzare a pieno quello che era appena successo, ma senza che un filo di voce riuscisse a lasciare le sue labbra – adesso era lei, quella senza parole.
«Esistere non è un peccato» sussurrò, gli occhi fissi nei suoi, l’espressione più seria del suo repertorio dipinta sul volto. Era raro che fosse serio, e con quella donna era già successo un sacco di volte da quando si era risvegliata.
Nessuna risposta. Gli occhi di Robin si inumidirono, mentre lei muoveva impercettibilmente la testa, un muto assenso che si faceva largo nel suo sguardo.
«Andiamo, si sta facendo buio» disse lui gentilmente, alzandosi e offrendole galantemente la mano. Lei annuì in silenzio, accettandola di buon grado e avviandosi al suo fianco verso la strada di casa, le loro mani intrecciate l’un l’altra. «Ah, puoi chiamarmi Cutty Flam se vuoi, è il mio vero nome» aggiunse sorridendo qualche istante più tardi.
La risata cristallina di Robin riempì il bosco. «Credo di preferire ancora Franky.»
Non si accorsero però di essere stati spiati.
 
Non era raro che, di quei tempi, i monelli di strada si facessero carico di incarichi come spiare qualcuno pur di racimolare un po’ di denaro per comprarsi da mangiare, quindi non ci si deve sorprendere se il giovane Jack, un ragazzino orfano che per anni aveva vissuto di elemosina nei vicoli del paese, avesse accettato di seguire come un’ombra Franky, lo strano ed enorme uomo dai capelli azzurri, ovunque andasse.
D’altronde l’uomo con la colomba e lo sguardo inquietante gli aveva promesso un bel gruzzoletto qual’ora gli avesse portato delle informazioni succose, quindi, per quanto fosse difficile spiare qualcuno del genere, si era infilato di buon grado tra i cespugli e nascosto dietro agli alberi, pur di riuscire a non perdere di vista il suo obbiettivo e la donna che era con lui.
Adesso Jack correva nella fredda aria di metà novembre, il pensiero dei soldi con i quali si sarebbe potuto sfamare per un bel po’ che gli metteva le ali ai piedi, spingendolo a correre sempre più veloce. Lo aveva visto bene, quello che aveva fatto quello strano uomo dai capelli azzurri, la sua faccia quando aveva posato una mano sul petto della donna corvina, all’altezza del cuore, come se si fosse trattato di qualcosa di sconvolgente.
Corse finché ebbe fiato in gola, e anche dopo: voleva raggiungere al più presto la casa dove il suo “investitore”, come amava chiamarlo, gli aveva dato appuntamento qual’ora trovasse informazioni interessanti, e se non lo erano quelle… be’, l’uomo con la colomba se ne sarebbe stato fresco.
Rallentò soltanto in prossimità del luogo dell’appuntamento, dove il suo investitore lo stava aspettando in compagnia di un altro uomo, con il quale stava intrattenendo una fitta conversazione; quando questi si accorse dell’arrivo del ragazzo, sorrise, incitandolo a parlare.
Jack riferì tutto ciò che aveva visto e sentito, per filo e per segno, senza tralasciare nulla: più parlava, e più l’uomo faceva domande, soprattutto circa la donna dai capelli corvini che aveva visto e che, quando era stata nominata, aveva fatto sobbalzare l’altro uomo, un tizio coi capelli viola e il volto orribilmente sfigurato.
Quando Jack ebbe finito di parlare, l’uomo con la colomba sorrise in un modo inquietante, che fece accapponare la pelle ad entrambi i presenti, e gli lanciò un piccolo sacchetto tintinnante di monete. «Hai fatto un buon lavoro, bravo ragazzo. Adesso puoi andare.» Jack afferrò il sacchetto con occhi avidi, felice di essere riuscito a guadagnare qualcosa, e si girò per andarsene.
Eppure, anche quando fu abbastanza lontano, sentì l’uomo con la colomba ridere di gusto, prima di mormorare qualcosa come «Questa volta ci accerteremo che sia morta davvero», che lo fece rabbrividire.
 
Due giorni dopo la gita al lago, Franky iniziò a lavorare sui macchinari di analisi di Chopper, da solo: da quando si era ripreso, il giovane dottore si era rimesso di buona lena al lavoro, e adesso smaniava di finire i propri esami, conscio di quante vite avrebbe potuto salvare se trovava la formula in tempo.
Tuttavia, per quanto lo rendesse felice lavorare finalmente con i suoi attrezzi, sentire la fredda consistenza del metallo tra le sue mani, pronto a piegarsi al suo volere, l’immenso laboratorio, momentaneamente trasformato in officina, gli sembrava fin troppo grande e, soprattutto, troppo vuoto.
La verità era che si era abituato fin troppo alla presenza di Robin mentre lavorava ai progetti, e adesso non averla accanto a sé mentre dava forma a quei disegni era strano; tuttavia, da quando erano tornati dal lago, la donna l’aveva quasi evitato, lasciandolo a crogiolarsi nel dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Perlomeno, lavorare lo aiutava a tenere la mente sgombra da quei pensieri, anche se il suono del martello che rimbombava nella stanza vuota non faceva altro che ricordargli l’assenza di Robin.
Era appunto intento a lavorare il metallo per creare un’intelaiatura quando accadde. Sulle prime fu un semplice colpo, del quale nemmeno si accorse, scambiandolo per il rumore del martello; ma poi i colpi si fecero più forti, più insistenti, e ad essi si unì una voce, intenta a gridare un solo ordine: «Aprite!»
Franky alzò la testa, perplesso. Fuori la Luna splendeva nel cielo scuro e un freddo vento sferzava i rami degli alberi: chi diamine poteva essere?
Si alzò in piedi, sbattendo le mani, e si diresse in corridoio, fino ad arrivare nel salotto del castello, dove Robin era intenta a cercare leggere un libro in silenzio: al suo arrivo alzò appena lo sguardo dalla pagina, prima di tornare alla sua lettura. Chopper arrivò trafelato pochi istanti dopo, togliendoli dall’imbarazzo, le mani sporche di inchiostro, e corse alla porta, aprendola con mille scuse per il ritardo.
L’identità degli ospiti inattesi fece sbiancare tutti e tre gli inquilini del maniero, che si rivelarono incapaci di parlare quando davanti ai loro occhi si stagliò minacciosa la figura di Rob Lucci, un mandato di cattura in mano e una luce di trionfo negli occhi. «Siete in arresto. Tutti e tre» disse sorridendo. «Sulle vostre teste pende una condanna a morte».
 
