LA
CATENA DI OSSIDIANA
-
IL VIAGGIO DI KRONOS -
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CAP
1
UN
RAGAZZO QUALUNQUE
Ho
deciso di raccontarvi la mia
storia perché sono
morto, credo. Quello che so e che adesso sto librando immerso in
un’assoluta
oscurità, non vedo nient’altro. Mi è
stato concesso di mandare un messaggio,
non so a chi. Inizialmente non sapevo bene da dove cominciare; poi mi
sono
detto “Comincia dal principio”
§§§
Mi
svegliai nella mia stanza e
mi tirai su di scatto
per poi ripiombare tra le coperte. Come al solito ci misi un
po’ di tempo a
ricordarmi chi ero. «Tu sei Kronos, hai quattordici anni e
mezzo, e sei un
fallito» mi dissi tra me e me.
Mi
alzai lentamente, in casa
aleggiava l’odore di
pane caldo appena sfornato, il solito odore di pane caldo appena
sfornato.
Erano quattordici anni e mezzo che mi svegliavo con l’odore
di pane caldo
appena sfornato, una cosa abbastanza normale per un figlio di fornai.
La
mia stanza era immersa in
un’esemplare disordine:
un letto, una cassapanca, un piccolo scrittoio con un piccolo sgabello
e
quattro stramaledettissime pareti rivestite in legno. C’era
anche una piccola
finestra che dava su un vicolo buio e stretto: non un gran che come
panorama.
Dalla
cassapanca tirai fuori
dei calzoni puliti,
presi una maglietta da terra e recuperai uno degli stivali da sotto il
letto.
Mentre mi chiedevo dove potesse essere finito lo stivale mancante mia
sorella
Katrina entrò nella stanza come un tornado e
iniziò a parlare a raffica «Mamma
mi ha detto di dirti che devi scendere ma che prima ti devi lavare e
vestire e
che probabilmente il tuo stivale lo hai lasciato in sala da pranzo che
disordine
che c’è in questa camera perché la tua
camera è così disordinata mentre la mia
no forse perché io sono più ordinata di
te».Katrina parlava sempre così:
veloce, senza prendere mai il fiato e senza riflettere.
All’epoca aveva dodici
anni ed era insopportabile. Sempre così popolare, con quei
suoi denti sempre
perfettamente bianchi, quella voce melodiosa e flautata che incantava
tutti.
Katrina ed io eravamo agli antipodi. Sospirai e con voce ancora
impastata dal
sonno cercai di farla tacere «Chiudi il becco».
«Io non ho il becco e di
conseguenza non posso chiuderlo visto che solo gli uccelli hanno il
becco ecco
vedi ciò dimostra quanto sei ignorante tu e quanto sono
intelligente io» Detto
questo mostrò un bel sorriso a trentadue denti, tutti
bianchi e perfetti. Era
troppo «Fuori dalla mia stanza!» urlai scandendo
bene le parole. Poi spinsi
quell’impicciona fuori e chiusi la porta. “Buon
giorno mondo” sospirai
rassegnato.
A
proposito di mondo, forse
è meglio che vi spieghi
qualcosa del posto dove vivo. Io sono, io ero, un uomo; cioè
non possedevo
nessuna abilità magica o arcana, eccetto quella di
distruggere le precedenti
razze e l’ambiente circostante che sembra essere peculiare
nel genere umano.
Vivevo
nelle Lande, il vero
nome dello stato era
Laexio, ma i popoli elfici e nanici che l’avevano abitato
prima l’avevano
battezzato con il nome di Lande, e ancora oggi, a distanza di secoli,
la gente
continuavano a chiamarlo con quel nome arcano, di cui sconoscevano il
reale
significato. La città dove vivevo si chiamava
Gòrdo. Gòrdo era una città
commerciale, nata da un antico borgo, sulle rive del fiume Licor. La
sua
posizione, anche se a prima vista poteva ingannare, era molto vicino
alla
confluenza con il fiume Renda e con il fiume Morada e poteva quindi
facilmente trasportare
merci fino alle città più importanti.
Gòrdo era seconda solo alla capitale
Fogo.
