XXXII
Aveva dormito a lungo, ma continuava a sentire il corpo pesante come un sasso. Non avrebbe scommesso un centesimo se qualcuno gli avesse detto che un giorno sarebbe stato avvelenato, eppure eccolo lì. In effetti non era bravo con le scommesse, non ci aveva preso nemmeno con Marina e alla fine le aveva detto che l’amava e aveva fatto l’amore con lei. Un brivido gli percorse la schiena al ricordo di quelle sensazioni e vederla dormire accanto a lui, ricurva sulle lenzuola bianche, gli faceva un certo effetto.
Erano insieme.
Lei era lì, con una coperta sulle spalle e il viso provato, ma non si era mossa di lì per un solo secondo da quando aveva ripreso conoscenza il giorno prima.
La guardò a lungo, beandosi della breve pace che gli donava il suo respiro, poiché ben presto gli eventi del giorno prima tornarono a colpirlo, precipitando nella sua mente con un rumore assordante.
Ben, il suo patrigno, l’uomo che sua madre aveva accolto in casa sua, aveva tentato di ucciderlo. Deglutì. Non che ne fosse sorpreso, ma non era mai stato così vicino alla morte, per mano sua. Ora che era successo, aveva davvero paura, ma per un solo motivo: perdere la sua ragione valida per alzarsi ogni mattina ed affrontare la giornata, quella cosa per cui non desiderare più di sparire e quella ragione aveva le labbra rosse e si chiamava Marina. Quella era la sua seconda occasione e non poteva permettersi di morire.
Non sapeva come Kadmon avrebbe fatto a dimostrare ogni cosa, a salvarlo da quell’asurdo vortice di sotterfugi e inganni, ma non aveva altra scelta che affidarsi a lui.
Il secondo macigno che lo colpì in pieno, era Nathan. Cioè, quello che credeva essere Nathan. Quel Josh, l’agente in borghese, il suo amico. Non sapeva ancora se sentirsi tradito o aiutato, ma il modo in cui lo aveva guardato, il giorno prima, gli era sembrato quello di sempre ed in quel momento quel ragazzo non aveva motivo di fingere: era sempre stato autentico. Doveva confessare a se stesso che non riusciva a non fidarsi di lui, una parte di sé era già del tutto convinta che Nathan – cioè Josh, diamine – fosse in buona fede e che gli volesse bene. Aveva solo cambiato nome.
Avrebbe fatto i conti con la paura quando tutta quella storia sarebbe terminata.
Terzo macigno, il più pesante: la porta aperta. Aveva trovato la porta aperta!
Aveva dimenticato di dirlo a Kadmon il giorno prima ed era stato uno sciocco, perché il fatto che fosse lì, in quel letto d’ospedale, significava che Ben fosse entrato davvero in camera sua e che avesse scoperto qualcosa. Probabilmente uno dei documenti fotocopiati era sfuggito al suo controllo o roba del genere.
Sbuffò pesantemente, rimproverandosi mentalmente e spostò finalmente gli occhi su qualcosa che non fosse Marina. Avrebbe voluto parlare con lei, raccontarle ciò che ricordava ed esprimere i suoi dubbi, ma non aveva il coraggio di svegliarla. Fece aleggiare lo sguardo nella stanza in attesa di qualcosa che non tardò ad arrivare: qualcuno bussava lievemente alla porta. Josh entrò senza attendere risposta.
- Ciao Ed. – disse, serenamente, come se non gli avesse mai celato la sua identità, come se non lo avesse mai pedinato.
- C-ciao uhm…Josh. – rispose, guardandolo negli occhi con vago sospetto.
- Come stai, oggi? – chiese. – Il dottor Rosenthal ha detto che sarai dimesso entro sera.
- A-ah, non ne sapevo niente. – E il suo pensiero volò al letto comodo di Marina e al the caldo che gli avrebbe preparato. Intanto Nathan sembrava ignorare la presenza di lei.
- Sono stato a casa tua ed ho recuperato la bottiglia. È già al laboratorio. – continuò, infilando le mani nelle tasche dei jeans con disinvoltura. – Sono entrato dall’ingresso sul retro, ho trovato la chiave sotto lo zerbino.
