Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: SalvamiDaiMostri    02/12/2015    3 recensioni
Johnlock dai toni estremamente drammatici a causa di una particolare condizione di Sherlock: mai avrebbe pensato che le stronzate del suo passato avrebbero inciso così profondamente sulla sua vita adulta e compromesso fino a tal punto la sua felicità. E a pagarne le conseguenze è John. E questo Sherlock sa che è terribilmente ingiusto, oltre che pericoloso.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una sera d’autunno, al ritorno dall’ambulatorio, John trovó Sherlock intento a frugare rovinosamente con entrambe le mani all’interno di un cassetto della cucina e brontolare seccato contro a ogni cosa che il malcapitato cassetto conteneva: prima ancora che il medico chiedesse una spiegazione, il marito disse che non trovava la sua lente di ingrandimento da nessuna parte e ne aveva bisogno per raggiungere Lestrade ed analizzare insieme a lui una scena del crimine.
Il medico sapeva che il suo compagno aveva un modo tutto suo di tenere le sue cose. All’inizio era infastidito da tutto quel disordine che li circondava: ogni tre passi si rischiava di inciampare in uno scatolone o una pila di libri, se non in sciabole insanguinate o strani marchingegni; ogni tavolo o mensola era sempre stracolmo di provette, microscopi, computer, mappe, manoscritti e quant’altro... ma con il tempo aveva accettato che in quel caos esisteva uno schema preciso che davvero aiutava il consulente investigativo a trovare sempre ciò che cercava al momento giusto, e semplicemente ci aveva fatto l’abitudine. Nonostante la constante confusione, John non ricordava che Sherlock, in tutti quegli anni, avesse mai perso qualcosa. Posó dunque la sua valigetta e il cappotto e si mise a cercare insieme a lui. Prima di cominciare domandò:
“Come mai l’hai tolta dalla tasca del cappotto? Ne hai avuto bisogno oggi in casa?”
Sherlock, che se avesse potuto avrebbe infilato la testa e il busto nel cassetto per assicurarsi che ormai fosse definitivamente vuoto, improvvisamente si alzó, come se colpito da un’illuminazione. Ma fu questione di un paio di istanti prima che sopraggiungessero la consapevolezza e la vergogna e si sentisse un’idiota: come aveva potuto dimenticarsi di guardare nel cappotto? John lesse sul suo viso l’umiliazione e a stento trattenne la risata. Sherlock sbuffó seccato e, dirigendosi verso l’attaccapanni, commentó dicendo solamente:
“Non una parola.” E certamente John non poté fare a meno di ridere di quell’imbarazzante dimenticanza.
“Ma quant’era che la stavi cercando?”
“Non ho intenzione di risponderti.” Rispose serissimo mentre estraeva la lente dalla tasca destra del cappotto. Ce la ricacciò dentro e prese il cappotto con un’espressione che gridava orgoglio ferito e il numero di ore che aveva trascorso a setacciare ogni angolo dell’appartamento prima di controllare nella dannatissima tasca. Nel vederlo corrucciato come se fosse stato costretto a mangiare un limone, John si sforzò di smettere di ridere e si avvicinò a lui: lo abbracciò da dietro.
“Oh, dai, non prendertela... Capita a tutti di avere un lapsus...” disse schioccandogli un bacio sulla spalla.
“Non a me.” Rispose voltandosi. “Vieni con me?”
“Ovviamente!” rispose allora John allungando un braccio verso l’attaccapanni per prendere a sua volta il proprio cappotto.
 
Appena saliti sul taxi, John notò che Sherlock si massaggiava vigorosamente la gamba destra, dall’alto verso al ginocchio.
“Ti da fastidio anche oggi?”
“Ormai praticamente tutte le sere... Soprattutto quando faccio le scale... Ma, insomma, sopportabile, non preoccuparti. Com’è andata oggi?” domandò guardando fuori dal finestrino.
“Te l’ho raccontato prima di uscire: niente di che, l’inverno comincia e mi arrivano i primi mal di gola, tossi persistenti e congestioni nasali. Insomma, mi sono un po’ annoiato. E tu come al solito non mi ascolti.”
“E’ perchè racconti cose noiose.”
“Sei un pessimo marito.”
“Non è vero.”
