Eccola
qua, finalmente, la seconda fanfiction che già avevo detto che
avrei tradotto. Ci ho messo tantissimo, ma alla fine ce l'ho fatta,
solo non aspettatevi aggiornamenti regolari perché ha dei bei
capitolozzi. Non so se questa sia una fic adatta a tutti, di certo a
chi dà fastidio vedere un pg transessuale deve girare al largo.
Qui non dico chi è, ma lo scoprirete presto. Eren, inoltre, qua
non si chiamerà Eren, così come praticamente il resto dei
personaggi non avranno il loro nome: lui si chiamerà Oscar. E'
una reincarnation fic, la migliore che io abbia mai letto, un po'
pesante ma stupenda. Spero piaccia anche a voi! Buona lettura.
Credits: i
personaggi appartengono a Hajime Isayama, mentre la fanfiction
appartiene a Zhedang.
Mia è solo la traduzione
:3
In
una vita passata, Eren Jaeger morì a ventidue anni, tre mesi e
dodici giorni d'età.
In un'altra vita, Özgür Gözübüyük,
di ventidue anni, tre mesi e dodici giorni d'età, scoppiò a
piangere nel mezzo di una lezione di biologia molecolare. Le persone
più vicine a lui si voltarono a guardarlo, quando non riuscì più a
trattenere i singhiozzi. Dopo aver tentato di calmarsi senza alcun
risultato, il ragazzo sbatté il proprio block notes nello zaino, che
si mise in spalla, e uscì dall'aula. Quando arrivò al dormitorio
aveva gli occhi opachi e arrossati, il suo respiro veloce e spezzato. La
sua compagna di stanza, Chloe, lo salutò con un "Hey"
distratto, ma quando non le rispose alzò lo sguardo dallo
schermo del pc e gli chiese: "Oscar, stai bene? Cos'è
successo?!"
Non lo sapeva. La testa gli doleva, come se
stesse venendo penetrata da mille aghi e tutto gli appariva
sbagliato: l'enorme campus che aveva appena attraversato, il mobilio e gli
effetti personali presenti nel dormitorio, i capelli tinti di blu e
verde di Chloe, anche la pelle scura delle sue mani. "Dove mi
trovo?" Disse, o cercò di dire, perché il viso di Chloe si
confuse, prima di mostrare panico.
"Oscar," Gli
disse lentamente, alzandosi e avvicinandoglisi lentamente. "Non
riesco a capirti. Stai bene? Perché piangi?"
E'
appena iniziato l'autunno, ma una brezza gelida gli trafigge il viso
con la candida promessa dell'inverno. Una giovane ragazza si volta
verso di lui, i suoi capelli sono lunghi e neri e le ciocche della
frangia le vengono scompigliate dal vento, quando lo guarda preoccupato.
"Eren?" Gli chiede. "Perché piangi?"
Il
ragazzo sbatté le palpebre, poi si asciugò il viso umido di
lacrime. "Io... Non è successo nulla." Mise lo zaino sul
divano, ignorando il tremito delle sue mani. "Ho solo... Ho solo
bisogno di riposare. Devi prendere qualcosa dalla camera da
letto?"
La ragazza serrò le labbra, ma seppur contrita
scosse la testa, così Oscar sparì nella stanza. Si
appoggiò con la
schiena contro la porta chiusa per un momento, cercando un'altra
volta di controllare il proprio respiro, prima di arrendersi. Si
tolse le scarpe e i pantaloni e fece qualche passo tremolante verso
il letto. La sua testa sembrava volergli esplodere. Chloe aveva
ancora del Nyquil nel cassetto della scrivania dall'ultima volta che le
era venuta la febbre. Il giovane ne ingoiò qualche pastiglia,
prima
di stendersi a letto e portarsi le coperte fin sopra la
testa.
Dormì. Sognò.
Non era poi certo che quelli
fossero semplici sogni.
#
Özgür Gözübüyük aveva
ventidue anni, tre mesi e diciassette giorni d'età e la sua vita non
apparteneva più solo a lui.
Lui era... Lui era Özgür
Gözübüyük. Si chiamava così. Gran parte della gente lo chiamava
Oscar. Era all'ultimo anno di college, dove frequentava biologia e
chimica ed era pronto ad affrontare gli anni di specializzazione.
Lui...
I primi giorni furono terribili. Ogni suo singolo
pensiero era oscurato. Si svegliava ogni mattina, disorientato e con
la testa che sembrava volergli esplodere, esausto come se avesse
passato la notte a correre, piuttosto che dormire. Provava a
mangiare, ma il cibo aveva un sapore strano, stucchevole, e comunque
non aveva un gran appetito. Aveva i nervi fragili, saltava in aria
per niente, rumori improvvisi lo spaventavano. Stare al chiuso lo
faceva sentire in trappola, ma stare all'aperto lo faceva sentire
troppo esposto.
Chloe lo pregò di andare all'ospedale, ma non
riusciva neanche a pensare di metterci piede, non dopo mesi spesi lì
dentro ad assistere alla morte lenta morte di sua sorella. Nascose il
proprio cellulare, in modo che la compagna di stanza non potesse
chiamare sua madre e farla preoccupare. Era orribile, ma neanche
sapeva cosa fosse ad essere orribile, e la sua testa era troppo
occupata a perdersi in pensieri frammentati, misti ad un'oscurità
alla quale non sapeva far fronte. Saltò tre giorni di scuola e quasi
non se ne accorse. Il buio copriva tutto.
Il buio copriva
tutto, eccetto alcune volte, quando aveva questi... Flash... Di
qualche luogo, qualche era, qualcuno. Come una candela,
s'illuminavano debolmente, per poco, prima di svanire
velocemente.
Col passare del tempo questi flash si
allungarono. Poi presero a brillare con una luce, nella sua mente,
che era anche peggio dell'oscurità.
Stava cercando di finire
la ciotola di fiocchi d'avena, l'unica cosa che era riuscito a
buttare giù recentemente. Chloe gliel'aveva preparata prima di
andare alle sue lezioni mattutine. Non aveva esattamente voglia di
mangiarli, ma la ragazza già si preoccupava troppo, minacciandolo di
portarlo... Non sapeva neanche dove, ma un ospedale psichiatrico
sembrava idoneo. Il pensiero lo agitava abbastanza da fargli
stringere il cucchiaio e portarselo lentamente alla bocca. Pensava di
aver mangiato abbastanza per calmare Chloe, ma ormai non si fidava
abbastanza di sé stesso per esserne sicuro. I suoi occhi
abbandonarono il muro che stava fissando fino a quel momento, per
cadere sulla ciotola mezza vuota e il cucchiaio in metallo e-
Una
mano è impigliata in rossa e ustionante carne e lui tira e tira, ma
non riesce a liberarsi. Perché è successo, perché ora e non prima
in quel pozzo umido? Della gente sta urlando, "Perché
adesso?" e "Rispondi, Eren!"
e sono arrabbiati, spaventati e lo uccideranno se-
Chloe
tornò dalle lezioni un'ora dopo e lo trovò acciambellato sul
pavimento, perso e tremante e con una mano sanguinante, l'altra che
continuava ad affondarci le unghie senza pietà.
I flash
continuavano così, esplodendo nella sua testa come fuochi
d'artificio, brillando prepotenti finché non si riducevano a
minuscoli brillii. Lentamente, questi brillii si radunavano assieme,
schiarendo in qualche modo l'oscurità, rendendola meno
accecante.
Flash. Pensava a loro riferendosi a flash, anche se
sospettava che flashback fosse una parola più corretta. Ma non
potevano essere flashback. Non potevano. Queste cose non gli erano
mai successe e non poteva averle represse in qualche modo, perché--
Titano. Era una parola che neanche esisteva, così strana che
nessuna lingua al mondo potrebbe averla accettata come sua, eppure ne
conosceva il significato.
