Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Wassat    06/12/2015    4 recensioni
In una vita passata, Eren Jaeger è morto a ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età.
In un'altra vita, Özgür Gözübüyük, di ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età, scoppia a piangere nel mezzo di una lezione di biologia molecolare.
Se un giorno ricordassi improvvisamente una vita del tutto diversa dalla tua, cosa succederebbe all'identità che hai mantenuto fino a quel momento?
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Eren, Jaeger
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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TRoTL part one

Eccola qua, finalmente, la seconda fanfiction che già avevo detto che avrei tradotto. Ci ho messo tantissimo, ma alla fine ce l'ho fatta, solo non aspettatevi aggiornamenti regolari perché ha dei bei capitolozzi. Non so se questa sia una fic adatta a tutti, di certo a chi dà fastidio vedere un pg transessuale deve girare al largo. Qui non dico chi è, ma lo scoprirete presto. Eren, inoltre, qua non si chiamerà Eren, così come praticamente il resto dei personaggi non avranno il loro nome: lui si chiamerà Oscar. E' una reincarnation fic, la migliore che io abbia mai letto, un po' pesante ma stupenda. Spero piaccia anche a voi! Buona lettura.

Credits: i personaggi appartengono a Hajime Isayama, mentre la fanfiction appartiene a Zhedang. Mia è solo la traduzione :3

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In una vita passata, Eren Jaeger morì a ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età.

In un'altra vita, Özgür Gözübüyük, di ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età, scoppiò a piangere nel mezzo di una lezione di biologia molecolare. Le persone più vicine a lui si voltarono a guardarlo, quando non riuscì più a trattenere i singhiozzi. Dopo aver tentato di calmarsi senza alcun risultato, il ragazzo sbatté il proprio block notes nello zaino, che si mise in spalla, e uscì dall'aula. Quando arrivò al dormitorio aveva gli occhi opachi e arrossati, il suo respiro veloce e spezzato. La sua compagna di stanza, Chloe, lo salutò con un "Hey" distratto, ma quando non le rispose alzò lo sguardo dallo schermo del pc e gli chiese: "Oscar, stai bene? Cos'è successo?!"

Non lo sapeva. La testa gli doleva, come se stesse venendo penetrata da mille aghi e tutto gli appariva sbagliato: l'enorme campus che aveva appena attraversato, il mobilio e gli effetti personali presenti nel dormitorio, i capelli tinti di blu e verde di Chloe, anche la pelle scura delle sue mani. "Dove mi trovo?" Disse, o cercò di dire, perché il viso di Chloe si confuse, prima di mostrare panico.

"Oscar," Gli disse lentamente, alzandosi e avvicinandoglisi lentamente. "Non riesco a capirti. Stai bene? Perché piangi?"

E' appena iniziato l'autunno, ma una brezza gelida gli trafigge il viso con la candida promessa dell'inverno. Una giovane ragazza si volta verso di lui, i suoi capelli sono lunghi e neri e le ciocche della frangia le vengono scompigliate dal vento, quando lo guarda preoccupato. "Eren?" Gli chiede. "Perché piangi?"

Il ragazzo sbatté le palpebre, poi si asciugò il viso umido di lacrime. "Io... Non è successo nulla." Mise lo zaino sul divano, ignorando il tremito delle sue mani. "Ho solo... Ho solo bisogno di riposare. Devi prendere qualcosa dalla camera da letto?"

La ragazza serrò le labbra, ma seppur contrita scosse la testa, così Oscar sparì nella stanza. Si appoggiò con la schiena contro la porta chiusa per un momento, cercando un'altra volta di controllare il proprio respiro, prima di arrendersi. Si tolse le scarpe e i pantaloni e fece qualche passo tremolante verso il letto. La sua testa sembrava volergli esplodere. Chloe aveva ancora del Nyquil nel cassetto della scrivania dall'ultima volta che le era venuta la febbre. Il giovane ne ingoiò qualche pastiglia, prima di stendersi a letto e portarsi le coperte fin sopra la testa.

Dormì. Sognò.

Non era poi certo che quelli fossero semplici sogni.

#

Özgür Gözübüyük aveva ventidue anni, tre mesi e diciassette giorni d'età e la sua vita non apparteneva più solo a lui.

Lui era... Lui era Özgür Gözübüyük. Si chiamava così. Gran parte della gente lo chiamava Oscar. Era all'ultimo anno di college, dove frequentava biologia e chimica ed era pronto ad affrontare gli anni di specializzazione. Lui...

I primi giorni furono terribili. Ogni suo singolo pensiero era oscurato. Si svegliava ogni mattina, disorientato e con la testa che sembrava volergli esplodere, esausto come se avesse passato la notte a correre, piuttosto che dormire. Provava a mangiare, ma il cibo aveva un sapore strano, stucchevole, e comunque non aveva un gran appetito. Aveva i nervi fragili, saltava in aria per niente, rumori improvvisi lo spaventavano. Stare al chiuso lo faceva sentire in trappola, ma stare all'aperto lo faceva sentire troppo esposto.

Chloe lo pregò di andare all'ospedale, ma non riusciva neanche a pensare di metterci piede, non dopo mesi spesi lì dentro ad assistere alla morte lenta morte di sua sorella. Nascose il proprio cellulare, in modo che la compagna di stanza non potesse chiamare sua madre e farla preoccupare. Era orribile, ma neanche sapeva cosa fosse ad essere orribile, e la sua testa era troppo occupata a perdersi in pensieri frammentati, misti ad un'oscurità alla quale non sapeva far fronte. Saltò tre giorni di scuola e quasi non se ne accorse. Il buio copriva tutto.

Il buio copriva tutto, eccetto alcune volte, quando aveva questi... Flash... Di qualche luogo, qualche era, qualcuno. Come una candela, s'illuminavano debolmente, per poco, prima di svanire velocemente.

Col passare del tempo questi flash si allungarono. Poi presero a brillare con una luce, nella sua mente, che era anche peggio dell'oscurità.

Stava cercando di finire la ciotola di fiocchi d'avena, l'unica cosa che era riuscito a buttare giù recentemente. Chloe gliel'aveva preparata prima di andare alle sue lezioni mattutine. Non aveva esattamente voglia di mangiarli, ma la ragazza già si preoccupava troppo, minacciandolo di portarlo... Non sapeva neanche dove, ma un ospedale psichiatrico sembrava idoneo. Il pensiero lo agitava abbastanza da fargli stringere il cucchiaio e portarselo lentamente alla bocca. Pensava di aver mangiato abbastanza per calmare Chloe, ma ormai non si fidava abbastanza di sé stesso per esserne sicuro. I suoi occhi abbandonarono il muro che stava fissando fino a quel momento, per cadere sulla ciotola mezza vuota e il cucchiaio in metallo e-

Una mano è impigliata in rossa e ustionante carne e lui tira e tira, ma non riesce a liberarsi. Perché è successo, perché ora e non prima in quel pozzo umido? Della gente sta urlando, "Perché adesso?" e "Rispondi, Eren!" e sono arrabbiati, spaventati e lo uccideranno se-

Chloe tornò dalle lezioni un'ora dopo e lo trovò acciambellato sul pavimento, perso e tremante e con una mano sanguinante, l'altra che continuava ad affondarci le unghie senza pietà.

I flash continuavano così, esplodendo nella sua testa come fuochi d'artificio, brillando prepotenti finché non si riducevano a minuscoli brillii. Lentamente, questi brillii si radunavano assieme, schiarendo in qualche modo l'oscurità, rendendola meno accecante.

