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Autore: Kronos333    02/03/2009    4 recensioni
Ho deciso di raccontarvi la mia storia perché sono morto, credo. Quello che so e che adesso sto librando immerso in un’assoluta oscurità, non vedo nient’altro. Mi è stato concesso di mandare un messaggio, non so a chi. Inizialmente non sapevo bene da dove cominciare; poi mi sono detto “Comincia dal principio”
Genere: Malinconico, Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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LA CATENA DI OSSIDIANA

- IL VIAGGIO DI KRONOS -

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CAP 1

UN RAGAZZO QUALUNQUE

 

Ho deciso di raccontarvi la mia storia perché sono morto, credo. Quello che so e che adesso sto librando immerso in un’assoluta oscurità, non vedo nient’altro. Mi è stato concesso di mandare un messaggio, non so a chi. Inizialmente non sapevo bene da dove cominciare; poi mi sono detto “Comincia dal principio

 

§§§

 

Mi svegliai nella mia stanza e mi tirai su di scatto per poi ripiombare tra le coperte. Come al solito ci misi un po’ di tempo a ricordarmi chi ero. «Tu sei Kronos, hai quattordici anni e mezzo, e sei un fallito» mi dissi tra me e me.

Mi alzai lentamente, in casa aleggiava l’odore di pane caldo appena sfornato, il solito odore di pane caldo appena sfornato. Erano quattordici anni e mezzo che mi svegliavo con l’odore di pane caldo appena sfornato, una cosa abbastanza normale per un figlio di fornai.

La mia stanza era immersa in un’esemplare disordine: un letto, una cassapanca, un piccolo scrittoio con un piccolo sgabello e quattro stramaledettissime pareti rivestite in legno. C’era anche una piccola finestra che dava su un vicolo buio e stretto: non un gran che come panorama.

Dalla cassapanca tirai fuori dei calzoni puliti, presi una maglietta da terra e recuperai uno degli stivali da sotto il letto. Mentre mi chiedevo dove potesse essere finito lo stivale mancante mia sorella Katrina entrò nella stanza come un tornado e iniziò a parlare a raffica «Mamma mi ha detto di dirti che devi scendere ma che prima ti devi lavare e vestire e che probabilmente il tuo stivale lo hai lasciato in sala da pranzo che disordine che c’è in questa camera perché la tua camera è così disordinata mentre la mia no forse perché io sono più ordinata di te».Katrina parlava sempre così: veloce, senza prendere mai il fiato e senza riflettere. All’epoca aveva dodici anni ed era insopportabile. Sempre così popolare, con quei suoi denti sempre perfettamente bianchi, quella voce melodiosa e flautata che incantava tutti. Katrina ed io eravamo agli antipodi. Sospirai e con voce ancora impastata dal sonno cercai di farla tacere «Chiudi il becco». «Io non ho il becco e di conseguenza non posso chiuderlo visto che solo gli uccelli hanno il becco ecco vedi ciò dimostra quanto sei ignorante tu e quanto sono intelligente io» Detto questo mostrò un bel sorriso a trentadue denti, tutti bianchi e perfetti. Era troppo «Fuori dalla mia stanza!» urlai scandendo bene le parole. Poi spinsi quell’impicciona fuori e chiusi la porta. “Buon giorno mondo” sospirai rassegnato.

A proposito di mondo, forse è meglio che vi spieghi qualcosa del posto dove vivo. Io sono, io ero, un uomo; cioè non possedevo nessuna abilità magica o arcana, eccetto quella di distruggere le precedenti razze e l’ambiente circostante che sembra essere peculiare nel genere umano.

Vivevo nelle Lande, il vero nome dello stato era Laexio, ma i popoli elfici e nanici che l’avevano abitato prima l’avevano battezzato con il nome di Lande, e ancora oggi, a distanza di secoli, la gente continuavano a chiamarlo con quel nome arcano, di cui sconoscevano il reale significato. La città dove vivevo si chiamava Gòrdo. Gòrdo era una città commerciale, nata da un antico borgo, sulle rive del fiume Licor. La sua posizione, anche se a prima vista poteva ingannare, era molto vicino alla confluenza con il fiume Renda e con il fiume Morada e poteva quindi facilmente trasportare merci fino alle città più importanti. Gòrdo era seconda solo alla capitale Fogo.