Gigante. Mostro. Morte.
Questi...
Flash... Flashback... Non erano suoi. Non appartenevano a
Özgür Gözübüyük, eppure erano suoi perché lui era-
C'era
qualcuno là, circondato dall'oscurità- no. C'era qualcuno
responsabile dell'oscurità, che imprigionava Oscar dentro di essa e
cercava di fargli perdere la ragione.
Lui è Eren Jaeger, a
volte chiamato L'ultima speranza dell'umanità,
un soldato, un membro della squadra speciale dell'Armata
Ricognitiva, è anche un Titano.
Probabilmente
stava impazzendo.
Giusto quando pensava che non avrebbe potuto sopportare di peggio, iniziarono a... Non migliorare, ma a divenire
più tollerabili. Il costante dolore alla testa alle volte diminuiva
fino a divenire un leggero pulsare. Dormiva più profondamente e
riuscì a passare dai fiocchi d'avena alla zuppa. Si sentiva ancora
da schifo, ben lontano dall'essere normale (neanche nella stessa
galassia di normale), ma era migliorato abbastanza da poter mostrare
il volto in classe e passare per gli uffici degli insegnanti per
scusarsi e chiedere di allungare la data di consegna delle
esercitazioni.
Ogni uscita dalla camera da letto lo stremava
fisicamente ed emotivamente. Non poteva scrollarsi di dosso la
costante e pungente preoccupazione che ogni edificio del campus
potesse nascondere dozzine di Titani dietro di loro. Quando
sedeva in classe o nel suo salotto, non poteva smettere di annotarsi
le uscite e le possibili vie di fuga, sobbalzando ad ogni rumore
inaspettato.
L'oscurità ancora lo assaliva. Poteva
distinguere delle figure nel buio della sua mente, ma nulla di
più.
I flashback diminuirono di frequenza, ma non si
fermarono. Ognuno di loro lo lasciava turbato per ore, nella lotta di
riprendere possesso del suo corpo, della sua mente, di sé stesso.
Non tutti erano brutti - alcuni gli mostravano scorci di giornate
tranquille, raramente anche gioiose - ma ognuno di loro lo
spaventava, perché non sapeva quando e dove lo avrebbero assalito. E
i flashback di cui aveva paura...
Non aveva più nulla nello
stomaco, ma continuò a stringersi al gabinetto, premendo il viso
accaldato contro la fredda porcellana. Chloe gli stava strofinando la
schiena, cercando di calmargli gli ultimi tremiti. Il bagno del
dormitorio era piccolo, non c'era posto per due persone, ma era
felice che la ragazza fosse rimasta, perché lo aiutava a ricordarsi
dove si trovava.
Non stava annegando in uno stomaco pieno di
sangue e pezzi di persone, ascoltando le preghiere di aiuto dei
soldati morenti. Era nel suo dormitorio, era giovedì e-
"Non
hai un esame da dare?" Gracchiò. Chloe ne aveva studiato gli
argomenti nei giorni precedenti, quando non era impegnata a prendersi
cura di lui.
La giovane gli diede una pacca leggera sulla
schiena. "Prenderò il massimo dei voti, posso permettermi un
piccolo ritardo."
"Mi dispiace." Mormorò
Oscar, asciugandosi la saliva che gli inumidiva il mento col dorso
della mano. Aveva entrambe le braccia, entrambe le gambe, si trovava
nel suo dormitorio, non all'interno di un Titano. Se lo stava
ripetendo da un'ora e il suo cervello iniziava solo ora a credergli.
"Di darti così tanti problemi."
"Sono solo
preoccupata per te," Gli rispose la ragazza. "Inoltre ero
ancora di debito con te dopo l'episodio col maniaco."
"Cosa?"
"Il
mese scorso, all'Eclipse? Qualche coglione mi aveva infilato la mano
sotto la gonna, chiedendomi se avessi il cazzo, e tu gli hai dato un
pugno in faccia? Sono sicura che tu gli abbia rotto il naso."
Non
gli veniva nulla alla mente. Scosse la testa, ma la ragazza non ci
diede molto peso. "Lascia perdere, eri ubriaco, quindi... Beh,
grazie. Anche se forse dare un pugno al ragazzo è stato un po'
esagerato. Ah, per future occasioni: non puoi più entrare
all'Eclipse."
"Tanto l'Eclipse è un locale di
merda." Grugnì da dentro la tazza del cesso. Poteva ricordare
di aver dato un pugno a qualcuno, per aver molestato un suo amico, ma
l'amico era un ragazzo biondo, non Chloe. Armin, insistette
una voce nella sua testa, un sussurro dall'oscurità. Il suo nome
è Armin ed è il tuo migliore amico. Oscar ignorò quel pensiero
e si spinse in piedi aiutandosi con la tazza del water. "Sto
bene, adesso," Disse alla ragazza. "Vai a fare
l'esame."
"Se ti senti meglio perché non mi
accompagni fino alla classe?" Gli chiese Chloe, prendendo la
borsa dal pavimento del bagno.
"Perché?"
"E'
nello stesso edificio degli uffici medici." Gli rispose la
giovane donna, andando subito al punto.
Il giovane sospirò e
si massaggiò la nuca con una mano. "Non penso che questo sia il
tipo di cose che uno psicologo dell'università sia pronto ad
affrontare. Inoltre sto migliorando."
"Ma stai
ancora male. Poi sì, non ho idea di cosa ti stia succedendo, ma
farti vedere da qualcuno non può farti male, giusto? Non è che stai
entrando in un ospedale psichiatrico." Chloe non lo disse, ma
Oscar poteva sentire il suo pensiero "Però un ospedale
psichiatrico non sarebbe male."
Non rispose. Voleva
difendersi e dirle che non era pazzo, però non ne era più sicuro.
Una sua possibile pazzia avrebbe avuto più senso di tutto il
resto.
Tuttavia Chloe buttò il suo asso nella manica. "Se
non fai qualcosa - che sia vedere uno psichiatra o un dottore o quel
che vuoi, almeno una volta - dirò a tua madre cosa ti sta
succedendo."
"Non hai il suo numero," Le
rispose, confidente. Aveva controllato il suo cellulare un paio di
ore prima, che si trovava nascosto nel fondo del cassetto dei
calzini.
Chloe portò gli occhi al cielo. "Siamo amiche
su Facebook. L'unica ragione per la quale non le ho ancora scritto è
a causa della tua testardaggine. Però, se non cerchi aiuto-"
"Da
quando siete amiche su Facebook?"
"Non lo so, un
anno? Ti eri stancato di ricevere inviti per Farmville da me e lei,
così ci hai presentate in modo che ti lasciassimo stare." La
ragazzo notò l'espressione apatica del compagno di stanza e corrugò
le sopracciglia. "Non te lo ricordi?"
Il giovane
scosse la testa e l'espressione di Chloe s'incupì, prendendo quei
toni preoccupati ai quali Oscar si era ormai abituato. Prima che la
giovane donna potesse dire qualcosa, l'altro la interruppe. "Non
dirglielo. Dopo mia sorella- Non voglio che si debba preoccupare
anche per me. Non hai idea di come sia stata, quando mia sorella era
all'ospedale. Se sente di questa cosa..."
"Allora
cerca aiuto! Stai male, hai bisogno di farti aiutare,"
Insistette Chloe. "E io sto cercando di aiutarti, ma non ho idea
di cosa fare... E-e..." La voce della ragazza tremò,
improvvisamente, e Oscar notò con orrore i suoi occhi inumidirsi di
lacrime. "... Mi stai spaventando, Oscar."
"Va
bene, va bene, andrò a prendere un appuntamento." Le promise,
avvicinando le mani alle sue spalle, insicuro di come rassicurarla.
Non sapeva mai come comportarsi di fronte ad una persona in lacrime.
Specialmente quando lui stesso sentiva lo stesso bisogno.
