Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: coldmackerel    28/11/2015    12 recensioni
Levi/Eren | Hospital AU
Una commedia sull'essere morti.
Levi, finalmente, torna a lavorare come infermiere dopo essersi ripreso da un incidente d'auto che l'aveva quasi ucciso. Non c'è niente di meglio a darti il 'bentornato' quanto il realizzare di aver perso la testa e riuscire a vedere gli spiriti dei pazienti comatosi del reparto sei. Così, si trova, controvoglia, ad aiutarli a imparare a vivere da morti. Eren, l'ultimo paziente dell'ala sei, ha sei mesi per imparare ad essere morto. Buona fortuna, ragazzo.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

The 6th ward
CAPITOLO 28: Solo gli stronzi non provvedono ad un epilogo

1 anno dopo

Non era stato facile, questo era certo.

Per la prima settimana, Eren era abbastanza sicuro che si sarebbe sentito meno morto se fosse stato senza pulsazioni e sepolto un paio di metri sotto terra.

Ma non c’era, a prescindere da se fosse una cosa buona o no.

Svegliarsi era stato come venire sepolto tra le sabbie mobili, per poi essere trascinato con un cappio alla gola, su e su, per centinaia di metri di melma, che lo tenevano incastrato con una pressione distruttiva. Quando finalmente si era svegliato, però, le cose non erano migliorate molto. Più che confuso, si era sentito perso. Inconsciamente, sapeva che era passato del tempo da quando era arrivato in cantiere più di sei mesi prima – ma non sapeva esattamente quanto. Era stato come svegliarsi da uno di quei rari sogni dove all’inizio non sei esattamente sicuro del motivo per cui ti trovi a letto, perché per te il sogno era stato più reale della realtà che ti stava aspettando una volta tornato tra le lenzuola. Solo che questa volta era stato venti volte peggio.

I dottori avevano cercato di spiegargli che era stato in coma per i passati sei mesi, dopo essersi procurato una ferita grave alla testa in cantiere, e gli sembravano tutte scemenze, eccetto per il fatto che stranamente si sentiva come se fosse effettivamente stato steso in un letto per sei mesi. Ma quella era solo la sensazione fisica – perché, emozionalmente, si sentiva come se fosse stato preoccupato per qualcosa che non riguardava direttamente la sua vita prima dell’incidente. Ma quello era apparentemente impossibile.

Ma non si trattava di uno scherzo. Eren aveva davvero passato sei mesi in coma, e i dottori, ovviamente, avevano ragione. Eren diede la colpa al suo cervello. La sua mente stava facendo un sacco di cose stupide infatti, e quindi, lui, semplicemente, attribuì la cosa alla ferita.

Si arrabbiava molto. La riabilitazione e la terapia fisica erano esasperanti a causa dei processi impediti dal suo cervello. All’inizio non riusciva neanche a ricordare i suoi pensieri per più di un secondo o due, e aveva problemi a formare una sequenza di idee in generale. Sapeva cosa avrebbe voluto dire, ma aveva dimenticato tutto prima di poterlo fare o anche mentre lo stava dicendo. E questa era la cosa che lo faceva arrabbiare.

Si dimenticava davvero un sacco di cose. I dottori gli avevano dovuto spiegare certe cose dozzine di volte durante la prima settimana, perché non gli rimaneva impresso nulla. Pensavano che avesse qualche sorta di leggera deficienza della memoria, ma a breve termine. Infatti, fortunatamente, le cose migliorarono. Si dimenticava comunque un sacco di cose, e la cosa continuava a farlo infuriare, ma stava sicuramente andando meglio.

Tutto si era evoluto con dannata lentezza. Prima dell’incidente, Eren era un tipo impaziente e incapace di fare le cose con calma, ma dopo fu ancora peggio. Sapeva che Mikasa ed Armin stavano cercando di aiutarlo quando gli parlavano lentamente o gli davano fin troppo tempo per fare piccole cose, ma la cosa lo faceva arrabbiare lo stesso. E, ancor di più, lo faceva arrabbiare il fatto di essere arrabbiato, perché loro stavano solo cercando di essere premurosi.

Ma la cosa che lo faceva arrabbiare più di tutte, era che aveva veramente bisogno di quel tempo in più e dei discorsi lenti che gli riservavano loro, ma ammettere di avere bisogno di aiuto non era qualcosa che Eren era bravo a fare – soprattutto quando doveva ammetterlo a sé stesso. Sapeva tutto ciò, ma cambiare il modo in cui sei fatto non è mai facile quanto si possa pensare.

Nonostante tutto, Eren sentiva di stare lentamente tornando a vivere una routine quasi normale. L’ospedale aveva pagato tutte le sue tasse a causa di alcune assurdità riguardo diagnosi errate e negligenze mediche. Armin si era occupato di tutto, mostrando un sorprendente lato combattivo quando aveva minacciato l’ospedale di portarli in tribunale per aver dichiarato Eren cerebralmente morto quando non lo era.