Uscii dalla stanza e per arrivare in sala da pranzo passai accanto allo specchio e mi sistemai i capelli castano chiaro che mi arrivavano a mezzo collo. Ero grasso, non grasso nel senso di ciccione, grasso nel senso di paffuto, ben in carne. Però mi piacevano i miei occhi, erano neri. Non si distinguevano dalla pupilla e mi conferivano un aspetto inquietante.

Quando entrai in sala da pranzo trovai già apparecchiato per la colazione: un vasetto di marmellata di more, un panino caldo ed una tazza di latte. “Che novità Pensai ironico tra me e me.

Dieci minuti dopo ero pronto per andare a scuola, mi buttai a tracolla la sacca di lino con calamaio, pergamene, penne d’oca e libri e uscii salutando i miei genitori buttandomi nel caos mattutino di Gòrdo. Katrina andava a scuola molto prima di me per incontrare Silas, il suo ragazzo. Finalmente mi sentii a mio agio in mezzo a tutta quella gente, mi sentivo protetto; nessuno poteva vedermi e quindi giudicarmi. Diciamo che ero un tipo piuttosto solitario, odiavo la compagnia dei miei simili, tutti così infantili e futili. Non mi piaceva avere un contatto diretto con le persone ma, in mezzo alla folla, potevo diventare invisibile, potevo essere un nessuno.

Lasciate che vi spieghi come funziona qui la scuola. A sei anni si comincia il primo ciclo di studi che dura cinque anni, dopo ci sono altri due cicli di cinque anni ciascuno. Salvo bocciature si è fuori da scuola a vent’anni. Era verso un inferno di questo genere che andavo incontro ogni mattina. Un inferno fatto di pietra fredda, forza bruta e paura. Lì dentro regnava la legge del più forte. I professori non si accorgevano, i professori facevano finta di non accorgersi, della situazione in cui versava l’istituto e continuavano quel loro banale teatrino di tutti i giorni. Mi disgustavano. Arrivai a scuola con qualche minuto di anticipo, come sempre. L’edificio scolastico è un parallelepipedo disposto su quattro piani più una terrazza sul tetto. Al pian terreno c’è la direzione, l’infermeria, la palestra, l’atrio, la segreteria e altre strutture di dirigenza. Dal primo al terzo piano ci sono le classi divise nei tre cicli scolastici. Tutta la costruzione era fredda e squadrata, dalle sue pareti non trasudavano insegnamento e amore come ci avevano promesso il primo giorno di scuola, bensì un mondo duro e spigoloso dove era facile farsi male. L’atrio era molto grande; del resto doveva accogliere moltissimi studenti ogni mattina. Gli studenti approfittavano degli ultimi momenti liberi per scambiarsi commenti e attaccar briga. Tutti i ragazzi si riunivano in gruppi chiusi, fissi; io non facevo parte di nessun gruppo. In un angolo Silas e mia sorella pomiciavano e dovetti allontanarmi disgustato. Non so con esattezza cosa mi desse più fastidio: se fosse il fatto che Katrina avesse già pomiciato prima di me, oppure il fatto che lo stessero facendo in pubblico. In ogni caso mi nauseava, come tutto del resto. Quell’atrio era il tripudio della demenza umana, niente di quel luogo alieno mi era familiare. Ebbi una sensazione di gelo. “Io non sono come loro”. Solo questo pensiero mi tranquillizzò, anche se dopo una vita passata a stretto contatto con quei ragazzi avevo il timore che mi contaminassero. Non prendete il mio modo di fare come superbia. Io sono capacissimo di riconoscere tutti i miei difetti, che fra l’altro sono tantissimi, ma in confronto a quegli esseri meschini… Non riuscivo a non sentirmi superiore. Accolsi il suono della campanella come una benedizione. Furono tre ore di gradito ozio; il professore era davvero soporifero e io la sera precedente avevo faticato ad addormentarmi. Fu durante l’intervallo che la giornata si movimentò un po’.