Chloe
tirò su col naso, tentando di asciugarsi le lacrime senza rovinarsi
il trucco. "Scusami. Non sto cercando di farti sentire in colpa,
solo..."
"Lo so," La rassicurò. "Mi
dispiace, so che è stupido non cercare aiuto. Ma io... Io non
posso..." Non voleva scoprire cosa lo stava disturbando, perché
se fosse stato qualcosa di terribile? Finché non ne aveva la
certezza poteva far finta che tutto fosse a posto. Se avesse visto un
dottore e così avesse scoperto che era... Schizofrenia o qualcosa di
simile - così gli sarebbe sembrata una condanna. E se fosse stato
chiuso in un ospedale? Non avrebbe potuto sopportarlo. Aveva passato
troppe ore in ospedale, seduto ad aspettare per giorni e giorni che
sua sorella morisse... Fino a ritrovarsi a sperare che succedesse il
prima possibile, per il bene di lei e di tutti gli altri.
Però
andare da un consulente... Quello sarebbe andato bene, giusto? Se non
altro, avrebbe soddisfatto Chloe e magari una consulenza lo avrebbe
aiutato.
Quindi prese appuntamento. O, più che altro, prese
un appuntamento per sottoporsi ai controlli necessari per fissare un
appuntamento vero e proprio. Magari il centro di consulenza non era
troppo occupato o magari appariva così mal messo come si sentiva e
la receptionist voleva aiutarlo il prima possibile. In qualsiasi
caso, l'appuntamento gli venne dato per la mattina dopo.
La
notte gli parve infinita. Ascoltò il respiro lento e regolare di
Chloe provenire dall'altra parte della stanza - amandola e odiandola
allo stesso tempo per obbligarlo a prendere certe decisioni - fino a
ché riuscì finalmente ad addormentarsi. Sognò pacifici ricordi
d'infanzia, scene che al mattino lo lasciarono nauseato, perché non
ne ricordava nessuno ed eppure, in qualche modo, gli sembravano
reali.
Chloe non aveva lezioni fino al pomeriggio,
quindi si offrì di accompagnarlo all'appuntamento. Il giovane voleva
rifiutarsi, ma tutto attorno a lui era offuscato e spento, come se si
fosse svegliato ubriaco in una stanza sconosciuta, così accettò. Se
si fosse perso nel campus dove aveva vissuto gli ultimi quattro anni,
avrebbe finito col sentirsi ancora più pazzo. Senza dire che
sarebbe arrivato tardi.
Le chiacchiere della compagna di
stanza e il suo braccio attorno al corpo di Oscar lo aiutarono a
raggiungere il centro di consulenza, dove lo lasciò con un tirato ma
incoraggiante sorriso. "Buona fortuna." Gli disse,
stringendogli un polso.
Oscar non sapeva perché gli
serviva la fortuna, per una consulenza, ma come saltò fuori, lui
era fortunato a scatti. Questo perché, dopo aver compilato i
questionari sul perché cercava una consulenza e sulla sua
sanità
mentale (dovendo per la sua infelicità dover crocettare 'il
più delle
volte' su troppe domande), venne mandato in una sala d'attesa per
attendere la persona che gli avrebbe dato la consulenza e-
Lei
gli diede la mano per stringerla, una scintilla di quello che
sembrava riconoscimento sul suo viso, che rimpiazzò con un sorriso
gentile, e si introdusse come Alexis Sanders, ma c'era un altro
nome per lei.
"Mina Carolina." Gli sfuggì dalla
bocca, quando strinse la mano della donna.
Era lei. I
suoi capelli erano biondi, la sua pelle più chiara e il suo corpo
più formoso, aveva anche più anni, probabilmente andava per i
trenta, ma era Mina. Non poteva dire esattamente come potesse esserne
certo, come l'aveva riconosciuta nonostante fosse così diversa, ma
ne era sicuro. Mina Carolina del centoquattresimo squadrone
d'addestramento.
Erano anni che non pensava a lei: era morta
così tanto tempo fa - una dei tantissimi compagni persi in battaglia
- ma era davanti a lui, ora...
... In una delle comode stanze
del centro di consulenza.
Barcollò, con le ginocchia
tremanti. Come poteva essere Mina, davanti a lui? Mina non era reale,
ma lei - La nausea di prima tornò violenta e il suo cuore prese a
battere così violentemente che era certo che sarebbe esploso; i
polmoni sembravano non voler accettare aria perché Mina non era
reale, lui era pazzo, ma Mina era lì e se lei era lì come poteva
essere reale tutto quello che c'era nella stanza? Nulla di
questo-
Una voce gli disse qualcosa, ma lui poteva a malapena
sentirla tra i suoi ansimi e il cuore violento. Cercò di
concentrarsi su di essa, lasciandosi portare verso- Eventualmente
capì cosa quella voce stava ripetendo.
"Va tutto bene.
E' giovedì mattina. Ti trovi al centro di consulenza
dell'università. Non ci sono Titani in questo mondo. Sei al
sicuro."
"Non ci sono i Titani in questo mondo."
Ripeté. Le sue parole non erano in inglese ed erano completamente
differenti a qualsiasi altro linguaggio che aveva studiato o sentito,
eppure gli scivolarono dalle labbra come se avesse parlato quella
lingua dalla nascita.
Da qualche parte nell'oscurità della
sua mente qualcosa insistette: invece sì.
"Sì."
Rispose la voce. Mina, realizzò, si era accucciata vicino a lui,
stando però attenta a non occupare il suo spazio personale.
"Concentrati sulla tua respirazione. Riesci a imitare la mia?
Bene, bene, stai andando benissimo." Mormorò la donna, quando
il ragazzo riuscì a calmare il proprio respiro, seguendo quello di
Alexis.
"Tu sei-" Si bloccò, scrollando la
testa, e tornò all'inglese. "Eri Mina."
"Lo
ero," Gli rispose lei. "Lo sono."
"Non
sono pazzo."
La bocca di Mina- no, la bocca di Alexis
s'incurvò in un sorriso quasi impercettibile. "Preferirei non
usassi la parola pazzo. Ma no, tutto questo è reale. Vuoi un po'
d'acqua?"
Mormorò una negazione. Si sentiva ancora
nauseato e la sua testa gli faceva ancora male, ma tutto questo si
spostò in secondo piano quando cercò di capire come tutto questo
potesse essere reale. "Come..." Sussurrò, fermandosi
quando si rese conto che non sapeva neanche come iniziare.
Alexis
lo portò gentilmente verso una sedia, dove il giovane si accasciò.
Anche la donna si sedette e sospirò. "Quando avevo quindici
anni, ricordai di morire." Iniziò. "Fu come trovarsi in un
supermercato e ricordarsi di colpo di aver bisogno del burro, eccetto
che fu molto più disturbante."
Gli sorrise triste, ma
lui non era nella condizione di ricambiare. Imperterrita continuò.
"Non sapevo cosa stava succedendo. Ne parlai con mio padre, ma
mi disse che stavo immaginando tutto. Però sapevo che non era
normale. Non ero io che mi immaginavo le cose, ma sembravano vere. La
mia vita a Rose, gli anni d'addestramento, Trost. Non
mi sembravano immaginazioni: mi sembravano memorie dimenticate. Poi
incontrai Elisa."
La donna fece un gesto con la mano.
"Non la conoscevi. Era la bambina più piccola dei miei vicini a
Rose, morta a due anni per colpa di qualche malattia. Era più
grande, quando l'ho incontrata, ma la riconobbi
immediatamente."
"Lei..." Si fermò, cercando
di formulare meglio la frase. "Aveva i suoi ricordi?"
Alexis
ridacchiò cupamente. "E' morta quando aveva due anni. Per caso
tu ricordi qualcosa di quando avevi quell'età?"
"E
allora come puoi essere stata così sicura di non essere
semplicemente pazza?"