- Ah. – era quasi interdetto dalla naturalezza con cui gli raccontava quei dettagli. Sapeva che la sua espressione contratta era perfettamente leggibile e Josh sembrò coglierla.
- Dopo vi accompagno a casa, non potete certo tornare col pullman. – sorrise, accomodandosi sullo sgabello dal lato opposto del letto.
- Ti ringrazio. – disse soltanto, sentendo nel suo tono un cenno di sollievo che non aveva intenzione di esprimere.
- Sta tranquillo, il tuo patrigno non ha via di scampo, ci sono tutte le prove per incriminarlo e tu riavrai la tua casa.
- Lo spero.
- Allora, alla fine l’hai conquistata. – Josh la indicò con un gesto palese.
- Beh – la guardò – credo che sia stata lei a conquistare me. – sentì il cuore accelerare.
- Malandrino. Quanto ti invidio! – disse, autocommiserandosi. – Ed è brava a letto?
- Nathan! Cioè – scosse la testa, rimproverandosi ancora. – Josh!
- E va bene! – agitò le mani quello, ridendo di gusto. – Non oserò mai più metterlo in dubbio!
Quando Josh andò via, lasciandolo solo, Marina si svegliò e immediatamente gli fece un check-up mattutino. I suoi occhi verdi erano stanchi e i capelli spettinati, il trucco colato, ma non riusciva a vedere un solo dettaglio sbagliato nella sua figura. La sua voce roca per il sonno era musica.
Per fortuna il dottor Rosenthal, passando per la visita di routine, le assicurò che fosse tutto in ordine e che quello stesso pomeriggio potevano lasciare l’ospedale.
Il modo in cui lei lo guardava, mentre il medico lo visitava, lo faceva quasi arrossire e d’un tratto non vide l’ora di restare solo con lei e rubarle un bacio. Riusciva a leggere nei suoi occhi, tra le sue ciglia, ogni fibra dei suoi sentimenti. Facile come contare le lentiggini che aveva sul naso.
Purtroppo – o per fortuna, non appena Rosenthal uscì dalla stanza insieme alle infermiere, Kadmon entrò, sempre avvolto nel suo cappotto nero.
- Signor Kadmon! – disse Marina. – Non l’aspettavamo.
- Scusate se non mi sono annunciato, ma – e si accostò al materasso e a Marina – il mio cellulare si è scaricato e non avevo modo di comunicare con voi, così sono venuto.
- Signor Kadmon – disse subito Ed, senza dargli il tempo di aggiungere altro. – credo che Ben abbia scoperto qualcosa. – e immediatamente l’avvocato lo guardò con interesse. – Ieri, quando sono tornato a casa, ho trovato la porta della mia camera aperta.
- Sono sicuro di averla lasciata chiusa quando ci sono stato l’ultima volta ed ho avuto l’impressione che qualcuno ci fosse entrato. Ho paura che Ben abbia trovato qualcosa, qualche documento che ho dimenticato.
- Oh. – disse Kadmon, cercando di definire nella sua testa quanto fosse importante quel dettaglio.
- Bene, ragazzo. – disse allora Kadmon, con un sorrisino eloquente sul volto. – Ci siamo. – e guardò Marina e poi di nuovo lui. – Se me lo consenti, avvierò immediatamente la causa giudiziaria.
- Certo! – disse Ed, cominciando a vedere la fine di quel tunnel.
- Ma… - alzò l’indice. – Devi denunciare.
- Perderai la casa. – disse allora, severa. – Se non lo fai, perderai la casa. Tutto. Ha cercato di ucciderti, Edward.
- U-uhm. – cominciò – lo so, ma…
- Denunciarlo andrebbe a nostro favore, soprattutto adesso. – disse Kadmon, continuando a guardare la finestra, fingendo indifferenza mentre si aggiustava la giacca.
- Edward… - Marina lo guardò, quasi supplicandolo. – Devi farlo.
Lei lo aveva incoraggiato e sostenuto strenuamente, sempre, non poteva gettare al vento ogni suo sforzo. Voleva meritarla, essere l’uomo che Marina voleva al suo fianco, l’uomo che forse non era mai stato. Era difficile, lo sentiva, ma farlo per lei era un sacrificio che non avrebbe evitato di fare.