Eren non aveva proprio capito tutto, ma l’unica cosa che riuscì a pensare fu che era l’ospedale ad aver ragione. Lui era un po’ morto cerebralmente, e probabilmente avrebbe continuato ad esserlo. Ma, ehi, avere le ricevute mediche pagate non era qualcosa che avrebbe mai rifiutato, e, comunque, l’ospedale aveva accettato senza controbattere. Il dottore di Eren, Smith, aveva sobbarcato la spesa sulla sua assicurazione per negligenza medica ancor prima che l’ospedale fosse riuscito a portare Armin in tribunale, prendendosi la colpa prima che potesse iniziare un processo, e la cosa sembrò soddisfare tutti. Persino il dottor Smith sembrava soddisfatto – aveva addirittura insistito.

Così Eren si recava a fare le sue terapie fisiche e cognitive gratis, cercando contemporaneamente di fare del suo meglio per non perdere le staffe e raggiungere qualche traguardo, non importa quanto modesto. Era un processo lento, ma perlomeno era un passo avanti.

Poiché il suo lavoro non era particolarmente impegnativo dal punto di vista intellettuale, gli fu permesso di tornare a lavorare dopo sei mesi di terapia fisica. Stava continuando con quella cognitiva, ma riuscì ad organizzare i suoi impegni con l’ospedale in modo che potesse sia lavorare che continuare il suo percorso di guarigione.

Tutto sembrava stranamente normale.

Davvero, c’erano state solo due cose veramente fuori dall’ordinario.

La prima era stata l’arrivo nella sua stanza di un uomo basso e adirato, vestito con il pigiama dell’ospedale, che aveva posato un grosso sasso, sospettosamente pulito, sul suo comodino. Si erano fissati per un paio di minuti, prima che l’uomo sembrò notare la confusione negli occhi di Eren. Allora, senza molte spiegazioni, aveva allungato una mano verso Eren, presentandosi come Levi. Eren aveva stretto la sua mano, cercando di presentarsi a sua volta, ma Levi lo aveva interrotto dicendogli che già lo conosceva. A quanto pareva, Levi era stato l’infermiere di Eren mentre lui era in coma. Eren non considerava l’atto di mettere per iscritto una serie di numeri per un corpo inconscio come ‘conoscere’ qualcuno, ma non gli andava di essere maleducato. E poi, stranamente, quell’uomo lo intimidiva, quindi decise che era meglio tenere la bocca chiusa. La cosa più strana era stata che gli era sembrato che Levi non fosse mai stato in grado di vederlo veramente.

Quell’intera esperienza era stata solo un altro evento confuso nella ripresa di Eren, a cui lui, però, cercò di non dare troppa importanza.

Il sasso, comunque, era stranamente confortante. Eren lo teneva incastrato nella sedia passeggero della sua auto – almeno da quando gli era stato finalmente permesso di tornare a guidare – e, sebbene la cosa fosse nata come uno scherzo, non era più sicuro di riuscire a togliere quel sasso amico dalla macchina. Alla fine diede di nuovo la colpa alla ferita alla testa. Era quasi sicuro che anche Armin e Mikasa avevano pensato lo stesso, ma comunque non ebbero mai da ridire sulla cosa.

Levi non tornò più nella stanza di Eren, dopo quella volta. Una parte di Eren voleva trovare l’uomo e ringrazialo del sasso, ma non lo incontrò più.

Il secondo fatto strano era stata la consegna, decisamente improvvisa, di un assolutamente magnifico pianoforte giusto al suo appartamento. Eren era certo che ci doveva essere stato qualche errore, ma l’uomo delle consegne aveva insistito sul fatto che gli era stato ordinato di portare il piano a quell’indirizzo, trovare un certo ‘Eren Jaeger’ o (e qui faticò a rimanere serio) ‘stronzetto’ a cui far firmare, e lasciargli il piano senza fargli pagare nulla. Eren non era sicuro se sentirsi confuso, grato od offeso. Alla fine, optò per uno strano miscuglio tra le tre cose.

La parte frustrante fu che l’uomo delle consegne era stato chiaro sul fatto che il donatore aveva chiesto di rimanere anonimo. Eren aveva cercato di costringerlo a rivelargli l’identità della persona misteriosa, ma, a quanto sembrava, il tizio era decisamente più intimidito da chi l’aveva ingaggiato che da Eren. L’unico indizio che era arrivato con il piano era un bigliettino incastrato tra due dei lustri tasti di avorio:


Fai pratica che suoni da schifo quando non ti eserciti. Congratulazioni per aver vinto la scommessa. Non mandare tutto all’aria.

-L



Che persona fastidiosamente gentile.

Eren decise di essere solo vagamente arrabbiato, anche perché quella era praticamente diventata la sua reazione standard in quei giorni. Però, c’era qualcosa che lo tormentava da un angolino della sua memoria quando ripensava a quella frase scarabocchiata, e così si trovò a cercare di ricordare cosa si era perso nei meandri della sua memoria. Però, come la maggior parte delle cose, sembrava cancellarsi dal suo cervello prima che lui riuscisse finalmente a processarla.

Il piano, comunque, era una vera bellezza. Eren avrebbe veramente voluto suonarlo, ma ogni volta che tornava a casa da lavoro, si sedeva davanti allo strumento, guardava le sue mani sporche, poi osservava il legno lucidato e la tastiera brillante, e decideva di fermarsi. Non gli sembrava giusto. Mikasa aveva cercato di convincerlo a suonare, insistendo che lui adorava suonare il piano, ma Eren non aveva una buona risposta da darle. Semplicemente non si sentiva di farlo.