La donna non commentò nuovamente
sull'uso della parola 'pazza', prendendo invece una penna dalla
scrivania davanti a lei e giocherellandoci. "Tutto è andato al
suo posto, da quel momento. Ero morta a quindici anni. Io ho riavuto
i miei ricordi a quindici anni. Lei è morta a due anni. Magari
quando aveva due anni ha ricordato, ma essendo così piccola poi ha
dimenticato." Alexis alzò gli occhi dalla penna, portandoli
trionfante contro quelli del ragazzo. "Ed ora eccoti qui. Quanti
anni avevi, quando hai iniziato a ricordare?"
Il ragazzo
si mosse a disagio sulla sua sedia, sentendo la testa iniziare a
girare. "Solo... Da poco. Ho ventidue anni."
"Quanti
anni avevi, quando sei morto?"
E' inginocchiato sul
pavimento in pietra, il freddo in qualche modo ha penetrato i suoi
stivali e gli sta gelando le gambe. Tuttavia forse il freddo proviene
da dentro di lui e non dal pavimento. Sa che dovrebbe essere
grato di poter aver preso questa decisione, che la maggior parte
della gente non può decidere nulla della propria morte, ma
è
davvero difficile provare gratitudine. Si sente... Rassegnato. Mentre
chiude gli occhi una mano calda gli stringe la spalla, il cui pollice
preme con forza sulla sua nuca. Fa un sorriso tirato: di questo,
sì,
ne è grato.
"... Ventidue." Ammise e una
violenta emicrania prese a premergli nelle tempie. Fissò le proprie scarpe,
cercando di allontanare l'immagine di stivali marroni che gli
arrivavano alle ginocchia. "Quindi, questo è... Cosa, una vita
passata?" Non riuscì a trattenere l'incrudelità nella sua
voce.
Alexis scrollò le spalle, giocherellando con la penna
tra le sue dita. "La reincarnazione ha senso, no? Dati i fatti,
almeno. Non ne ero certa al cento per cento, prima, ma ora che sei
qui, lo sono. Hai una spiegazione migliore?"
Lui si passò
le mani sul viso, facendo una smorfia nel sentire la pelle umida.
"Come puoi... Come puoi essere così?"
"Così
come?"
"Così..." Non riusciva a metterlo a
parole. Più che altro, non riusciva a capire come potesse apparire
così normale mentre sedeva lì, un sorriso assente sul viso come se
non venisse costantemente tormentata da chi era stata, come se la sua
vita passata non fosse sì interessante, ma solo quanto lo poteva
essere una strana voglia sulla pelle. "Come se tutto
andasse bene. Io sono stato... E' stato orribile."
Alexis
appoggiò la penna sulla scrivania, prendendo un mano un block notes.
Il ragazzo notò come la sala d'attesa si fosse riempita di gente.
"Mi hai detto che hai ricordato recentemente. E' uno dei motivi
per cui ti trovi qua?"
"E' l'unico motivo,"
Sottolineò. "Prima di questo, stavo bene. Ma da allora..."
Oscar si torturò le mani con frustrazione. "Non riesco a
dormire una notte intera. Sono troppo nervoso per mettermi a letto e,
quando finalmente riesco, finisco con l'avere gli incubi. Sono...
Sono spaventato tutto il tempo, senza alcuna ragione. Alcune volte
è
come se non sapessi chi sono, anche se dovrei." Si morse il
labbro, inspiegabilmente imbarazzato nel dover spiegare la parte
peggiore. "Ho... Ho avuto dei flashback. Di roba di... Prima.
Però in quel momento è stato come se stessi vivendo quei
momenti, mi era sembrato di trovarmi nel presente." Le porse le mani,
che ancora
presentavano le ferite che si era causato giorni fa, quando se le era
graffiate a sangue. "E... Sto malissimo nelle ore
successive."
Alexis lo ascoltò, annuendo e sfogliando le
pagine del blocco note nel frattempo. "Non sono qualificata per
fare diagnosi, ma quelli che mi stai descrivendo sembrano i sintomi
del disturbo post traumatico da stress."
"Disturbo...
Come quello dei soldati?" Le chiese, scettico.
"Non
ne soffrono solo i soldati. Ma tu lo sei stato." Gli ricordò
lei.
"Però io non lo sono," La corresse, con
un tono di voce involontariamente tagliente. "Perché io...
Quella roba non è successa a me!"
Il viso della donna si
corrucciò momentaneamente, come se si fosse trattenuta dal dire
qualcosa. La sua espressione si rilassò subito dopo e cambiò
posizione del corpo, in modo da apparire più tranquilla. "Non è
la stessa cosa per tutti, ma spesso i soldati e altre persone che
subiscono eventi traumatici sono capaci di funzionare perfettamente
in quel momento. E' solo dopo che il trauma è passato, che i sintomi
iniziano ad apparire. Nel caso dei soldati, alcune volte la PTSD non
si manifesta finché non si ritrovano a vivere una vita normale."
Si
fermò momentaneamente, controllando che il ragazzo di fronte a lei
la stesse seguendo. "Siccome stiamo parlando di te, non dubito
che tu sia entrato a far parte dell'Armata Ricognitiva e che lì
sei anche morto. Questo potrebbe essere la prima chance che il tuo
cervello ha avuto per processare il tutto."
Voleva
ribattere quando lei continuò a dirgli che lui era entrato a far parte
dell'Armata Ricognitiva, ma poi realizzò quanto tempo fa Mina
era morta. Dio, lei non aveva idea del fatto che lui fosse un Titano,
non sapeva di Annie e Bertholdt e Reiner, non sapeva di Historia e
Ymir, di come l'intera guerra - l'intero mondo - era cambiata dopo
Trost.
Nell'averlo notato scioccato, Alexis esitò e
gli chiese. "C'è un qualche evento particolare che ti ha
disturbato più di tutti? Non devi dirmi nulla, se non vuoi."
Il
ragazzo sbatté le ciglia, poi scoppiò a ridere perché quella era
una domanda assurda. Un singolo evento? L'intera vita di Eren Jaeger,
da quanto ricordava, era stata un trauma dopo l'altro. Le sue prime memorie
erano quelle dei suoi vicini di casa che morivano di morti orribili a
causa di una peste che stava sterminando l'intero distretto. C'erano
dei bei ricordi, sì, specialmente durante la sua infanzia, ma tutto
il resto era troppo. Pugnalare degli esseri umani neanche degni di
quel nome, quelli che avevano ammazzato i genitori di Mikasa, così
tante volte fino ad ammazzarli. Il distretto di Shiganshina
che cadeva a pezzi sotto l'incredibile forza di un Titano
immenso. Soffrire la fame a Rose e lasciare che degli scarti
umani lo toccassero dove non avrebbero dovuto, solo perché era
l'unico modo di trovare rifugio e guadagnare abbastanza soldi per
mangiare, per sopravvivere.
E dopo, quando aveva preso parte
agli addestramenti militari, le cose erano andate sia meglio che
peggio.
Gli venne la nausea e inghiottì a vuoto, scrollando
la testa. Eren era entrato a far parte dei militari, non lui. Doveva
cercare di tenere le cose ben separate o avrebbe finito con
l'impazzire. "Potrei avere un po' d'acqua?"
Alexis
gli diede un bicchiere d'acqua e il ragazzo lo inghiottì in un
sorso, accartocciando il bicchiere di carta quando finì di bere.
"Quindi... PTSD? Cosa posso fare? C'è qualche farmaco che posso
prendere?"
Alexis alzò una mano. "Fermati. Come ti
ho detto, non sono qualificata a diagnosticarti qualcosa. Non sono
neanche una vera consulente."
"Ma lavori qui."
"Sto
facendo la stagista, qui. Non ho ancora preso la specializzazione."
La ragazza afferrò il suo blocco note. "Sono solo qui per
ascoltare e sedere alle sessioni a gruppi."