Realizzando quanto quel gesto fosse fondamentale per se stesso e per lei, parlò.
- Va bene. – disse.
Mentre le labbra di Marina si schiudevano, sorprese, si gettò a capofitto nella più totale incertezza.
- Lo farò.
Si era seduto sul bordo del letto, perché era convinto di riuscire a scaricare meglio la tensione tenendo i piedi a terra. Nel momento in cui la polizia entrava per la seconda volta dalla porta della stanza immacolata, aveva chiesto a Marina di uscire: non voleva che sentisse nulla di ciò che avrebbe raccontato. Era troppo lo strazio che avrebbe dovuto sopportare e nel caso in cui avesse pianto, non voleva mostrarle le sue lacrime. Era nervoso come prima di uno spettacolo, intrecciando le dita e stringendo la presa sulle sue stesse mani, ma andava bene così e lasciò che Marina lo lasciasse solo.
Kadmon rimase con lui, assistendolo ad ogni domanda e ad ogni risposta, ma non lo interruppe mai. Cercò di guardare lui mentre raccontava e spesso scorse la sua espressione seria contrarsi, quando gli agenti gli chiedevano di specificare le violenze subite e lui non risparmiava i dettagli.
Ed parlava a bassa voce, per paura che altri ascoltassero, che altri finissero per avere di lui la considerazione che aveva di se stesso.
Quando poi terminò di raccontare, calò il silenzio per un attimo e distolse lo sguardo da tutti, fissandosi i piedi.
Gli sembrò di aver parlato per giorni, ma stavolta non si sentiva risollevato: la sua rabbia e la sua umiliazione gli bruciavano nel petto. Kadmon lo salvò, intervenendo e informando le autorità che avrebbe avviato il ricorso giudiziario, dopodiché si congedarono e lo lasciarono solo.
- Ben fatto. – gli disse l’avvocato, prima di andare. Lui si limitò ad annuire, evitando i suoi occhi.
La miriade di ricordi che gli aleggiavano negli occhi fu immediatamente cancellata, come nuvole al vento, quando Marina rientrò e si affiancò a lui.
- Com’è andata? – gli chiese, seduta accanto a lui.
- Bene. – fece spallucce, sfiorandola. – Vorrei solo che finisse in fretta.
- Lo so.
- Salve. – sobbalzarono enrambi. – Sono il medico legale. – entrambi sembrarono capire. – Dobbiamo effettuare una serie di accertamenti, mi segua.
- Signorina Bennett.
- Marina.
- Scusi se l’ho svegliata. – La voce di Kadmon la riscosse.
- Oh – cercò di dire, la voce incrinata. – N-non si preoccupi.
- Sono venuto a prendervi. – La voce di Nathan/Josh la aiutò a riprendersi completamente.
- Il nostro amico vi accompagnerà a casa con l’auto. – le spiegò Adam, con fare frettoloso. – Tornando a noi: ho bisogno che faccia una cosa per me.
- Cosa? – cercò di capire, passandosi una mano tra i capelli scompigliati, cercando di ignorare la lentezza con cui il suo corpo riprendeva a funzionare.
- Deve andare a casa del signor Sheeran e recuperare dei documenti.
- Come, scusi? – chiese, credendo di aver capito male. Il solo pensiero di entrare in quella casa le metteva i brividi.
- Manca l’attestato di proprietà della casa, il signor Sheeran crede che sia rimasto nella sua stanza.
- Ti accompagno io. – disse Josh. – Se potessi andrei da solo, ma mi scoprirebbero.
- Cioè, devo entrare di soppiatto?
- Diciamo che devi entrare con discrezione. – quasi scherzava Josh, sicuramente più abituato di lei a certe cose. – E no, non può andare la polizia, Ben avrebbe tutto il tempo necessario per distruggere ogni cosa.
Con impegno ufficiale, Josh le diede appuntamento per il giorno successivo e la sua agitazione cominciava già a farsi sentire.
Mentre l’avvocato continuava a spiegare come e quando avrebbe cercato di ottenere un processo, Edward entrò nella stanza, il viso cadaverico e confuso. Il suo cuore si sciolse nel vederlo così provato, sentendo chiaro quell’istinto di protezione che aveva sempre serbato nei suoi confronti. Si morse le labbra, alzandosi per raggiungerlo. Kadmon non gli diede nemmeno un attimo di tregua, guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’infermiera.
