Capitolo
14
Si
scambiarono un’occhiata,
tutti e tre.
Eric
inspirò pesantemente.
Secondo Miller cosa stavano facendo alle due di notte, con un borsone
in spalla
e Kaithlyn in quelle condizioni? Una simpatica gita fuori programma?
Andava a
inseguire le lucciole e rotolarsi su un verde prato fiorito? Una bella
nottata
in campeggio per dormire sotto le stelle?
-
Kath ma che diavolo ti è
successo? Stai male? – chiese spaesato, spalancando gli occhi
a fissando
allibito il viso pallido di Kaithlyn e il borsone che lui reggeva in
mano.
Eric
cercò di calmarsi.
Come
diceva la psicologa? Respirazione profonda? Inspira,
espira, inspira…
Era
sull’orlo di una crisi
di nervi. Da una parte avrebbe voluto prendere a testate Kaithlyn,
dallaltra
si sentiva colpevole per il danno che le aveva ‘involontariamente’
causato.
La
vide sospirare dalla
bocca e deglutire, forse per idratarsi la gola secca per le grida e per
l’alcol.
-
Credo di essermi giocata
il nervo soprascapolare. –
spiegò
Kaithlyn, massaggiandosi il braccio destro e lanciando
un’occhiata alla fine
del corridoio buio, con il chiaro intento di controllare che nessuno
potesse
vederla in quello stato.
Jason
fece per dire
qualcosa, ma lei proseguì. – E ho vomitato.
– aggiunse con un cenno del capo, a
mo’ di spiegazione.
Jason
la fisso vagamente
confuso. – Non posso neanche allontanarmi due minuti che ti
riduci così… –
commentò quasi più a se stesso che a loro.
Corrugò
le sopracciglia,
come se gli si fosse improvvisamente accesa in mezzo alla fronte una
lampadina.
– In che senso ti sei giocata il
nervo
soprascapolare? – domandò in modo tanto
serio che quella non sembrava
neanche la sua voce. – Voglio dire, che significa?
Cosa… cosa innerva? –
chiese, con un velo di preoccupazione sul viso inespressivo.
Kaithlyn
aprì bocca per
rispondere ma lui lo precedette. – Secondo te cosa cazzo
innerva il nervo soprascapolare? Un
piede, imbecille? –
ringhiò, stringendo i manici del borsone e iniziando a
sentire il sangue
salirgli rapidamente al cervello e le tempie ricominciare a pulsare.
Doveva
controllarsi, se non voleva saltargli alla gola prima del tempo ma
imporsi la
calma gli sembrava un’impresa troppo ardua per quella serata:
effettivamente
sarebbe stato molto più semplice seguire l’istinto
e strozzarlo sullo stipite
della porta di Kaithlyn e mollare lei lì, da sola e
dolorante.
Gli
sarebbe bastato che lui
chi desse una scusa valida, anche banale, per saltargli alla gola, e
sarebbe
stato un ragazzo felice.
Forse
felice no, dato che
dopo Kaithlyn l’avrebbe fatto in pezzettini talmente piccoli
da farlo entrare
in un porta monete, ma almeno sarebbe riuscito a sfogarsi.
Jason
lo guardò stordito. –
Sì... immagino che…-.
Eric
lasciò cadere a terra
il borsone. – Ecco, bravo! “Che ti è
successo Kath?” “Stai male?” –
lo
scimmiottò, - no, cazzo, non vedi che è il
ritratto del benessere? Di’ un po’,
ce li hai gli occhi? Hai bisogno che vada a prenderti un bastone da non
vedenti?
Un paio di occhiali con lenti spesse tre centimetri? Vuoi un
certificato di
cecità? – sbraitò.
Per
un secondo regnò il silenzio
totale e fu abbastanza sicuro di vedere Kaithlyn irrigidire la
mandibola,
mentre le usciva un respiro secco ed esasperato dal naso. Sembrava si
stesse
quasi trattenendo dal girarsi e suonargliene di santa ragione, ma
immagina che
non la ritenesse una mossa molto brillante. E per quanto fosse
un’Intrepida,
Kaithlyn, raramente se non mai, faceva qualcosa da ritenersi stupido.
Non
se ne curò, ci avrebbe
pensato più tardi, tanto peggio di così non
poteva andare. Era umanamente
impossibile le cose tra loro peggiorassero ancora. L’unica
possibilità per cui
una cosa del genere potesse accadere, era che uno dei due sopprimesse
definitivamente
l’altro. Se non altro era in vantaggio!