«S-S-Si s-s-sbaglia, signor Lucci» balbettò Chopper, prossimo allo svenimento. «Non abbiamo fatto niente contro la legge, perché condannarci?»
Al che il sorriso di Lucci si allargò ancora di più, facendo accapponare la pelle al povero medico e stringere i pugni dalla rabbia al cyborg. «E’ lei a sbagliarsi, Dottore. Siete sospettato di appropriazione indebita di alcuni cadaveri e di averli utilizzati in chissà che esperimenti. E anche di ospitare due ricercati, naturalmente. Dovreste seguirmi senza fare storie, o sarò costretto a usare la forza, e non vi piacerà».
Molto probabilmente, in una situazione diversa, Chopper sarebbe arrossito al solo sentirsi chiamare “Dottore”, ma quella non era una situazione normale, e il giovane rischiava di lasciare le penne proprio a causa di quella nomina a lui così cara; per dirla brevemente, Chopper, in quell’istante, era paralizzato, diviso tra il terrore e l’indignazione, incapace di prendere una decisione.
Fu Franky, più abituato a situazioni del genere, a venirgli in aiuto: gli afferrò senza troppe cerimonie il polso, strattonandolo via dalla porta e chiudendola in faccia a Lucci. «Corri!» gridò il cyborg, gettandosi in spalla Robin e aumentando la velocità, seguito a ruota dal medico. Non era certo di quanto una semplice porta potesse trattenere un tipo come Lucci, per cui la cosa più importante era mettere quanta più distanza possibile tra loro e quel pazzo sanguinario.
«Dobbiamo andarcene da qui!» disse Franky, fermandosi un istante. «Questo posto a breve sarà invaso da gente come Lucci, e per noi sarà la fine. Dobbiamo trovare un modo per scappare e battercela» aggiunse analitica Robin. Entrambi volsero il capo verso il più piccolo, ancora sotto shock per quanto accaduto.
«Io, io… Sì, c-ci dovrebbe essere un’altra uscita, ma non so quanto sia sicura, potrebbero sorvegliare anche quella…» balbettò Chopper, torturandosi le mani nervoso. In cuor suo, aveva sempre saputo che era pericoloso condurre quegli esperimenti, e soprattutto coinvolgere altre persone nel suo progetto; si sentiva responsabile di ciò che stava accadendo, di Lucci che urlava e batteva i pugni sulla porta, imprecando e minacciando di sfondarla se non gli avessero aperto. Eppure, per quanto fosse terrorizzato, sotto tutta la paura, dietro le ginocchia che tremavano e i denti che battevano, si sentiva orgoglioso di ciò che aveva fatto: era arrivato tanto vicino a trovare il vaccino alla malattia che infestava il paese, a aiutare davvero qualcuno, anche se gli fossero costate la vita – era un medico, quello era il suo lavoro, e che diamine!
Strinse i denti, impedendogli di tremare, e osservò i suoi compagni, mascherando l’agitazione e il terrore dietro ad uno sguardo determinato: un dottore, un cyborg ingegnere e una non-morta armata di un grosso libro, e la vita di tutti e tre dipendeva da lui. «Seguitemi» disse, facendo strada.
 
L’uscita secondaria era quella che passava dalla cucina, un tempo utilizzata dalla servitù, quando, anni e anni fa, il castello era abitato da una nobile famiglia, che aveva abbandonato la città al minimo segno di caos, che avrebbe in seguito portato ad un nuovo sistema politico del paese, adesso in procinto di distruggersi di nuovo grazie all’intervento dell’uomo nominato da Robin: i vecchi proprietari, avevano quindi lasciato il castello nelle mani degli antenati della Dottoressa Kureha, in seguito ereditato, per vie non ufficiali, da Chopper, che adesso si apprestava a lasciarlo, molto probabilmente, per sempre.
Con la morte nel cuore per dover abbandonare il luogo dove era cresciuto e tutte le sue ricerche, il giovane medico fece strada ai compagni nell’intricato labirinto di corridoi, finché non si trovarono davanti ad una porta piccola, di legno scrostato, attraverso la quale si sentivano gli spifferi del vento di novembre. «Libertà», sentì mormorare Franky dietro di lui, e non sarebbe potuto essere più d’accordo.
Chopper inspirò, premendo le mani sul legno scheggiato e aprendo la porta, rivelando un cielo scuro e coperto di nubi, contro il quale si stagliavano le sagome scheletriche degli alberi spogli frustati dal vento.
I tre si scambiarono un’occhiata veloce, annuendo decisi prima di inoltrarsi nell’oscurità, lasciandosi alle spalle le urla di rabbia di Lucci, riuscito ad entrare nel castello.
 