“No, non è vero..” rispose sorridendo e accoccolandosi a lui.
 
Da quando si era ripreso dal cancro e dalla kemio, Sherlock aveva ricominciato a lavorare a ritmo serrato, un caso dopo l’altro senza darsi pace. John aveva provato a fargli mollare il tiro, ma la risposta era sempre la stessa:
“Devo lavorare finchè posso.”
E ormai entrambi sapevano che aveva ragione: la Tietjens aveva detto loro chiaramente che Sherlock reagiva in modo del tutto obsoleto alle terapie e che non avrebbe saputo dire se e quando il suo sistema immunitario ormai ridotto a brandelli sarebbe stato nuovamente attaccato da una malattia in modo altrettanto aggressivo e possibilmente fatale.
Perciò lo lasciò fare, e gli stette accanto quanto più possibile, aiutandolo a vincere ogni piccola battaglia, a collezionare tutti quei successi che lo avevano portato a così alta fama. L’obiettivo principale era sempre stato Moriarty, sin dai tempi del loro primo caso, e Sherlock cercò in ogni modo di attirare la sua attenzione e finalmente sconfiggerlo. Certo, non fu facile, ma il consultive detective riuscì a porre fine alla follia criminale di quell’uomo.
«Sherlock Holmes ha sconfitto il cancro e Moriarty nello stesso anno!» questo avevano detto i titoli dei giornali. In realtà Moriarty, preda della sua pazzia, si era suicidato sul tetto del Saint Barth. Secondo Sherlock, la rete criminale che si era dedicato a tessere durante la sua carriera non sarebbe potuta essere smantellata che in una decina d’anni, ma allora stava a Mycroft e all’MI6 occuparsene. Lui quantomeno, si ritenne immensamente soddisfatto di aver potuto concludere quel capitolo della sua carriera. Inutile dire che, oltre alla soddisfazione personale, dopo tale successo la fama del consultive detective crebbe più che mai; da principio a Sherlock non piacquero i propri fan, così come le cerimonie e le rassegne stampa, soprattutto da quando per coprire la testa ancora rasata aveva usato un vecchio cappello da cacciatore a due visiere pescato a caso tra tante cianfrusaglie al 221b durante un caso: qualche impiccione gli aveva scattato un paio di foto e ormai era universalmente conosciuto come «il detective col cappello strambo». Ma col tempo ci fece l’abitudine ed “essere Sherlock Holmes” cominciò anche a piacergli. Certamente colui che più gioiva di quella nuova situazione era John, il quale dopo l’incubo del Kaposi non avrebbe mai sperato di poter vedere riconosciuti fino a tal punto i meriti dell’uomo che amava. Non solo aveva potuto tornare a lavorare a pieno ritmo, ma aveva fermato Moriarty e il mondo lo applaudiva per questo.
 
“Ho visto al telegiornale che avete contribuito al ritrovamento di due bambini scomparsi! Incredibile... Ma e’ vero che avete trovato il luogo in cui si trovavano a partire da un’unica impronta?”  
“Beh, a grandi linee, si.”
“Davvero straordinario...”
“Oh, lei è in assoluto il nostro più grande ammiratore, signor Holmes...”
“Sciocchezze John, sciocchezze... Sono soltanto fiero dei miei ragazzi.”
“Troppo gentile, come sempre. A dirla tutta, sta volta, Sherlock ha risolto il caso praticamente da solo... Io sono stato piuttosto inutile.”
“Oh, figliolo, sei tutto fuorche’ inutile... La mia Violet lo diceva sempre.”
“Ma mi dica di lei, signor Holmes, cos’ha fatto di bello negli ultimi giorni? Stanno crescendo quei suoi meli?”
“Eh, quest’anno l’inverno è cominciato presto... Dovranno mettercela tutta per fiorire in primavera....”
“Sono certo che saranno splendidi.”
“Spero tanto che tu abbia ragione... Sah, io andrei a dormire che per questo vecchio chiacchierone si è fatto tardi.”
“La lascio andare allora. Dorma bene, ci sentiamo presto.”
“Buonanotte John, grazie per aver chiamato.”
“Si figuri, è sempre un piacere.”