Mentre stavo sbocconcellando svogliato un panino dolce Silas mi colpì alla spalla e, presomi per il bavero della camicia, piantò i suoi occhi castani nei miei neri «Tua sorella è davvero una bomba». Io abbassai lo sguardo e strinsi i pugni. «Già, farsela è un piacere» continuò Silas in tono canzonatorio. «Hai sentito Kronos?» mi serrò il mento con una morsa ferrea e mi costrinse ad alzare lo sguardo «Mi sono fatto tua sorella». Io strinsi spasmodicamente i pugni e sillabai «Lasciami stare». Dalle mie spalle venne una voce calda e bassa «Qualche problema Silas?». Silas mi mollò di scatto come se fossi diventato incandescente «Rocknar! Cosa ci fai tu hai piani bassi?». Mi voltai e vidi Rocknar. Rocknar aveva sedici anni all’epoca, ed era il mio unico amico. Aveva corti capelli neri e una leggera barba ben curata, gli occhi erano marrone scuro. Frequentava il primo anno del terzo ciclo di studi; mi aveva preso sotto la sua ala protettrice. Mi aveva tirato fuori da pasticci del genere già più volte. Era un abilissimo boxer e aveva una mira incredibile con i coltelli da lancio. Nonostante questo Rocknar era buono. Ci dicevamo tutto e potevamo andare avanti a parlare per ore. La madre di Rocknar aveva una conceria e il padre era un’ubriacone vedovo. Rocknar era un figlio illegittimo. Lui non dava molto peso alla cosa, non in pubblico. Anzi, a scuola lo diceva come un vanto. Lui era un frutto nato da qualcosa di proibito, quel proibito che affascinava e sconvolgeva tanto quelle stupide pecore. Con me era diverso, l’avevo visto più volte piangere per i suoi genitori e altrettante volte lo avevo consolato. In quel particolare periodo della mia vita Rocknar rappresentava per me non solo un amico fedele su cui fare affidamento, ma anche una chiave per quel mondo proibito e misterioso che ognuno di noi esseri umani conosce nell’adolescenza. In questo caso il proibito esercitava molto fascino anche su di me, ma non come a tutti gli altri. Per me il proibito era una specie di ricerca, di fame di sapere. Non cercavo il proibito solo per sentirmi realizzato nell’atto di infrangere una regola, ma mi piaceva fare cose nuove. Sono sempre stato una persona curiosa e il proibito diventava per me un qualcosa di lontano tutto da scoprire. Ma sto divagando. Eravamo rimasti all’arrivo di Rocknar in mia difesa.

«Cosa ci fai tu hai piani bassi?» sputò sprezzante Silas. «Sono venuto a controllare te, che non facessi qualche bastardata delle tue al mio amico» ribatté Rocknar. Silas se ne andò con la coda tra le gambe sibilando insulti tra i denti. Rocknar si voltò verso di me e mi rimproverò «Quante volte ti ho detto di stare lontano da Silas?»

«Io sto lontano da lui, è lui che non sta mai lontano da me!»

«Kronos, quello che sto cercando di dirti è…» «Già scusa! È vero, che stupido a camminare per il corridoio» «Kronos…» «E tanto per la cronaca me la stavo cavando benissimo anche senza il tuo aiuto» A quest’ultima affermazione Rocknar alzò il sopracciglio divertito. «A me non sembra» «Se tu non fossi intervenuto…» «Sareste venuti alle mani» «Lo avrei steso!» «Kronos!». Seguirono una manciata di secondi di silenzio, come di consueto. «Grazie» borbottai a denti stretti alla fine. Le nostre discussioni andavano sempre così: Scambio di opinioni, pausa, io davo ragione al mio amico. «Così ti voglio!» esclamò Rocknar divertito. Poi il mio amico si protese su di me con sguardo da cospiratore. «Dopo scuola ci si vede al posto». «La hai trovata?» Chiesi eccitato. Per tutta risposta Rocknar estrasse dalla borsa una bustina piena di polvere gialla e me la mostrò sbrigativo prima di rimetterla in fretta e furia nella sacca di tela con i libri. «Quanto ti è costata?»chiesi curioso. «Due pezzi d’oro» rispose lui. «Quindi nemmeno troppo cara» il mio amico annuì convinto. La campanella ci costrinse a tornare ognuno nelle rispettive classi.