Jason
aprì la bocca per dire
qualcosa. – Io… - incominciò,
momentaneamente sorpreso, prima di riacquistare
l’espressione indifferente di poco prima.
Gli
occhi di Eric ebbero un
guizzo. – Sì, tu, vuoi fare qualcosa di utile?
– sibilò, afferrandolo per un
braccio e trascinandolo al suo posto, dentro l’appartamento.
- Prendi un
maledetto straccio e sistema questo disastro. Sempre che tu non voglia
farti un
giretto al pronto soccorso e stringerle la mano mentre le infilano un
ago di
venti centimetri nella schiena! Sai qual è la procedura non
chirurgica per
questo genere di danni? Si prende una siringa lunga più o
meno… -.
Jason
lo fermò con i palmi alzati
verso di lui. – Sono sicuro che sia un racconto avvincente,
ma non m’interessa,
grazie. Dammi le chiavi e sbrigati, prima che… -.
Prima
di che cosa?
-
Basta, ci vado da sola al
pronto soccorso. – decretò Kaithlyn visibilmente
irritata, interrompendolo e
raccattando con il braccio sano il borsone. Trascinò la
sacca per un paio di
metri prima di caricarsela sulla spalla sana e andare spedita verso il
corridoio che portava ai piani inferiori.
Se
non avesse fatto una
strage quella sera, non l’avrebbe fatta mai più ne
era certo. Avrebbe veramente avuto
bisogno di un bravo
psichiatra, se voleva continuare a frequentarsi con lei.
-
E tu dove cazzo vai in
quelle condizioni, eh? Vuoi andare a piedi? Magari a corsa, facciamo a
chi
arriva… Kaithlyn? KAITHLYN! – gridò,
mentre l’unica risposta che gli arrivava
era un dito medio alzato.
Si
girò febbrilmente verso
l’altro, che stirò la bocca nel sorriso
accondiscendente di chi sapeva già come
sarebbero andate le cose. Forse gli sarebbe passata la voglia di
ridere, dopo
avergli buttato giù tutti i denti uno per uno e aver
scambiato il posto a naso
e bocca.
Eric
gli lasciò cadere le
chiavi in mano. – Io te l’avevo detto.
ghignò Jason, stringendo il mazzetto
nel pugno. – Ti conviene correre, per avere le gambe
così corte sa essere
inquietantemente rapida. – gli consigliò con
un’alzata di sopracciglia prima di
chiudergli la porta in faccia.
Non
sfondare la porta, Eric. Non è proficuo ai tuoi
scopi. Potrai ucciderlo con calma, nessuno ti corre dietro.
Si
passò le mani tra i
capelli per toglierseli dal viso e cercare di darsi una calmata, prima
di
avviarsi a grandi falcate dietro alla ragazza.
Per
quanto detestasse
ammetterlo Miller aveva maledettamente ragione: era inquietantemente
rapida per
avere le gambe tanto più corte delle sue. La raggiuse e la
agguantò per la
stoffa del borsone, poco prima dell’uscita che conduceva
verso il parcheggio,
sbilanciandola e facendo cadere la borsa a terra con un tonfo.
-
Forza muoviti, non ho
tutta la notte. – le sibilò, prendendo il borsone
con una mano e afferrando il
braccio sano di Kaithlyn con l’altra.
Lei
si divincolò,
strattonandosi all’indietro e riuscendo a liberarsi.
– Io non vado da nessuna
parte con te. – ringhiò, stringendo i pugni e
scostandosi una ciocca di capelli
rossi che le era caduta sul viso.
Eric
diede un’alzata di
sopracciglia. – Davvero? Bene, sono curioso di vederti
arrivare fino al
Quartiere degli Eruditi a piedi! Dovrei prendere degli stuzzichini da
portarmi
dietro per godermi lo spettacolo. Posso invitare un amico? Se aspetti
un
secondo mando un messaggino a Sean! -.
Kaithlyn
arricciò il naso e
lo squadrò con sufficienza. Poi infilò una mano
in tasca e ne estrasse una
chiave elettronica con due bottoncini. – Ho la macchina,
imbecille. – disse,
facendogliela ondeggiare davanti.
Eric
si rabbuiò prima di
tirare fuori un sorriso tagliente, strappargliela di mano e infilarla
fulmineamente in una tasca interna della giacca.
-
Ridammele. – sibilò subito
Kaithlyn cercando di infilargli le mani nel giubbotto per recuperare le
chiavi.