“Buona notte Will!” John rivolse quindi il cellulare verso Sherlock che sedeva sulla sua poltrona davanti a lui:
“Buonanotte papà.” Rispose quindi lui.
John riattaccò. Mentre appoggiava il cellulare sul tavolino sorrise:
“Che c’è?” domandò Sherlock.
“Adoro quando ti chiama ‘Will’.”
“Ti prego, non cominciare.”
 
Quella notte Sherlock si svegliò gridando e piangendo sotto alle carezze di John.
“Va tutto bene Sherlock, va tutto bene... È solo un sogno. Va tutto bene, sono qui...” ma anche se era sveglio, Sherlock non rispondeva e non la smetteva di piangere. Allora John si spaventò perchè di solito, appena si svegliava, anche se aveva vissuto un brutto incubo, si riprendeva piuttosto in fretta: un abbraccio, qualche carezza e si calmava subito. “Accendo la luce, ok? Copriti gli occhi.” Ma Sherlock aveva già le mani sul viso, anzi, sembrava non volerle toglierle mai più. John si alzò e camminò fino ad arrivare al lato dove dormiva Sherlock: accese l’abatjour  e si accovacciò davanti a lui per accarezzarlo. Il marito ora non piangeva più, ma sembrava trovarsi in un apparente stato di shock: tremava e singhiozzava e non si toglieva le mani dal viso. John lo chiamò ancora: “Sherlock, ti prego rispondimi... Mi riconosci? Amore ho bisogno che tu mi risponda, mi stai spaventando. Sai chi sono?”
Finalmente Sherlock lo ascoltò e si scoprì il viso; ad occhi chiusi annuì.
“Bene, ti prego, apri gli occhi.” Sherlock tremava e tirava su col naso: la paura non era passata. Ma obbedì e aprì gli occhi. “Bravo, così. Mi dici chi sono?” Sherlock cercò di sospirare, ma i singhiozzi gli ruppero il fiato:
“Jo-hn... Sto bene, mi dispia-ce averti svegliato. Ora mi calmo, torna a letto.” Cercava di fare dei respiri profondi.
“Ok, ok.” John spense la lampada e andò a sedersi al suo posto. Il detective ancora non si era calmato, perciò il compagno lo invitò a coricarsi sul suo ventre. Sherlock odiava disturbare suo marito in questo modo: sapeva che doveva alzarsi presto per andare a lavorare, ma si arrese perchè questa volta era davvero scosso. Si trascinò verso di lui e appoggiò la testa su di lui: cullato dal respiro di John, dalle sue carezze, a poco a poco si calmò.
“Cosa succedeva?” domandò.
“Moriarty se la prendeva con te...”
“Nulla di nuovo dunque...”
“In realtà si... Io non riuscivo a reagire. E anche tu eri impassibile. Qualunque cosa ti facesse, la ignoravamo sia tu che io.”
“Come se non sentissi dolore?”
“No.. Più come se cercassimo di resistere. Finchè ci guardavamo riuscivamo a togliergli la soddisfazione.”
“E poi?”
“E poi ti ha dato il giro e a questo punto ti torturava senza pietà e tu urlavi e io non potevo muovermi...”
“Questo è più ricorrente. Cos’è che ti ha scosso così tanto?”
“Ha fatto una cosa che non aveva fatto mai. Ha preso una siringa del mio sangue te l’ha iniettata nel cuore. Tu mi hai guardato e ti sei sgretolato nell’aria.” John rimase qualche secondo in silenzio.
“Il solito romantico.” Rispose sarcastico “Ora va meglio?” Sherlock annuì. “Bene, ci corichiamo?” domandó stampandogli un bacio sulla fronte. Sherlock si distese su un fianco accanto a lui in modo tale che i due potessero guardarsi negli occhi. Il moro tese una mano verso John: questo la prese e la baciò.
“Mi dispiace averti spaventato...”
“Sono tornati gli incubi, dunque... Questo è il terzo questo mese... Inoltre credo che per un paio di minuti fossi in una sorta di stato confusionale, come se non riconoscessi la mia voce...”
“Forse stavo ancora dormendo...”
“Forse... Sì, certo...”
“Dormi John, sto bene.”