Franky rabbrividì. Nella fretta delle fuga, non erano riusciti a portare con sé dei vestiti pesanti o dei mantelli, e adesso si trovavano ad affrontare una camminata nell’ignoto con il vento freddo della sera e sferzargli i vestiti. L’unica che sembrava non avere problemi con il freddo era Robin, che camminava in silenzio dietro di loro, rabbrividendo per ben altri motivi.
«E’ tutto okay?», domandò, cercando la sua mano a tentoni e stringendola forte una volta trovata. Aveva le dita fredde, ma il saperla vicina a lui lo rendeva più sicuro di qualsiasi altra cosa.
Nel buio, Robin sorrise. «Sì, va tutto bene. Mi chiedo piuttosto come ci abbiano trovato, e soprattutto perché avessero un mandato di arresto anche per voi due.»
«Oh, per me è semplice: facevo esperimenti sui cadaveri che Franky mi consegnava anche dopo che mi era stato vietato» rispose Chopper con un filo di voce, e nonostante la situazione, Franky fu certo di leggere più di una punta di orgoglio nelle sue parole. «Credevano che volessi fare chissà cosa per uccidere gli abitanti del paese. Be’, non che non moriranno adesso, visto che non sono riuscito a completare la formula per il vaccino e che tutti i miei appunti verranno probabilmente distrutti. Un altro motivo è che ho dato ospitalità a voi due, anche se non ne capisco il problema.» non c’era strafottenza nel suo tono di voce; le sue parole erano quelle di un uomo che si è arreso alla consapevolezza che tutto ciò che ha costruito non sarà servito a nulla, distrutto come castelli di sabbia travolti dal mare. «Chissà, magari dove andremo non mi faranno così tante storie per i miei esperimenti», aggiunse, una piccola vena di speranza che si affacciava timida nella sua voce.
Continuarono a camminare per un po’, gli occhi ormai abituati all’oscurità, l’interrogativo di cosa avrebbero fatto che si faceva sempre più presente nelle loro menti, passo dopo passo, mentre le luci della città si rimpicciolivano sempre di più man mano che si avvicinavano al fiume. Senza proferire parola, si erano silenziosamente accordati sul dirigersi oltre il fiume, verso la vecchia casa di Robin, dove avrebbero deciso il da farsi.
«Il motivo per cui c’era un mandato anche per me non credo sia legato alle mie attività, o alla mia collaborazione con Chopper» esordì Franky, rompendo il silenzio alcuni minuti di marcia più tardi. «E’… legato al motivo per cui sono un cyborg, l’incidente di otto anni fa. Non so nemmeno come lo abbiano scoperto, considerando che tutti credono Cutty Flam morto da un pezzo» prese un grosso respiro, iniziando a raccontare. «L’uomo che mi ha cresciuto come un figlio era un grande ingegnere e carpentiere, capace di creare meraviglie con le sue mani, sempre in grande stile, il suo nome era Tom. È stato lui a insegnarmi tutto ciò che so, e non esagero a dire che mi deve la vita per quello che ha fatto, levandomi dalla strada e prendendomi nella sua casa, assieme ad un altro ragazzo, Icerburg. Ma poi, un giorno, vennero alla sua porta con un mandato di arresto, pronti a portarlo via con l’accusa di aver aiutato un criminale e di esserlo egli stesso. Tom riuscì a contrattare un modo per aver rinviata la condanna, mettendosi al lavoro sulla ferrovia che avrebbe collegato il nostro paese con quelli vicini, cosa che lo avrebbe aiutato a sollevarsi da un cupo periodo di crisi nel quale era finito; l’intero progetto sarebbe dovuto durare dieci anni, al termine dei quali, la corte avrebbe riveduto il verdetto, ma, per collegare tutte le città ce ne vollero due in più e, col permesso del tribunale e del governo, otto anni fa la ferrovia fu conclusa. Vennero un giorno, osservarono il frutto del nostro lavoro e ne furono entusiasti: l’intero paese lo era, la speranza era arrivata trasportata su binari, a bordo di una macchina sbuffante di metallo. Tutto sembrava perfetto, e la condanna non sarebbe più stata un problema, ma qualcuno si intrufolò nel nostro magazzino, e manomise alcuni macchinari, tra cui figuravano diverse armi e alcuni modelli funzionanti della locomotiva. Fu il caos. Una piccola locomotiva impazzita e fuori controllo, carica di armi e esplosivo, venne lanciata nella piazza, scatenando il panico e travolgendo persone, che rimasero ferite gravemente. Io, Tom e Iceburg fummo arrestati e accusati di aver intenzionalmente attaccato la piazza. Era la fine, ma…» Franky deglutì, nervoso a raccontare quella vecchia storia. «Fu grazie a Tom che ci salvammo. Tom, Tom prese su di sé tutte le accuse, affermando che io e Iceburg non c’entravamo niente con quello che era accaduto, quando ero stato io a costruire il modello di locomotiva. Chiese che la costruzione della ferrovia, che avrebbe dovuto annullare l’accusa di aver aiutato dei criminali, potesse perdonargli i fatti avvenuti quel giorno, e di escludere noi due dalla condanna. Disse… disse che se doveva morire voleva farlo orgoglioso di quello che aveva fatto, di ciò che aveva costruito in grande stile, e non come un bandito da quattro soldi, oh Tom!» gli tremavano le mani. Per quanto si mostrasse duro e impossibile da scalfire, come se indossasse una corazza, ricordare quegli eventi tirava fuori il lato più sentimentale di Franky, quello le cui guance si rigavano quando ripensava a quel pomeriggio, alle urla della folla, alla piazza macchiata di sangue e l’odore di carbone bruciato nell’aria, con le manette che gli stringevano i polsi e la voce del giudice che proclamava tonante la sentenza. Accanto a lui, sentì Robin incitarlo a continuare, stringendogli più forte la mano per dargli coraggio, e lui annuì, riprendendo a parlare. «Lo portarono via, caricandolo su quello stesso treno che aveva progettato, costruito, al quale aveva dato vita. La macchina che aveva creato adesso era ciò che lo portava al patibolo! Iceburg cercò di fermarmi, di dirmi che era una pazzia, ma io non lo ascoltai e spaccai la faccia a un ufficiale, riducendolo in fin di vita. Mi sentivo in colpa, non volevo che Tom morisse perché io avevo creato qualcosa di così pericoloso, quindi presi un cavallo e corsi via, precedendo il treno… Anche se il macchinista tentò in ogni modo di fermare la locomotiva, andava troppo veloce, e mi prese in pieno quando tentai di fermarlo. Ancora adesso mi meraviglio di essere sopravvissuto».
I passi si fermarono quando di fronte a loro apparve la piccola casa di Robin, avvolta nel silenzio della notte. Da quando Franky aveva smesso di parlare, nessuno aveva più osato fiatare, come se la sua storia avesse tolto le parole di bocca a tutti quanti.
«Credo di essere arrivati» mormorò Chopper, con il morale a terra, aprendo la porta lasciata socchiusa e rivelando un piccolo locale, messo completamente a soqquadro. Robin fu la prima ad entrare, camminando lentamente in mezzo al caos sparso sul pavimento, fatto di libri, fogli strappati, penne, vestiti: chiunque fosse stato lì prima di loro si era divertito a frugare tra le sue cose. «Cercavano qualcosa», osservò Franky abbassandosi per entrare.
Robin annuì, seria. «Le lettere. Cercavano delle lettere che dimostrassero il fatto che passavo informazioni. Fortunatamente le avevo già bruciate, o questo posto non sarebbe rimasto in piedi a lungo»
«Meglio così, no?» disse Chopper, sedendosi sul divano. «Possiamo prendere ciò che ci serve e andarcene. Non voglio restare un minuto di più in questo paese»
Robin sorrise, annuendo. «Già. Sarà meglio non restare qui troppo a lungo, non passerà tanto tempo prima che vengano a cercarci qui, quindi è meglio sbrigarsi. Chopper, nella cucina ci dovrebbe essere del cibo ancora mangiabile, potresti controllare, per favore?» domandò, iniziando a raccogliere da terra ciò che sarebbe potuto servire.
«Ma certo!» esclamò il dottore, sparendo in un’altra stanza.
Rimasti soli, Robin puntò i suoi occhi castani sul cyborg, intento ad osservarsi intorno e a cercare di distruggere meno cose possibili, vista la sua stazza. «Franky…» mormorò, avvicinandosi.
Lui chinò mestamente il capo, sfuggendo al suo sguardo. Non voleva sembrare così vulnerabile, soprattutto davanti a lei, ma man mano che raccontava le parole gli erano uscite da sole di bocca, sempre più facilmente, e si era rivisto di nuovo davanti agli occhi la storia di Tom, del suo apprendista svitato che l’aveva ucciso, come se mentre raccontava tornasse indietro nel tempo a otto anni prima. «Non dirlo» mormorò, troppo piano perché chiunque all’infuori di lei lo capisse, «Ti dispiace, vero? Lo dicono tutti, ma nessuno lo pensa veramen-»
«Non dirò mi dispiace» lo interruppe lei, prendendogli il viso tra le mani. «Ma ti capisco. So cosa vuol dire perdere qualcuno che ami e sentirtene in parte responsabile»
Franky alzò lo sguardo sgranato, sorpreso da quelle parole. «Tu… mi capisci?» lei sorrise misteriosa, guardandolo dritto negli occhi. «Chissà, se usciremo di qui, magari un giorno te lo racconterò», disse, prima di fare una cosa che lo stupì ancora di più.
Lo baciò.
Un bacio vero e proprio, questa volta, fatto di bocche che si cercavano dolcemente, assaporando l’una le labbra dell’altro, incapaci di lasciarsi andare. In quel bacio, ci furono serate passate ad osservarsi di nascosto, il fruscio delle pagine e il graffiare della matita sul foglio a fargli compagnia, ci furono sguardi segreti e sorrisi sbiaditi e silenzi immensi; ci fu il ricordo del vento sulla pelle, quel giorno al lago, e lacrime che tracciavano scie silenziose sulle loro guance gelate, e parole, parole forti, commosse, immortali.
«Andrà tutto bene» mormorò più tardi Franky, stringendole dolcemente la mano per rassicurarla e incoraggiare sé stesso, il ricordo di quel bacio ancora vivo sulle sue labbra, mentre la luce fioca di una lanterna si avvicinava alla casa.
 