Flash. Pensava a loro riferendosi a flash, anche se sospettava che flashback fosse una parola più corretta. Ma non potevano essere flashback. Non potevano. Queste cose non gli erano mai successe e non poteva averle represse in qualche modo, perché-- Titano. Era una parola che neanche esisteva, così strana che nessuna lingua al mondo potrebbe averla accettata come sua, eppure ne conosceva il significato.

Gigante. Mostro. Morte.

Questi... Flash... Flashback... Non erano suoi. Non appartenevano a Özgür Gözübüyük, eppure erano suoi perché lui era-

C'era qualcuno là, circondato dall'oscurità- no. C'era qualcuno responsabile dell'oscurità, che imprigionava Oscar dentro di essa e cercava di fargli perdere la ragione.

Lui è Eren Jaeger, a volte chiamato L'ultima speranza dell'umanità, un soldato, un membro della squadra speciale dell'Armata Ricognitiva, è anche un Titano.

Probabilmente stava impazzendo.

Giusto quando pensava che non avrebbe potuto sopportare di peggio, iniziarono a... Non migliorare, ma a divenire più tollerabili. Il costante dolore alla testa alle volte diminuiva fino a divenire un leggero pulsare. Dormiva più profondamente e riuscì a passare dai fiocchi d'avena alla zuppa. Si sentiva ancora da schifo, ben lontano dall'essere normale (neanche nella stessa galassia di normale), ma era migliorato abbastanza da poter mostrare il volto in classe e passare per gli uffici degli insegnanti per scusarsi e chiedere di allungare la data di consegna delle esercitazioni.

Ogni uscita dalla camera da letto lo stremava fisicamente ed emotivamente. Non poteva scrollarsi di dosso la costante e pungente preoccupazione che ogni edificio del campus potesse nascondere dozzine di Titani dietro di loro. Quando sedeva in classe o nel suo salotto, non poteva smettere di annotarsi le uscite e le possibili vie di fuga, sobbalzando ad ogni rumore inaspettato.

L'oscurità ancora lo assaliva. Poteva distinguere delle figure nel buio della sua mente, ma nulla di più.

I flashback diminuirono di frequenza, ma non si fermarono. Ognuno di loro lo lasciava turbato per ore, nella lotta di riprendere possesso del suo corpo, della sua mente, di sé stesso. Non tutti erano brutti - alcuni gli mostravano scorci di giornate tranquille, raramente anche gioiose - ma ognuno di loro lo spaventava, perché non sapeva quando e dove lo avrebbero assalito. E i flashback di cui aveva paura...

Non aveva più nulla nello stomaco, ma continuò a stringersi al gabinetto, premendo il viso accaldato contro la fredda porcellana. Chloe gli stava strofinando la schiena, cercando di calmargli gli ultimi tremiti. Il bagno del dormitorio era piccolo, non c'era posto per due persone, ma era felice che la ragazza fosse rimasta, perché lo aiutava a ricordarsi dove si trovava.

Non stava annegando in uno stomaco pieno di sangue e pezzi di persone, ascoltando le preghiere di aiuto dei soldati morenti. Era nel suo dormitorio, era giovedì e-

"Non hai un esame da dare?" Gracchiò. Chloe ne aveva studiato gli argomenti nei giorni precedenti, quando non era impegnata a prendersi cura di lui.

La giovane gli diede una pacca leggera sulla schiena. "Prenderò il massimo dei voti, posso permettermi un piccolo ritardo."

"Mi dispiace." Mormorò Oscar, asciugandosi la saliva che gli inumidiva il mento col dorso della mano. Aveva entrambe le braccia, entrambe le gambe, si trovava nel suo dormitorio, non all'interno di un Titano. Se lo stava ripetendo da un'ora e il suo cervello iniziava solo ora a credergli. "Di darti così tanti problemi."

"Sono solo preoccupata per te," Gli rispose la ragazza. "Inoltre ero ancora di debito con te dopo l'episodio col maniaco."

"Cosa?"

"Il mese scorso, all'Eclipse? Qualche coglione mi aveva infilato la mano sotto la gonna, chiedendomi se avessi il cazzo, e tu gli hai dato un pugno in faccia? Sono sicura che tu gli abbia rotto il naso."

Non gli veniva nulla alla mente. Scosse la testa, ma la ragazza non ci diede molto peso. "Lascia perdere, eri ubriaco, quindi... Beh, grazie. Anche se forse dare un pugno al ragazzo è stato un po' esagerato. Ah, per future occasioni: non puoi più entrare all'Eclipse."

"Tanto l'Eclipse è un locale di merda." Grugnì da dentro la tazza del cesso. Poteva ricordare di aver dato un pugno a qualcuno, per aver molestato un suo amico, ma l'amico era un ragazzo biondo, non Chloe. Armin, insistette una voce nella sua testa, un sussurro dall'oscurità. Il suo nome è Armin ed è il tuo migliore amico. Oscar ignorò quel pensiero e si spinse in piedi aiutandosi con la tazza del water. "Sto bene, adesso," Disse alla ragazza. "Vai a fare l'esame."

"Se ti senti meglio perché non mi accompagni fino alla classe?" Gli chiese Chloe, prendendo la borsa dal pavimento del bagno.

"Perché?"

"E' nello stesso edificio degli uffici medici." Gli rispose la giovane donna, andando subito al punto.

Il giovane sospirò e si massaggiò la nuca con una mano. "Non penso che questo sia il tipo di cose che uno psicologo dell'università sia pronto ad affrontare. Inoltre sto migliorando."

"Ma stai ancora male. Poi sì, non ho idea di cosa ti stia succedendo, ma farti vedere da qualcuno non può farti male, giusto? Non è che stai entrando in un ospedale psichiatrico." Chloe non lo disse, ma Oscar poteva sentire il suo pensiero "Però un ospedale psichiatrico non sarebbe male."

Non rispose. Voleva difendersi e dirle che non era pazzo, però non ne era più sicuro. Una sua possibile pazzia avrebbe avuto più senso di tutto il resto.

Tuttavia Chloe buttò il suo asso nella manica. "Se non fai qualcosa - che sia vedere uno psichiatra o un dottore o quel che vuoi, almeno una volta - dirò a tua madre cosa ti sta succedendo."

"Non hai il suo numero," Le rispose, confidente. Aveva controllato il suo cellulare un paio di ore prima, che si trovava nascosto nel fondo del cassetto dei calzini.

Chloe portò gli occhi al cielo. "Siamo amiche su Facebook. L'unica ragione per la quale non le ho ancora scritto è a causa della tua testardaggine. Però, se non cerchi aiuto-"

"Da quando siete amiche su Facebook?"

"Non lo so, un anno? Ti eri stancato di ricevere inviti per Farmville da me e lei, così ci hai presentate in modo che ti lasciassimo stare." La ragazzo notò l'espressione apatica del compagno di stanza e corrugò le sopracciglia. "Non te lo ricordi?"

Il giovane scosse la testa e l'espressione di Chloe s'incupì, prendendo quei toni preoccupati ai quali Oscar si era ormai abituato. Prima che la giovane donna potesse dire qualcosa, l'altro la interruppe. "Non dirglielo. Dopo mia sorella- Non voglio che si debba preoccupare anche per me. Non hai idea di come sia stata, quando mia sorella era all'ospedale. Se sente di questa cosa..."

"Allora cerca aiuto! Stai male, hai bisogno di farti aiutare," Insistette Chloe. "E io sto cercando di aiutarti, ma non ho idea di cosa fare... E-e..." La voce della ragazza tremò, improvvisamente, e Oscar notò con orrore i suoi occhi inumidirsi di lacrime. "... Mi stai spaventando, Oscar."