Uscii
dalla stanza e per
arrivare in sala da pranzo
passai accanto allo specchio e mi sistemai i capelli castano chiaro che
mi
arrivavano a mezzo collo. Ero grasso, non grasso nel senso di ciccione,
grasso
nel senso di paffuto, ben in carne. Però mi piacevano i miei
occhi, erano neri.
Non si distinguevano dalla pupilla e mi conferivano un aspetto
inquietante.
Quando
entrai in sala da pranzo
trovai già
apparecchiato per la colazione: un vasetto di marmellata di more, un
panino
caldo ed una tazza di latte. “Che novità”
Pensai ironico tra me e
me.
Dieci
minuti dopo ero pronto
per andare a scuola, mi
buttai a tracolla la sacca di lino con calamaio, pergamene, penne
d’oca e libri
e uscii salutando i miei genitori buttandomi nel caos mattutino di
Gòrdo.
Katrina andava a scuola molto prima di me per incontrare Silas, il suo
ragazzo.
Finalmente mi sentii a mio agio in mezzo a tutta quella gente, mi
sentivo
protetto; nessuno poteva vedermi e quindi giudicarmi. Diciamo che ero
un tipo
piuttosto solitario, odiavo la compagnia dei miei simili, tutti
così infantili
e futili. Non mi piaceva avere un contatto diretto con le persone ma,
in mezzo
alla folla, potevo diventare invisibile, potevo essere un nessuno.
Lasciate
che vi spieghi come
funziona qui la scuola.
A sei anni si comincia il primo ciclo di studi che dura cinque anni,
dopo ci
sono altri due cicli di cinque anni ciascuno. Salvo bocciature si
è fuori da
scuola a vent’anni. Era verso un inferno di questo genere che
andavo incontro
ogni mattina. Un inferno fatto di pietra fredda, forza bruta e paura.
Lì dentro
regnava la legge del più forte. I professori non si
accorgevano, i professori
facevano finta di non accorgersi, della situazione in cui versava
l’istituto e
continuavano quel loro banale teatrino di tutti i giorni. Mi
disgustavano.
Arrivai a scuola con qualche minuto di anticipo, come sempre.
L’edificio
scolastico è un parallelepipedo disposto su quattro piani
più una terrazza sul
tetto. Al pian terreno c’è la direzione,
l’infermeria, la palestra, l’atrio, la
segreteria e altre strutture di dirigenza. Dal primo al terzo piano ci
sono le
classi divise nei tre cicli scolastici. Tutta la costruzione era fredda
e
squadrata, dalle sue pareti non trasudavano insegnamento e amore come
ci
avevano promesso il primo giorno di scuola, bensì un mondo
duro e spigoloso
dove era facile farsi male. L’atrio era molto grande; del
resto doveva
accogliere moltissimi studenti ogni mattina. Gli studenti
approfittavano degli
ultimi momenti liberi per scambiarsi commenti e attaccar briga. Tutti i
ragazzi
si riunivano in gruppi chiusi, fissi; io non facevo parte di nessun
gruppo. In
un angolo Silas e mia sorella pomiciavano e dovetti allontanarmi
disgustato.
Non so con esattezza cosa mi desse più fastidio: se fosse il
fatto che Katrina
avesse già pomiciato prima di me, oppure il fatto che lo
stessero facendo in
pubblico. In ogni caso mi nauseava, come tutto del resto.
Quell’atrio era il
tripudio della demenza umana, niente di quel luogo alieno mi era
familiare.
Ebbi una sensazione di gelo. “Io non sono come loro”.
Solo questo
pensiero mi tranquillizzò, anche se dopo una vita passata a
stretto contatto
con quei ragazzi avevo il timore che mi contaminassero. Non prendete il
mio
modo di fare come superbia. Io sono capacissimo di riconoscere tutti i
miei
difetti, che fra l’altro sono tantissimi, ma in confronto a
quegli esseri
meschini… Non riuscivo a non sentirmi superiore. Accolsi il
suono della campanella
come una benedizione. Furono tre ore di gradito ozio; il professore era
davvero
soporifero e io la sera precedente avevo faticato ad addormentarmi. Fu
durante
l’intervallo che la giornata si movimentò un
po’.