La voce tonante di un uomo interruppe quel breve idillio. «Venite fuori, siete in arresto!» gridò, alzando la lanterna contro le finestre, la luce che si rifletteva appena sui vetri opachi. «Sappiamo che siete lì dentro, uscite subito e in cambio morirete velocemente» continuò, alzando ancora di più il tono di voce. «E’ il maggiore Spandam che ve lo ordina!», come se, in quel momento, la sua carica valesse qualcosa.
Dietro la casa, il rumore di passi e rami spezzati attirò la sua attenzione. «Non fate i furbi con me! Non serve a niente scappare, vi prenderemo in ogni caso!», esclamò, avviandosi pomposo verso la fonte del rumore, e trovandovi nient’altro che una finestra spalancata e una sacca gettata a terra. 
Di sicuro, c’erano tanti modi per definire il maggiore Spandam, a capo delle guardie speciali cittadine, tra le quali figurava anche il sanguinario Lucci, ma, in quel momento, quello che gli calzava più a pennello era “idiota”. Questi, infatti, nato da una ricca famiglia e ottenuto il suo posto di lavoro grazie alla raccomandazione del padre, aveva un’esperienza sul campo pari a zero, e totale incapacità di trattare con i criminali, oltre che un’inesistente forza fisica, compensata da quella dei suoi capaci sottoposti, delle vere e proprie macchine da guerra. Non ci si deve quindi sorprendere se riuscì a farsi gabbare da un trucco del genere, e attirato dietro la casa, messo al tappeto da un pugno di Franky, uscito dalla porta principale proprio dietro di lui, che si apprestò a sottrargli le armi e la lanterna.
Dalla finestra sbucarono i volti trionfanti di Robin e Chopper, che lo raggiunsero sorridenti scavalcando direttamente il davanzale.
«E’ stato più facile di quanto previsto, e questo sarebbe un ufficiale governativo? Bha, una volta erano molto più duri, mica li stendevi in questo modo» borbottò Franky, gettando le armi nello zaino e alzando la lanterna.
«Dobbiamo sbrigarci, a breve saranno qui i rinforzi, e allora ne avrai di che divertirti» disse Robin, alzando il cappuccio del mantello. «Detesto l’idea della lanterna, perché rischiamo ci trovino più facilmente, ma ci serve se vogliamo continuare a camminare anche al buio, visto quanto tempo ci ha impiegato questo qui a raggiungerci. Andiamo?» aggiunse, iniziando a camminare e voltandosi verso i suoi compagni, che la raggiunsero in fretta, e insieme ripresero il viaggio verso la salvezza.
 