 
Da diverso tempo si stavano occupando di evitare un presunto imminente attacco terroristico ai danni di Londra: era stato Mycroft stesso a chiedere aiuto al fratello per risolvere il caso. E, dato che questa volta c’era in gioco la città che tanto amava, Sherlock mollò ogni suo caso per dedicarsi interamente a quest’indagine. I dati che erano riusciti a raccimolare erano davvero scarsi e, nonostante Mycroft e i suoi fossero certi  dell’esistenza del complotto, il consultive detective non riusciva a trovare alcuna anomalia o segno di esso. Solo dopo diversi giorni, arrivò ad avere forti sospetti circa l’implicazione di un certo Sebastian Moran e aveva cominciato a tenerlo d’occhio attraverso la rete di senzatetto al suo servizio, ma, nonostante tutto, non aveva ancora trovato nulla di rilevante o compromettente.
 
Quella sera, Sherlock stava fissando il muro tappezzato di fogli, cartine, foto e documenti scarabocchiati ormai da ore. John, da quando era tornato dall’ambulatorio, si era seduto sulla sua poltrona per sfogliare una serie di file nei quali avrebbe potuto trovare qualcosa di utile al caso, ma era davvero troppo tempo che non trovava nulla di interessante e decise di arrendersi almeno per quel giorno:
“Preparo la cena. Ti va qualcosa in particolare?” domandò appoggiando i documenti a terra.
“Irrilevante.” tagliò corto il compagno senza distogliere lo sguardo dallo schema.
John allora si alzò e si avviò verso la cucina per cercare qualcosa di commestibile all’interno del frigorifero:
“Devo andare a fare la spesa...” sussurrò tra sè e sè nel vedere che non era rimasto praticamente più nulla all’interno dell’elettrodomestico. Estrasse l’occorrente per qualche sandwich e si spostò sul tavolo dove, prima di appoggiare gli ingredienti, dovette spostare un mucchio di cianfrusaglie di Sherlock con il gomito per fare un po’ di spazio. Mentre preparava i panini disse ad alta voce: “Sappi che hai cinque minuti: poi stacchi e vieni a cenare.”
“Oh per l’amor del cielo!” esclamò Sherlock “Lavoro a questo caso da praticamente due settimane: le probabilità di poter concludere qualcosa in meno di cinque minuti sono ridicole!”
“Allora sforzati.”
“Il futuro dell’Inghilterra è nelle mie mani e tu vuoi che mi fermi per ‘cenare’??”
“Esattamente. La gamba ti ha dato problemi oggi?”  domandò John chiudendo un panino al prosciutto. Sherlock sospirò e, senza nemmeno rendersene conto si accarezzò la gamba destra. Nell’ultimo mese non aveva fatto che peggiorare: era un male che parte dalla parte alta della coscia e si diffonde pulsando verso il ginocchio, ogni pulsazione era una fitta. E non c’era crema, non c’era ghiaccio o borsa d’acqua calda, olio, massaggio, posizione o riposo che riuscisse a calmarlo, soprattutto la notte. Di recente aveva preso a fargli male anche durante il giorno, solo qualche volta, ma non quel giorno.
“No, oggi no.”
“Bene. Due minuti.”
“Sei crudele.”
“Irrilevante.”
Sherlock non rispose.
John, incuriosito da tale silenzio, si affacciò dalla cucina e lo vide immerso nella lettura dello schermo del suo cellulare:
“Trovato qualcosa?”
“Ce l’ho.” Disse serio, poi levò lo sguardo verso il compagno “L’ho trovato! Alloggia nella stanza numero 206 del Marriott Hotel County Hall.”
“Si è preso un posto in prima fila...” commentò John visualizzando nella mente il lussuosissimo hotel sulla riva del Tamigi. Sherlock sorrise:
“Prendi il cappotto!”
“Cosa non fai per evitare di cenare...”
 
Il tassista corse quanto più potè sotto gli ordini di Sherlock che visualizzava mentalmente il percorso più rapido per arrivare al Marriott Hotel. Non appena il taxi frenò, Sherlock balzò fuori dalla vettura e si precipitò all’interno della lussuosissima hall, mentre John provvedeva a pagare l’autista. Furono subito ricevuti dal receptioner che non appena udì il nome “Holmes” diede la sua più completa disponibilità ai due uomini e si offrì in caso di una loro qualsiasi necessità: evidentemente Mycoft era un cliente stimato all’interno della struttura.