Mentre
stavo sbocconcellando
svogliato un panino
dolce Silas mi colpì alla spalla e, presomi per il bavero
della camicia, piantò
i suoi occhi castani nei miei neri «Tua sorella è
davvero una bomba». Io
abbassai lo sguardo e strinsi i pugni. «Già,
farsela è un piacere» continuò
Silas in tono canzonatorio. «Hai sentito Kronos?»
mi serrò il mento con una
morsa ferrea e mi costrinse ad alzare lo sguardo «Mi sono
fatto tua sorella».
Io strinsi spasmodicamente i pugni e sillabai «Lasciami
stare». Dalle mie
spalle venne una voce calda e bassa «Qualche problema
Silas?». Silas mi mollò
di scatto come se fossi diventato incandescente «Rocknar!
Cosa ci fai tu hai
piani bassi?». Mi voltai e vidi Rocknar. Rocknar aveva sedici
anni all’epoca,
ed era il mio unico amico. Aveva corti capelli neri e una leggera barba
ben
curata, gli occhi erano marrone scuro. Frequentava il primo anno del
terzo
ciclo di studi; mi aveva preso sotto la sua ala protettrice. Mi aveva
tirato
fuori da pasticci del genere già più volte. Era
un abilissimo boxer e aveva una
mira incredibile con i coltelli da lancio. Nonostante questo Rocknar
era buono.
Ci dicevamo tutto e potevamo andare avanti a parlare per ore. La madre
di
Rocknar aveva una conceria e il padre era un’ubriacone
vedovo. Rocknar era un
figlio illegittimo. Lui non dava molto peso alla cosa, non in pubblico.
Anzi, a
scuola lo diceva come un vanto. Lui era un frutto nato da qualcosa di
proibito,
quel proibito che affascinava e sconvolgeva tanto quelle stupide
pecore. Con me
era diverso, l’avevo visto più volte piangere per
i suoi genitori e altrettante
volte lo avevo consolato. In quel particolare periodo della mia vita
Rocknar
rappresentava per me non solo un amico fedele su cui fare affidamento,
ma anche
una chiave per quel mondo proibito e misterioso che ognuno di noi
esseri umani conosce
nell’adolescenza. In questo caso il proibito esercitava molto
fascino anche su
di me, ma non come a tutti gli altri. Per me il proibito era una specie
di
ricerca, di fame di sapere. Non cercavo il proibito solo per sentirmi
realizzato nell’atto di infrangere una regola, ma mi piaceva
fare cose nuove.
Sono sempre stato una persona curiosa e il proibito diventava per me un
qualcosa di lontano tutto da scoprire. Ma sto divagando. Eravamo
rimasti
all’arrivo di Rocknar in mia difesa.
«Cosa
ci fai tu hai
piani bassi?» sputò sprezzante
Silas. «Sono venuto a controllare te, che non facessi qualche
bastardata delle
tue al mio amico» ribatté Rocknar. Silas se ne
andò con la coda tra le gambe
sibilando insulti tra i denti. Rocknar si voltò verso di me
e mi rimproverò
«Quante volte ti ho detto di stare lontano da
Silas?»
«Io
sto lontano da
lui, è lui che non sta mai
lontano da me!»
«Kronos,
quello che
sto cercando di dirti è…»
«Già
scusa! È vero, che stupido a camminare per il
corridoio» «Kronos…»
«E tanto per
la cronaca me la stavo cavando benissimo anche senza il tuo
aiuto» A
quest’ultima affermazione Rocknar alzò il
sopracciglio divertito. «A me non
sembra» «Se tu non fossi
intervenuto…» «Sareste venuti alle
mani» «Lo avrei
steso!» «Kronos!». Seguirono una manciata
di secondi di silenzio, come di
consueto. «Grazie» borbottai a denti stretti alla
fine. Le nostre discussioni
andavano sempre così: Scambio di opinioni, pausa, io davo
ragione al mio amico.