"Va bene, va bene, andrò a prendere un appuntamento." Le promise, avvicinando le mani alle sue spalle, insicuro di come rassicurarla. Non sapeva mai come comportarsi di fronte ad una persona in lacrime. Specialmente quando lui stesso sentiva lo stesso bisogno.

Chloe tirò su col naso, tentando di asciugarsi le lacrime senza rovinarsi il trucco. "Scusami. Non sto cercando di farti sentire in colpa, solo..."

"Lo so," La rassicurò. "Mi dispiace, so che è stupido non cercare aiuto. Ma io... Io non posso..." Non voleva scoprire cosa lo stava disturbando, perché se fosse stato qualcosa di terribile? Finché non ne aveva la certezza poteva far finta che tutto fosse a posto. Se avesse visto un dottore e così avesse scoperto che era... Schizofrenia o qualcosa di simile - così gli sarebbe sembrata una condanna. E se fosse stato chiuso in un ospedale? Non avrebbe potuto sopportarlo. Aveva passato troppe ore in ospedale, seduto ad aspettare per giorni e giorni che sua sorella morisse... Fino a ritrovarsi a sperare che succedesse il prima possibile, per il bene di lei e di tutti gli altri.

Però andare da un consulente... Quello sarebbe andato bene, giusto? Se non altro, avrebbe soddisfatto Chloe e magari una consulenza lo avrebbe aiutato.

Quindi prese appuntamento. O, più che altro, prese un appuntamento per sottoporsi ai controlli necessari per fissare un appuntamento vero e proprio. Magari il centro di consulenza non era troppo occupato o magari appariva così mal messo come si sentiva e la receptionist voleva aiutarlo il prima possibile. In qualsiasi caso, l'appuntamento gli venne dato per la mattina dopo.

La notte gli parve infinita. Ascoltò il respiro lento e regolare di Chloe provenire dall'altra parte della stanza - amandola e odiandola allo stesso tempo per obbligarlo a prendere certe decisioni - fino a ché riuscì finalmente ad addormentarsi. Sognò pacifici ricordi d'infanzia, scene che al mattino lo lasciarono nauseato, perché non ne ricordava nessuno ed eppure, in qualche modo, gli sembravano reali.

Chloe non aveva lezioni fino al pomeriggio, quindi si offrì di accompagnarlo all'appuntamento. Il giovane voleva rifiutarsi, ma tutto attorno a lui era offuscato e spento, come se si fosse svegliato ubriaco in una stanza sconosciuta, così accettò. Se si fosse perso nel campus dove aveva vissuto gli ultimi quattro anni, avrebbe finito col sentirsi ancora più pazzo. Senza dire che sarebbe arrivato tardi.

Le chiacchiere della compagna di stanza e il suo braccio attorno al corpo di Oscar lo aiutarono a raggiungere il centro di consulenza, dove lo lasciò con un tirato ma incoraggiante sorriso. "Buona fortuna." Gli disse, stringendogli un polso.

Oscar non sapeva perché  gli serviva la fortuna, per una consulenza, ma come saltò fuori, lui era fortunato a scatti. Questo perché, dopo aver compilato i questionari sul perché cercava una consulenza e sulla sua sanità mentale (dovendo per la sua infelicità dover crocettare 'il più delle volte' su troppe domande), venne mandato in una sala d'attesa per attendere la persona che gli avrebbe dato la consulenza e-

Lei gli diede la mano per stringerla, una scintilla di quello che sembrava riconoscimento sul suo viso, che rimpiazzò con un sorriso gentile, e si introdusse come Alexis Sanders, ma c'era un altro nome per lei.

"Mina Carolina." Gli sfuggì dalla bocca, quando strinse la mano della donna.

Era lei. I suoi capelli erano biondi, la sua pelle più chiara e il suo corpo più formoso, aveva anche più anni, probabilmente andava per i trenta, ma era Mina. Non poteva dire esattamente come potesse esserne certo, come l'aveva riconosciuta nonostante fosse così diversa, ma ne era sicuro. Mina Carolina del centoquattresimo squadrone d'addestramento.

Erano anni che non pensava a lei: era morta così tanto tempo fa - una dei tantissimi compagni persi in battaglia - ma era davanti a lui, ora...

... In una delle comode stanze del centro di consulenza.

Barcollò, con le ginocchia tremanti. Come poteva essere Mina, davanti a lui? Mina non era reale, ma lei - La nausea di prima tornò violenta e il suo cuore prese a battere così violentemente che era certo che sarebbe esploso; i polmoni sembravano non voler accettare aria perché Mina non era reale, lui era pazzo, ma Mina era lì e se lei era lì come poteva essere reale tutto quello che c'era nella stanza? Nulla di questo-

Una voce gli disse qualcosa, ma lui poteva a malapena sentirla tra i suoi ansimi e il cuore violento. Cercò di concentrarsi su di essa, lasciandosi portare verso- Eventualmente capì cosa quella voce stava ripetendo.

"Va tutto bene. E' giovedì mattina. Ti trovi al centro di consulenza dell'università. Non ci sono Titani in questo mondo. Sei al sicuro."

"Non ci sono i Titani in questo mondo." Ripeté. Le sue parole non erano in inglese ed erano completamente differenti a qualsiasi altro linguaggio che aveva studiato o sentito, eppure gli scivolarono dalle labbra come se avesse parlato quella lingua dalla nascita.

Da qualche parte nell'oscurità della sua mente qualcosa insistette: invece sì.

"Sì." Rispose la voce. Mina, realizzò, si era accucciata vicino a lui, stando però attenta a non occupare il suo spazio personale. "Concentrati sulla tua respirazione. Riesci a imitare la mia? Bene, bene, stai andando benissimo." Mormorò la donna, quando il ragazzo riuscì a calmare il proprio respiro, seguendo quello di Alexis.

"Tu sei-" Si bloccò, scrollando la testa, e tornò all'inglese. "Eri Mina."

"Lo ero," Gli rispose lei. "Lo sono."

"Non sono pazzo."

La bocca di Mina- no, la bocca di Alexis s'incurvò in un sorriso quasi impercettibile. "Preferirei non usassi la parola pazzo. Ma no, tutto questo è reale. Vuoi un po' d'acqua?"

Mormorò una negazione. Si sentiva ancora nauseato e la sua testa gli faceva ancora male, ma tutto questo si spostò in secondo piano quando cercò di capire come tutto questo potesse essere reale. "Come..." Sussurrò, fermandosi quando si rese conto che non sapeva neanche come iniziare.

Alexis lo portò gentilmente verso una sedia, dove il giovane si accasciò. Anche la donna si sedette e sospirò. "Quando avevo quindici anni, ricordai di morire." Iniziò. "Fu come trovarsi in un supermercato e ricordarsi di colpo di aver bisogno del burro, eccetto che fu molto più disturbante."

Gli sorrise triste, ma lui non era nella condizione di ricambiare. Imperterrita continuò. "Non sapevo cosa stava succedendo. Ne parlai con mio padre, ma mi disse che stavo immaginando tutto. Però sapevo che non era normale. Non ero io che mi immaginavo le cose, ma sembravano vere. La mia vita a Rose, gli anni d'addestramento, Trost. Non mi sembravano immaginazioni: mi sembravano memorie dimenticate. Poi incontrai Elisa."

La donna fece un gesto con la mano. "Non la conoscevi. Era la bambina più piccola dei miei vicini a Rose, morta a due anni per colpa di qualche malattia. Era più grande, quando l'ho incontrata, ma la riconobbi immediatamente."

"Lei..." Si fermò, cercando di formulare meglio la frase. "Aveva i suoi ricordi?"