Una sera, però, Armin trascinò una grande scatola di spartiti dal loro piccolo stanzino, e iniziò a sfogliarne alcuni, cercando di trovare qualcosa che Eren avrebbe potuto aver voglia di suonare. Armin era sempre stato bravo a fare deduzioni, e dopo aver tirato fuori quasi tutti gli spartiti logori, aveva deciso che la sonata al chiaro di luna di Beethoven fosse il suo pezzo preferito. Lo spartito era così sbiadito dopo essere stato usato mille volte, scrivendoci e cancellandoci note e trasportandolo qua e là, che a stento le pagine si tenevano ancora insieme.

Fissando il vecchio libretto, Eren sentì qualcosa scattare nella sua testa, come dei pensieri che stavano cercando in tutti i modi di sfuggirgli. Così tentò difficoltosamente di rincorrerli, combattendo con la sua memoria, fino a quando non gli si illuminò una lampadina in testa. Lui sapeva suonare questa canzone. Non aveva neanche bisogno dello spartito. Era persino bravo.

No?

Non era mai stato malaccio a suonare quel pezzo prima dell’incidente.

Ma ora era molto più bravo, per qualche strano motivo.

Stupido cervello.

Così, cercò di non lasciarsi sconfortare dalla cosa, e si sedette al pianoforte per la centesima volta nell’ultimo mese. Stavolta, però, avrebbe suonato. Dopo aver tamburellato tentativamente sulla tastiera un paio di volte, Eren iniziò una versione insicura del pezzo, che però divenne sempre meno incerta e sempre più precisa.

E, in effetti, era praticamente quasi perfetta, come se l’avesse suonata migliaia di volte. Perché l’aveva suonata così tanto? C’era una sorta di buco nero di ansia e ricordi, bloccati nel suo cervello confuso, che faceva pressione sul suo cranio, ed Eren si dovette fermare improvvisamente a metà sonata. Si era fatto venire un mal di testa mostruoso a causa del tentativo di fare breccia nel muro della sua memoria, e fu costretto ad andare a letto presto. Mikasa sembrava preoccupata, ma Armin gli era sembrato solo curioso.

Steso nel letto, Eren sapeva di aver dimenticato qualcosa. La sua era lo stesso tipo di ansia che si ha quando ci si potrebbe dimenticare di consegnare qualcosa di importante, il compleanno di un amico, o di quando si rischia di lasciare qualcosa di prezioso in un luogo pubblico. Ma questa sensazione era ancora peggio.

Aveva dimenticato qualcosa di fondamentale.





La sensazione non si ripresentò il mattino dopo. Eren sperava quasi di poter tornare ai confini del muro della sua memoria anche quel giorno, in modo da avere un’altra possibilità di tentare di scavalcarlo, ma era tutto andato. Non riusciva neanche più a trovare il muro.

“Sei stato bravo a suonare, ieri.” disse Armin garbatamente, seduto davanti alla sua colazione e rompendo il silenzio di quel pasto condiviso.

Eren annuì pensierosamente. “Sì,” concordò. Perché gli veniva così bene?

Armin sorrise. “Dovresti suonare più spesso. Mikasa aveva ragione: probabilmente ti fa bene.”

Eren aggrottò le sopracciglia. Gli faceva bene. Lo rendeva felice. Quel piano in particolare lo rendeva felice, perché…? Non era un pianoforte qualsiasi. C’era qualcos’altro. C’era qualcosa su quel piano in particolare. “Credo di si.” riuscì infine a rispondere.

Annuendo con fare incoraggiante, Armin si alzò dal tavolo per lavare il suo piatto. Eren rimase al suo posto, guardando male le sue uova. “Oggi non vado a lavoro.” dichiarò.

Mikasa apparse dal soggiorno, sembrando leggermente preoccupata. “Ti senti bene?”

Eren scosse la testa. “Sto cercando di ricordare qualcosa,” disse vagamente. Sapeva che suonava stupido, ma era il modo migliore in cui poteva spiegarsi. “Non oggi,” chiarì. “Il lavoro, intendo. Non oggi.”

Dio, certo che si era proprio bevuto il cervello.

Ma né Mikasa né Armin dissero nulla in proposito.

Entrambi uscirono nel giro di un’ora – Armin per andare a lavoro, e Mikasa per seguire le sue lezioni – ed Eren fu finalmente lasciato solo. Si sedette davanti al pianoforte con incertezza per iniziare a fissare la tastiera. Senza suonare una sola nota, posò le dita sui tasti, sperando di riuscire a dare un input a qualche memoria salvabile.

Doveva esserci qualcuno seduto al suo fianco?

Forse.

Doveva esercitarsi di più?

Sicuramente.

Jazz.

Musica jazz?

Ma lui non suonava musica jazz. Chi era che suonava jazz?

Le sue mani sembravano suggerire tutt’altro. Per una qualche ragione, Eren iniziò a suonare una semplice, ciclica, progressione. Ma c’era sempre qualcosa che sembrava mancare. E lui era sempre più che sicuro che fosse quel qualcuno che doveva essere seduto al suo fianco.