Sherlock chiese dunque di essere accompagnato alla camera 206: il piano era simulare un servizio in camera, fare irruzione nella stanza e incastrare Moran presumibilmente con le mani nel sacco, in caso contrario avrebbero improvvisato qualcosa con l’aiuto del receptioner, piuttosto entusiasta di poter essere d’aiuto. Si avviarono quindi verso gli ascensori e entrarono nel primo che si aprì. Ma, esattamente un attimo prima che l’ascensore si chiudesse, John vide Moran uscire dal secondo ascensore e avviarsi di corsa verso l’uscita della hall.
“E’ lui Sherlock!” disse prendendo a premere con insistenza il pulsante per l’apertura delle porte: “Ce la fai a correre??” domandò. Sherlock gli sorrise e ha appena il tempo di dirgli:
“Ci puoi scommettere” che l’inseguimento ebbe inizio.
In un battere di ciglia furono fuori dall’hotel: Moran fuggiva a piedi lungo il Tamigi in direzione della Torre di Londra. Nonostante il dolore, Sherlock correva come il vento, correva più di John e guadagnava distanza su Moran, il quale ormai non era che a dieci metri da lui, tredici da John. Correvano a perdifiato, i tre uno dietro l’altro. Sherlock si voltò un instante come per controllare che John fosse ancora dietro di lui, ma immediatamente si voltò di nuovo e continuò ad inseguire il terrorista.
Dopo qualche falcata, John vide il compagno voltarsi ancora,  ora due volte di seguito: aveva un’espressione strana in volto, sembra spaventato.
Qualcosa non andava.
John fece per raggiungerlo, ma Sherlock correva troppo velocemente. Dunque lo chiamò:
“Sherlock! Fermati!” gridò.
In quell’istante, in uno scatto, il detective svoltò in un vicolo a destra e continuò a correre. Una scorciatoia forse? John lo seguì imperterrito.  Suo marito stava correndo all’impazzata in direzione opposta a quella in cui stava fuggendo  Moran, perchè?
“Sherlock! Dove stai andando?? Fermati!” gli gridò ancora John.
L’altro, in corsa, si voltò ancora verso di lui e allora John non ebbe più dubbi: Sherlock era terrorizzato. Non stava più inseguendo nessuno: stava fuggendo. “Sherlock! Sherlock che succede?? FERMATI!” Il medico si sforzò all’estremo per raggiungerlo e gli afferrò il braccio. Sherlock si divincolò con un grido:
“LASCIAMI!” inciampò e cadde rovinosamente a terra, graffiandosi le mani, la faccia e le ginocchia sull’asfalto. John lo raggiunse: entrambi avevano il fiatone. Il medico  allungò un braccio per aiutare Sherlock a sedersi, ma questo gridò di nuovo e si divincolò dalla sua presa: “LASCIAMI STARE! CHI SEI? LASCIAMI!” allora i loro occhi finalmente si incontrano e fu chiaro: John non sapeva perchè, ma Sherlock era terrorizzato da lui e evidentemente non lo riconosceva. Come la notte precedente. Il suo cuore mancò un battito o due, ma cercò di mantenere la calma e si accovacciò davanti a lui:
“Sherlock, sono io, sono John... Mi riconosci?” fece per toccargli il viso, ma Sherlock con una manata scacciò il suo braccio.
“Non mi toccare! Non farmi del male!” per John quelle parole furono pugnalate al cuore: rimase atterrito per un paio di istanti. Poi si riprese e gli afferrò il viso con entrambe le mani e lo costrinse a guardarlo negli occhi:
“Sherlock, calmati, sono io!” disse a voce alta. John vide chiaramente le pupille di Sherlock restringersi e finalmente seppe di essere riconosciuto. Il marito si calmò e guardandolo negli occhi annuì, appoggiò saldamente una mano sulla spalla di John e questo tirò un sospiro di sollievo. Vide quindi che Sherlock era del tutto terrorizzato da quello che era appena successo: aveva completamente perso il controllo. John lo abbracciò forte e gli disse: “Va tutto bene, va tutto bene...”