Alexis ridacchiò cupamente. "E' morta quando aveva due anni. Per caso tu ricordi qualcosa di quando avevi quell'età?"

"E allora come puoi essere stata così sicura di non essere semplicemente pazza?"

La donna non commentò nuovamente sull'uso della parola 'pazza', prendendo invece una penna dalla scrivania davanti a lei e giocherellandoci. "Tutto è andato al suo posto, da quel momento. Ero morta a quindici anni. Io ho riavuto i miei ricordi a quindici anni. Lei è morta a due anni. Magari quando aveva due anni ha ricordato, ma essendo così piccola poi ha dimenticato." Alexis alzò gli occhi dalla penna, portandoli trionfante contro quelli del ragazzo. "Ed ora eccoti qui. Quanti anni avevi, quando hai iniziato a ricordare?"

Il ragazzo si mosse a disagio sulla sua sedia, sentendo la testa iniziare a girare. "Solo... Da poco. Ho ventidue anni."

"Quanti anni avevi, quando sei morto?"

E' inginocchiato sul pavimento in pietra, il freddo in qualche modo ha penetrato i suoi stivali e gli sta gelando le gambe. Tuttavia forse il freddo proviene da dentro di lui e non dal pavimento. Sa che dovrebbe essere grato di poter aver preso questa decisione, che la maggior parte della gente non può decidere nulla della propria morte, ma è davvero difficile provare gratitudine. Si sente... Rassegnato. Mentre chiude gli occhi una mano calda gli stringe la spalla, il cui pollice preme con forza sulla sua nuca. Fa un sorriso tirato: di questo, sì, ne è grato.

"... Ventidue." Ammise e una violenta emicrania prese a premergli nelle tempie. Fissò le proprie scarpe, cercando di allontanare l'immagine di stivali marroni che gli arrivavano alle ginocchia. "Quindi, questo è... Cosa, una vita passata?" Non riuscì a trattenere l'incrudelità nella sua voce.

Alexis scrollò le spalle, giocherellando con la penna tra le sue dita. "La reincarnazione ha senso, no? Dati i fatti, almeno. Non ne ero certa al cento per cento, prima, ma ora che sei qui, lo sono. Hai una spiegazione migliore?"

Lui si passò le mani sul viso, facendo una smorfia nel sentire la pelle umida. "Come puoi... Come puoi essere così?"

"Così come?"

"Così..." Non riusciva a metterlo a parole. Più che altro, non riusciva a capire come potesse apparire così normale mentre sedeva lì, un sorriso assente sul viso come se non venisse costantemente tormentata da chi era stata, come se la sua vita passata non fosse sì interessante, ma solo quanto lo poteva essere una strana voglia sulla pelle.  "Come se tutto andasse bene. Io sono stato... E' stato orribile."

Alexis appoggiò la penna sulla scrivania, prendendo un mano un block notes. Il ragazzo notò come la sala d'attesa si fosse riempita di gente. "Mi hai detto che hai ricordato recentemente. E' uno dei motivi per cui ti trovi qua?"

"E' l'unico motivo," Sottolineò. "Prima di questo, stavo bene. Ma da allora..." Oscar si torturò le mani con frustrazione. "Non riesco a dormire una notte intera. Sono troppo nervoso per mettermi a letto e, quando finalmente riesco, finisco con l'avere gli incubi. Sono... Sono spaventato tutto il tempo, senza alcuna ragione. Alcune volte è come se non sapessi chi sono, anche se dovrei." Si morse il labbro, inspiegabilmente imbarazzato nel dover spiegare la parte peggiore. "Ho... Ho avuto dei flashback. Di roba di... Prima. Però in quel momento è stato come se stessi vivendo quei momenti, mi era sembrato di trovarmi nel presente." Le porse le mani, che ancora presentavano le ferite che si era causato giorni fa, quando se le era graffiate a sangue. "E... Sto malissimo nelle ore successive."

Alexis lo ascoltò, annuendo e sfogliando le pagine del blocco note nel frattempo. "Non sono qualificata per fare diagnosi, ma quelli che mi stai descrivendo sembrano i sintomi del disturbo post traumatico da stress."

"Disturbo... Come quello dei soldati?" Le chiese, scettico.

"Non ne soffrono solo i soldati. Ma tu lo sei stato." Gli ricordò lei.

"Però io non lo sono," La corresse, con un tono di voce involontariamente tagliente. "Perché io... Quella roba non è successa a me!"

Il viso della donna si corrucciò momentaneamente, come se si fosse trattenuta dal dire qualcosa. La sua espressione si rilassò subito dopo e cambiò posizione del corpo, in modo da apparire più tranquilla. "Non è la stessa cosa per tutti, ma spesso i soldati e altre persone che subiscono eventi traumatici sono capaci di funzionare perfettamente in quel momento. E' solo dopo che il trauma è passato, che i sintomi iniziano ad apparire. Nel caso dei soldati, alcune volte la PTSD non si manifesta finché non si ritrovano a vivere una vita normale."

Si fermò momentaneamente, controllando che il ragazzo di fronte a lei la stesse seguendo. "Siccome stiamo parlando di te, non dubito che tu sia entrato a far parte dell'Armata Ricognitiva e che lì sei anche morto. Questo potrebbe essere la prima chance che il tuo cervello ha avuto per processare il tutto."

Voleva ribattere quando lei continuò a dirgli che lui era entrato a far parte dell'Armata Ricognitiva, ma poi realizzò quanto tempo fa Mina era morta. Dio, lei non aveva idea del fatto che lui fosse un Titano, non sapeva di Annie e Bertholdt e Reiner, non sapeva di Historia e Ymir, di come l'intera guerra - l'intero mondo - era cambiata dopo Trost.

Nell'averlo notato scioccato, Alexis esitò e gli chiese. "C'è un qualche evento particolare che ti ha disturbato più di tutti? Non devi dirmi nulla, se non vuoi."

Il ragazzo sbatté le ciglia, poi scoppiò a ridere perché quella era una domanda assurda. Un singolo evento? L'intera vita di Eren Jaeger, da quanto ricordava, era stata un trauma dopo l'altro. Le sue prime memorie erano quelle dei suoi vicini di casa che morivano di morti orribili a causa di una peste che stava sterminando l'intero distretto. C'erano dei bei ricordi, sì, specialmente durante la sua infanzia, ma tutto il resto era troppo. Pugnalare degli esseri umani neanche degni di quel nome, quelli che avevano ammazzato i genitori di Mikasa, così tante volte fino ad ammazzarli. Il distretto di Shiganshina che cadeva a pezzi sotto l'incredibile forza di un Titano immenso. Soffrire la fame a Rose e lasciare che degli scarti umani lo toccassero dove non avrebbero dovuto, solo perché era l'unico modo di trovare rifugio e guadagnare abbastanza soldi per mangiare, per sopravvivere.

E dopo, quando aveva preso parte agli addestramenti militari, le cose erano andate sia meglio che peggio.

Gli venne la nausea e inghiottì a vuoto, scrollando la testa. Eren era entrato a far parte dei militari, non lui. Doveva cercare di tenere le cose ben separate o avrebbe finito con l'impazzire. "Potrei avere un po' d'acqua?"

Alexis gli diede un bicchiere d'acqua e il ragazzo lo inghiottì in un sorso, accartocciando il bicchiere di carta quando finì di bere. "Quindi... PTSD? Cosa posso fare? C'è qualche farmaco che posso prendere?"

Alexis alzò una mano. "Fermati. Come ti ho detto, non sono qualificata a diagnosticarti qualcosa. Non sono neanche una vera consulente."

"Ma lavori qui."