Mancava l’assolo.

Eren smise di suonare, fissando con odio le sue mani. Poi, facendo un sospiro di frustrazione, prese a colpire senza convinzione i tasti, producendo una corda rumorosa e irritantemente stonata, che echeggiò per tutto l’appartamento.

Improvvisamente l’immagine di un appartamento sconosciuto si materializzò nella sua mente. Il pianoforte sembrava più al suo posto in quel ricordo. C’era qualcuno seduto al suo fianco, e lui stava suonando della musica jazz. Ma lui mica suonava musica jazz?

Secondo quel ricordo si.

Ah, al diavolo, tanto era comunque pazzo. Meglio non sforzarsi troppo. Eren si lanciò nella sonata al chiaro di luna perché era confortante e non gli richiedeva di pensare troppo. Non aveva un granché di intelletto da sprecare di quei tempi. E quella canzone familiare lo faceva sentire a suo agio.





Quei ricordi strani iniziarono a diventare sempre più frequenti per Eren. E in ognuno di loro si sentiva come se stesse riconcorrendo una verità che non era ancora riuscito a raggiungere. Avrebbe voluto essere intelligente come Armin in modo da riuscire a capire che cosa diavolo si era dimenticato. Armin ci sarebbe riuscito sicuramente.

Ma poi, ci fu una prima grande svolta quando, un giorno, decise di abbandonare la sua solita routine dopo la terapia cognitiva, optando per andare a fare una passeggiata nel parco vicino all’ospedale, nel tentativo di liberarsi della fatica mentale che gli intensivi esercizi per il cervello sembravano causargli. Il parco era bello, con un piccolo specchio d’acqua ombreggiato da un grande, antico salice piangente. E fu proprio mentre ammirava l’albero che scorse un piccolo edificio residenziale nelle vicinanze. Eren non era molto sicuro di quasi niente ultimamente, ma era più che certo di essere già stato in quel condominio.

E c’era stato molte volte.

Senza pensarci un granché, si diresse verso il familiare edificio residenziale. Non sapeva cosa avrebbe fatto una volta arrivato lì, ma poteva solo sperare che qualcosa di quell’edificio gli avrebbe fatto venire in mente abbastanza indizi da metterlo sulla giusta via.

E, in quel caso, aveva avuto quasi ragione. Una volta dentro il palazzo, i suoi piedi lo portarono a salire la rampa di scale, e poi verso una delle porte in fondo al corridoio. Si dovette letteralmente fermare dall’entrare e basta. Una parte di lui pensava fosse la cosa naturale da fare, ma si dovette ricordare che non sarebbe stato molto normale entrare improvvisamente a casa di qualcun altro.

Doveva bussare?

Al diavolo, bussò prima di poterci ripensare.

“Non mi interessa.” urlò qualcuno, con la voce attutita dalla porta.

Eren sbatté le palpebre. “Interessa cosa?”

Nessuna risposta.

Ah. Il residente pensava che lui fosse un venditore porta a porta.

Stupido.

Eren scosse la testa. E ora?

“Qualsiasi cosa. Sono davvero fottutamente felice. Non voglio nulla, e la mia vita è meravigliosamente completa. Ora vattene.”

“Ah.” borbottò Eren debolmente. Ma non diede segno di volersi muovere.

Dopo un paio di momenti, sentì qualcuno zoppicare per la casa. Il residente doveva essersi scontrato con qualcosa, però, perché imprecò sonoramente dopo aver causato un forte rumore. Con grande sorpresa di Eren, la porta fu aperta improvvisamente, mostrando un uomo che sembrava estremamente scontento.

Aspetta un attimo.

Questo tizio era il suo infermiere nel reparto sei. L’uomo che gli aveva regalato un sasso senza alcuna spiegazione.

Eren rimase in silenzio.

“Allora?” chiese Levi seccamente.

Una seconda volta, Eren non aprì bocca. Levi indossava un completo elegante, con un paio di pantaloni e una camicia neri, e un papillon di seta bianca ad accentuare il tutto. I suoi capelli erano pettinati all’indietro e i suoi occhi nascosti dietro un paio di strani occhiali da sole con le lenti perfettamente circolari.

Levi fissò il petto di Eren da dentro l’appartamento. Era come se non avesse assolutamente notato Eren. “Non dire nulla se mi capisci,” borbottò. “Ah, al diavolo,” disse poi a sé stesso. “Non posso far tardi a questo concerto.” E con questo, chiuse la porta in faccia ad Eren.

Eren avrebbe voluto fermarlo, ma era come se qualcuno avesse spento l’interruttore del suo cervello. Non c’era stata nessuna vera e propria causa innescante, ma improvvisamente un ordinato insieme di memorie sembrò tornare al suo posto, ed Eren si sentì uno stupido per non essersene ricordato prima.

Sapeva tutto.

Il reparto, Reiner, Bertholdt, Annie, Connie, Sasha, Jean, Ymir, la musica jazz, l’appartamento di Levi, mettere al tappeto Levi quando lui si era ubriacato troppo per riuscire a rifilargli un destro decente, rubare della merce da un autogrill, andare ad ascoltare una sinfonia dal vivo, visitare una chiesa, il peso di Levi sul suo corpo, piantare l’albero di Giuda, litigare, ridere e piangere. Era tutto lì, e non se ne era andato mai.

