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Autore: LeanhaunSidhe    13/11/2015    22 recensioni
La lama brillava ed era sporca. Imuen girò il taglio della falce verso la luna e ghignò incontrando il proprio riflesso. Si sentiva di nuovo vivo. Non distingueva il rosso dei suoi capelli da quello del sangue dei suoi nemici. La sua voce si alzò fino a divenire un urlo. Rideva, rinato e folle, verso quel morto vivente che era stato a lungo: per quanto era rimasto lo spettro di se stesso? Voleva gridare alla notte.
È una storia con tanto originale, che tratta argomenti non convenzionali, non solo battaglia. È una storia di famiglia, di chi si mette in gioco e trova nuove strade... Non solo vecchi sentieri già tracciati... PS: l'avvertimento OOC e' messo piu' che altro per sicurezza. Credo di aver lasciato IC i personaggi. Solo il fatto di averli messi a contatto con nemici niente affatto tradizionali puo' portarli ad agire, talvolta, fuori dalla loro abitudini, sicuramente lontano dalle loro zone di comfort
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aries Kiki, Aries Mu, Aries Shion, Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ballata dei finti immortali'
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Saori si rigirò nelle lenzuola profumate di fresco. La stoffa si attorcigliò alla caviglia e iniziò a segnarle la pelle chiara. L'abbraccio del sonno stava diventando una morsa. Provò ad alzarsi da supina che era ma una catena invisibile la tratteneva immobile e distesa.
“Chi sei?”
Chiese con voce calma e decisa. Si era accorta subito della presenza che non si palesava e le impediva il giusto risveglio.
Lentamente, un mantello bianco si mosse nell'indistinto che la racchiudeva e rivelò le sembianze di un uomo altissimo.
“Perché non ti mostri a me? Mi temi, forse, mentre sono bloccata?”
Non ottenne subito una reazione alla sua provocazione. Poi, il gigante portò le mani enormi a ghermire il cappuccio che gli celava il volto.
Solo allora Saori riuscì ad associare i lineamenti al suo amico ed il passato di molti secoli prima: l'operato di Imuen, tornò a farla sentire impotente come allora.
“Tu devi essere Haldir, l'altro gemello.”
Esordì apparentemente sicura. In realtà, un dubbio rovinoso le rosicchiava il cuore.
Mai, fino ad allora, il domatore delle anime dei viventi si era mostrato. Che cosa stava succedendo?
“Mi punisci perché mi ritieni responsabile per ciò che è accaduto a tuo fratello, giusto?”
Il guerriero la fissò coi suoi occhi di zaffiro e la dea della saggezza ancora non sapeva cosa aspettarsi.
“Tu sola fra gli olimpici l'hai sempre rispettato e protetto. Posso scrutare l'anima di ogni essere, compresa la tua. So che eri in buona fede.”
La dea parve tranquillizzarsi ma non capiva ancora il motivo per cui era trattenuta. Si trovò costretta a chiedere ed il gigante rispose piano, con la sua voce profonda.
“Tu devi stare buona qui mentre agisce mio fratello.”
Saori spalancò gli occhi, memore della strage di cui Imuen si era macchiato un tempo ma la mano immensa di Haldir, poggiata sul petto, le impediva di espandere il proprio cosmo. Fu quella la prima volta che iniziò a rendersi conto dei poteri misteriosi di quell'essere e a capire che, forse, non doveva avere paura. Una scossa leggera le raggiunse il cuore e la pace più umana che avesse mai provato fino ad allora placò pure la sua parte di dea.
“Imuen non sta uccidendo nessuno, al contrario: riporta qualcuno alla vita. Riposa tranquilla Athena.”
Saori provò a muoversi ancora ma rimaneva comunque bloccata. Solo dopo altri minuti si placò. Non poteva essere. Davvero, i Dunedain non potevano aver preparato per tutti loro un simile dono.