"Sto facendo la stagista, qui. Non ho ancora preso la specializzazione." La ragazza afferrò il suo blocco note. "Sono solo qui per ascoltare e sedere alle sessioni a gruppi."

"Sì, ma-"

"E io ti ho solo ascoltato. Non possiamo proprio parlare di diagnosi e medicinali da prendere. L'unica ragione per la quale ti ho detto qualcosa è perché ricordo come ho cercato disperatamente delle risposte, quando ho iniziato a ricordare." Sbuffò un poco, alla fine del suo discorso, poi si scusò e gli rivolse un sorrisetto. In quel momento ricordò al ragazzo così tanto Mina che non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.

Mina era stata una ragazza convinta in quello che credeva, veloce ad indignarsi quando qualcuno la sfidava e ugualmente veloce a calmarsi e ridere. Era una delle ragazze che ad Eren piaceva di più, tra quelle dell'addestramento, subito dopo Annie, ed era stato felice quando Mina era stata assegnata alla sua squadra perché sapeva che avrebbe preso le cose seriamente, quando necessario.

"Scusa," Le disse. "E' solo che... Cosa dovrei fare? Andare da qualche altro consulente e digli che ho dei flashback di una vita precedente?"

"Non hai bisogno di discutere dei dettagli. Nessuno ti obbligherà a parlare di qualcosa, se dirai che è off limits. Devi solo descrivergli i sintomi e-"

"Ma io voglio te. E' perfetto. Sei qui, anche tu ricordi questa roba, e sei una consulente."

Alexis si morse il labbro inferiore. "Non sono molto a mio agio con questa cosa. Non so se posso darti l'aiuto di cui hai bisogno. Senza parlare del fatto che dovrei calpestare migliaia di regole."

"Per favore?" Le chiese. "Non ho bisogno di molto aiuto. Sto migliorando. Sono venuto qui solo perché lo ha voluto una mia amica." Meglio era un termine molto relativo, ma il resto era abbastanza vero.

Gli ci volle ancora un po', ma alla fine riuscì a farla cedere e si misero d'accordo per i futuri appuntamenti e posti dove trovarsi, dato che il centro di consulenza non sarebbe stato un'opzione per appuntamenti clandestini. Oscar se ne andò con il numero di Alexis salvato nel cellulare, il compito di andare a leggere qualcosa sul disturbo post traumatico da stress e un calore nel petto.

Magari sarebbe davvero migliorato.

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Grazie all'aiuto costante di Chloe, i consigli di Alexis e i suoi esercizi per ricordarsi dove si trovava e chi era, assieme alla clemenza dei professori, Oscar riuscì a finire l'anno e prendere la laurea. I suoi voti facevano schifo, in confronto ai semestri precedenti, ma era sopravvissuto e poco altro gli interessava, arrivato a quel punto. Nel giorno della laurea si svegliò ben riposato, dopo aver passato una notte senza sogni, e passò la cerimonia e la cena celebratoria senza alcun incidente.


Sua madre gli sorrise e pianse e gli fece almeno cinquecento foto. Anche il suo padre acquisito - o meglio ex padre acquisito, dato che lui e sua mamma si erano lasciati da anni - partecipò e gli diede una pacca sulla spalla, dicendogli: "Lisa avrebbe amato essere qui. Sono certa che ti sta guardando e che è molto orgogliosa del suo fratellone" E sentire nuovamente il nome di sua sorella non gli fece male tanto quanto prima, anche se non credeva nel paradiso. Anche Chloe si laureò nello stesso giorno e lo trovò in mezzo alla folla, dopo la cerimonia, per dargli un abbraccio stritolatore e fargli promettere che avrebbero continuato a sentirsi e che si sarebbe preso cura di sé stesso.

Cercò di prendersi cura di sé stesso. Davvero. Per qualche giorno navigò sulla soddisfazione di aver finito il college, ma alla fine i mal di testa e la sua incapacità di stare fermo e i flashback tornarono, alla fine la sua situazione peggiorò tanto quanto lo era stata prima - se non ancor di più. Decisamente di più.

Dato che in quel periodo viveva in casa, gli fu impossibile nascondere le sue condizioni a sua madre. La spaventò a morte la prima volta che lo svegliò durante un incubo e lui prese ad urlare una lingua che non conosceva, nascondendosi da lei perché non la riconosceva fino ad un'ora dopo, quando riuscì a tornare al presente. Louise voleva fare- qualcosa, fargli vedere un dottore almeno, ma riuscì ad evitare che lo facesse spiegandole che stava già vedendo un dottore (una piccola bugia, ma d'altra parte con Alexis ci parlava praticamente sempre) e che stava lavorando per migliorare. Non la convinse del tutto, ma anche lei sembrava ben decisa a non tornare in ospedale tanto quanto lui. Fece del suo meglio per nascondere i suoi attacchi e la sua paura a lei, successivamente.

I mesi successivi alla laurea passarono lentamente, dolorosamente e quasi non li ricordava. Aveva il bisogno di fare qualcosa - cosa, non lo sapeva neanche lui - ma non stava abbastanza bene per lasciare il letto ogni giorno e sorridere a sua madre. Quindi aspettò che l'estate finisse. Era stato accettato ad una scuola di specializzazione - non la sua prima scelta, ma comunque un ottimo programma - e in autunno si trasferì in un appartamento nella speranza che le lezioni e le ricerche lo tenessero occupato.

Brutta idea. Pessima idea.

Riuscì a superare le prime sei settimane del primo semestre. Non stava andando bene negli studi, i suoi coinquilini lo infastidivano e non aveva tempo per nulla, ma ce la stava facendo. Poi, una notte-

Si trova nella zona ad est di Maria e non riesce a trovare il resto della sua squadra da nessuna parte. Deve assolutamente trovare gli altri, ma prima deve capire dove si trova in modo da non imbattersi accidentalmente nel territorio dei Titani. Il panico gli sale fino al petto - Dove sono tutti? Sono al sicuro? Perché sono da solo? Ci sono dei Titani nelle vicinanze o è una zona pulita? - ma Eren è un soldato e ignora la sensazione. Non può perdere la testa nel mezzo del campo di battaglia.

Si trova a terra e non riconosce nessun punto di riferimento. Non vuole sprecare gas in quanto non sa quanto deve viaggiare, quindi si arrampica in un edificio vicino e controlla la zona. Le forme delle costruzioni sono strane, ma ne nota una in lontananza che gli sembra familiare.

Automaticamente sceglie uno degli edifici più vicini dove ancorarsi, poi indietreggia sul tetto per darsi dello slancio prima di saltare. L'intero processo nell'utilizzo del 3DMG gli è ormai automatico, dopo tutti quegli anni, che neanche deve più pensarci. Corre e salta dal tetto, lanciando i rampini e si dirige verso il prossimo-


I rampini non fecero presa nell'edificio. Cadde e il momento prima dell'impatto ricordò di trovarsi fuori dal suo appartamento, non a Maria, ed era solo perché qua era sempre solo e-

Era ancora fortunato. Qualcuno lo trovò incosciente e sanguinante e chiamò il 911. Sopravvisse alla caduta con qualche osso rotto e un sacco di lividi.

Sua madre si spaventò a morte. D'altra parte il suo poteva sembrare solo un tentativo di suicidio, anche se Oscar internamente pensò che se davvero avrebbe provato a suicidarsi, avrebbe scelto un edificio più alto. Cercò di spiegare a Louise che era stata un'allucinazione o qualcosa di simile, ma le sue rassicurazioni non lo aiutarono più di tanto, soprattutto quando la donna si voltò verso di lui e col viso pieno di lacrime gli chiese se davvero volesse morire.