Accadde quando pensavano di avercela fatta.
La luce della lanterna illuminò la fine del bosco, oltre il quale si estendeva il confine del paese, oltre il quale sarebbero stati fuori dalla giurisdizione locale, e di conseguenza dalle grinfie di Lucci e compari, il che era quanto di più vicino alla salvezza in un momento del genere.
Robin sorrise, Franky esclamò un “Super!” sottovoce, e Chopper per poco non si mise a piangere, ringraziando tutti gli dei che conosceva per quel colpo di fortuna – e, a giudicare dalla lista infinita di nomi che snocciolò con le lacrime agli occhi, non erano nemmeno pochi.
«Non riesco a crederci», sussurrò Franky, cercando la mano di Robin; lei sorrise, stringendogliela forte, assicurandogli che non era un sogno, e che sì, erano davvero salvi.
«Ce l’abbiamo fatta!» esclamò Chopper, gettando le braccia al cielo. «Siamo vivi, ce l’abbiamo fatta!» il piccolo medico era felice, come non lo era dalla notte dell’esplosione; la gioia di essere vivi, di essere riusciti a fuggire, aveva preso il sopravvento su qualsiasi altra emozione, compresa la paura di avere Lucci alle calcagna.
E questo fu, molto probabilmente, il motivo principale del loro fallimento.
Alle loro spalle, il rumore degli zoccoli che colpivano il terreno li fece voltare, interrompendo i loro festeggiamenti, e ciò che videro raggelò loro il sangue nelle vene: Lucci a cavallo di uno stallone dal manto color notte, li osservava, un sorriso sadico dipinto sul volto, e una pistola carica puntata contro Robin.
«Siete stati davvero bravi» iniziò, spostando lentamente la canna della pistola da Robin a Franky a Chopper, indugiando un attimo di più sulla donna. «Sapete, nessuno era mai riuscito ad arrivare così vicino alla fuga, evidentemente avete stabilito un record, ma non potete farla franca» il dito scivolò sul grilletto, premendolo con malcelata maestria dissimulata in goffaggine. Tutti i presenti trattennero il respiro, aspettandosi il rumore del proiettile sparato ad altissima velocità contro il loro petto, ma niente di ciò avvenne: al posto del consueto bang, l’unico rumore emesso dalla pistola fu un insolito click, accompagnato da un sorriso fin troppo consapevole di Lucci. «Oh, devo essermi sbagliato» mormorò, accarezzando col pollice il grilletto della pistola, una luce malata negli occhi. «E’ un po’ che non uso questa pistola, non so più bene quanti proiettili ci siano rimasti. Potrebbero essercene due, o quello di prima poteva essere l’unico a mancare. Oppure, magari siete fortunati e non ce n’è nessuno, cosa ne dite, facciamo una prova?» e ancora prima di aver terminato di parlare, puntò la pistola al petto di Robin e premette il grilletto, con la piccola differenza che, questa volta, nell’aria risuonò un sonoro bang.
La donna si accasciò a terra a causa della potenza del colpo, premendo le mani sul petto, dove il proiettile l’aveva colpita, il volto contratto dal dolore. La risata di Lucci riempì l’aria, ancora carica di tensione dopo lo scoppio, mentre i due uomini si avvicinavano preoccupati alla compagna, inginocchiata sul tappeto di foglie.
«Sperate sopravviva» rise Lucci, caricando un altro colpo, tenendo con una mano le redini del cavallo, che allo sparo aveva minacciato di imbizzarrirsi. «Il governo la preferirebbe viva, a differenza di voi due. Vediamo un po’, che cosa abbiamo qui?» continuò beffardo, spostando la canna della pistola da Franky a Chopper. «Cutty Flam, pensavo fossi andato a fare compagnia al vecchio Tom tempo fa. Quanti anni sono passati, cinque? Sei?» Franky strinse i pugni, ringhiando come una bestia in gabbia e abbaiando un «otto anni» che avrebbe fatto impallidire qualsiasi uomo.
Al contrario, Lucci sorrise. «Oh, be’, sai, ho perso il conto, troppo tempo sprecato pensando fossi morto. Sarà un piacere assicurarmene personalmente, ma prima…» la sua espressione era di nuovo seria, mentre puntava la pistola alla testa di Chopper, inginocchiato a terra accanto al corpo di Robin «In piedi, medicastro da strapazzo. Ti sto concedendo l’opportunità di morire come è consono ad un vero uomo, e di non vedere il tuo amico ammazzato nel modo peggiore, quindi alzati».
Il medico voltò la testa, puntando gli occhi castani, di solito ricolmi di dolcezza e intelligenza, contro l’uomo a cavallo, osservando disgustato e pieno d’ira la pistola che reggeva tra le mani. Se fino a pochi istanti prima, Chopper si era prodigato in ringraziamenti e sorrideva felice, certo di essere salvo, adesso il suo sguardo metteva quasi paura, tanto era pieno di rabbia e dolore; in due settimane gli avevano strappato via ogni cosa, mesi di lavoro andati in fumo, costretto ad abbandonare la propria casa, con tutto ciò che aveva significato, e a fuggire come un reietto, e adesso quell’uomo armato di pistola si era addirittura azzardato a sparare ad una sua amica. A quel punto, se lo avesse ucciso la sua unica preoccupazione sarebbe stata di dover lasciare solo Franky con Robin in quelle condizioni – anzi, probabilmente morta. «Non mi hai sentito? Sei sordo forse? Ti ho detto di alzarti, a meno che tu non voglia dire addio a questo mondo come un codardo»
Si alzò lentamente, fronteggiando Lucci a viso aperto, nonostante la situazione disperata. Dietro di lui, Franky era corso da Robin, circondando le sue spalle con un grosso braccio, e osservando irato e mesto l’amico. Eppure, la via di fuga non distava più di trecento passi da loro, così vicina e allo stesso tempo così inarrivabile, e sapere che la loro vita stava per finire in quel momento era così frustante, che tanto valeva non aver nemmeno provato a scappare.
Non avrei mai voluto veder Robin morire, né tanto meno Chopper, pensò Franky, stringendo a sé Robin, e subito dopo: Perlomeno abbiamo stabilito un record, saremo ricordati come dei super fuggitivi.
Gettò uno sguardo a Robin, stretta nel suo abbraccio, una mano ancora premuta sul petto, come se avesse voluto fermare l’emorragia prima che questa la uccidesse. L’aveva colpita al cuore, quel bastardo, e adesso la donna era inerme tra le sue braccia, il capo abbandonato e gli occhi chiusi che gli ricordarono con una fitta al cuore la sera in cui l’aveva portata al castello. Di sicuro, quando aveva varcato la porta dello studio di Chopper con il suo corpo in braccio, non immaginava cosa sarebbe successo in seguito, ma era pronto a rifarlo altre mille volte, se significava incontrare di nuovo quella donna stupenda, anche se doveva finire in quel modo – e dire che quella notte, correndo verso il castello, si era trovato a domandarsi più volte chi fosse in realtà quella donna. Non poteva dire di esserne rimasto deluso, anzi: Robin, per quanto sembrasse impossibile, lo aveva fatto vivere davvero.
Già, e dire che il suo cuore aveva persino smesso di battere!
Franky sbatté le palpebre, dandosi mentalmente dell’idiota per non averci pensato prima. Come aveva potuto pensare anche solo per un istante che Robin fosse morta? Lo era già, il che comportava che il proiettile di Lucci non avesse avuto alcun effetto su di lei. 
Franky si abbassò, sfiorandole col naso il viso, reprimendo a stento il sorriso a trentadue denti che minacciava di comparire sulla sua faccia. «Devo presumere che tu sia veramente una strega?» le sussurrò all’orecchio, rafforzando meglio la presa sul suo corpo.
Un minuscolo sorriso, quasi invisibile, si dipinse sulle labbra della donna, mentre sotto le palpebre i suoi occhi ebbero un guizzo, cosa che rese Franky più felice di qualsiasi altra cosa. «Dobbiamo andarcene» le sussurrò ancora all’orecchio, in un tono talmente basso che persino lei dovette sforzarsi di comprendere.
Nessuna risposta, Robin non si azzardava a parlare; il sorriso si ridusse, e il cyborg sentì una mano fredda stringere la sua, in cerca di calore e di conforto. Anche se era ancora viva, la situazione non era affatto delle migliori.
Franky alzò lo sguardo, puntandolo dritto davanti a sé, dove Chopper fronteggiava, disarmato e con una pistola puntata alla testa da un uomo nettamente più forte di lui, Lucci, i pugni chiusi dalla rabbia e la testa alta, segno che ancora non si era arreso. «Sai, non sei il primo dottore che uccido» stava dicendo Lucci, accarezzando con le dita della mano destra il cacio della pistola, pronta a fare fuoco in ogni momento. «L’ultima volta che ne ho ucciso uno, pensava di salvarsi con le parole, con le sue conoscenze: l’avrei lasciato in vita e lui in cambio mi avrebbe messo a disposizione tutte le sue capacità mediche; un baratto, insomma. La verità è che voi medici non siete uomini d’azione, ma chissà come mai il più delle volte vi divertite a voltare le spalle a chi vi aiuta; sperate di salvarvi, ogni volta, perché siete speciali, perché curate le persone. Strano, perché quando è caduto a terra, il corpo di quel dottore non ha fatto un rumore diverso da quello di qualsiasi altro criminale che io abbia mai ucciso» voleva divertirsi, prendersi gioco delle sue vittime e poi, quando se ne sarebbe stancato, le avrebbe uccise. «E tu non sei da meno, vero, Dottor Chopper? Volevi salvare il paese, i suoi abitanti, e guarda come sei finito, grazie ai tuoi esperimenti: e dire che ti avevano anche proposto di entrare a far parte del governo, e allora avresti avuto tutte le autorizzazioni che desideravi. Mi aspetto solo che tu implori pietà, e poi sarebbe perfetto»
Chopper strinse ancora i pugni, tanto da conficcarsi le unghie nella pelle. Minuscole goccioline di sangue gli scorsero lungo i palmi, mentre cercava un modo per rispondere al suo aguzzino che non comprendesse l’omicidio – insomma, sarebbe sicuramente morto, e non voleva assolutamente dare a Lucci la soddisfazione di essere riuscito a farlo attaccare per primo. Al contrario, Chopper sorrise, rilassando i pugni. «Non ho la minima intenzione di implorare pietà, soprattutto non ad un tipo come te.» l’ira che aveva dominato i suoi occhi non era altro che una minuscola scintilla, che aveva lasciato il posto a qualcos’altro, di più potente e altrettanto distruttivo: la verità. «Ci sono tanti motivi per cui non ho accettato la domanda del Governo: avrei dovuto lasciare il mio castello, in primis, non avrei potuto curare chi volevo io, e, soprattutto, avrei dovuto lavorare a degli abbozzi di armi biologiche costruite con i geni delle malattie, anziché cercare un vaccino. Non sono un assassino, e non avevo la minima intenzione di rendermi partecipe del prossimo genocidio. Quindi, se la mia colpa è di aver aiutato delle persone, uccidimi pure, ma non ti aspettare che ti chieda pietà»
Una strana luce si accese negli occhi di Lucci, le mani improvvisamente immobili e ben salde sulla pistola, pronta a fare fuoco. «Sono parole forti, pesanti, le tue, piccolo medico. E, soprattutto, vere. Forse è davvero un bene che ti stia per togliere di mezzo» disse, puntando i suoi occhi in quelli determinati del giovane, che lo osservava, per una volta, senza alcuna paura.
Poi, accadde tutto di fretta, troppo velocemente perché Chopper se ne rendesse conto. Un attimo prima era in piedi di fronte a Lucci e qualcuno aveva appena sparato, quello dopo delle grosse braccia l’avevano afferrato e se lo erano caricato in spalla, e la distanza tra lui e la pistola puntata alla sua testa si faceva sempre più grande. Si guardò attorno stupito, rendendosi conto che la persona che l’aveva salvato e che lo stava portando via come un sacco di patate, correndo più velocemente possibile, altri non era che Franky, accompagnato da una Robin rediviva che gli sorrise sicura, mentre il confine si faceva sempre più vicino.