E anche se Eren sapeva che doveva probabilmente bussare di nuovo alla porta di Levi, rimase solo lì impalato. In piedi davanti a quella porta per quasi un’ora. Alla fine la suddetta porta si aprì di nuovo e poi Levi se la chiuse alle spalle, con un cane alle calcagna, facendo girare la chiave nella serratura mentre Eren fissava la sua schiena e il cane scodinzolava contento. Eren fu preso alla sprovvista quando Levi si girò finendogli contro, come se lui non fosse mai stato lì.

Il cane abbaiò e Levi fece una smorfia nella sua direzione. “Ehi! Per cosa credi che ti paghi?”

Abbaiando un'altra volta, il cane continuò a fissare Levi con aria contenta.

Levi annuì. “Ok ok, non ti pago veramente, lasciamo stare.” Poi, girandosi verso Eren, Levi fece spallucce con fare di scusa. “Mi dispiace.” disse, agitando la mano di fronte a sé. “Non ho visto che eri qui. Be’, anche se non ti avrei visto da nessuna altra parte.”

Eren fece un’espressione confusa. Levi era cieco? No, non era possibile.

Le parole non sembravano riuscire ad uscirgli da bocca.

E infatti si allontanò a passi veloci da quella situazione, dirigendosi al portone principale del palazzo e poi via, verso il parco.





Quella sera Eren ripercorse tutti i nuovi ricordi che aveva improvvisamente riacquistato. Era stato morto. Vero? Era quello che era stato, no?

No. Era diventato un fantasma?

Qualcosa del genere.

Contro ogni buonsenso lo avevano svegliato. Solo lui.

Gli altri pazienti del reparto sei erano morti come previsto.

Eren non poté fare a meno di ridacchiare tristemente tra sé e sé, ripensando a come, anche nella morte, era stato capace di non fare quello che avrebbe dovuto.

Il pianoforte era quello di Levi. Ora lo sapeva. Si era svegliato, aveva vinto la scommessa che avevano fatto, e Levi aveva mantenuto la parola, anche se Eren non si era ricordato di lui quella volta.

Che cosa stava facendo Levi adesso?

Era cieco.

Cosa fanno le persone cieche? Eren aveva sempre dato per scontato che non facessero nulla. Ma non poteva essere vero, perché Levi faceva sempre qualcosa.

Magari stava ancora lavorando in ospedale. Era anche lontanamente possibile? Eren non pensava di avere la faccia tosta di ripresentarsi di punto in bianco a casa di Levi, ma decise che la prossima volta che sarebbe andato in ospedale, si sarebbe informato su se Levi stava ancora lavorando lì. Vedere Levi all’ospedale sarebbe stato molto meno complicato che andare di nuovo a bussare alla sua porta.





“Levi?” Una donna alta ed occhialuta, con addosso la divisa da infermiera, sporse la testa oltre l’angolo del punto informazioni dove Eren stava cercando di parlare con un’altra signora, grassottella, con i capelli ricci e un caldo sorriso perfetto per un ufficio assistenza. “Quel vecchio, cieco, figlio di puttana?” disse la prima, sorridendo a trentadue denti verso Eren.

Hanji. Questa donna era Hanji, notò Eren. La conosceva.

“Ehm… sì?” Eren sorrise in segno di scusa. “Lavora ancora qui?”

Hanji fece una smorfia, e poi rispose, con un leggero tono di irritazione nella voce: “Sì, puoi scommetterci. E ora fa molti più soldi di me e ha il miglior fottuto orario dell’intero dannatissimo ospedale. Fatemi diventare cieca subito, perché la vista non vale le ore che mi devo fare qui dentro.”

Eren non era molto sicuro su come rispondere, quindi si limitò ad annuire educatamente.

Sembrando notare la confusione del ragazzo, Hanji gli sorrise di nuovo. “Se lo stai cercando, la sua prossima lezione inizia tra una decina di minuti. Vai all’ala sei, stanza 2123 – un’enorme auditorium, non puoi perderti. E’ la prima lezione del nuovo semestre, e credo che ti potrebbe piacere.” disse , facendogli l’occhiolino.

“Ah, grazie. Credo che ci andrò.” Così Eren salutò Hanji, per poi andare verso quello che immaginava fosse la versione rinnovata del suo vecchio reparto. Quindi Levi era veramente diventato un insegnante. Che lusso.

La nuova ala era decisamente molto meglio di quella dove era stato confinato lui un annetto prima. Avevano quasi completamente ricostruito l’intera parte di edificio, sostituendo i corridoi con le piccole stanze e la sala delle infermiere con un gigantesco auditorium e un asilo nido, sia per i bambini dei dipendenti dell’ospedale che dei visitatori. Niente male.

Eren trovò l’auditorium senza grandi difficoltà, ed entrò. Nella sala c’era un sorprendente numero di persone. Sembravano tutti dell’età dello studente universitario medio, e stavano chiacchierando tra loro a voce bassa prima che iniziasse la lezione, dando vita ad un rimbombo sordo nella vasta sala. Scegliendosi una sedia in una delle file davanti – una delle poche lasciate libere – Eren si mise comodo per seguire la sezione. Che cosa aveva da perdere?