Avrebbe dovuto dire che no, ovviamente non voleva morire, ma... Non lo sapeva se avrebbe potuto continuare a vivere così, a vivere una vita che non gli sembrava più sua. Quindi fu onesto con lei: "Sarebbe più semplice."

Quando finì di piangere, la donna insistette con voce tremante che avrebbe dovuto andare in un ospedale psichiatrico, quando sarebbe guarito abbastanza. Esausto, Oscar non ribatté.

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A ventitré anni Oscar era uscito già da un po' dall'ospedale psichiatrico. Lo aveva aiutato, un po'. Parlare con gli psichiatri e i terapeuti si era rivelato complicato, perché se avesse spiegato le cose che sperimentava nei flashback lo avrebbero preso per pazzo. Quindi non erano particolarmente utili, se voleva sfogarsi. Tuttavia imparò e si allenò in alcune tecniche che lo avrebbero aiutato a restare nel presente, quando sentiva un attacco arrivare.

Gli prescrissero altri farmaci e quelli lo aiutarono quel che bastava che continuò a prenderli a lungo anche quando uscì dall'ospedale. Le droghe attutivano tutto, quindi la maggior parte delle volte riusciva a passare la giornata senza particolari incidenti. Però gli sembrava di avere l'energia unicamente per fare quello: passare la giornata. Tutto il resto gli era impossibile e quello includeva la scuola di specializzazione.

Onestamente non stava facendo nulla. Cosa che da una parte sembrava meglio così, perché non riusciva a sopportare troppi avvenimenti, ma anche brutto perché era un adulto che viveva in casa con sua madre, senza alcun prospetto per un lavoro futuro e quella era una cosa che odiava. Sua madre continuò a rassicurarlo che non la infastidiva occuparsi di lui, che doveva prendersi il suo tempo e migliorare, ma questo non lo soddisfava comunque. Non gli sembrava di star migliorando. Ogni giorno lo passava nello stesso modo, si differenziava unicamente dai diversi traumi che gli si imprimevano nel cervello.

La cosa peggiore fu guardare un Titano sorridente divorare una donna che era e allo stesso tempo non era sua madre, sentendosi piccolo e debole.

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A ventiquattro anni, Oscar tornò in contatto con Chloe. Aveva evitato i suoi messaggi per un lungo tempo perché, beh, lei stava facendo carriera e viveva nel suo appartamento e si era fidanzata. Sapeva che non voleva sbattergli in faccia che stava decisamente meglio di lui - era completamente irrazionale per lui sentirsi a quel modo - ma parlare con lei sembrava quasi come se si stesse mettendo il sale nelle ferite da solo, quindi aveva smesso.

Però Chloe era una buona amica - davvero, l'unica amica che aveva mai avuto, nonostante una voce nel retro della sua testa continuasse ad insistere che avesse avuto altri buoni amici - quindi decise di darsi una calmata e chiamarla. Divenne sua abitudine chiamarla almeno una volta a settimana. Parlavano per lo più della sua giornata e dei suoi impegni, ma sorprendentemente ascoltare qualcuno parlare della sua vita normale lo aiutava.

Disse ad Alexis che aveva iniziato nuovamente a parlare con Chloe e lei gli disse che era orgogliosa di lui. Anche Oscar cercò di sentirsi orgoglioso di sé stesso.

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A venticinque anni, ad Oscar mancavano i suoi amici. No, non era giusto. Oscar non conosceva le persone che gli mancavano. Però sapeva che il fantasma di Eren Jaeger aleggiava da qualche parte nel buio della sua testa, influenzando i suoi pensieri. Quindi gli mancavano le persone che Eren aveva conosciuto: per lo più Mikasa ed Armin, ma anche il Capitano Levi e il resto della sua Squadra Speciale e anche la Maggiore Hanji e gli altri soldati dell'Armata Ricognitiva. Dio, sua madre.

Era inutile soffrire la loro mancanza, perché non li conosceva e non sapeva neanche se esistevano in quel mondo. Magari sì, ma quello non stava a significare che li avrebbe potuti trovare. Tuttavia nessuna ragione logica poteva fargli smettere di sentire la loro mancanza.

Cercarli gli sembrava pericoloso. Non sarebbe stato un passo nella direzione sbagliata? Se avesse seguito i pensieri di Eren Jaeger e avesse trovato la sua famiglia e i suoi amici in quel mondo, nel mondo di Oscar, quest'ultimo non si sarebbe perso nell'oscurità, perdendo quel poco di vita che era riuscito a riprendersi dagli artigli affilati dei traumi e della disperazione di Eren?

Scrisse ad Alexis e le chiese la sua opinione. Aveva trovato degli amici di Mina? Voleva trovarli?

La ragazza lo chiamò qualche ora dopo.

"Non c'è qualcuno che sento di voler trovare," Ammise lei. "Suppongo che sarebbe bello vedere nuovamente la mia famiglia, ma non ho il desiderio disperato di cercarla. D'altra parte come li troverei? Non è che ci sia una specie di Facebook per le vite precedenti, dove potrei andare a cercarli."

Parlarono ancora un po' - Alexis voleva sempre sapere come stesse lui e se avesse bisogno di qualche consiglio - ma quel singolo pensiero gli rimasse impresso tutto il tempo: un Facebook per le vite precedenti. Alexis aveva ragione, una cosa del genere non esisteva, ma il net era così vasto e ampio, oltretutto era il primo posto dove una persona andava a cercare, quando aveva qualche domanda. Sicuramente qualcuno aveva aperto una discussione in un forum chiedendo se qualcun altro ricordava i Titani, oppure l'aveva postata su Yahoo Answers o... O da qualche parte. Diamine, sicuramente qualcuno aveva creato qualcosa come un Facebook per le vite precedenti e semplicemente loro non ne erano a conoscenza.

Quindi iniziò a cercare. Inizialmente cercò di tradurre termini importanti come Titani e Wall Sina in lettere romane, in modo da poterle cercare facilmente, ma non riuscì a farlo. I suoni erano troppi diversi e non conosceva abbastanza le lingue per trovare un modo di tradurre quelle parole. Facendo delle ricerche come "vite passate con giganti e muri" non ebbe alcun risultato - trovò solo pagine e pagine di roba irrilevante - e iniziò ad arrendersi.

C'erano sette miliardi di persone nel mondo: le Mura Sina, Rose e Maria riuscivano a contenere una minuscola frazione della popolazione attuale. E quella minuscola frazione si rimpiccioliva ancor di più, quando considerò che non tutte le persone avrebbero potuto non ricordare nulla. Sapeva, parlando con Alexis, che lei non ricordava molto vividamente i fatti accaduti come li ricordava lui... Le persone che avevano una vita ordinaria priva di eventi importanti avrebbero realizzato che quello che ricordavano non era un semplice sogno? Il numero di persone che avrebbero potuto potenzialmente cercare in internet era minimo e l'enorme numero di persone che non avevano vissuto in quei tempi avrebbero affondato le possibili richieste di aiuto di chi stava cercando.

Però continuare le ricerche era la cosa più produttiva che aveva fatto negli ultimi mesi, quindi continuò a cercare ed infine la sua testardaggine lo ripagò. Capitò in un innocuo link presente in un forum che parlava di sogni lucidi e, quando lo cliccò, si aprì un sito con un banner che recitava E' TUTTO VERO. SIAMO QUI. scritto a mano in quegli strani caratteri che Eren conosceva.