"Sì,
ma-"
"E io ti ho solo ascoltato. Non possiamo
proprio parlare di diagnosi e medicinali da prendere. L'unica ragione
per la quale ti ho detto qualcosa è perché ricordo come ho cercato
disperatamente delle risposte, quando ho iniziato a ricordare."
Sbuffò un poco, alla fine del suo discorso, poi si scusò e gli
rivolse un sorrisetto. In quel momento ricordò al ragazzo così
tanto Mina che non riuscì a staccarle gli occhi di dosso.
Mina
era stata una ragazza convinta in quello che credeva, veloce ad
indignarsi quando qualcuno la sfidava e ugualmente veloce a calmarsi
e ridere. Era una delle ragazze che ad Eren piaceva di più, tra
quelle dell'addestramento, subito dopo Annie, ed era stato felice
quando Mina era stata assegnata alla sua squadra perché
sapeva che avrebbe preso le cose seriamente, quando
necessario.
"Scusa," Le disse. "E' solo che...
Cosa dovrei fare? Andare da qualche altro consulente e digli che ho
dei flashback di una vita precedente?"
"Non hai
bisogno di discutere dei dettagli. Nessuno ti obbligherà a parlare
di qualcosa, se dirai che è off limits. Devi solo descrivergli i
sintomi e-"
"Ma io voglio te. E' perfetto. Sei qui,
anche tu ricordi questa roba, e sei una consulente."
Alexis
si morse il labbro inferiore. "Non sono molto a mio agio con
questa cosa. Non so se posso darti l'aiuto di cui hai bisogno. Senza
parlare del fatto che dovrei calpestare migliaia di regole."
"Per
favore?" Le chiese. "Non ho bisogno di molto aiuto. Sto
migliorando. Sono venuto qui solo perché lo ha voluto una mia
amica." Meglio era un termine molto relativo, ma il resto era
abbastanza vero.
Gli ci volle ancora un po', ma alla fine
riuscì a farla cedere e si misero d'accordo per i futuri
appuntamenti e posti dove trovarsi, dato che il centro di consulenza
non sarebbe stato un'opzione per appuntamenti clandestini. Oscar se
ne andò con il numero di Alexis salvato nel cellulare, il compito di
andare a leggere qualcosa sul disturbo post traumatico da stress e un
calore nel petto.
Magari sarebbe davvero
migliorato.
#
Grazie
all'aiuto costante di Chloe, i consigli di Alexis e i suoi esercizi
per ricordarsi dove si trovava e chi era, assieme alla clemenza dei
professori, Oscar riuscì a finire l'anno e prendere la laurea. I
suoi voti facevano schifo, in confronto ai semestri precedenti, ma
era sopravvissuto e poco altro gli interessava, arrivato a
quel punto. Nel giorno della laurea si svegliò ben riposato, dopo
aver passato una notte senza sogni, e passò la cerimonia e la cena
celebratoria senza alcun incidente.
Sua madre gli sorrise e
pianse e gli fece almeno cinquecento foto. Anche il suo padre
acquisito - o meglio ex padre acquisito, dato che lui e sua mamma si
erano lasciati da anni - partecipò e gli diede una pacca sulla
spalla, dicendogli: "Lisa avrebbe amato essere qui. Sono certa
che ti sta guardando e che è molto orgogliosa del suo
fratellone" E sentire nuovamente il nome di sua sorella non gli fece
male tanto
quanto prima, anche se non credeva nel paradiso. Anche Chloe si
laureò nello stesso giorno e lo trovò in mezzo alla
folla, dopo la
cerimonia, per dargli un abbraccio stritolatore e fargli promettere
che avrebbero continuato a sentirsi e che si sarebbe preso cura di
sé
stesso.
Cercò di prendersi cura di sé stesso. Davvero. Per
qualche giorno navigò sulla soddisfazione di aver finito il college,
ma alla fine i mal di testa e la sua incapacità di stare fermo e i
flashback tornarono, alla fine la sua situazione peggiorò tanto
quanto lo era stata prima - se non ancor di più. Decisamente di
più.
Dato che in quel periodo viveva in casa, gli fu
impossibile nascondere le sue condizioni a sua madre. La spaventò a
morte la prima volta che lo svegliò durante un incubo e lui prese ad
urlare una lingua che non conosceva, nascondendosi da lei perché non
la riconosceva fino ad un'ora dopo, quando riuscì a tornare al
presente. Louise voleva fare- qualcosa, fargli vedere un dottore
almeno, ma riuscì ad evitare che lo facesse spiegandole che stava
già vedendo un dottore (una piccola bugia, ma d'altra parte con
Alexis ci parlava praticamente sempre) e che stava lavorando per
migliorare. Non la convinse del tutto, ma anche lei sembrava ben
decisa a non tornare in ospedale tanto quanto lui. Fece del suo
meglio per nascondere i suoi attacchi e la sua paura a lei,
successivamente.
I mesi successivi alla laurea passarono
lentamente, dolorosamente e quasi non li ricordava. Aveva il bisogno
di fare qualcosa - cosa, non lo sapeva neanche lui - ma non stava
abbastanza bene per lasciare il letto ogni giorno e sorridere a sua
madre. Quindi aspettò che l'estate finisse. Era stato accettato ad una
scuola di specializzazione - non la sua prima scelta, ma comunque un
ottimo programma - e in autunno si trasferì in un appartamento nella
speranza che le lezioni e le ricerche lo tenessero occupato.
Brutta
idea. Pessima idea.
Riuscì a superare le prime sei settimane
del primo semestre. Non stava andando bene negli studi, i suoi
coinquilini lo infastidivano e non aveva tempo per nulla, ma ce la
stava facendo. Poi, una notte-
Si trova nella zona ad est
di Maria e non riesce a trovare il resto della
sua squadra da nessuna parte. Deve assolutamente
trovare gli altri, ma prima deve capire dove si trova in modo da non
imbattersi accidentalmente nel territorio dei Titani.
Il panico gli sale fino al petto - Dove sono tutti? Sono al
sicuro? Perché sono da solo? Ci sono dei Titani nelle vicinanze o è
una zona pulita? - ma Eren è un soldato e ignora la
sensazione. Non può perdere la testa nel mezzo del campo di
battaglia.
Si trova a terra e non riconosce nessun punto di
riferimento. Non vuole sprecare gas in quanto non sa quanto deve
viaggiare, quindi si arrampica in un edificio vicino e controlla la
zona. Le forme delle costruzioni sono strane, ma ne nota una in
lontananza che gli sembra familiare.
Automaticamente sceglie
uno degli edifici più vicini dove ancorarsi, poi indietreggia sul
tetto per darsi dello slancio prima di saltare. L'intero processo
nell'utilizzo del 3DMG gli è ormai automatico, dopo tutti quegli
anni, che neanche deve più pensarci. Corre e salta dal
tetto, lanciando i rampini e si dirige verso il prossimo-
I
rampini non fecero presa nell'edificio. Cadde e il momento prima
dell'impatto ricordò di trovarsi fuori dal suo appartamento, non a
Maria, ed era solo perché qua era sempre solo e-
Era
ancora fortunato. Qualcuno lo trovò incosciente e sanguinante e
chiamò il 911. Sopravvisse alla caduta con qualche osso rotto e un
sacco di lividi.
Sua madre si spaventò a morte. D'altra parte il suo
poteva sembrare solo un tentativo di suicidio, anche se Oscar
internamente pensò che se davvero avrebbe provato a suicidarsi,
avrebbe scelto un edificio più alto. Cercò di spiegare a Louise che
era stata un'allucinazione o qualcosa di simile, ma le sue
rassicurazioni non lo aiutarono più di tanto, soprattutto quando la
donna si voltò verso di lui e col viso pieno di lacrime gli chiese
se davvero volesse morire.