Era buio e freddo. Dove si trovavano loro non c'erano mai luce e calore. Dove li avevano segregati tempo e spazio non esistevano. Solo dolore e disperazione erano reali. Privi di corpo e di voce, come appendici di un'unica larva, parvenze malriuscite del loro essere stati eroi. Era quella la ricompensa per aver rinnegato tutto in nome della giustizia?
Avevano sacrificato ogni cosa per un ideale, per un'umanità corrotta ma non perduta. Il cosmo di Athena era lontano in quell'atmosfera malata e i globi di luce che pulsavano nel cielo di tenebra dovevano essere l'ennesimo manifestarsi della loro condanna o della loro acquisita follia. Però no, non poteva essere: la pazzia sarebbe stata oblio, sollievo. Dolce e soporifera come il calore che nuovamente li scaldava.

“Ma che accidenti...”

Non capiva: Death Mask non poteva riuscirci. Perchè aveva nuovamente una voce? Tese le braccia contro il suolo. Sentì i muscoli delle braccia contrarsi, i pettorali tirati e la tensione che si spandeva dentro e contro il suo corpo. Respirò l'aria riarsa. Spalancò le palpebre verso l'alto.
Mille globi luminosi turbinavano, squarciando le tenebre. Si ingrandivano e rimpicciolivano, inseguendosi in una repentina corsa nel firmamento nero e azzurro. Il cavaliere si voltò di lato e potè leggere il suo stesso stupore sul viso di Aphrodite e quello di Shion.
Che diavoleria era mai quella? Incitò i compagni ad alzarsi. Stava verificandosi qualcosa di grosso. C'era un'energia prodigiosa che permeava l'aria: allo stesso tempo, era un cosmo e non lo era. Per Cancer aveva il sapore di un passato che aveva conosciuto ma non riusciva ad inquadrare.

Death Mask guardò in alto, col cuore in gola. Quale fonte di luce creava un'ombra così grande, che li occultava tutti e abbracciava l'intero averno? Come boccioli della stessa corolla, richiamati insieme da un unico raggio di sole, tutti i suoi compagni avevano alzato la testa all'unisono e non si erano coperti gli occhi con le mani. Non avevano paura. Se quel globo di luce li avrebbe schiacciati, così sarebbe stato. Avrebbero accettato con sopportazione e forza l'ennesima punizione divina.

Cancer ghignò beffardo, prima di essere inghiottito, insieme agli altri, in quella apparente esplosione di una supernova.

Quando poterono riaprire gli occhi e riabituarsi a vedere, si ritrovarono presso le rovine del vecchio grande tempio. Increduli, si scrutavano l'un l'altro. Si tastavano il corpo, non capendo come era potuto succedere, euforici per un sogno che sembrava troppo bello per essere vero.

“Bentornati in quest'altro inferno.”

Ad aver parlato era stato uno strano individuo seduto a terra, con le gambe incrociate. Indossava un' armatura nera, rilucente, che riverberava ai parchi riflessi lunari. Era in parte coperto da un mantello nero e logoro.
Tutti e quattordici furono colpiti dalla profondità delle iridi di quel personaggio. Di così verde, avevano conosciuto solo le gemme sul culminare della primavera. Egli aveva la pelle chiara, di un pallore irreale. Apparentemente annoiato, poggiava la guancia sulla mano, il gomito sul ginocchio. I capelli, lunghi e mossi, cadevano disordinati sulle spalle come una pioggia di sangue.

“Chi sei tu?”

Imuen rise. Anche se nudo ed indifeso come un verme, Shion dell'Ariete cercava di conservare la sua autorità, riuscendoci benissimo, tra l'altro.

“Come dissi un tempo ad uno di voi, mi hanno dato molti nomi e nessuno vi riguarda.”
Per nulla convinto, l'ex-sacerdote incalzò ancora.

“Perché ci hai ricondotti alla vita?”

Lo stranierò picchiettò la mano libera, artigliata, su di un ginocchio.

“Io non sono misericordioso come Athena, ma questa è un'eccezione. Siete qui per godere di una possibilità che a nessuno oltre voi fu mai data.”
Poi si alzò.

“Noi esigiamo sempre un prezzo per ogni servigio, ma non stavolta.”

Era alto. Poteva guardare Albebaran negli occhi da pari a pari. Si era già girato e se ne stava andando.

“Della vostra nuova vita fate ciò che volete, in totale libertà. Se sarete demoni o paladini, non è affar nostro.”

Colti alla sprovvista, provarono a trattenerlo con le buone. Non riuscendo, tentarono pure le cattive. Certo, però, lo straniero doveva essersela un po' presa per essere stato graffiato al viso dal colpo congiunto di Milo e Aioria. Lo intuirono dal fatto che, all'improvviso, si ritrovarono in mezzo al vociare indistinto di donne isteriche.