«Così ti voglio!» esclamò
Rocknar divertito. Poi il mio amico si protese su di
me con sguardo da cospiratore. «Dopo scuola ci si vede al
posto». «La hai
trovata?» Chiesi eccitato. Per tutta risposta Rocknar
estrasse dalla borsa una
bustina piena di polvere gialla e me la mostrò sbrigativo
prima di rimetterla
in fretta e furia nella sacca di tela con i libri. «Quanto ti
è costata?»chiesi
curioso. «Due pezzi d’oro» rispose lui.
«Quindi nemmeno troppo cara» il mio
amico annuì convinto. La campanella ci costrinse a tornare
ognuno nelle
rispettive classi.
Le
ore di lezione successive
furono noiose quanto le
prime. Silas continuò a lanciarmi bigliettini con schizzi di
scene erotiche tra
lui e Katrina. Attesi scalpitante la fine della giornata per
incontrarmi
nuovamente con Rocknar.
Dopo
scuola mi avviai verso
“il posto” . Il posto
era dove io e Rocknar andavamo per parlare e rifugiarci quando non
sapevamo che
fare. Circa due anni prima avevo scoperto che unendo sulla cartina casa
mia,
casa di Rocknar e la scuola veniva fuori un triangolo equilatero il cui
centro
era sotto il ponte Heap, uno dei tantissimi ponti minori che
attraversavano il
fiume Licor. Quello era diventato il nostro posto, ci avevamo portato
anche due
sedie e un piccolo sgabello che fungeva da tavolino. Spesso i numerosi
senzatetto di Gòrdo passavano li la notte ma noi avevamo
imparato a non farci
caso. Quel giorno Rocknar aveva portato del geeza, una specie di droga
molto
blanda ma comunque illegale. Rocknar mi aveva detto di averla
già provata ma
per me sarebbe stata la prima volta.
Quando
arrivai al posto Rocknar
aveva già preparato
tutto, la polvere, mescolata con dei trucioli di legno, era stata
avvolta in
delle foglie di vite e si presentava come un tubicino lungo un palmo.
Rocknar
ne aveva preparato uno ed era intento ad arrotolare il secondo. Quando
terminò
la delicata operazione il mio amico mi passò uno dei
tubicini e mi fece vedere
come accenderlo con l’ausilio di una candela.
«Quando aspiri non soffiare via
il fumo subito, devi sentire che ti scende giù in
gola» mi raccomandò Rocknar.
Io annuii convinto. Quando lo feci non mi vennero ripensamenti ma ora
che
scrivo mi chiedo: perché lo ho fatto? Forse semplicemente
perché mio padre mi
aveva espressamente vietato di farlo, oppure per apparire
più grande agli occhi
di Rocknar, o forse ero convinto che dopo sarei stato meno emarginato.
Qualunque fosse il motivo in quel momento me ne infischiai allegramente
e
aspirai convinto la prima boccata. Fu come se mille aghi mi
punzecchiassero la
gola per poi scendere fino nei polmoni dove esplosero in una nuvola di
colore,
la lingua mi si gonfiò e iniziò a pulsare, gli
occhi lacrimavano copiosamente.
Mi sentivo al caldo, protetto, cullato; come se niente mi potesse
più nuocere.
Aspirai ancora e ancora e ancora fino a quando ci fu qualcosa da
aspirare, poi
caddi in un sonno profondo e tormentato.
§§§
Mi
muovo nel silenzio
più assoluto. Il mondo,
inizialmente buio, cominci a tingersi di vari colori: un prato
nebuloso, di
colore azzurro pallido si stende sotto ai miei piedi; una figura dai
contorni
indefiniti color viola avanza verso di me. Un vento leggero trasporta
tantissimi colori differenti. Poi, dopo un attesa interminabile, un
rumore
assordante fa il suo ingresso. BUM BUM, BUM BUM… e continua
ad imporsi sul
mondo sfumato che vedo. Ma sto realmente vedendo? Mi sembra di essere
con gli
occhi chiusi. Lentamente apro gli occhi e mi ritrovo in una caverna. Un
unico
raggio di luce lunare va ad illuminare una sedia rozza. Degli anelli
sono posti
su entrambi i braccioli e sulle gambe. Evidentemente chi ci si siede
è destinato
ad essere prigioniero. Una voce argentina mi sorprende alle spalle,
pronuncia
parole in una lingua arcana che non conosco. Improvvisamene la sedia e
la
caverna si dissolvono in un bianco accecante. L’immagine di
una catena nera,
dagli anelli triangolari, mi si
impone violenta nel cervello accecandomi e impedendomi di ragionare.