- Edward, ho bisogno che tu faccia un’ultima cosa.
- Dobbiamo contattare tuo padre e chiedergli di testimoniare.
Non poteva nemmeno liquidare la faccenda a Kadmon, perché probabilmente suo padre avrebbe rifiutato in tronco, se invece lo avesse chiamato lui poteva avere una chance. Strinse la mano sulla spalla di Marina.
- Sì. Domani lo chiamo.
- Dai, ti aiuto. – gli disse dolcemente, nonostante a lui sembrasse che fossero passati secoli dall’ultima volta che le aveva dato un bacio.
- Grazie. – rispose allora, cercando i suoi occhi e trovandoli subito.
- Stai bene? – un lieve sorriso le decorò il viso stanco, mentre gli aggiustava teneramente i capelli.
- Sì – rispose, percependo di nuovo quell’intimità che si creava quando erano insieme. Posò le mani sui suoi fianchi e accostò la fronte alla sua. – E tu?
- Beh, ti preferirei senza il camice da ospedale, ma – rise lei, chiudendo gli occhi al contatto. – posso resistere.
- Grazie per il passaggio. – gli disse, dopo aver salutato una preoccupata Stephany all’ingresso.
- A cosa servono gli amici? – fece quello col sorriso sul volto.
Si fermarono alla biblioteca per recuperare la sua bici, che Marina portò nel freddo fino a casa sua, dopodiché Josh li lasciò e rimasero soli all’ingresso del palazzo di lei.
Il tintinnio delle chiavi era familiare e quasi non voleva entrare. Era una notte così bella.
Tuttavia, Marina lo incitò a raggiungerla e insieme varcarono la soglia di casa.
Il profumo di lei invadeva l’ambiente e si sentì a casa.
Due minuti dopo, gli stava preparando quel the che aveva desiderato e vide in quella scena una piacevole familiarità che gli scaldò il cuore.
Il modo in cui si sentiva amato, gli faceva credere che tutto fosse possibile.
Quella notte, quando andarono a letto, aveva perso il sonno, troppo preso dalla paura e dai pensieri. Avrebbe dovuto chiamare suo padre e affrontare tutto ciò che sarebbe venuto dopo, ma l’abbraccio di Marina era così confortante…
I suoi occhi brillavano alla luce della vecchia lampada e il suo viso era più sereno, ora che erano a casa. Si accoccolò a lui e sorrise.
Prima di lasciarle chiudere gli occhi, però, cercò il suo viso, sfiorando il suo naso col proprio e quando alzò gli occhi a lui, in perfetta corrispondenza con le sue labbra, la baciò.
Il calore che ricevette dalla sua bocca, avrebbe potuto scaldare ognuna delle notti che avrebbe vissuto da quel momento in poi.
Non era nemmeno sicuro di avere ancora il suo numero in rubrica, ma lo trovò al primo colpo. La scritta “Ian” non aveva cambiato forma in tutti quegl’anni e probabilmente non era cambiato nemmeno suo padre.
Seduto sul divano, la tazza di the accanto, si chiese cosa quell’uomo gli avrebbe risposto, quando gli avrebbe chiesto di testimoniare. Aveva paura di un suo rifiuto, ma doveva tentare: suo padre era la sua carta buona, la prova che il documento di Ben era falso. Gli tremavano le dita, ma pigiò con decisione il tasto di chiamata e si portò il telefono all’orecchio.
Mentre squillava, si posò una mano sugli occhi e rimase immobile.
- Pronto? – gli venne un colpo al cuore. L’ultima volta che lo aveva visto o sentito era proprio il giorno del suo compleanno nel 2009. – Chi è?
- U-uhm – cercò di riprendere fiato. – S-sono io, papà. – Dio, era così strano chiamarlo in quel modo. Era così strano parlare con lui.
- Edward? – era chiaro il suo disappunto. – Mio figlio? – riusciva ad immaginare i suoi baffi ondeggiare alle sue parole.
- S-sì, sono io. – non riusciva a capire cosa stesse provando in quel momento. – Come stai?
- Oh, io sto bene. E tu?