Avrebbe dovuto dire che no,
ovviamente non voleva morire, ma... Non lo sapeva se avrebbe potuto
continuare a vivere così, a vivere una vita che non gli sembrava più
sua. Quindi fu onesto con lei: "Sarebbe più semplice."
Quando
finì di piangere, la donna insistette con voce tremante che avrebbe
dovuto andare in un ospedale psichiatrico, quando sarebbe guarito
abbastanza. Esausto, Oscar non
ribatté.
#
A
ventitré anni Oscar era uscito già da un po' dall'ospedale
psichiatrico. Lo aveva aiutato, un po'. Parlare con gli psichiatri e
i terapeuti si era rivelato complicato, perché se avesse
spiegato le cose che sperimentava nei flashback lo avrebbero preso
per pazzo. Quindi non erano particolarmente utili, se voleva
sfogarsi. Tuttavia imparò e si allenò in alcune tecniche che lo
avrebbero aiutato a restare nel presente, quando sentiva un attacco
arrivare.
Gli prescrissero altri farmaci e quelli lo aiutarono
quel che bastava che continuò a prenderli a lungo anche quando uscì
dall'ospedale. Le droghe attutivano tutto, quindi la maggior parte
delle volte riusciva a passare la giornata senza particolari
incidenti. Però gli sembrava di avere l'energia unicamente per fare
quello: passare la giornata. Tutto il resto gli era impossibile e
quello includeva la scuola di specializzazione.
Onestamente
non stava facendo nulla. Cosa che da una parte sembrava meglio così,
perché non riusciva a sopportare troppi avvenimenti, ma anche brutto
perché era un adulto che viveva in casa con sua madre, senza alcun
prospetto per un lavoro futuro e quella era una cosa che odiava.
Sua madre continuò a rassicurarlo che non la infastidiva occuparsi
di lui, che doveva prendersi il suo tempo e migliorare, ma questo non
lo soddisfava comunque. Non gli sembrava di star migliorando. Ogni
giorno lo passava nello stesso modo, si differenziava unicamente dai
diversi traumi che gli si imprimevano nel cervello.
La cosa
peggiore fu guardare un Titano sorridente divorare una donna
che era e allo stesso tempo non era sua madre, sentendosi piccolo e
debole.
#
A ventiquattro anni, Oscar tornò in contatto con Chloe. Aveva evitato i suoi messaggi per un lungo tempo perché, beh, lei stava facendo carriera e viveva nel suo appartamento e si era fidanzata. Sapeva che non voleva sbattergli in faccia che stava decisamente meglio di lui - era completamente irrazionale per lui sentirsi a quel modo - ma parlare con lei sembrava quasi come se si stesse mettendo il sale nelle ferite da solo, quindi aveva smesso.
Però Chloe era una
buona amica - davvero, l'unica amica che aveva mai avuto, nonostante
una voce nel retro della sua testa continuasse ad insistere che avesse
avuto altri buoni amici - quindi decise di darsi una calmata e
chiamarla. Divenne sua abitudine chiamarla almeno una volta a
settimana. Parlavano per lo più della sua giornata e dei suoi
impegni, ma sorprendentemente ascoltare qualcuno parlare della sua
vita normale lo aiutava.
Disse ad Alexis che aveva iniziato
nuovamente a parlare con Chloe e lei gli disse che era orgogliosa di
lui. Anche Oscar cercò di sentirsi orgoglioso di sé
stesso.
#
A
venticinque anni, ad Oscar mancavano i suoi amici. No, non era
giusto. Oscar non conosceva le persone che gli mancavano. Però
sapeva che il fantasma di Eren Jaeger aleggiava da qualche parte nel
buio della sua testa, influenzando i suoi pensieri. Quindi gli
mancavano le persone che Eren aveva conosciuto: per lo più Mikasa ed
Armin, ma anche il Capitano Levi e il resto della sua Squadra
Speciale e anche la Maggiore Hanji e gli altri soldati
dell'Armata Ricognitiva. Dio, sua madre.
Era
inutile soffrire la loro mancanza, perché non li conosceva e non
sapeva neanche se esistevano in quel mondo. Magari sì, ma quello non
stava a significare che li avrebbe potuti trovare. Tuttavia nessuna
ragione logica poteva fargli smettere di sentire la loro
mancanza.
Cercarli gli sembrava pericoloso. Non sarebbe stato
un passo nella direzione sbagliata? Se avesse seguito i pensieri di
Eren Jaeger e avesse trovato la sua famiglia e i suoi amici in quel
mondo, nel mondo di Oscar, quest'ultimo non si sarebbe perso
nell'oscurità, perdendo quel poco di vita che era riuscito a
riprendersi dagli artigli affilati dei traumi e della disperazione di
Eren?
Scrisse ad Alexis e le chiese la sua opinione. Aveva
trovato degli amici di Mina? Voleva trovarli?
La ragazza lo
chiamò qualche ora dopo.
"Non c'è qualcuno che sento di
voler trovare," Ammise lei. "Suppongo che sarebbe bello vedere
nuovamente la mia famiglia, ma non ho il desiderio disperato di
cercarla. D'altra parte come li troverei? Non è che ci sia una
specie di Facebook per le vite precedenti, dove potrei andare a
cercarli."
Parlarono ancora un po' - Alexis voleva sempre
sapere come stesse lui e se avesse bisogno di qualche consiglio - ma
quel singolo pensiero gli rimasse impresso tutto il tempo: un
Facebook per le vite precedenti. Alexis aveva ragione, una cosa del
genere non esisteva, ma il net era così vasto e ampio, oltretutto
era il primo posto dove una persona andava a cercare, quando aveva
qualche domanda. Sicuramente qualcuno aveva aperto una discussione in
un forum chiedendo se qualcun altro ricordava i Titani, oppure
l'aveva postata su Yahoo Answers o... O da qualche parte. Diamine,
sicuramente qualcuno aveva creato qualcosa come un Facebook per le
vite precedenti e semplicemente loro non ne erano a
conoscenza.
Quindi iniziò a cercare. Inizialmente cercò di
tradurre termini importanti come Titani e Wall Sina in
lettere romane, in modo da poterle cercare facilmente, ma non riuscì
a farlo. I suoni erano troppi diversi e non conosceva abbastanza le
lingue per trovare un modo di tradurre quelle parole. Facendo delle
ricerche come "vite passate con giganti e muri" non ebbe
alcun risultato - trovò solo pagine e pagine di roba irrilevante - e
iniziò ad arrendersi.
C'erano sette miliardi di persone nel
mondo: le Mura Sina, Rose e Maria riuscivano a
contenere una minuscola frazione della popolazione attuale. E quella
minuscola frazione si rimpiccioliva ancor di più, quando considerò
che non tutte le persone avrebbero potuto non ricordare nulla. Sapeva,
parlando con Alexis, che lei non ricordava molto vividamente i fatti
accaduti come li ricordava lui... Le persone che avevano una vita
ordinaria priva di eventi importanti avrebbero realizzato che quello
che ricordavano non era un semplice sogno? Il numero di persone che
avrebbero potuto potenzialmente cercare in internet era minimo e
l'enorme numero di persone che non avevano vissuto in quei tempi
avrebbero affondato le possibili richieste di aiuto di chi stava
cercando.
Però continuare le ricerche era la cosa più
produttiva che aveva fatto negli ultimi mesi, quindi continuò a
cercare ed infine la sua testardaggine lo ripagò. Capitò in un
innocuo link presente in un forum che parlava di sogni lucidi e,
quando lo cliccò, si aprì un sito con un banner che recitava E'
TUTTO VERO. SIAMO QUI. scritto a mano in quegli strani caratteri
che Eren conosceva.
Le sue mani tremarono così tanto che
riuscì a malapena stringere il mouse. Si forzò a rimanere seduto
immobile per qualche minuto, leggendo il banner ancora e ancora
mentre respirava piano col naso. Una volta calmo, iniziò ad
esplorare avidamente il sito, solo per scoprire che aveva bisogno di
un account per avere l'accesso alle pagine oltre alla Homepage, un
account che gli sarebbe stato dato dagli amministratori del
sito.