Le ore di lezione successive furono noiose quanto le prime. Silas continuò a lanciarmi bigliettini con schizzi di scene erotiche tra lui e Katrina. Attesi scalpitante la fine della giornata per incontrarmi nuovamente con Rocknar.

Dopo scuola mi avviai verso “il posto” . Il posto era dove io e Rocknar andavamo per parlare e rifugiarci quando non sapevamo che fare. Circa due anni prima avevo scoperto che unendo sulla cartina casa mia, casa di Rocknar e la scuola veniva fuori un triangolo equilatero il cui centro era sotto il ponte Heap, uno dei tantissimi ponti minori che attraversavano il fiume Licor. Quello era diventato il nostro posto, ci avevamo portato anche due sedie e un piccolo sgabello che fungeva da tavolino. Spesso i numerosi senzatetto di Gòrdo passavano li la notte ma noi avevamo imparato a non farci caso. Quel giorno Rocknar aveva portato del geeza, una specie di droga molto blanda ma comunque illegale. Rocknar mi aveva detto di averla già provata ma per me sarebbe stata la prima volta.

Quando arrivai al posto Rocknar aveva già preparato tutto, la polvere, mescolata con dei trucioli di legno, era stata avvolta in delle foglie di vite e si presentava come un tubicino lungo un palmo. Rocknar ne aveva preparato uno ed era intento ad arrotolare il secondo. Quando terminò la delicata operazione il mio amico mi passò uno dei tubicini e mi fece vedere come accenderlo con l’ausilio di una candela. «Quando aspiri non soffiare via il fumo subito, devi sentire che ti scende giù in gola» mi raccomandò Rocknar. Io annuii convinto. Quando lo feci non mi vennero ripensamenti ma ora che scrivo mi chiedo: perché lo ho fatto? Forse semplicemente perché mio padre mi aveva espressamente vietato di farlo, oppure per apparire più grande agli occhi di Rocknar, o forse ero convinto che dopo sarei stato meno emarginato. Qualunque fosse il motivo in quel momento me ne infischiai allegramente e aspirai convinto la prima boccata. Fu come se mille aghi mi punzecchiassero la gola per poi scendere fino nei polmoni dove esplosero in una nuvola di colore, la lingua mi si gonfiò e iniziò a pulsare, gli occhi lacrimavano copiosamente. Mi sentivo al caldo, protetto, cullato; come se niente mi potesse più nuocere. Aspirai ancora e ancora e ancora fino a quando ci fu qualcosa da aspirare, poi caddi in un sonno profondo e tormentato.

 

§§§

 

Mi muovo nel silenzio più assoluto. Il mondo, inizialmente buio, cominci a tingersi di vari colori: un prato nebuloso, di colore azzurro pallido si stende sotto ai miei piedi; una figura dai contorni indefiniti color viola avanza verso di me. Un vento leggero trasporta tantissimi colori differenti. Poi, dopo un attesa interminabile, un rumore assordante fa il suo ingresso. BUM BUM, BUM BUM… e continua ad imporsi sul mondo sfumato che vedo. Ma sto realmente vedendo? Mi sembra di essere con gli occhi chiusi. Lentamente apro gli occhi e mi ritrovo in una caverna. Un unico raggio di luce lunare va ad illuminare una sedia rozza. Degli anelli sono posti su entrambi i braccioli e sulle gambe. Evidentemente chi ci si siede è destinato ad essere prigioniero. Una voce argentina mi sorprende alle spalle, pronuncia parole in una lingua arcana che non conosco. Improvvisamene la sedia e la caverna si dissolvono in un bianco accecante. L’immagine di una catena nera, dagli anelli triangolari, mi si impone violenta nel cervello accecandomi e impedendomi di ragionare. Cerco di fuggire ma il potere della catena mi inchioda al suolo, rendendomi pesante e lento. La catena occupa tutto il mio campo visivo e mi perdo nel nero dei suoi anelli.