Death Mask fu il primo a bestemmiare e appropriarsi di un pezzo di stoffa con cui coprire la vergogna. Quel bastardo li aveva fatti comparire, completamente nudi, in mezzo al campo d'addestramento femminile.

Stava riponendo le ultime ampolle. Sbuffò quando, girandosi, ne trovò altre tre sul tavolo di legno della piccola stanza. Iniziava presto a dimenticarsi le cose importanti o, forse, era solo la stanchezza per la notte insonne, trascorsa tra il lavoro da sbrigare e vecchi incubi di cui credeva di essersi liberato da tempo.
Risistemò il laccio con cui teneva i capelli in una coda bassa e si concesse un attimo di riposo. La sensazione che stesse accadendo qualcosa di male a una persona cara e non vista da tempo, emerse in lui come una scossa leggera lungo la spina dorsale. Si diresse alla finestra con il fiato corto e per un istante sperò di tutto cuore che il suo potere cosmico si fosse guastato.
Si affacciò che le ultime stelle si stavano spegnendo nel cielo infuocato dell'alba. Un ultimo raggio, come un astro cadente che finiva in ritardo la sua corsa, si perse nell'ombra dietro le alte montagne del Jamir, la, dove molto lontano si inerpicava il sentiero nodoso che portava a scendere dalla sua terra desolata per raggiungere il grande tempio.
L'intuizione di prima divenne qualcosa di tangibile, un sospetto che stringeva nervi e cuore. Vide scorrere il rosso del sangue e i suoi occhi si spalancarono di terrore. Poi, una luce calda avvolse la sua anima. Era come se le costellazioni avessero ricominciato a splendere all'improvviso.
Le gambe persero per un istante la capacità di sorreggere il suo peso e dovette aggrapparsi alla seggiola malconcia per non cadere. Si concentrò di nuovo: non poteva essersi sbagliato. Quello era, senza ombra di dubbio, il cosmo di suo fratello. L'urgenza di verificare se fosse vero, animò istantaneamente il suo spirito e si teletrasportò fino ad Atene. Più che nei pressi di Rodorio, per il cosmo di Athena, non poteva andare. Camminò senza farsi riconoscere. Non aveva tempo da perdere rivelando a chicchesia qualcosa che non sapeva ancora per certo.
Le gambe tornarono a farsi pesanti. Più si avvicinava, più si convinceva che si, senza dubbio, quello era davvero il cosmo di suo fratello... e non era solo: dovevano esserci tutti e dodici. Non aveva ancora il coraggio di contattarli telepaticamente. Era giunto a pochi metri dall'accesso che collegava Rodorio al mondo esterno, che si bloccò. Un'essenza sconosciuta testimoniava la presenza di un estraneo. Era un cosmo e non lo era. Questo avrebbe risposto in seguito, a chi gli avesse chiesto cosa fosse.
Avvertì stupore e velata paura nei cosmi dei cavalieri d'oro, ne era certo. Temendo che ci fosse sotto qualcosa di grosso, si decise a penetrare dal passaggio. Entrato nel piccolo borgo, individuò immediatamente la presenza estranea che aveva percepito. Era un cavaliere alto almeno mezzo metro più di lui, che avanzava nella sua direzione con passo spedito. Lo straniero aveva un elmo nero come il metallo dell'armatura che lo celava. Appena questo si era accorto di lui, aveva materializzato un lungo bastone, che terminava in alto con una falce affilata.
Quando incrociò i suoi occhi verdi e accesi, l'unica parte visibile attraverso la copertura dell'elmo, Kiki capì subito che non poteva trattarsi di un essere umano. Era qualcosa al di la della sua esperienza e comprensione. Il giovane lemuriano deglutì ed espanse il proprio cosmo. Si preparava alla battaglia.
A pochi metri da quella singolare presenza, notò che il materiale della stessa corazza gli era sconosciuto. La superficie scura era intarsiata da strani simboli che non conosceva. Li distinse chiaramente, in pochi attimi, pur se confusi dall'orlo del manto lacero con cui l'uomo si abbigliava.