Compilò la richiesta d'iscrizione, che includeva una
foto di un messaggio scritto nel linguaggio del tempo che comprendeva
il suo nome, il distretto dove era nato e altri dettagli. Non aveva
mai tentato di scrivere in quella lingua, prima, ma scoprì di poterla
scrivere facilmente tanto quanto pronunciarla. Completò il modulo e
lo inviò per mail agli amministratori, poi passò undici ore ad
aspettare una risposta, preoccupandosi di aver sbagliato qualcosa
nella richiesta o che il sito non fosse più attivo.
Infine
ricevette una risposta, ma l'oggetto e il messaggio della mail era
vuota, c'era solo un file allegato. Mordendosi il labbro inferiore aprì
l'immagine - era una foto di un block notes che conteneva una singola
frase.
SEI DAVVERO EREN JAEGER?
Sì. No.
Lo era stato, una volta, ma non era più lui. Suppose che era quello
che gli era stato chiesto - se era stato davvero Eren nel passato -
così gli scrisse una risposta. Sono stato io. Non so come posso
provartelo, però, se hai bisogno di una prova. Posso risponderti a
delle domande. Perché me lo stai chiedendo?
Inviò la
mail prima che potesse rimuginarci troppo sopra. Solo dopo pochi
minuti gli arrivò una risposta. Iniziava con: scusami,
solitamente non faccio questo genere di domanda alle persone. E' che
sei la prima... 'celebrità' penso sia la parola giusta. Sei la prima
celebrità che ha fatto una richiesta d'iscrizione. Cioè, c'è stato
un tempo in cui tutti conoscevano quel nome.
Era vero,
realizzò. Anche al di fuori dal militare, Eren Jaeger era abbastanza
famoso. L'identità di Eren e le sue abilità da Titano erano
conosciuti dall'intero popolo. Era certo che la notizia
dell'esecuzione di Eren aveva fatto il giro di tutte le mura.
"La
prima celebrità..." Questo significava che non aveva alcuna
possibilità di trovare il Capitano Levi o il Comandante
Smith nel sito. I loro nomi erano conosciuti tanto quanto il suo.
Probabilmente neanche Mikasa, pensò con un tuffo al cuore. Era stata
famosa verso la fine d tutto, una leggenda vivente come Levi.
Però
doveva cercare ugualmente. Quindi lesse le informazioni per gli
utenti e i dettagli per la navigazione nel sito che seguì il
messaggio dell'admin e finalmente si loggò. Era abbastanza semplice
da usare, il sito. C'era un forum dove le persone postavano le loro
domande e cose simili, ma non lo guardò quasi. Voleva l'elenco delle
persone. Era organizzato in distretti e c'erano delle immagini dove
erano presenti i nomi scritti a mano. Poteva cliccare ogni nome per
mandare un messaggio privato, loro probabilmente avrebbero ricevuto
una notifica nella loro posta. C'erano solo un centinaio di utenti
nel sito e così lesse ogni singolo nome, nella speranza di
riconoscerne qualcuno.
Nessuno.
Si appoggiò allo
schienale della sedia, esausto e sull'orlo delle lacrime. Non c'era
da sorprendersi. Dopo tutto, quel sito non era stato semplice da
trovare. Magari non tutti si erano reincarnati. Realizzò con un
certo orrore che la differenza della sua età e quella di Alexis
erano gli anni che li dividevano dalle morti l'una dell'altro. E se
Mikasa ed Armin fossero arrivati agli ottanta anni? Avrebbe dovuto
aspettare decine d'anni prima che solo nascessero.
Questo
lo fece sentire un miserabile essere umano, ma si trovò a pregare
che fossero morti giovani, così questo senso di vuoto sarebbe
sparito.
Sua madre bussò alla porta e sussultò. Se Louise
sentì la sua reazione non disse nulla. "Oscar? La cena è
pronta."
"Va bene." Le rispose, prendendosi un
momento per respirare profondamente, prima di chiudere il computer.
Quando raggiunse la sala da pranzo sua mamma alzò lo sguardo dal
Gumbo
che stava servendo nei piatti, guardandolo curiosamente.
"A
cosa stai lavorando, negli ultimi giorni?"
"Um. Sto
facendo delle ricerche."
"Un progetto personale?"
Gli suggerì, passandogli il piatto.
"Sì, circa."
Mormorò, giocherellando con un pezzetto di okra presente nella
pietanza. Si chiese se sua madre avesse una specie di potere speciale
che le permetteva di ridurre qualsiasi persona di qualsiasi età alla
pari di un tredicenne.
"Hm." La donna gli sorrise
calorosamente, mentre sedeva di fronte a lui. "Beh, qualsiasi
cosa sia, dovresti continuare a lavorarci. Sembri stare meglio
ultimamente."
"No, io-" Si fermò e pensò a
quello che gli aveva appena detto. Aveva sognato un'unica volta da
quando aveva iniziato la sua ricerca online. Nessun episodio pesante
sui flashback, anche se si era ritrovato a dover concentrarsi sul chi era e
dove si trovava un paio di volte. Niente di preoccupante. Infatti, ora
che ci pensava, si sentiva fisicamente meglio in confronto agli anni
scorsi. Non stava perfettamente, solo... Meglio. Nonostante fosse
illogico, gli erano mancati gli amici di Eren Jaeger. Una volta che
aveva iniziato a cercarli, era riuscito in qualche modo a
calmarsi.
Avrebbe potuto provare a trovare una sorta di
bilancio nel soddisfare alcuni bisogno di Eren e tenersi stretto la
propria vita? Sarebbe stato utile provarci. A quel punto ormai non
aveva
molto da
perdere.
#
A ventisei anni, Oscar iniziò a cercarsi un lavoro. O meglio, un lavoro migliore. Era riuscito a trovarsi un lavoro part time ad un fast food per cinque mesi, senza farsi licenziare a causa dei giorni di assenza per 'malattia', quindi si sentiva pronto a cercare qualcosa che gli sarebbe realmente piaciuto. D'altra parte era laureto. Si era impegnato molto per la sua laurea, quindi avrebbe dovuto farne tesoro ed utilizzarla.
Si mise in contatto con i
suoi professori preferiti, chiedendogli se erano a conoscenza di
qualche opportunità e sperando che non fossero a conoscenza del suo
aver mollato la specializzazione. Sorprendentemente una di loro
gli rispose, dicendogli che sapeva che un era stato aperto un
laboratorio medico da un suo collega. Gli disse che avrebbe parlato
bene di lui e che pensava che fosse un lavoro adatto a lui.
Onestamente, gli sembrava un'ottima cosa. Più di quello in cui aveva
sperato, in qualsiasi caso. Da giovane non avrebbe di certo pensato
che lavorare in un laboratorio a testare dei campioni sarebbe stato
un lavoro da sogno, ma ora un posto tranquillo e senza rumori che lo
avrebbero spaventato sarebbe stato il posto perfetto dove
lavorare.
L'unico problema era che il posto di lavoro era fuori dallo
Stato in cui viveva.
"Non mi fa impazzire l'idea che tu
ti trasferisca così lontano," Ammise sua madre, quando le parlò
del lavoro. "L'ultima volta che ti sei allontanato da
casa..."
"Mi sento decisamente meglio," Ribatté
Oscar. "Non sono migliorato? Lo hai detto tu stesso." Stava
meglio. Occasionalmente si perdeva ancora nei suoi ricordi e le
emozioni non erano sempre le suo, anche il suo stato mentale non era
dei migliori, ma fisicamente stava decisamente meglio. Inoltre sapeva
come prendersi cura di sé stesso, come bilanciarsi nel soddisfare i
bisogni di Eren e restare sé stesso, Oscar. Certo, ogni tanto
s'incasinava e affrontava le conseguenze e i flashback erano ancora
un problema, ma stava meglio.