«Franky!» esclamò, contento di sapere che forse c’era ancora una speranza.
«Mi spiace averti rovinato l’uscita di scena epica, caro dottore, sarà per un’altra volta» rispose il cyborg, posandolo a terra.
«E Robin! Sapevo che non potevi essere morta!»
«Be’,» rise la mora. «tecnicamente lo sono già, quindi non è che abbia fatto una grande differenza»
«M-Ma come ci siete riusciti? Insomma, Lucci stava per uccidere, poi ho sentito qualcuno sparare e voi due mi avete portato via. Cos’è successo?»
«Meno chiacchere e più corsa, non so quanto tempo abbiamo guadagnato» gli incitò Franky, dietro di loro.
Robin annuì, prendendosi lo stesso qualche secondo per mostrare sorridente al dottore una pistola di piccolo calibro, la stessa che Franky aveva preso dal corpo svenuto di Spandam, e che ora il cyborg, alle loro spalle, impugnava nel caso in cui Lucci rispuntasse prima di aver oltrepassato il confine. «Diciamo che i cavalli non amano molto che qualcuno spari un colpo vicino a loro, soprattutto quando il loro cavaliere è distratto»
Chopper sorrise, aumentando l’andatura della sua corsa: non erano ancora fuori pericolo, ma almeno era ancora in vita, e lo doveva a Franky e Robin. «Grazie», sussurrò commosso, ma le sue parole si persero nel vento quando un grido squarciò l’aria.
«CORRETE!» alle loro spalle, Franky sparò due colpi verso qualcuno. Chopper fece per voltarsi per capire che stesse succedendo, ma il cyborg lo rimproverò, gridandogli di continuare a correre qualsiasi cosa accadesse. «Porta Robin con te, il confine è vicino!» urlò, sparando un altro colpo. «Io vi copro le spalle, vi raggiungo subito»
«Franky!» gridò Robin. Altri spari, questa volta non provenienti dalla pistola di Franky, che sovrastarono le grida della donna. L’uomo si voltò un istante, giusto il tempo per scambiare una rapida occhiata d’intesa con Chopper e una con Robin, che lo pregò invano con lo sguardo di non farlo, e poi tornò ad occuparsi di chiunque li stesse inseguendo. Robin, paralizzata, piantò i piedi, incapace di muoversi: avrebbe voluto aiutarlo, impedirgli di fare quell’enorme cazzata, ma una mano gentile le afferrò il polso costringendola a correre via.
Il confine era vicino, rappresentato simbolicamente da un vecchio cartello scolorito, sul quale non si leggeva nemmeno più il nome dei due paesi. Robin, guidata da Chopper, lo attraversò senza nemmeno accorgersene; la sua mente era rimasta cento passi più indietro, al fianco di Franky, cristallizzata nel momento in cui il suo sguardo aveva incontrato quello di Franky, e ci aveva letto dentro la determinazione a combattere, e soprattutto, l’amara consapevolezza che probabilmente non sarebbe tornato.
Una volta oltrepassato il cartello, i due crollarono a terra, distrutti. Il volto di Franky, le sue parole, erano fisse nella mente di Robin, che non riusciva a pensare ad altro. Goccioloni di lacrime, simili a schegge ghiacciate, iniziarono a scenderle lungo le guance, mentre i pugni colpivano il terreno davanti a lei.
Nessuno dei due osò parlare, incapace di pensare a qualcosa da dire. Passarono i minuti – che parvero ore ad entrambi –, lenti ed inesorabili, trascinando con sé la sempre più tangibile consapevolezza che Franky poteva davvero essersi sacrificato per loro. Chopper, che poco prima era pronto a morire, adesso si sentiva davvero come se qualcuno lo avesse trafitto al cuore con un proiettile, lasciando una ferita zampillante che gli faceva male ogni volta che pensava all’amico.
Con le bocche cucite dal terrore e dalla disperazione, i due ascoltarono la foresta riempirsi del suono degli spari, la consapevolezza che Franky era lì in mezzo, tra proiettili vaganti e terreno sporco di sangue, che pesava su di loro come un masso.
Ed il tempo, traditore dei traditori, si trascinava lento, beffandosi di loro, arrancando con un sorriso sul volto che celava pessime notizie, notizie di morte.
Robin lo avrebbe voluto prendere a pugni, il tempo: da che si ricordasse, si era sempre divertito a prendersi gioco di lei, sin da quando era ancora viva – e l’unico caso in cui le era stato davvero amico era… be’, quando era morta – e anche adesso, quando della sua vita non le importava più, la torturava con i suoi minuti interminabili, lasciandola a tormentarsi nell’incertezza. Avrebbe voluto vederlo nella sua situazione, per quanto improbabile fosse.
Poi tutto a un tratto, così come erano iniziati, il rumore degli spari finì, e la foresta tornò silenziosa; ogni rumore sembrava all’improvviso svanito, come se qualcuno avesse posto il bosco sotto una campana di vetro, isolando ogni suono all’interno. Avvolti in quel silenzio assordante, Robin cercò la mano di Chopper, che rabbrividì al contatto, e puntò lo sguardo di fronte a sé, dove una figura usciva dal bosco, lentamente, accompagnata dal suono ovattato dei propri passi – e, giurò la donna, anche da quello del suo cuore immobile che sembrava però intenzionato ad uscirle dal petto, mentre il nuovo venuto si faceva sempre più vicino.
Un assurdo ciuffo azzurro e bruciacchiato svettava vittorioso contro il bosco scheletrico, e un sorriso dell’uomo, grande, folle, quando fu più vicino, bastò a cancellare i minuti precedenti, l’angoscia e il terrore. Robin si alzò, correndogli incontro, le gambe ancora tremanti, e lui lasciò cadere la pistola ormai scarica, sorridendo felice. Si abbracciarono esattamente sul confine, di fianco a quel cartello scolorito, un sorriso enorme, macchiato di lacrime a illuminare i loro visi; Franky le accarezzò il volto pallido, rigato dal pianto, e lei sorrise, immergendo il volto nella sua camicia. «E’ tutto a posto, Robin» le sussurrò sorridendo, gli occhi lucidi di lacrime, accarezzandole con mano tremante la testa di capelli corvini. Lei alzò lo sguardo, incrociando i suoi occhi con quelli di Franky, e la felicità per essere vivi, per avercela fatta, fu tanta, immensa. Annuì, districandosi dall’abbraccio e voltandosi verso Chopper, le mani intrecciate assieme in una stretta impossibile da sciogliere, e fecero i primi passi verso la libertà.
Ma poi, in un istante maledetto, che in futuro Robin avrebbe voluto cancellare dai suoi ricordi, superato il confine, la presa di Franky si fece più debole, e le sue gambe cedettero; con un sorriso, l’uomo cadde a terra, in una pozza di sangue che già iniziava ad allargarsi sotto la sua schiena.
 «Franky!» gridò spaventata Robin, e in un attimo entrambi erano inginocchiati accanto al cyborg, intenti a cercare di capire cosa fosse successo. Chopper, con gli occhi lucidi, armeggiava con il mantello di Franky, le mani ferme e sicure, come il migliore dei dottori, anche in un momento del genere, il volto una maschera di angoscia. «Resisti, resisti» mormorava Robin, stringendogli la mano, aggrappandocisi come un naufrago al proprio relitto. «Ti prego, fallo per me» lacrime di disperazione premevano per uscire, ma le ricacciò orgogliosamente indietro, troppo sconvolta per piangere.
Di fianco a lei, il medico lavorava frenetico, cercando di girare quel tanto che bastava il grosso corpo dell’amico, alla ricerca della ferita, le mani che sondavano la pelle sotto i vestiti, trovandola bagnata e sporca di sangue. Una traccia di esultanza gli si dipinse sul volto quando le sue dita trovarono la ferita, poco sotto la scapola sinistra, cancellata non appena si rese conto di cosa comportasse una pallottola in quel punto; Chopper si ritrasse, riappoggiando a terra sconsolato il corpo esanime di Franky, stanco e rassegnato e con le mani sporche di sangue. Scosse la testa, un groppo in gola che gli impediva di parlare e che si sforzò di mandare giù per dare a Robin quella notizia; aveva il diritto di sapere, e l’avrebbe scoperto comunque nel giro di pochi minuti. «Robin…» iniziò, torturandosi le mani, lo sguardo fisso sul corpo sempre più freddo di Franky, disteso in una pozza di sangue che si allargava sempre di più, man mano che il suo cuore rallentava i battiti. Bastò il suo nome, e la donna lo guardò, gli occhi lucidi di lacrime che ancora si sforzava di trattenere, il viso segnato dalla disperazione, che ne accentuava il pallore alla luce fioca della lanterna. «Il proiettile ha reciso un’arteria, io…» non continuò, non ci riuscì. Se Franky stava morendo era anche colpa sua, che in quelle condizioni, senza strumenti e medicinali, non poteva fare nulla per salvarlo.
Gli occhi di Robin erano lo specchio di ciò che provava, lucidi di lacrime e di speranze distrutte, ma la donna ancora una volta non pianse, poggiando mestamente il capo sul petto di Franky, che si abbassava e rialzava sempre più piano, man mano che il respiro veniva meno, facendosi sempre più pesante e affannato. «Lo so» sussurrò, rivolta solo a lui, e Chopper comprese che Robin lo aveva capito ancora prima di lui, sin dall’incedere lento e fin troppo affannoso di Franky quando era rispuntato dalla foresta, una pistola scarica in mano e un sorriso stanco – fin troppo stanco – e trionfale dipinto sulle labbra.
«Hey» la voce di Franky era flebile, non più di un sussurro, eppure aveva trovato le forze per voltare la testa e alzare lo sguardo su Robin, il volto nascosto nella sua camicia colorata e sporca di sangue. La donna tirò su col naso, accarezzandogli il viso con una mano tremante, mentre con l’altra si aggrappava forte a quel pezzo di stoffa colorato, quasi come se in quel modo sarebbe riuscita a impedirgli di andarsene, tenendolo per sempre con sé. «Siete stati bravissimi, entrambi» era sempre più debole, ogni parola era una stilettata nel petto, ma se Franky, un tempo Cutty Flam, doveva morire, voleva farlo senza troppi rimpianti, ed era certo che, se non l’avesse fatto in quel momento, avrebbe passato l’eternità a rammaricarsene. «Anzi, siete stati super» una risata fragile invase l’aria carica di morte e di sangue, seguita da un violento colpo di tosse.
«Chopper… mi spiace tantissimo, avrei – un altro colpo di tosse – avrei voluto fare di più. Sei stato un amico fantastico» mormorò, rivolto al giovane medico, che annuì, sorridendo tra le lacrime. «Non dirlo neanche per scherzo, okay? Grazie di tutto, Franky.» e avrebbe voluto dire di più, raccontargli di quanto gli avesse voluto bene, scusarsi se li aveva indirettamente trascinati in quel casino, ma il tempo era poco, e, mentre il Sole si apprestava a sorgere, Chopper pensò che non c’era modo migliore – anche se, a dir la verità, non esisteva nemmeno un modo giusto – per salutare un vecchio amico.
Franky sorrise, mormorando un super che rimbombò nelle orecchie di Chopper per ore, prima di rivolgersi di nuovo a Robin. «Sta arrivando l’alba» sussurrò, cercando debolmente la mano della donna, che gliel’afferrò decisa. «Sono contento di morire in un momento così bello, mentre arriva l’alba. E’ bella come te, Nico Robin»
Robin si sforzò di sorridere, gli occhi lucidi e la voce rotta. «Sei super, Franky.»
Nessuna risposta. Il petto di Franky si fermò, e la sua mano scivolò via dalla presa di Robin, cadendo nella pozza di sangue sotto di lui. Robin abbassò lo sguardo, incapace di sopportare la vista di quegli occhi spalancati, aperti su un’alba della quale avrebbero goduto, mentre il freddo Sole di novembre faceva capolino, illuminando con i suoi raggi dorati lo sguardo vitreo di Franky e le lacrime che, finalmente, scorrevano copiose sul volto della donna.
 