Eric
si scansò, facendola
incespicare nei suoi stessi piedi. – Cosa? –
chiese, candidamente alzando le
mani in seno di resa.
-
Non fare l’idiota, rendimi
le chiavi della mia auto! -.
Alzò
le spalle. – Non so di
cosa tu stia parlando, ma possiamo sicuramente discuterne in macchina.
Forza,
andiamo. – disse, mettendole una mano sulla schiena e
spingendola verso
l’uscita.
-
No. – si ostinò Kaithlyn.
-
Non cercare di convincermi
che hai voglia di guidare con quel braccio. Non fare la bambina, ho il
posto
riservato e a quest’ora alla mia andatura arriveremo in meno
di mezz’ora. –
tentò, cercando di farla vacillare in
quell’assurda convinzione di dover fare
tutto da sola.
Contava
sul fatto che fosse
ancora un po’ frastornata dall’alcol.
Quanto
poteva bere una
ragazza minuta come lei, prima di perdere le inibizioni ed essere
manovrabile?
In
condizioni normali, con una ragazza normale,
avrebbe ipotizzato
un paio, massimo tre drink, ma trattandosi di Kaithlyn sospettava che
neanche
il veleno per topi potesse avere effetto; se l’avesse morsa
una vipera, ad
esempio, non aveva dubbi su chi avrebbe avuto la peggio: la vipera
sarebbe
morta tra atroci sofferenze.
Kaithlyn
fortunatamente esitò
per quel secondo che diede a Eric il tempo di riafferrarla per un
braccio e di
trascinarla, nonostante puntasse i piedi come una bambina capricciosa,
fino
alla sua auto parcheggiata sul lato destro del parcheggio.
Lasciò
cadere il borsone a
terra, estrasse le sue chiavi e aprì. Sempre tenendola ferma
per un braccio e
aiutandosi con un piede, spalancò lo sportello posteriore e
ci lanciò il
borsone, lo richiuse e poi andò agli sportelli anteriori.
Infilare Kaithlyn di
forza in macchina non fu esattamente una passeggiata dato che lei non
era per
niente collaborativa e continuava a piantare i piedi per non
assecondarlo,
oltre ai tentativi di colpirlo in parti del corpo non meglio
identificate. Alla
fine, stufo di quella situazione la prese
in braccio e la gettò di peso e senza nessuna delicatezza
all’interno
dell’abitacolo. In pochi secondi fu al posto di guida ed ebbe
giusto il tempo
di chiudere la macchina con il pulsantino che aveva sul volante per non
farla
uscire. Mise in modo e partì.
Kaithlyn
si massaggiò un po’
il sedere e passò i primi minuti in silenzio, la fronte
corrugata e
l’espressione arrabbiata e stanca. Era uno strano connubio di
emozioni, sul suo
viso: difficilmente sembrava spossata, particolarmente amareggiata o
arrabbiata
in modo non disinteressato. Anzi, non l’aveva mai vista in
alcun modo
vulnerabile.
Qualche
volta sembrava quasi
impossibile smuovere una vera emozione dentro di lei, qualcosa che la
toccasse
sul serio e la facesse vacillare.
Era
snervante, perché lui
ogni tanto, quando erano da soli, si lasciava anche andare, un pochino.
La
presenza di Kaithlyn,
fino a quel
momento, nonostante le liti
frequenti, aveva avuto un effetto perlopiù benefico su di
lui: era più
tranquillo, non aveva due dita ingessate per i troppi pugni alle pareti
della
Residenza e stava iniziando a gestire gli incubi. Quello di quella sera
era
stato il primo attacco d’ira serio da mesi, e ormai pensava
di poterli gestire
pienamente, di non aver più bisogno di sforzarsi di
ricordare come aveva agito
o di dover chiedere a Sean quello che aveva combinato perché
non se lo
ricordava.
Aveva
addirittura progettato
di non dirle niente, di lasciar correre. Perché avrebbe
dovuto tirare fuori
qualcosa che sembrava essere svanito e tanti vecchi ricordi? Con lei,
per di
più!
Già
aveva fatto fatica a
parlare con Sean, figurarsi con la ragazza per cui aveva, doveva
purtroppo
ammetterlo, preso completamente la testa. Gli era sembrato inutile e
contro
producente, ma aveva finito per sopravvalutare se stesse e il suo
carattere iroso:
avrebbe dovuto mettere in conto che, con una donna del genere, alla
fine
sarebbe accaduto qualcosa del genere. Invece aveva continuato a
ignorare quella
vocina fastidiosa, tanto simile a quella di William, che sembrava
dirgli di
avvertire la ragazza che aveva accanto del problema. Effettivamente
sarebbe
stata una cosa intelligente, matura e responsabile.