Esattamente alle due, la porta al lato del livello più basso dell’auditorium, giusto di fianco alla lavagna e al podio, si aprì, e Levi entrò a passi veloci nella sala. Ai suoi piedi, c’era il cane con il pelo a macchie bianche e marroni – una sorta di pastore australiano, pensò Eren. Era un cane dall’aria costantemente contenta, ma ben educato ed estremamente attento ai movimenti di Levi.

Senza nessuna introduzione, Levi si diresse alla lavagna e vi scrisse sopra le parole ‘dottore’ e ‘professore’, prima di girarsi verso la folla. Sembrava così diverso da quello che Eren ricordava. Aveva messo su peso, e sembrava molto più in buona salute di prima. E, contro ogni previsione di Eren, sembrava anche che il ruolo di insegnante gli appartenesse. Indossava una bella camicia con papillon, con un quasi comico gilet color argilla, che lo faceva proprio sembrare un accademico. Il suo look era completato da un camicie bianco, perfettamente stirato, che gli arrivava giusto alle ginocchia. Senza una parola, Levi fissò, senza realmente vederla, la classe da dietro i suoi occhialini da sole circolari. Non ci volle molto perché l’aula cadde in un silenzio rispettoso.

“Salve.” disse brevemente Levi. La classe non rispose.

Levi gesticolò verso la lavagna dietro di sé. “Non sono un vero dottore, e non sono neanche un vero professore. Ma potete chiamarmi come preferite.”

Ci fu una sorta di nervosa risatina generale che echeggiò nella sala.

“Questo,” proseguì Levi. “E’ il mio cane. Il suo nome è Cane.”

Un’altra risata leggermente più nevrotica.

“Cane è qui perché sono fottutamente cieco, e lui non lo è. Saluta cane.”

Cane salutò abbaiando una singola volta.

Levi fece un gesto con la mano per fare segno a Cane di allontanarsi e lui si accoccolò ad un angolo della lavagna.

Con sorprendente sicurezza, Levi camminò fino al bancone al lato della lavagna e prese un piccolo secchio da sotto, posandolo gentilmente sulla scrivania. “Ho chiesto alla mia orribile amica, Hanji, di portarmi questo per vedere un po’ di abolire qualsiasi tipo di formalità in questa aula, prima che il corso inizi.”

A quelle parole ci fu un mormorio tra il confuso e il vagamente preoccupato.

Levi sorrise a tutti, il primo segno di pausa nella sua compostezza, da quando era arrivato. “Prendete.” disse semplicemente, infilando una mano nel secchio. Cacciò fuori quello che sembrava essere un cervello umano e lo lanciò con abilità in mezzo al mare di studenti universitari in attesa.

Una serie di urli e sussulti di sorpresa eruttò mentre la massa bagnaticcia di tessuto di cervello umano veniva letteralmente palleggiata tra gli studenti atterriti. Levi stava ancora sorridendo con malizia, evidentemente innamorato dei suoni di angoscia che provenivano dai suoi studenti. Alla fine un eccitatissimo studente, con una felpa di qualche squadra da hockey, aveva rivendicato il cervello, iniziando a farlo ondeggiare in aria con fare trionfale. Levi percepì cosa stava accadendo e allungò le mani di fronte a sé in aspettativa. “Molto bene, tiramelo dietro.”

Ci fu un attimo di esitazione, mentre lo studente sembrava stare riflettendo sulla possibilità di tirare qualcosa ad un uomo cieco. Decise di non farlo, tenendo il cervello in mano.

Annuendo, Levi batté le mani un paio di volte. “Molto bene. A quanto pare siete la prima classe che ha deciso di non cercare di tirare un cervello al suo professore cieco. Dieci punti in più a tutti per non aver tentato di dare inizio ad un battaglia a tirarsi pezzi di cervello con un cieco.” Ci furono una serie di gridolini entusiastici e coppie di persone a darsi il cinque. “D’altro canto, anche dieci punti in meno per aver sprecato la vostra unica opportunità di tirare un cervello addosso al vostro professore senza rischio di punizioni.” Questa volta la sua affermazione fu presa con una risata e qualche lamento scherzoso. “Siete tutti patetici.”

Infine, la risata che invase la sala fu più che genuina.

“Va bene, va bene,” disse Levi, girandosi verso la lavagna. “Non sono stato pagato per tirarvi cose. Impariamo qualcosa.”

Il resto della lezione fu abbastanza interessante, pensò Eren. Non che la seguì molto, ma Levi era un professore sorprendentemente competente, e sembrava un esperto nel mantenere tutti concentrati e interessati. Cane, alla fine, decise di iniziare a gironzolare un po’ per la sala, prima di concludere che Eren era la persona giusta per farsi una bella dormita. Ad Eren era sempre piaciuti i cani, quindi permise a Cane di arrampicarsi sulla sedia di fianco la sua e posare la testa sul suo grembo. Accarezzare le orecchie morbide di Cane era comunque molto più semplice che fare attenzione alla lezione.

Cane si addormentò lì e quando tutti erano usciti dall’auditorium, Eren rimase, continuando a carezzare distrattamente la sua testa, mentre Levi puliva meticolosamente la lavagna, costretto a ricoprire ogni centimetro per essere sicuro di aver cancellato tutto.