Cerco di
fuggire ma il potere della catena mi inchioda al suolo, rendendomi
pesante e
lento. La catena occupa tutto il mio campo visivo e mi perdo nel nero
dei suoi
anelli.
§§§
Mi
risvegliai nel tardo
pomeriggio, senza nessuna
memoria dell’incubo. Accanto a me c’erano una
pagnotta con le olive e due
carote. La testa mi pulsava dolorosamente. «La prima volta fa
sempre questo
effetto». Era la voce di Rocknar. «Ti ho fatto
vomitare ed ho avvisato le
nostre famiglie che mangiavamo fuori». Scossi la testa ma una
fitta dolorosa mi
trapanò il cervello. Rocknar entrò nel mio campo
visivo.«Mangia, ti sentirai
meglio». Faticosamente mandai giù un boccone dopo
l’altro e mi ripresi davvero,
il mal di testa sparì come
d’incanto.«Che ore sono?» domandai.
«Le quattro
circa»«Ho dormito per cinque ore?» chiesi
incredulo. «Più o meno» rispose
Rocknar noncurante. “Ho buttato nel vaso da notte
cinque ore della mia vita”
pensai incredulo. “E mi sono anche divertito a farlo”.
Uno strano ed
immotivato senso di colpa mi prese le viscere. Guardai il ponte sopra
di me;
quante ore avrei perso buttandomi da li? Scacciai quei pensieri molesti
come se
fossero zanzare, mi sentivo una gran stanchezza addosso.«Devo
andare, i miei
saranno in pensiero». Rocknar mi rispose con un alzata di
spalle «allora ci si
vede domani a scuola» «Certo»
«Quando vuoi provare di nuovo…». Mi
fermai, quasi
scandalizzato dalla proposta lasciata in sospeso dal mio amico.
«Non… non credo
che faccia per me» risposi esitante. «Guarda che la
prima volta non piace mai,
se la provi tra un paio di giorni non ci saranno effetti
collaterali» continuò
a tentarmi lui. «Ci farò un pensierino»
acconsentii alla fine, una vittoria per
sfinimento.
Uscii
dal rifugio e mi buttai peso
morto nel caos di
Gòrdo boccheggiando
alla ricerca d’aria. Mi sembrava che i miei polmoni non
riuscissero ad
immagazzinarne abbastanza. Perdendomi tra i vicoli che costituiscono la
zona
est della grande città continuai a rimuginare
sull’accaduto. Lo faccio spesso,
il rimuginare intendo. Quasi sempre non penso sul momento alla frase
giusta da
dire, alla cosa giusta da fare. È poi, mentre rimugino su
una cosa appena
passata che mi viene una risposta decente. Ma sto divagando, dicevo che
finalmente, dopo un lungo e inutile giro tortuoso ero arrivato a casa.
Senza
salutare nessuno corsi in camera mia a tutta velocità e,
dopo aver chiuso la
porta mi buttai sul letto ignorando i pochi compiti che ci avevano
assegnato. “Mi
sono drogato, e mi è anche piaciuto!”.
Non riuscivo a pensare ad altro.
Quella massacrante routine mi massacrava; fortunatamente da li a pochi
giorni
sarebbero cominciate le vacanze estive.
,__,
(O,O)
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Spazio
dell’autore: Innanzitutto grazie a tutti di
essere arrivati fino
a qui, questa è una seconda stesura (ancora provvisoria) del
primo capitolo del
romanzo a cui sto lavorando. Non è ancora una versione
definitiva ovviamente ma
volevo “sondare le acque” per vedere se
l’idea potesse essere gradita. Vi dico
subito che non la aggiornerò tranne in caso di assoluto
gradimento (altamente
improbabile). Per favore lasciate un commento.
P.S.
scusate i
disegni idioti ma ho da poco imparato questi giochetti
stupidi e no
riesco più a farne a meno.