In futuro, Robin ci rifletté molto, su quel giorno maledetto, rimproverandosi ogni volta per non essere riuscita a far desistere Franky dal restare indietro per salvarli. Le aveva dato una seconda possibilità, liberandola dallo spettro del suo passato, ma ad un prezzo fin troppo alto.
Dopo la sua morte, lei e Chopper, ancora in lacrime, sforzandosi di tirarsi in piedi e di articolare una frase, avevano deciso di venire a riprendere il corpo di Franky non appena avessero raggiunto un centro abitato, perché il cyborg era fin troppo grosso da trasportare per entrambi.
Avevano quindi, a malincuore, abbandonato il corpo dell’amico, nascondendolo nel folto del bosco, dove nessuno lo avrebbe trovato, e avevano ripreso il cammino, le gambe molli che minacciavano di cedere ad ogni passo. Nessuno dei due aveva parlato finché non avevano raggiunto un piccolo villaggio, dove avevano deciso di fermarsi per riposare e riprendersi da quanto accaduto.
Alcuni giorni dopo, il corpo senza vita di Franky era stato raccolto e seppellito nel cimitero di quel piccolo paesino; al funerale, una cerimonia breve, senza troppi fronzoli, avevano partecipato soltanto due distrutti Robin e Chopper, che aveva persino tentato di mettere insieme un piccolo discorso per l’amico, prima che le lacrime lo bloccassero e gli impedissero di continuare.
La decisione di andare ognuno per la propria strada l’avevano presa assieme, una settimana dopo il funerale di Franky; Robin non sarebbe mai riuscita a continuare a vivere pensando in continuazione a quanto doveva al cyborg, alla seconda possibilità che le aveva donato, e Chopper, con i suoi sorrisi timidi e i suoi abbracci, troppo piccoli per riempire il vuoto lasciato, non faceva altro che ricordarglielo, motivo per cui aveva accolto la proposta con piacere, ripromettendosi di incontrarsi ancora, una volta all’anno, di fronte alla tomba di Franky.
E così era stato, per anni e anni. Robin vedeva Chopper crescere, diventare un medico di successo, invecchiare, gli occhi sempre dolci e gentili, forse solo un po’ più tristi, mentre lei continuava a rimanere la stessa, forse con appena qualche cicatrice in più, cristallizzata per l’eternità nei suoi trent’anni, mente il tempo attorno a lei scorreva veloce e inesorabile, lasciando il suo segno sulle altre persone, ma senza sfiorarla in alcun modo.
Viaggiò molto, Robin. Visitò paesi, vide città, conobbe persone; capì che il mondo non era come lo aveva sempre creduto, che non era l’unica che la morte aveva risparmiato, dopo averla sfiorata, che esistevano altri come lei, un intero mondo del sovrannaturale, che cresceva e fioriva nascosto nell’ombra di quello umano. E intanto iniziavano guerre e la gente moriva, la pace ritornava e il mondo si evolveva, andava incontro a cambiamenti epocali; l’uomo iniziava a volare per i cieli e più di cinquant’anni dopo andava sulla Luna, le strade si riempivano di macchine e la televisione entrava nelle case. Robin vide scontri, guerre, paci; vide teste venire incoronate e altre cadere; vide nascite, morti, uomini famosi e importanti scrivere la storia predicando la non-violenza, e altri uomini scriverla col sangue. Vide la storia svolgersi davanti ai suoi occhi, e ogni volta si ritrovava a pensare a quanto l’uomo amasse stupidamente ripeterla. E, in tutto questo, incontrò pure un vampiro dai capelli rossi e uno strano cacciatore, che simpatizzava fin troppo per le sue prede per essere crudele come si raccontava, ma questa è un’altra storia.
Ogni anno però tornava di nuovo alla tomba di Franky, posando una candela e un mazzo di fiori di fronte alla sua lapide che diventava sempre più vecchia, una lacrima solitaria che si faceva strada sul suo viso, prima di voltarsi e partire di nuovo.
 