“Ehi! Cane! Dove sei andato?” chiese finalmente Levi, girandosi verso l’aula vuota.

Le orecchie di Cane si alzarono e lui abbaiò una volta.

Levi fece una smorfia. “Fammi indovinare: qualcuno ti ha lasciato dormire su di lui e ora ti sei innamorato.”

Eren si schiarì la gola. “Ah, mi dispiace. Il tuo cane è… ehm… davvero buono.”

Levi piegò la testa di lato. Eren realizzò che la sua voce gli suonava probabilmente familiare. “Grazie. E tu sei?”

Ora o mai più.

“Ah, Eren.”

Dici qualcosa, cretino.

“E, ehm, grazie per il pianoforte, Levi.”

Le sopracciglia di Levi si alzarono in mezzo alla sua fronte, dietro le ciocche di capelli neri, ma lui non disse nulla.

“Mi fa piacere vederti.” aggiunse Eren in fretta.

Finalmente, Levi riuscì a fare un sorrisetto. “Una scommessa è una scommessa, ragazzo. Sarò uno stronzo, ma sono uno stronzo che mantiene la parola.”

Cane stava guardando eccitatamente tra i due come se si fosse perso qualcosa di veramente straordinario.

“Quindi non sono pazzo,” concluse Levi. “Tu ti ricordi, e io non sono pazzo.”

Eren fece spallucce. “O siamo entrambi pazzi.”

“O siamo entrambi pazzi.” confermò Levi.

“Hai una bella cera.” disse Eren calorosamente, gesticolando con vaghezza verso la sua persona.

Levi ridacchiò. “Intendi dire che sono ingrassato.” rispose spontaneamente, dandosi qualche pacca sulla sua corporatura decisamente più robusta di una volta.

“No,” disse subito Eren. “Stai veramente alla grande.”

“Anche tu.” scherzò Levi.

Dopo un paio di attimi di confortevole silenzio, Eren si schiarì di nuovo la voce. “Quindi, ehm, hai smesso di suonare il piano?”

Levi scosse la testa. “No. Tengo dei concerti regolarmente presso alcune sale da cerimonia e qualche club. Ora che devo insegnare solo tre giorni a settimana, ho tutto il tempo di fare cose del genere.”

“Mi fa piacere.” disse Eren con entusiasmo genuino. Lo intendeva davvero. Levi stava davvero bene.

Sembrava stare proprio alla grande.

“Anche a me, ragazzo.”

Cane balzò via dal grembo di Eren e camminò sonnecchiante verso Levi, spingendo la sua testa contro la mano dell’uomo. “Sì, sì.” disse Levi, dando un paio di colpetti sulla testa di cane. “Devo andare a prepararmi per il concerto di stasera subito, lo so.”

Eren non era ancora pronto a vedere Levi andare via.

Levi fece una pausa. “Se ti va puoi venire.”





Levi era davvero migliorato, per quanto fosse possibile. Mentre era seduto al bar, ascoltando la sua musica, Eren aveva provato un ridicolo senso di gelosia. Levi sarebbe stato sempre migliore di lui, notò. Perlomeno col jazz.

Dopo, era tornato con Levi al suo appartamento. Era come ricominciare una confortevole routine. Sorprendentemente, erano cambiate ben poche cose nel complesso. L’unica vera differenza era che nella zona dove prima vi era il vecchio pianoforte di Levi – quello che era ora custodito a casa di Eren – c’era un altro pianoforte nuovo di zecca. Era un altro Steinway, che era alquanto simile al suo predecessore, ma forse ancora più bello.

Eren fischiettò non appena lo vide. “Diamine.” mormorò.

Levi fece un sorrisetto. “Diamine, hai ragione. Puoi ringraziare il mio nuovo stipendio per quello.”

“E io che mi sentivo in colpa per essermi preso il tuo piano.” borbottò Eren.

Facendo spallucce, Levi se ne andò in cucina. Prevedibilmente, tornò indietro solo dopo essersi procurato un bel bicchiere abbondante di whiskey.

“Certe cose non cambiano proprio mai,” rise Eren. “Una parte di me pensava che avessi avuto qualche rivelazione e ti fossi lasciato alle spalle l’abitudine.”

Levi sbuffò divertito. “Sì, certo. E tu? Anche tu sei quasi morto. Qual è stata la tua grande rivelazione?”

Alzando le mani in segno di resa, Eren si lasciò cadere sul divano di Levi. “Va bene, va bene, hai vinto tu. Sto ancora lavorando in cantiere, e sono ancora un cretino.” Fece una pausa. “E’ divertente, ma l’altro giorno mi sono di nuovo dimenticato il caschetto. E non sono riuscito a fare a meno di pensare a come certe persone non imparano proprio mai. Uno penserebbe che sono diventato la persona più prudente del mondo su certe cose. Ma semplicemente non lo sono, né lo sarò mai.”

Levi si sedette al fianco di Eren, sorprendentemente vicino, al punto che i loro fianchi si toccavano gentilmente. Poi fece un sorriso d’intesa. “Sì, non cambieremo mai. Saremo semplicemente sempre portati a fare sempre le stesse stupide cose. Fin troppo ovvio.” rifletté, mandando giù il resto del suo whiskey.