Le sue mani tremarono così tanto che riuscì a malapena stringere il mouse. Si forzò a rimanere seduto immobile per qualche minuto, leggendo il banner ancora e ancora mentre respirava piano col naso. Una volta calmo, iniziò ad esplorare avidamente il sito, solo per scoprire che aveva bisogno di un account per avere l'accesso alle pagine oltre alla Homepage, un account che gli sarebbe stato dato dagli amministratori del sito.

Compilò la richiesta d'iscrizione, che includeva una foto di un messaggio scritto nel linguaggio del tempo che comprendeva il suo nome, il distretto dove era nato e altri dettagli. Non aveva mai tentato di scrivere in quella lingua, prima, ma scoprì di poterla scrivere facilmente tanto quanto pronunciarla. Completò il modulo e lo inviò per mail agli amministratori, poi passò undici ore ad aspettare una risposta, preoccupandosi di aver sbagliato qualcosa nella richiesta o che il sito non fosse più attivo.

Infine ricevette una risposta, ma l'oggetto e il messaggio della mail era vuota, c'era solo un file allegato. Mordendosi il labbro inferiore aprì l'immagine - era una foto di un block notes che conteneva una singola frase.

SEI DAVVERO EREN JAEGER?

Sì. No. Lo era stato, una volta, ma non era più lui. Suppose che era quello che gli era stato chiesto - se era stato davvero Eren nel passato - così gli scrisse una risposta. Sono stato io. Non so come posso provartelo, però, se hai bisogno di una prova. Posso risponderti a delle domande. Perché me lo stai chiedendo?

Inviò la mail prima che potesse rimuginarci troppo sopra. Solo dopo pochi minuti gli arrivò una risposta. Iniziava con: scusami, solitamente non faccio questo genere di domanda alle persone. E' che sei la prima... 'celebrità' penso sia la parola giusta. Sei la prima celebrità che ha fatto una richiesta d'iscrizione. Cioè, c'è stato un tempo in cui tutti conoscevano quel nome.

Era vero, realizzò. Anche al di fuori dal militare, Eren Jaeger era abbastanza famoso. L'identità di Eren e le sue abilità da Titano erano conosciuti dall'intero popolo. Era certo che la notizia dell'esecuzione di Eren aveva fatto il giro di tutte le mura.

"La prima celebrità..." Questo significava che non aveva alcuna possibilità di trovare il Capitano Levi o il Comandante Smith nel sito. I loro nomi erano conosciuti tanto quanto il suo. Probabilmente neanche Mikasa, pensò con un tuffo al cuore. Era stata famosa verso la fine d tutto, una leggenda vivente come Levi.

Però doveva cercare ugualmente. Quindi lesse le informazioni per gli utenti e i dettagli per la navigazione nel sito che seguì il messaggio dell'admin e finalmente si loggò. Era abbastanza semplice da usare, il sito. C'era un forum dove le persone postavano le loro domande e cose simili, ma non lo guardò quasi. Voleva l'elenco delle persone. Era organizzato in distretti e c'erano delle immagini dove erano presenti i nomi scritti a mano. Poteva cliccare ogni nome per mandare un messaggio privato, loro probabilmente avrebbero ricevuto una notifica nella loro posta. C'erano solo un centinaio di utenti nel sito e così lesse ogni singolo nome, nella speranza di riconoscerne qualcuno.

Nessuno.

Si appoggiò allo schienale della sedia, esausto e sull'orlo delle lacrime. Non c'era da sorprendersi. Dopo tutto, quel sito non era stato semplice da trovare. Magari non tutti si erano reincarnati. Realizzò con un certo orrore che la differenza della sua età e quella di Alexis erano gli anni che li dividevano dalle morti l'una dell'altro. E se Mikasa ed Armin fossero arrivati agli ottanta anni? Avrebbe dovuto aspettare decine d'anni prima che solo nascessero.

Questo lo fece sentire un miserabile essere umano, ma si trovò a pregare che fossero morti giovani, così questo senso di vuoto sarebbe sparito.

Sua madre bussò alla porta e sussultò. Se Louise sentì la sua reazione non disse nulla. "Oscar? La cena è pronta."

"Va bene." Le rispose, prendendosi un momento per respirare profondamente, prima di chiudere il computer. Quando raggiunse la sala da pranzo sua mamma alzò lo sguardo dal Gumbo che stava servendo nei piatti, guardandolo curiosamente.

"A cosa stai lavorando, negli ultimi giorni?"

"Um. Sto facendo delle ricerche."

"Un progetto personale?" Gli suggerì, passandogli il piatto.

"Sì, circa." Mormorò, giocherellando con un pezzetto di okra presente nella pietanza. Si chiese se sua madre avesse una specie di potere speciale che le permetteva di ridurre qualsiasi persona di qualsiasi età alla pari di un tredicenne.

"Hm." La donna gli sorrise calorosamente, mentre sedeva di fronte a lui. "Beh, qualsiasi cosa sia, dovresti continuare a lavorarci. Sembri stare meglio ultimamente."

"No, io-" Si fermò e pensò a quello che gli aveva appena detto. Aveva sognato un'unica volta da quando aveva iniziato la sua ricerca online. Nessun episodio pesante sui flashback, anche se si era ritrovato a dover concentrarsi sul chi era e dove si trovava un paio di volte. Niente di preoccupante. Infatti, ora che ci pensava, si sentiva fisicamente meglio in confronto agli anni scorsi. Non stava perfettamente, solo... Meglio. Nonostante fosse illogico, gli erano mancati gli amici di Eren Jaeger. Una volta che aveva iniziato a cercarli, era riuscito in qualche modo a calmarsi.

Avrebbe potuto provare a trovare una sorta di bilancio nel soddisfare alcuni bisogno di Eren e tenersi stretto la propria vita? Sarebbe stato utile provarci. A quel punto ormai non aveva molto da perdere.


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A ventisei anni, Oscar iniziò a cercarsi un lavoro. O meglio, un lavoro migliore. Era riuscito a trovarsi un lavoro part time ad un fast food per cinque mesi, senza farsi licenziare a causa dei giorni di assenza per 'malattia', quindi si sentiva pronto a cercare qualcosa che gli sarebbe realmente piaciuto. D'altra parte era laureto. Si era impegnato molto per la sua laurea, quindi avrebbe dovuto farne tesoro ed utilizzarla.

Si mise in contatto con i suoi professori preferiti, chiedendogli se erano a conoscenza di qualche opportunità e sperando che non fossero a conoscenza del suo aver mollato la specializzazione. Sorprendentemente una di loro gli rispose, dicendogli che sapeva che un era stato aperto un laboratorio medico da un suo collega. Gli disse che avrebbe parlato bene di lui e che pensava che fosse un lavoro adatto a lui. Onestamente, gli sembrava un'ottima cosa. Più di quello in cui aveva sperato, in qualsiasi caso. Da giovane non avrebbe di certo pensato che lavorare in un laboratorio a testare dei campioni sarebbe stato un lavoro da sogno, ma ora un posto tranquillo e senza rumori che lo avrebbero spaventato sarebbe stato il posto perfetto dove lavorare.

L'unico problema era che il posto di lavoro era fuori dallo Stato in cui viveva.

"Non mi fa impazzire l'idea che tu ti trasferisca così lontano," Ammise sua madre, quando le parlò del lavoro. "L'ultima volta che ti sei allontanato da casa..."

"Mi sento decisamente meglio," Ribatté Oscar. "Non sono migliorato? Lo hai detto tu stesso." Stava meglio. Occasionalmente si perdeva ancora nei suoi ricordi e le emozioni non erano sempre le suo, anche il suo stato mentale non era dei migliori, ma fisicamente stava decisamente meglio. Inoltre sapeva come prendersi cura di sé stesso, come bilanciarsi nel soddisfare i bisogni di Eren e restare sé stesso, Oscar. Certo, ogni tanto s'incasinava e affrontava le conseguenze e i flashback erano ancora un problema, ma stava meglio.