"Sì, stai meglio.
Ma, Oscar, il tuo psichiatra è qui-"
"Troverò un
altro psichiatra." Non c'era motivo di spiegarle che non parlava
molto col suo psichiatra. Si rivolgeva ad Alexis quando aveva bisogno
d'aiuto, ma ormai era abbastanza abituato a controllare i suoi
episodi. Andava dallo psichiatra solo per i medicinali. "E
prometto di chiamarti non appena... Mi sfuggono le cose di mano."
La
donna sospirò pesantemente, portandosi una mano alla tempia. Il
gesto catturò l'attenzione del ragazzo alle ciocche ingrigite che
contrastavano con il resto dei capelli neri, cosa di cui si sentiva
in colpa. "Immagino che non possa farti altro che bene un lavoro
del genere. E so che è importante per te essere indipendente."
Non
era esattamente d'accordo - non che avesse bisogno del suo permesso,
alla sua età - ma era meglio di quanto si aspettasse. Per la verità,
sua madre aveva preso questo suo... Malessere, decisamente meglio di
quanto aveva anticipato. Era più forte di quanto ricordava. O magari
era stata la morte di Lisa a renderla più forte.
Quindi Oscar
preparò il suo curriculum, mandandolo per email a Chloe per qualche
consiglio sul come rendere meno visibile il fatto che avesse vissuto
da recluso in quegli anni e mettere in risalto le ore di laboratorio
che aveva fatto da universitario. Quando sentì che non avrebbe
potuto migliorarlo, lo mandò prima che potesse tirarsi
indietro.
Una settimana più tardi venne sottoposto ad un
colloquio.
#
A
ventisette anni, la routine era l'unica cosa che manteneva la vita di
Oscar normale. Si svegliava alle 6:15 ogni mattina. Si faceva una
corsa e alle 7:30 faceva la doccia. Usciva dalla porta di casa per le
8:00 per raggiungere il laboratorio, dove iniziava a lavorare alle
9:00 e finiva alle 17:00. Tornava a casa e scaldava a cena per le
18:30. Navigava su internet dalle 20:00 alle 22:00 cercando qualsiasi
segno di persone che gli erano state care - no, erano state care ad
Eren Jaeger, non a lui. Eren. Si staccava dal computer nello stesso
istante in cui l'orologio segnava le 22:00, quella era la regola, quello
era tutto il tempo che si permetteva. Si calmava, prendeva i suoi
medicinali e s'infilava a letto per le 23:00. Tutti i giorni si
ripetevano a quel modo.
I sabati erano devoti alla pulizia e
allo shopping, oltre al cucinare per il resto della settimana. Le
domeniche erano destinati alle chiamate a sua madre e ad incontrarsi
con i suoi amici o anche agli occasionali e disastrosi appuntamenti.
Dato che comunque non poteva passare l'intera giornata al telefono
con sua madre e non aveva tanti amici o appuntamenti, solitamente si
trovava a navigare in internet alla ricerca di sua madre, dei suoi
amici, della sua squadra, dannazione, anche Jean sarebbe
bastato- no, non suoi, di Eren. Di Eren. Lui non era Eren Jaeger, non
poteva esserlo, non lo sarebbe mai stato.
Lo era, in una vita
passata.
Arrivato a quel punto si sarebbe dato una calmata.
Avrebbe dormito. Sarebbe arrivato il lunedì. Routine.
Quello
era l'ideale. Ma le routine fallivano facilmente. Un ordinario
problema come il traffico lo avrebbe trovato a sistemare attentamente
i suoi orari. Ok, non era un problema. Quelle cose succedevano a
tutti. Altre volte...
Altre volte si sarebbe svegliato perso e
confuso e sarebbe vagato nell'appartamento alla ricerca di Mikasa e
Armin, finché Oscar non si svegliava davvero. Altre volte avrebbe
rivissuto dei veri e propri flashback, causati da un fulmine troppo
vicino, un viso in mezzo alla folla troppo familiare, il fottuto
vapore acqueo che usciva dalla sua lavastoviglie quando l'apriva
prima che avesse finito il ciclo- e avrebbe perso tempo a calmarsi, cercando
di uscirne, cercando di ricordare come essere Özgür “Oscar”
Gözübüyük. Altre volte si svegliava così depresso che
non riusciva neanche a sopportare il peso della giornata. Quello non
era una cosa che lo disturbava più di tanto. Almeno quando era
depresso sapeva esattamente chi era. Eren Jaeger non era mai stato
depresso.
Oscar stava bene, davvero. Meglio a ventisette anni,
che quando ne aveva venticinque o ventitré, perlomeno. Quei giorni,
i brutti giorni, erano divenuti più rari e più facili da
sopportare. Ce la poteva fare.
"Potercela fare" era
il perché si era recato al Denny's alle due di mattina in un
mercoledì di fine maggio. Aveva chiamato a lavoro ed aveva
avvisato
che stava male e che non sarebbe potuto andare - la prima volta in
tre mesi, era stupido esserne orgoglioso, ma lo era - perché si
era
svegliato depresso. Aveva passato l'intero giorno steso a letto a
guardare Netflix o a vagare per l'appartamento e realizzare all'una
di mattina che non aveva ancora mangiato. Non aveva avuto la forza di
scaldarsi uno dei suoi pasti preparati in precedenza, ma in qualche
modo recarsi al Denny's gli era sembrata un'ottima alternativa. Si
obbligò a vestirsi almeno decentemente e uscì. Se non
altro, gli
avrebbe fatto bene lasciare l'appartamento e interagire con degli
esseri umani.
"Arrivo subito. Siediti dove vuoi, caro."
Gli disse una cameriera, quando si fermò davanti ad un cartellone
che recitava 'per favore, aspetti che le venga assegnato un tavolo'.
Il posto non era esattamente vuoto. A qualche tavolo sedevano
coppiette con davanti tazze di caffè, oppure c'erano studenti
universitari intenti ad ingurgitare pancakes, presi da fame da stress. Si
diresse nel solito posto, quello nell'angolo più lontano dove nessuno lo
avrebbe notato se fosse improvvisamente crollato mentre mangiava
un'omelette, ma era già occupato. Ok. Il tavolino vicino alla cucina
sarebbe andato-
Aspetta.
Si voltò verso il suo
solito posto e fissò Levi.
Non poteva essere lui. La sua
pelle era ambrata al posto di pallida e anche da seduto sembrava più
alto e, nonostante probabilmente frequentasse la palestra, era molto
sottile. I suoi capelli erano ancora neri, ma erano più corti, più
folti. Non poteva essere lui.
Mina è fisicamente diversa.
Alexis, insistette Oscar. Si avvicinò senza realmente registrare i
suoi movimenti. Ma è pur sempre Mina. Anche io non sono
esattamente uguale.
"Che cazzo vuoi?" Gli chiese
Levi (non Levi, si sgridò il ragazzo).
Era davanti a lui, si
rese conto. Velocemente, notò la mancanza di cibo o piatti sporchi
sul tavolo. Solo una tazza di tè, una teiera di acqua calda e due
bustine di tè bagnate ed appoggiate su un piattino. Uno zaino e una
borsa da palestra erano di fianco a lui. Un vagabondo? No, era ancora
troppo ordinato per esserlo. Magari era scappato. Magari no. In
qualsiasi caso non sembrava avesse mangiato. "Se mi lasci sedere
qui, ti compro qualsiasi cosa vuoi da mangiare." Le parole gli
uscirono di bocca prima che potesse anche solo pensarci.
Gli
occhi di Levi-non-Levi si ridussero a due fessure. "Perché?"
Sorrise
per la prima volta in cinque anni. "Perché mi farebbe piacere
la tua compagnia." Rispose Eren.