*
 
Robin si sforza di sorridere, mentre posa una candela accesa e un mazzo di fiori di fronte ad una tomba senza nome, le cui lettere dorate si sono cancellate col tempo, relegando la memoria di chiunque vi sia sepolto ai vecchi racconti. A Robin, tutta via, l’iscrizione non serve, sa benissimo chi riposa lì, sotto quella lapide rovinata.
Si alza, voltandosi verso il fantasma, che la osserva dispiaciuto: qualsiasi cosa sia accaduta in passato, non voleva risvegliare brutti ricordi con la sua domanda, anche se teme, a giudicare dall’espressione della donna, che sia proprio ciò che è successo. «Robin?» domanda, avvicinandosi incerto. Tutto quello per lui è ancora strano e incomprensibile, ma quando l’ha vista inginocchiarsi davanti a quella vecchia lapide con gli occhi tristi, tanto fragile da sembrare sul punto di spezzarsi, si è chiesto se si può continuare a soffrire per sempre, e se mai accadrà anche a lui – e avrebbe voluto avvicinarsi, posarle una mano trasparente sulla spalla e fare qualcosa, ma non lo ha fatto e Robin non ha parlato, accendendo in silenzio quella candela, sola come lo è da chissà quanto tempo a questa parte.
«E’ tutto okay, è una vecchia storia» sorride lei, e mentre ne parla i suoi occhi non sono malinconici o tristi, non solo almeno; sono gli occhi di chi ha vissuto tanto, e nei quali risplendono i ricordi di un giorno di novembre passato vicino ad un piccolo lago, di un vecchio castello gigantesco, troppo grande per una persona sola, e delle voci e dei visi di coloro che ha incontrato, le persone che sono state importanti, che per quanto il tempo passi e corroda tutto il resto, loro sono come cristallizzate nella sua memoria, impossibili da cancellare.
«Che storia?» domanda il fantasma, e il sorriso di Robin è lo stesso che fece decenni e decenni fa ad uno strano uomo dai capelli azzurri, dopo che lui l’aveva baciata sulla riva di quel piccolo lago.
«La storia di un eroe. Chissà, magari un giorno te la racconterò, ma prima è meglio che tu ritrovi la tua» risponde, voltandosi e riprendendo il cammino. «Vieni, abbiamo un appuntamento anche noi»
E così, le due figure, una pallida e evanescente, dai colori sbiaditi come in una vecchia fotografia, pellegrino alla ricerca della propria storia, e la sua guida, avvolta in un mantello nero, scomparvero tra gli alberi, proseguendo il loro cammino.
 
 
 
 




Angolo Autrice
 
Giuro che a me Franky piace, eh. È il mio Mugi preferito, quindi capite quanto abbia pianto mentre scrivevo le scene finali. Anzi, diciamo che scrivere questa storia è stato tutto un feels, dall’inizio alla SOPRATTUTTO ALLA fine.
E scusate anche per la lunghezza, motivo principale per cui non ho fatto in tempo a partecipare all’evento del gruppo, cosa che mi è dispiaciuta tantissimo. L’altro è la scuola verifiche di fisica del cavolo.
Comunque, dato che per il quattro la storia non era ancora pronta – insomma, quel giorno ero più o meno alla scena del lago, capite quanto ero messa male, ma non finirla mi scocciava, considerando quanto era lunga – è finita a slittare in continuazione, con me che aggiungevo sempre più cose (perché inizialmente questo capitolo non doveva essere di più di dieci/dodici pagine, cornice compresa, ma poi mi è preso lo schizzo ed è finita così), e alla fine pubblico oggi. E nella mia testa ci sono tantissime altre cose che vorrei aggiungere, perché davvero ho tantissime idee in testa e questa storia – e questa Au – ha moltissimi dettagli anche inutili, cose che avrei voluto inserire ma che ho dovuto tagliare, ma che verranno riprese più avanti – come l’uomo che vuole cambiare il paese al quale Robin passava le informazioni, o come mai ogni tanto il nostro caro protagonista è tangibile nonostante sia un fantasma. Ogni cosa verrà chiarita man mano, non pensate mica che sia finita così u.u
La vicenda di Robin si rifà a quella di Frankenstein, anche se ammetto che la parte che va dall’inizio del flashback a poco dopo l’esplosione è stata la più pesante da scrivere, dato che ad un certo punto mi è sembrato tutto fin troppo forzato e assurdo anche per una fan fiction del genere, ma non avevo altre idee.
Spero di non aver fatto pasticci con i personaggi, visto che non ho mai scritto sulla maggior parte di loro o quasi; adoro Kidd in versione vampiro e Robin zombie è uscita un po’ dal prompt – che poi ho travisato un pochino, ma giusto un attimo, eh – e un po’ perché mi piace tantissimo immaginarla in questa versione e un po’ si è pure scritta da sola; Lucci è un sadico bastardo che mi sono trovata ad inserire senza nemmeno accorgermene, Franky è un amore che mi ha fatto piangere come una cretina nelle ultime due pagine e Chopper è quello che più mi ha fatto dannare, visto che in tantissime situazioni non sapevo come muoverlo e odio vederlo relegato a personaggio puccioso e piagnucolone come sta succedendo da un bel po’ nel canon, quando in realtà è un personaggio con tantissime potenzialità che non vengono sfruttate.
Ecco, credo che una delle sfide più difficili sia stata quella di inserirlo in una storia, del genere, essendo Robin uno zombie e non avendo Franky le conoscenze mediche necessarie – è pur sempre un carpentiere –, motivo per cui c’era bisogno di un dottore; ho scelto Chopper sia per i legami che ha i con gli altri due personaggi sia per il fatto che Law, che personalmente vedo più propenso a esperimenti come “cercare di resuscitare i morti”, almeno nella sua fase pre-Mugi, è già presente in un’altra storia. Il problema più grande è che Chopper ha una sua etica medica molto forte, e per questo non si spingerebbe mai oltre i limiti della natura, cercando di riportare in vita i morti – vedasi Thriller Bark –, cosa che mi ha spinto a interpretare in modo un po’ diverso il prompt, che alla fin fine è stato soltanto l’imput per farmi scrivere di loro due in queste vesti, creando la misteriosa malattia che infesta un altrettanto misterioso paese/nazione e alla quale Chopper cerca di porre fine, facendo esperimenti sui cadaveri che Franky gli porta, al fine di trovare un vaccino – sì, l’inizio è leggermente creepy, me ne rendo conto, ma è ispirato a delle figure davvero esistite nel 1800, che si occupavano di rifornire gli studenti di medicina di corpi da analizzare.
Tra l’altro, questa storia mi ha dato l’occasione di riprendere in mano tutti i volumi di Esplorando il corpo umano che collezionavo da piccola, inutile dire che ho passato un intero pomeriggio a riguardarmeli tutta contenta anziché studiare storia.
Ah, ho inserito l’avvertimento ‘tematiche delicate’, visto che parlerò molto di morte e aldilà e molto probabilmente toccherò il tema della religione, cosa che magari a qualcuno potrebbe dar fastidio; non so se inserire anche ‘contenuti forti’, nel caso quanto raccontato dia fastidio a qualcuno me lo dica che mi occuperò di aggiungere il tag.
Samhain significa ‘Festa dei Morti’, in celtico, e mi piaceva troppo per non utilizzarlo. La storia è strutturata con una cornice narrativa – il fantasma nel cimitero. A proposito, secondo voi chi è? – che rappresenta la trama principale, e le varie storie ‘minori’, raccontate dai personaggi che vengono incontrati di volta in volta; ho deciso di usare sempre la terza persona, al presente (corsivo) per la cornice e al passato per le storie, visto che non so scrivere in prima personalmente mi trovo meglio in questo modo.
Anyway, si ringrazia l’inesauribile pazienza di Eneri_Mess e _Lady di Inchiostro_, che mi hanno sopportata mentre scleravo su questa storia, e che mi sopportano spessissimo, oltre che le ragazze del gruppo per aver creato l’evento, al quale non sono purtroppo riuscita a partecipare T_T
Per qualsiasi cosa chiedete pure, e anche le critiche sono più che ben accette. E entrate a far parte del nostro gruppo ‘EFP – fandom One Piece’, sarete accolti a braccia aperte – e con una sana dose di follia u.u
Adios!

Tikal
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: Tikal