- B-bene, bene… - disse, ovviamente per circostanza, ma conoscendo suo padre era sicuro che gli avesse creduto senza problemi.
- Come mai questa telefonata? – dritto al punto, come sempre. Proprio in quel momento, Marina riemergeva dal bagno e lo raggiungeva sul divano.
- In realtà, dovrei chiederti un favore. – silenzio. Marina era seduta accando a lui, pronta per uscire. – Ho avviato una…causa contro Ben. Per riavere la casa del nonno. – ancora silenzio. – Ho bisogno che testimoni per me.
- Cosa? – evidentemente suo padre era sempre stato lento nella comprensione.
- V-vedi, ha presentato un documento falso secondo il quale io rinuncio all’eredità, ma il giorno della firma corrisponde al mio compleanno, nel 2009.
- E cosa c’entro io? – chiese, evidentemente alla ricerca di un motivo per sganciarsi da lui.
- Ero con te, quel giorno. A Londra. – le immagini e la tristezza di quella giornata erano ancora pungenti. – L-la mamma era morta da poco…
- Sì, mi ricordo.
- Credi che sia davvero necessaria la mia presenza? – chiese Ian, titubante.
- Mi salveresti, papà. – chiuse gli occhi e pregò. – Ti scongiuro.
- Beh…è un processo?
- Sì, ma dovrai solo depositare alla prima udienza, poi sarai libero. – gli assicurò.
- Uhm. – sembrò ancora pensarci.
Ian non sapeva cosa avesse passato durante gli anni di convivenza con Ben e Jef, né aveva intenzione di dirglielo, probabilmente lo avrebbe scoperto il giorno del processo. Quel silenzio straziante stava per farlo impazzire, poi suo padre parlò.
- Va bene. – disse, in un soffio. – Se queste sono le condizioni, va bene. È pur sempre casa mia.
- Oh! – sospirò attraverso il telefono, come se avesse trattenuto il fiato per troppo tempo. – Grazie, papà.
- Fammi sapere quando devo presentarmi.
- C-certo, non appena avrò notizie dall’avvocato.
- A presto, Ed.
- Ciao, papà.
- Eri davvero preoccupato che non accettasse? – chiese Marina.
- Non conosci mio padre.
Quando la baciò, sentì ancora il sapore del dentifricio e le morse il labbro per sentirlo meglio.
- Devo andare. – bofonchiò lei, spezzando a malincuore qualsiasi cosa stesse per accadere. – Josh mi aspetta.
Essere vivo accanto a lei, sentire il cuore palpitare, gli faceva venire voglia di vivere.
- Mi raccomando, ricordati che se ne hai bisogno, c’è la scala di corda sotto al letto. – le ricordò. – E se hai bisogno di qualcosa, chiamami.
Quando la accompagnò alla porta, la guardò negli occhi e le diede un altro bacio.
Per qualche motivo, era difficile lasciarla andare.
Intanto, a casa Sheeran, Benjamin Storm aveva ricevuto la posta e insieme ad essa, l’avvocato Foster di Foster&Martins.
Una volta accomodatosi in casa, quello gli aveva spiegato che sì, il suo figliastro aveva scoperto tutto, era evidente, perché la prima busta che Ben si ritrovò tra le mani era dello studio dell’avvocato Kadmon, che citava in giudizio il signor Benjamin Storm per violenza domestica, truffa allo stato, tentato omicidio premeditato, appropriazione indebita, sfruttamento, sostegno dello spaccio illegale e mille altre cose.
In poche parole, era rovinato.
Jef, seduto accanto a lui, era rovinato.
Foster, che guardava entrambi senza sapere bene cosa dire, era rovinato.
Si erano lasciati alle spalle troppe tracce, troppi indizi e quasi sicuramente – ammise l’avvocato – avrebbero perso. Troppe prove. Troppi fatti.
Ma Ben, rosso di rabbia, assicurò a Foster che non aveva speso quasi tutti i suoi soldi per poi ritrovarsi in prigione.
Dopo avergli detto che avrebbe fatto meglio a trovare una soluzione, lo cacciò fuori e si allontanò verso il salotto alla ricerca della sua bottiglia.