“Chi sei e cosa ci fai nei territori sacri alla dea Athena?”
Forse l'individuo non aveva intenzioni ostili poiché, appena gli furono rivolte quelle parole, poggiò sul terreno la parte terminale della falce che recava sulla spalla.
“A te che sembra? Me ne sto andando.”
Kiki annuì ed assottigliò lo sguardo.
“Non hai risposto ancora alla prima parte della domanda.”
Aveva notato tardi i fuochi fatui che danzavano in circolo, attorno a quella figura.
“Normalmente, ai mortali non dico chi sono...”
Fatta scomparire la falce, lo stranierò portò le mani artigliate ai lati dell'elmo e se lo sfilò piano.
“...ma in onore al fatto che su di te è fortissimo l'odore di uno della mia famiglia, farò un'eccezione.”
Mentre i capelli rossi brillarono appena ai raggi dell'alba, poggiandogli sulle spalle come uno sbuffo di fuoco, egli portò l'elmo sotto il braccio.
“Sono Imuen, uno dei domatori delle anime, di quelle dei morti che vagano sulla terra, ad essere precisi.”
Gli sorrise, con l'espressione di chi ti è palesemente superiore e si mostra garbato per prenderti in giro.
“Tu chi sei, invece: con chi ho l'onore di parlare?”
Kiki cercò di darsi un contegno, mentre la meraviglia e una leggera ansia si facevano strada in lui.
Ripetè il proprio nome, con enfasi e distacco.
“Vivo non l'avevo mai visto un lemuriano... eccezion fatta per quelli che ho riportato in vita poco fa, naturalmente.”
Al giovane mancò la terra sotto i piedi. Balbettando, gli disse di spiegare meglio il senso delle sue parole. Alla conferma che tutto fosse reale, calde lacrime gli rigarono le gote.
“Ti ringrazio infinitamente.”
Si inginocchiò come se fosse innanzi alla stessa Athena. Non si rendeva conto ne del tempo sospeso che lo rendeva invisibile alle persone attorno a lui ne dei cosmi agitati dei sacri guerrieri. Fu una presa decisa sulla spalla che lo distrasse. Con i suoi artigli, Imuen gli sfiorava l'avambraccio.
“Non cedere a chiunque la tua venerazione, umano. Certamente, io non la merito. Non mi è concesso farmene un cruccio, ma quando conoscerai il prezzo di quella rinascita, mi crederai meno magnanimo.”
Quelle parole lo colpirono. Ricordò l'altra parte delle sue percezioni, quel brivido tremendo e i sogni confusi che gli avevano impedito il riposo. Allarmato, gli chiese spiegazioni.
Ormai, il tempo per Imuen era scaduto e lo straniero si avviava per quello stesso passaggio che Kiki stesso aveva percorso. Il cavaliere, meno altero, abbassò gli occhi verdi.
“Non mi intrometto nei contatti di mio fratello, mi spiace.”
Kiki provò a rispondergli, ma la morsa che lo tratteneva, si dissolse solo quando Imuen se ne era già andato. Batté il pugno a terra e si rialzò in piedi, da carponi che era stato costretto. Avrebbe voluto dirgli che non aveva idea di chi fosse suo fratello, ma quell'espressione, guarire l'anima, gli era ancora tremendamente familiare. Che fosse Seleina la persona cara e lontana a cui stava accadendo qualcosa di brutto? Ormai i pezzi di quel puzzle meraviglioso e tremendo stavano combaciando troppo bene.
A passo spedito, prese a dirigersi dove sentiva viva e forte la presenza di Mu e dei suoi compagni. Solo un nuovo dubbio gli sovvenne, mentre si rendeva conto che stava raggiungendo il campo d'allenamento femminile: cos'erano quegli schiamazzi di donna?
La risposta arrivò poco dopo. Un gruppo di dodici uomini, nudi, coperti alla bell'e meglio, gli fecero spalancare gli occhi. Muto e rosso in viso, si accodò ai dodici cavalieri d'oro, che raggiungevano un posto più riparato, in religioso silenzio. L'unico rumore che tagliava quell'atmosfera irreale, era una voce bassa, sibilante e roca: Death Mask. Kiki tratteneva a fatica le risa. Senza ombra di dubbio, quelli erano improperi.
   
 
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