 

§§§

 

Mi risvegliai nel tardo pomeriggio, senza nessuna memoria dell’incubo. Accanto a me c’erano una pagnotta con le olive e due carote. La testa mi pulsava dolorosamente. «La prima volta fa sempre questo effetto». Era la voce di Rocknar. «Ti ho fatto vomitare ed ho avvisato le nostre famiglie che mangiavamo fuori». Scossi la testa ma una fitta dolorosa mi trapanò il cervello. Rocknar entrò nel mio campo visivo.«Mangia, ti sentirai meglio». Faticosamente mandai giù un boccone dopo l’altro e mi ripresi davvero, il mal di testa sparì come d’incanto.«Che ore sono?» domandai. «Le quattro circa»«Ho dormito per cinque ore?» chiesi incredulo. «Più o meno» rispose Rocknar noncurante. “Ho buttato nel vaso da notte cinque ore della mia vita” pensai incredulo. “E mi sono anche divertito a farlo”. Uno strano ed immotivato senso di colpa mi prese le viscere. Guardai il ponte sopra di me; quante ore avrei perso buttandomi da li? Scacciai quei pensieri molesti come se fossero zanzare, mi sentivo una gran stanchezza addosso.«Devo andare, i miei saranno in pensiero». Rocknar mi rispose con un alzata di spalle «allora ci si vede domani a scuola» «Certo» «Quando vuoi provare di nuovo…». Mi fermai, quasi scandalizzato dalla proposta lasciata in sospeso dal mio amico. «Non… non credo che faccia per me» risposi esitante. «Guarda che la prima volta non piace mai, se la provi tra un paio di giorni non ci saranno effetti collaterali» continuò a tentarmi lui. «Ci farò un pensierino» acconsentii alla fine, una vittoria per sfinimento.

Uscii dal rifugio e mi buttai  peso morto nel caos di Gòrdo boccheggiando alla ricerca d’aria. Mi sembrava che i miei polmoni non riuscissero ad immagazzinarne abbastanza. Perdendomi tra i vicoli che costituiscono la zona est della grande città continuai a rimuginare sull’accaduto. Lo faccio spesso, il rimuginare intendo. Quasi sempre non penso sul momento alla frase giusta da dire, alla cosa giusta da fare. È poi, mentre rimugino su una cosa appena passata che mi viene una risposta decente. Ma sto divagando, dicevo che finalmente, dopo un lungo e inutile giro tortuoso ero arrivato a casa. Senza salutare nessuno corsi in camera mia a tutta velocità e, dopo aver chiuso la porta mi buttai sul letto ignorando i pochi compiti che ci avevano assegnato. “Mi sono drogato, e mi è anche piaciuto!”. Non riuscivo a pensare ad altro. Quella massacrante routine mi massacrava; fortunatamente da li a pochi giorni sarebbero cominciate le vacanze estive.

 

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(O,O)
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Spazio dell’autore: Innanzitutto grazie a tutti di essere arrivati fino a qui, questa è una seconda stesura (ancora provvisoria) del primo capitolo del romanzo a cui sto lavorando. Non è ancora una versione definitiva ovviamente ma volevo “sondare le acque” per vedere se l’idea potesse essere gradita. Vi dico subito che non la aggiornerò tranne in caso di assoluto gradimento (altamente improbabile). Per favore lasciate un commento.

 

P.S. scusate i  disegni idioti ma ho da poco imparato questi giochetti stupidi e no riesco più a farne a meno.

  
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