Eren sorrise a trentadue denti. “Sì, ma chi se ne importa?”

Togliendosi gli occhiali, Levi iniziò a pulirseli distrattamente sul gilet. Stava ancora sorridendo. “Insomma. In pratica io continuerò a bere troppo e tu a fare il cretino?”

“Immagino di sì.” concluse Eren.

Levi fece un’espressione accigliata verso il suo bicchiere vuoto. Senza una parola, Eren prese il bicchiere dalla sua mano e si alzò dal divano per andare a riempirlo di nuovo. Levi doveva aver capito le sue intenzioni, perché non protestò, attendendo silenziosamente che Eren tornasse e gli porgesse il bicchiere di nuovo pieno.

Quando furono di nuovo seduti come prima, nessuno dei due fece nulla per iniziare una nuova conversazione. Non era necessario. Non lo era mai veramente stato tra di loro.

Stettero per lo più in silenzio per il resto della serata, fino a quando Levi non decise di raggiungere a tentoni il letto, doppiamente impedito dalla combinazione data dall’aver consumato troppo alcol e dalla sua disabilità. La scena era alquanto comica, ma Eren non fece commenti. Semplicemente aiutò il più grande a mettersi a letto e poi si mise dall’altro lato del materasso senza dire nulla. Nessuno dei due spiccicò parola su quella ritornata abitudine.

Invece, Levi si limitò ad accarezzare la testa di Eren con gesti ubriachi, mentre Cane si accoccolava ai piedi del letto. “Sono felice che sei vivo.” biascicò Levi.

“Sì, buonanotte stronzo.”

Alla fine, si addormentarono entrambi, con Levi che decise, nel suo stato confusionale, che stendersi perpendicolarmente ad Eren, appoggiandosi sul suo petto, fosse una buona idea, ed Eren un po’ troppo alticcio per protestare. Nel bel mezzo della notte, Eren era quasi sicuro di aver spinto Levi via. Il tipo era pesante.





E questo fu.

Eren continuò a dimenticare cose, arrabbiandosi quando il suo cervello si rifiutava di connettere le sinapsi o di fargli finire un pensiero, e continuò ad avere problemi cognitivi. Levi continuò a bere troppo, finendo con lo sbattere addosso ad ancora più cose di quelle contro cui sbatteva solitamente. Mikasa e Levi battibeccavano quasi quanto lui ed Eren, ed Armin osservava sempre il tutto con uno sguardo affettuoso. Le uscite della loro strana quasi-famiglia si guadagnavano spesso le occhiatacce e gli sguardi confusi della gente, mentre loro quattro (talvolta cinque se Hanji si materializzava per rendere Levi ancora più miserabile) sembravano più inclini a litigare e tormentarsi l’un l’altro che a partecipare ad una qualsiasi forma di rapporto amicale.

Ma sembrava la cosa migliore per tutti, alla fin fine.





Questo fu.

Eren aveva probabilmente ragione: la fine faceva schifo per definizione.

D’altro canto, Levi pensava di essere lui quello ad avere ragione: una fine fa schifo solo perché la storia è stata dannatamente fantastica.

Ma perlopiù, tutti sembravano essere d’accordo sul fatto che fosse Annie quella ad avere ragione:

Era stato bello.

Tutto era stato bello.




Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Dopo quasi un anno, siamo arrivati, insieme, alla fine di questa splendida storia, e devo ammettere che trovo che le ultime frasi veramente esprimano in poche parole tutto quello che ci sarebbe da dire. Personalmente ho trovato questo lieto fine un po' dolce-amaro perfetto per questa storia, e spero che vi sia piaciuta questa conclusione, a mio parere all'altezza dell'intera fic. In ogni caso vorrei ringraziare tantissimo, e anche da parte dell'autrice, ogni singola persona che è rimasta con noi fino alla fine supportandoci più o meno silenziosamente. Grazie grazie davvero a tutti i lettori, grazie a chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e grazie a chi ci ha lasciato uno o più commenti. Siete davvero stati tutti fantastici e sappiate che non sarei riuscita ad arrivare alla fine di questa impresa senza voi a spronarmi, soprattutto considerando che ultimamente non me la sto passando proprio alla grande. Detto ciò, mi duole avvisarvi che l'autrice di questa fic (coldmackerel) non ha scritto altre fic ereri oltre a questa, e che quindi non mi è rimasto nulla da tradurre di questa formidabile autrice, perché se avessi avuto del materiale l'avrei sicuramente fatto. Dal canto mio, magari dopo una pausa e comunque con un po' più calma, continuerò a scribacchiare le mie cose (dopo aver completato urgentemente Darts of pleasure...), che so alcuni di voi seguono, e forse - tempo e voglia permettendo - mi troverò qualcosa di nuovo da tradurre, che tanto nel fandom ereri inglese il materiale certo non manca. Mi riconoscerete sicuramente per l'impostazione della pagina e altro, lo so. Grazie di cuore e alla prossima!
SULLA TRADUZIONE: ho riletto un sacco di volte per questo ho fatto tardi a postare... ma ci saranno sicuramente delle sviste T_T


   
 
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: coldmackerel