“Cosa mi è successo, John?” chiese Sherlock con la voce rotta dal pianto “Io.. Io non sapevo.. Io scappavo... Oh John...” Sherlock si aggrappò al marito.
“Shh, va tutto bene, va tutto bene.” ripetè estraendo il cellulare dalla tasca: chiamò quindi Mycroft per avvertirlo di ció che era appena accaduto a suo fratello e della fuga di Moran.
Poi si sedettero a terra.
“John, cosa mi è successo?” continuò a chiedere Sherlock.
“Non lo so, amore.” lo baciò sulla fronte e lo strinse a sè “Proprio non lo so...”
 
Il tempo che impiega un’ambulanza ad arrivare dove la necessitano in centro Londra, di sera, è di circa otto minuti. John e Sherlock la attesero seduti a terra in un angolo: il detective tra le braccia del medico. All’arrivo dei paramedici, John si alzò per parlare con due di loro, mentre un terzo si avvicinò a Sherlock con una coperta e una valigetta di primo soccorso: spiegò loro la condizione di suo marito e raccontò nel dettaglio ciò che era appena accaduto. Concordarono che la cosa migliore da fare era portare Sherlock in ospedale affinchè potessero fargli i dovuti esami e venire a capo di cosa avesse causato questi momenti di smarrimento e confusione.
John era un medico. Lui si era specializzato in traumatologia e chirurgia, ma all’università aveva studiato anche altre diverse branche della medicina, tra le quali, anche virologia e psichiatria. Questo, a volte, rendeva piú facili la cose. Altre volte no. Questa volta, per esempio, proprio per niente: il suo non era solo un sospetto, aveva davvero il terrore di aver diagnosticato già da giorni la peggiore delle ipotesi. Ma tacque.
Tornò da Sherlock il quale ora era avvolto in una coperta arancione che avrebbe dovuto aiutarlo smaltire lo shock: tornò a sedersi accanto a lui e, prendendogli la mano, gli spiegò con calma che sarebbero andati in ospedale. Poi tacque. Perchè proprio c’era assolutamente nient’altro che riuscisse a fare.
Quando arrivarono in ospedale, Mycroft era già lì ad aspettarli: non disse molto, semplicemente si limitò ad accompagnarli. Aveva già disposto tutto il necessario affinchè suo fratello venisse assistito nel migliore dei modi e nei tempi più brevi. La dottoressa Tietjens sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Sherlock e John trascorsero la notte nella camera che era stata loro assegnata: ormai erano più che abituati a dormire in ospedale e passarono una notte tranquilla entrambi. Il maggiore dei fratelli Holmes non si fece più vedere fino al giorno seguente.
Più che altro grazie all’influenza di Mycroft, i risultati arrivarono verso metà mattina: John fu invitato ad uscire dalla stanza dalla stessa dottoressa Tietjens, la quale gli consegnò la cartella che conteneva i risultati. Senza dire una parola, aprì la cartella per sfogliarne il contenuto e lo lesse. Sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca.
Avere ragione non era mai stato così doloroso.
Allora la dottoressa disse solamente:
“Mi dispiace tanto dottor Watson. Immagino che, come sempre, non necessiti ulteriormente del mio aiuto. Perciò, vi lascio soli.” e con espressione afflitta girò su se stessa e se ne andò percorrendo il corridoio.
Nonostante sapesse che suo marito lo stava aspettando al di là del muro al quale si era appoggiato, John si prese due minuti prima di entrare e riferirgli i risultati. Entrare e dirglielo:  era convinto di non esserne in grado. Avrebbe voluto morire in quell’istante, piuttosto che doverlo fare. Ancora non si era levato la mano dalla bocca quando Mycroft gli si avvicinò: dritto e composto, l’uomo di ghiaccio disse guardando nel vuoto:
“Si ricorda la promessa che mi ha fatto, dottor Watson? È giunto per lei il momento di dimostrarmi che non ho malriposto in lei la mia fiducia.” E, detto questo, se ne andò, a passo posato, così com’era arrivato. John strinse il pugno con tutta la forza che aveva, sino a far impallidire le nocche, e digrignò i denti: avrebbe voluto corrergli dietro e sfondargli la faccia a pugni, ma aveva ragione. Aveva stramaledettamente ragione.