Quando cominciò a sbraitare contro suo figlio, data l’assenza del diretto interessato, Jef ebbe la conferma che suo padre fosse impazzito.
Cominciò a prendere i documenti dalla teca e a stracciarli, poi passò agli album di foto, poi alla tv, finchè non si diresse al piano di sopra, urlandogli di preparare le valigie.
- Dovrai essere molto silenziosa e veloce.
- Chiaro.
- Non lasciare mai il telefono e prendi prima i documenti, poi tutto il resto.
- Chiaro.
- Entrerò per primo, tu aspetta sempre il mio segnale per avanzare.
- Chiaro.
- E Marina… - lei si fermò di colpo sulla strada, guardandolo con gli occhi spalancati e il fiato corto. – Sta tranquilla.
Tranquilla un corno.
Josh le diede una pacca sulla spalla, per poi voltarsi di nuovo e riprendere a camminare.
Lo seguì cercando di tenere a mente ogni cosa e di ignorare il fatto che stessero facendo quella cosa in pieno giorno, cammianando per strada tra la gente come se nulla fosse. In ogni caso, lei non aveva mai visto casa di Edward e non sapeva di trovarsi sulla strada che era alle sue spalle. Infatti, quando Josh si fermò davanti ad un muro di cinta, si morse la lingua per non fare domande superflue.
Lui attese che le poche persone che erano in quella piccola strada secondaria se ne andassero o si voltassero per guardare altrove, dopodiché saltò verso il muro e si appese al bordo, issandosi. Ma sapeva quanto era alta lei? Era facile per lui che era uno spilungone.
Le tese una mano e Marina prese una leggera rincorsa, aggrappandosi ai mattoni più sporgenti: in un attimo, furono dentro. Atterrarono in un giardino poco curato, erano proprio alle spalle della casa verniciata di un giallo scolorito, ma Josh non le diede il tempo di guardarsi intorno e capì perché quando le indicò delle finestre. Se la fece addosso al pensiero che qualcuno potesse vederli, così lo seguì gattonando tra le erbaccie, lungo il muro, fino ad arrivare sul fianco destro della casa. Una sola finestra: la camera di Edward.
- Come facciamo ad entrare da qui?
- Tu sta ferma e non ti muovere, io entro per primo. Ti lancio la scala e sali.
- V-va bene.
Per distrarsi dall’agitazione cominciò a cantare nella testa Chasing Cars, pensando alla voce di Edward e chiedendosi ad ogni minuto se Josh non fosse stato scoperto. Cominciava a sentire freddo tra quei cespugli.
- Psss!
Si assicurò che non ci fosse nessuno e terrorizzata corse verso il muro, salendo immediatamente sulla corda, spaventata più dall’idea di Ben che dall’effrazione in sé. Rischiò di cadere e il ricordo dell’incidente sulla collina le fece salire un brivido lungo la schiena, ma Josh la afferrò non appena fu abbastanza vicina, tirandola dentro, attraverso la finestra.
Per un attimo riprese fiato, poggiandosi sulle ginocchia, poi alzò lo sguardo e si guardò intorno: quella era la stanza di Edward. Le mura bianche erano arredate dal minimo indispensabile: un letto matrimoniale, un armadio, un comodino e una scrivania. Probabilmente quella non era la sua stanza, ma quella di sua madre. Guardò le foto appese al muro e le mancò il respiro nel vedere le immagini di lui e sua madre, del matrimonio dei suoi, dei suoi nonni. Quelle quattro mura spoglie avevano visto ogni cosa di lui. Per anni lo avevano visto dormire, disperarsi, sognare, suonare ed ora era lì. Era nella sua vita. La sensazione di appartenere a quel posto le strinse il petto in modo indescrivibile.
- Cerca i documenti. – La svegliò Josh. – Io vado a fare un’altra cosa. Quando hai finito, riscendi e torna al muro. Ti raggiungo lì.
- Cosa? – doveva restare sola?
- Non preoccuparti, né Ben né Jef arriveranno qui.