"Sì, stai meglio. Ma, Oscar, il tuo psichiatra è qui-"

"Troverò un altro psichiatra." Non c'era motivo di spiegarle che non parlava molto col suo psichiatra. Si rivolgeva ad Alexis quando aveva bisogno d'aiuto, ma ormai era abbastanza abituato a controllare i suoi episodi. Andava dallo psichiatra solo per i medicinali. "E prometto di chiamarti non appena... Mi sfuggono le cose di mano."

La donna sospirò pesantemente, portandosi una mano alla tempia. Il gesto catturò l'attenzione del ragazzo alle ciocche ingrigite che contrastavano con il resto dei capelli neri, cosa di cui si sentiva in colpa. "Immagino che non possa farti altro che bene un lavoro del genere. E so che è importante per te essere indipendente."

Non era esattamente d'accordo - non che avesse bisogno del suo permesso, alla sua età - ma era meglio di quanto si aspettasse. Per la verità, sua madre aveva preso questo suo... Malessere, decisamente meglio di quanto aveva anticipato. Era più forte di quanto ricordava. O magari era stata la morte di Lisa a renderla più forte.

Quindi Oscar preparò il suo curriculum, mandandolo per email a Chloe per qualche consiglio sul come rendere meno visibile il fatto che avesse vissuto da recluso in quegli anni e mettere in risalto le ore di laboratorio che aveva fatto da universitario. Quando sentì che non avrebbe potuto migliorarlo, lo mandò prima che potesse tirarsi indietro.

Una settimana più tardi venne sottoposto ad un colloquio.

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A ventisette anni, la routine era l'unica cosa che manteneva la vita di Oscar normale. Si svegliava alle 6:15 ogni mattina. Si faceva una corsa e alle 7:30 faceva la doccia. Usciva dalla porta di casa per le 8:00 per raggiungere il laboratorio, dove iniziava a lavorare alle 9:00 e finiva alle 17:00. Tornava a casa e scaldava a cena per le 18:30. Navigava su internet dalle 20:00 alle 22:00 cercando qualsiasi segno di persone che gli erano state care - no, erano state care ad Eren Jaeger, non a lui. Eren. Si staccava dal computer nello stesso istante in cui l'orologio segnava le 22:00, quella era la regola, quello era tutto il tempo che si permetteva. Si calmava, prendeva i suoi medicinali e s'infilava a letto per le 23:00. Tutti i giorni si ripetevano a quel modo.

I sabati erano devoti alla pulizia e allo shopping, oltre al cucinare per il resto della settimana. Le domeniche erano destinati alle chiamate a sua madre e ad incontrarsi con i suoi amici o anche agli occasionali e disastrosi appuntamenti. Dato che comunque non poteva passare l'intera giornata al telefono con sua madre e non aveva tanti amici o appuntamenti, solitamente si trovava a navigare in internet alla ricerca di sua madre, dei suoi amici, della sua squadra, dannazione, anche Jean sarebbe bastato- no, non suoi, di Eren. Di Eren. Lui non era Eren Jaeger, non poteva esserlo, non lo sarebbe mai stato.

Lo era, in una vita passata.

Arrivato a quel punto si sarebbe dato una calmata. Avrebbe dormito. Sarebbe arrivato il lunedì. Routine.

Quello era l'ideale. Ma le routine fallivano facilmente. Un ordinario problema come il traffico lo avrebbe trovato a sistemare attentamente i suoi orari. Ok, non era un problema. Quelle cose succedevano a tutti. Altre volte...

Altre volte si sarebbe svegliato perso e confuso e sarebbe vagato nell'appartamento alla ricerca di Mikasa e Armin, finché Oscar non si svegliava davvero. Altre volte avrebbe rivissuto dei veri e propri flashback, causati da un fulmine troppo vicino, un viso in mezzo alla folla troppo familiare, il fottuto vapore acqueo che usciva dalla sua lavastoviglie quando l'apriva prima che avesse finito il ciclo- e avrebbe perso tempo a calmarsi, cercando di uscirne, cercando di ricordare come essere Özgür “Oscar” Gözübüyük. Altre volte si svegliava così depresso che non riusciva neanche a sopportare il peso della giornata. Quello non era una cosa che lo disturbava più di tanto. Almeno quando era depresso sapeva esattamente chi era. Eren Jaeger non era mai stato depresso.

Oscar stava bene, davvero. Meglio a ventisette anni, che quando ne aveva venticinque o ventitré, perlomeno. Quei giorni, i brutti giorni, erano divenuti più rari e più facili da sopportare. Ce la poteva fare.

"Potercela fare" era il perché si era recato al Denny's alle due di mattina in un mercoledì di fine maggio. Aveva chiamato a lavoro ed aveva avvisato che stava male e che non sarebbe potuto andare - la prima volta in tre mesi, era stupido esserne orgoglioso, ma lo era - perché si era svegliato depresso. Aveva passato l'intero giorno steso a letto a guardare Netflix o a vagare per l'appartamento e realizzare all'una di mattina che non aveva ancora mangiato. Non aveva avuto la forza di scaldarsi uno dei suoi pasti preparati in precedenza, ma in qualche modo recarsi al Denny's gli era sembrata un'ottima alternativa. Si obbligò a vestirsi almeno decentemente e uscì. Se non altro, gli avrebbe fatto bene lasciare l'appartamento e interagire con degli esseri umani.

"Arrivo subito. Siediti dove vuoi, caro." Gli disse una cameriera, quando si fermò davanti ad un cartellone che recitava 'per favore, aspetti che le venga assegnato un tavolo'. Il posto non era esattamente vuoto. A qualche tavolo sedevano coppiette con davanti tazze di caffè, oppure c'erano studenti universitari intenti ad ingurgitare pancakes, presi da fame da stress. Si diresse nel solito posto, quello nell'angolo più lontano dove nessuno lo avrebbe notato se fosse improvvisamente crollato mentre mangiava un'omelette, ma era già occupato. Ok. Il tavolino vicino alla cucina sarebbe andato-

Aspetta.

Si voltò verso il suo solito posto e fissò Levi.

Non poteva essere lui. La sua pelle era ambrata al posto di pallida e anche da seduto sembrava più alto e, nonostante probabilmente frequentasse la palestra, era molto sottile. I suoi capelli erano ancora neri, ma erano più corti, più folti. Non poteva essere lui.

Mina è fisicamente diversa. Alexis, insistette Oscar. Si avvicinò senza realmente registrare i suoi movimenti. Ma è pur sempre Mina. Anche io non sono esattamente uguale.

"Che cazzo vuoi?" Gli chiese Levi (non Levi, si sgridò il ragazzo).

Era davanti a lui, si rese conto. Velocemente, notò la mancanza di cibo o piatti sporchi sul tavolo. Solo una tazza di tè, una teiera di acqua calda e due bustine di tè bagnate ed appoggiate su un piattino. Uno zaino e una borsa da palestra erano di fianco a lui. Un vagabondo? No, era ancora troppo ordinato per esserlo. Magari era scappato. Magari no. In qualsiasi caso non sembrava avesse mangiato. "Se mi lasci sedere qui, ti compro qualsiasi cosa vuoi da mangiare." Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse anche solo pensarci.

Gli occhi di Levi-non-Levi si ridussero a due fessure. "Perché?"

Sorrise per la prima volta in cinque anni. "Perché mi farebbe piacere la tua compagnia." Rispose Eren.

   
 
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