Respirò profondamente, facendo un vano tentativo di calmarsi, ed entrò nella stanza.
 
Sherlock non era certo un medico, ma nessuno conosceva la sua mente come se stesso: era stata la sua più cara compagna sin da quando era bambino, l’aveva conosciuta, aveva preso confidenza con lei e nel corso degli anni l’aveva indagata fino ad arrivare nei suoi più reconditi angoli nascosti. L’aveva studiata, l’aveva messa alla prova, e lei lo aveva aiutato così tanto, in così tanti modi. Prima di John, Sherlock non aveva fede in nient’altro che nella propria mente. E lei, poche ore fa, per la prima volta da quando erano nati, lo aveva tradito.
Mai si sarebbe aspettato una cosa del genere. E il fatto che fosse accaduto significava che la situazione era davvero grave. Era stata amnesia? Se così fosse, da cosa era stata provocata? Di certo la probabilità che centrasse con l’AIDS era prevalente, ma forse no: forse si era affaticato troppo o magari era stato qualche nuovo effetto collaterale dei medicinali che assumeva... La sua testa era satura di interrogativi che, sapeva, non avrebbero ottenuto risposta finchè John non avesse varcato la soglia di quella porta che fissava con ansia.
Finalmente John entrò.
Al detective non furono necessari che pochi istanti per capire che la notizia che il marito gli stava portando era terribile: il suo passo, lo spasmo alla mano sinistra, la sua bocca, i suoi occhi. Era distrutto. Decise perciò di mantenere la calma e aspettare che fosse lui a spiegargli. Disperarsi non aveva senso: se era così grave, non c’era più nulla da fare.
Mentre John si avvicinava al letto su cui era seduto, Sherlock domandò semplicemente:
“Cos’è questa volta?”
John non parlò ancora. Si sedette accanto al marito, gli prese la mano e la strinse forte, forse per trovare più conforto di quanto potesse darne.
 
«Oh John... Mi dispiace tanto...»
 
“E’ l’ennesima infezione...” disse d’un fiato, con un filo di voce. I suoi occhi fissavano il pavimento.
“Infezione?” domandò, come se non avesse inteso “Un’infezione ha provocato un’amnesia momentanea? Quindi deve centrare il-”
“Sistema nervoso, sì.” lo interruppe John spostando lo sguardo sugli occhi dell’altro disegnando sulla sua bocca un sorriso disperato. Tirò su col naso: “È encefalite Sherlock. Colpa dell’AIDS...”  e, dicendolo, si portò una mano agli occhi per scacciare due lacrime con il pollice prima che sgorgassero, mentre con l’altra ancora stringeva quella di Sherlock. Questo rimase in attesa di una qualche spiegazione che non arrivava: John provava come un nodo alla gola che gli impediva di discendere nei dettagli. Allora il compagno lo supplicò:
“Ti prego, spiegami.”
“Io... Non posso...” rispose con voce rotta.
“Non voglio che sia nessun altro a dirmelo, John. Posso sopportarlo solo se lo fai tu. Come sempre, ti prego.” Avrebbe voluto mantenere la calma, ma il moro si accorse improvvisamente che stava tremando e che anche lui aveva la voce rotta da un pianto che desiderava sfogare la sua paura. Ricordando le parole di Mycroft, John trovò appena il coraggio di prendere un respiro profondo e parlare, ma le lacrime precipitarono lungo le sue guance un secondo prima che cominciasse:
 “E’ un’infiammazione dell’encefalo” disse d’un fiato “Encefalite tardiva da AIDS. Attacca le cellule della sostanza bianca e le gliali.” Si prese un attimo “Non esiste cura.” Sherlock annuì e sospirò.
“Dunque comprometterà definitivamente le mie capacità intellettive...?” John annuì a sua volta, disperato. “Sii più specifico.” Il marito, con gli occhi gonfi di lacrime, supplicava di no scuotendo la testa, ma gli occhi di Sherlock lo stavano implorando: aveva bisogno di sapere a cosa stava andando incontro, quale sarebbe stata la sua fine. E John lo capiva. Perciò cercò di essere quanto più specifico possibile in quel momento in cui a mala pena riusciva ad ordinare un pensiero.