- Ma-
Cercando di mantenere il controllo, si abbassò sul pavimento alla ricerca del battiscopa scollato, sotto la finestra. Tirò un paio di pezzi con la punta delle dita, finchè il terzo non venne via, facendo più rumore di quanto credesse, ma ci badò poco vedendo il buco nel muro di cui Ed le aveva parlato. Senza pensarci due volte, ci infilò la mano dentro, ma le sue dita non tastarono niente. Si abbassò di più, sfiorando il pavimento con il viso, ma non trovò niente. Si rialzò, restando in ginocchio: e ora? Guardò a terra, sotto al letto, ma sembrava non esserci!
Senza perdersi d’animo, si alzò e cominciò a prendere lo zaino che sapeva essere nell’armadio, infilandoci dentro i vestiti che aveva a portata di mano. Nel cassetto del settemino prese la biancheria e dal bagno il suo spazzolino. Intanto, continuava a cercare quel maledetto foglio.
Quando aprì il cassetto del comodino per cercare i soldi e l’agenda, sentì un rumore e si immobilizzò.
Dall’altra parte della porta, Jef l’aveva vista dal buco della serratura, attirato dai rumori.
Marina non sapeva se fosse meglio andare a controllare o restare immobile, ma aveva paura che qualcuno stesse per entrare. Eppure si sbagliava di grosso: Jef non stava entrando, l’aveva chiusa dentro.
Al piano di sotto, Josh era spalle al muro. Ben lo aveva trovato ed era immediatamente scattato lo scontro, data la sua ubriachezza, ma anche lui era all’oscuro di un dettaglio fondamentale: Ben era un lottatore.
Gli bastò poco per mettere il ragazzo ko e lasciarlo sul pavimento del corridoio, come era capitato centinaia di volte al suo amico.
Fuori di sé, Ben sparse il resto del rum per tutta la lunghezza del corridoio, chiamando Jef e ordinandogli di portare fuori le valigie.
Corse di nuovo in salotto e prese tutti i liquori che aveva in vetrina, spargendoli per tutta la casa. Quando Jef fu fuori, Ben recuperò il vecchio zippo di nonno Henry e si fermò nell’ingresso.
Rideva con una lucidità che faceva ribrezzo.
Se non avesse ottenuto quella casa, non l’avrebbe avuta nessuno.
Con lo sguardo annebbiato dalla rabbia e dall’alcool, fece scattare la rotella e lasciò cadere l’accendino a terra ed immediatamente il legno del pavimento prese fuoco.
Jef, vedendo le fiamme cominciare a divampare, chiamò suo padre e corse verso di lui per tirarlo fuori.
Quando riuscì a trascinarlo fino alle valigie, lo condusse oltre il cancello e non appena furono fuori, una forte esplosione lo fece pietrificare, spaventandolo a morte. Per un attimo ogni cosa si annullò e le orecchie cominciarono a fischiargli.
Quando riportò gli occhi alla casa, una grossa nuvola di fumo nero usciva dalle finestre della cucina e le fiamme avvolgevano tutto il pian terreno.
Josh e Marina erano ancora dentro.
Angolo autrice:
Perdono!
Lo so, sono in ritardissimo, ma sono davvero sommersa ultimamente.
Allora, veniamo al capitolo: so che volete uccidermi, lo sento nell'aria e presto dovrò fuggire in un posto lontano, ma...cosa ne pensate?
E' stato davvero difficile decidere come doveva andare a finire questa storia e spero di non deludervi, perchè le vostre recensioni sono davvero troppo belle e il numero delle visite è davvero troppo alto.
Vi scriverò un ringraziamento con i fiocchi, lo prometto. :)
Cosa mi dite di Ben? E di Jef? In questo capitolo esce fuori una parte della loro personalità che fin'ora era rimasta nascosta. Tuttavia, devo confessare che i personaggi secondari - tutti - non sono stati approfonditi e rivelati come volevo, ma ho dovuto scegiere di limitarmi per il bene della storia. Se avessi voluto scrivere davvero bene questa storia, ne sarebbe uscito un romanzo in tre parti, non una fanfiction. Quindi vi chiedo se nonostante la scelta, il loro ruolo e la loro psiche siano abbastanza percepibili ai fini del racconto. Fatemelo sapere.
Che altro dire, lascio a voi la parola.
Ci vediamo nel weekend per il prossimo capitolo.
A presto, Marinediani. :)
S.
-> Bonus: solo per imcecy, un bonus tutto speciale. :)