“E’... Una corsa verso al vuoto. Si comprometteranno la capacità di attenzione, la velocità di elaborazione delle informazioni e la comprensione...” Sherlock lo ascoltava e cercava di metabolizzare che ormai aveva finito di lavorare “Cominceranno ad essere ricorrenti momenti di stato confusionale, disorientamento, perdite della memoria sempre più frequenti, disturbi del sonno... Si arriva in fretta alla demenza.” All’udire tale parola, Sherlock ebbe un sussulto. Si sentì mancare. Demenza. Certamente non ebbe mai avuto tanta paura come in quell’istante: perdere la testa... Lo spaventava molto, molto di più di morire. In quel momento Sherlock Holmes sperimentò il vero terrore. Era davvero la sua fine. E, come sempre, il tutto accadde all’interno della sua testa: all’esterno parve solamente che avesse sgranato gli occhi. Fu questione di pochi istanti di disperazione, poi tornò con i piedi per terra: tornò a John, che era sempre la cosa più importante, che stava stringendo la sua mano e sedeva accanto a lui e parlava con voce rotta incatenando una parola dietro l’altra. Sherlock sapeva che lui si sarebbe spento a poco a poco, ma colui che avrebbe sentito il dovere di prendersi cura di ciò che sarebbe rimasto di lui era il suo John: lui avrebbe sofferto. Poi, improvvisamente, andò in bianco: si sentì svuotato di ogni emozione, come se avesse smesso di provare alcunchè. E tornò ad ascoltare il suo compagno: “Di lì in avanti sarà l’aggravarsi di questa, alla quale si aggiungeranno difficoltà motorie ed eventuali crisi convulsive... E... In pochi mesi-”
“Morirò.” concluse secco. Il cuore di John perse un battito: lo guardò negli occhi e vide che gli stava sorridendo “Oh, andiamo, amore mio... Lo sapevamo: prima o poi doveva succedere.” John fece ‘no’ con la testa e con un filo di voce disse:
“Non cosi... Non così...”
“No? E come? Meglio di dissenteria o pertosse? O forse ti aspettavi qualcosa di più epico come una pallottola in fronte, o giù da un edificio??” senza accorgersene, Sherlock aveva notevolmente alzato il tono di voce, stava quasi gridando.
“Smettila!” gridò John.
“Ironico: una delle menti più illustri di questo secolo sbiadirà via dai miei occhi poco alla volta lasciando di me poco più che un vegetale... Si, forse hai ragione tu: così è patetico-”
“Smettila! Smettila! SMETTILA! ” gridò ancora John gettandosi addosso a Sherlock percuotendogli il peto con i pugni. L’altro li ricevette perchè sapeva che John doveva sfogarsi, poi lo abbracciò forte. John, in risposta, gli si avvinghiò al collo:
“Non devi dire così, non devi...” ripeteva ossessivamente con voce tremante.
“Mi dispiace tanto...” gli sussurrò Sherlock mentre lo cullava. Due rivoli di lacrime solcarono le sue pallide guance.
“Oh, Sherlock, io... Io non credo che potrò sopportarlo...” John ora piangeva come un bambino.
“Lo so, amore mio, lo so. Mi dispiace tanto...”
 




[Ed eccoci quasi alla fine del nostro viaggio. Io come sempre vi ringrazio di cuore per essere arrivati a leggere fino a qui e vi invito a lasciarmi un commentino qua sotto, che per me è sempre il regalo più grande ^^ So che ci ho messo molto questa volta, ma capirete se vi dico che non è affatto un argomento facile da trattare: spero di aver soddisfatto le vostre aspettative! Ribadisco che non sono un medico e non voglio presumere di saperne quanto uno studente di medicina, nè molto meno, perciò (anche se mi documento molto) non garantisco affatto che ciò che scrivo sia del tutto corretto dal punto di vista medico. Avrei voluto pubblicare questo nuovo capitolo ieri, in occasione della giornata mondiale per l’AIDS, ma non ci sono riuscita perchè ho preferito rivedermela ieri sera con calma e fare le ultime modifiche, perciò nulla, fate finta :p Con tanto affetto, un saluto e un grande grazie!
 
PS: sempre ansiosa di leggere i vostri commenti! _SalvamiDaiMostri]
   
 
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