Peccato
che nessuna di
quelle tre caratteristiche facesse pienamente parte di lui. Certo, non
era
stupido. O ignorante o incapace. Non era mai riuscito a conformarsi del
tutto
alla sua fazione d’origine per la quale ogni comportamento,
ogni azione, doveva
avere un senso ed essere ben ponderata per valutarne ogni aspetto. Lui
era
sempre stato impulsivo, incostante e iperattivo facendo dannare i suoi
genitori
dal momento stesso in cui era nato, al contrario di suo fratello:
riflessivo,
equilibrato – anche se riteneva quell’aspetto
quantomeno discutibile – e tranquillo.
Un Erudito perfetto, in parole povere. Era sicuro che si trovasse
perfettamente
a suo agio in quella fazione che a lui era sempre andata troppo stretta.
Le
strade erano deserte e
sarebbe stata anche una bella serata per uscire a prendere una boccata
daria o
per un’escursione fuori porta, se non fosse stato tanto teso
e la sua ragazza
non gli avesse tenuto il muso, anche se forse “tenere il
muso era un
eufemismo: era incazzata come non mai.
La
luna era a meno di un
quarto e almeno fino a quando non fossero arrivati nei pressi
dell’ospedale,
non c’erano altre fonti di luce se non i fari
dell’auto. I vetri appannati per
il freddo esterno avrebbero dato quasi un tocco di bellezza, di
intimità, a
quella serata, se non fosse che sembrava di poter tagliare la tensione
con un
coltello.
L’atmosfera
gli ricordava
quella della mattina, quando aveva litigato con Kaithlyn. Sembravano
passati
dei giorni e invece erano trascorse meno di ventiquattr’ore.
L’aria tra loro
sembrava quasi elettrica, ma non avvertiva lo stesso dinamismo, la
stesse
sensazione d’incombenza della mattinava che sembrava urlare a
entrambi che
stavano sovraccaricando l’aria, come se questa potesse
prendere fuoco e
distruggere entrambi. Era una tensione diversa: se quella mattina
Kaithlyn,
anziché proseguire con quella storia avesse bussato alla
porta dopo che l’aveva
chiusa e gli avesse strappato i vestiti di dosso, in quel momento,
probabilmente, sarebbero stati entrambi mezzi ubriachi ad amoreggiare
da
qualche parte o già a casa, al caldo sotto le coperte a
darsi piacere. Lei non
si sarebbe fatta male – non le
avrebbe
fatto dal male – e non si sarebbe trovati
sull’orlo di rompere i rapporti.
Sarebbe stati bene, ma la ragazza che aveva accanto e per quale aveva
straveduto per un anno e mezzo prima di chiederle di uscire, era
estremamente
orgogliosa e ostinata, e non sarebbe mai tornata sui suoi passi.
Voltò
appena la testa verso
di lei, per ripiantare gli occhi sulla strada non appena si rese conto
che lei
aveva fatto la stessa cosa. L’unica differenza era che
l’occhiata che gli aveva
riservato non era neutra come la sua ma truce. Ciò
nonostante, la vide comunque
abbassare gli occhi sulle braccia incrociate e imbronciarsi ancora di
più. Era
come se entrambi avessero qualcosa da dire, ma nessuno dei due volesse
farlo,
lasciando le parole non dette premere sul silenzio teso che si era
creato.
Dopo
i primi minuti notò
Kaithlyn, che era rimasta fino a quel momento immobile e appoggiata
allo
schienale con tutto il peso, stringersi le gambe al petto e tirarsi
più giù possibile
le maniche della felpa prima di appoggiare il mento sulle proprie
ginocchia e
trattenere un smorfia di dolore: forse le tiravano i muscoli della
schiena.
Allungò
una mano verso i
pulsanti del riscaldamento e lo accese, impostandolo intorno ai
ventiquattro
gradi. Approfittò del primo semaforo per togliersi il
giaccone; osservò
l’indumento per alcuni secondi, indeciso se darglielo o meno.
Lei avrebbe
preferito perdere tutte le dita dei piedi piuttosto che accettare una
cosa
idiota come un giaccone pesante, ma doveva riguadagnare terreno in
fretta e
cercare di essere il meno stronzo possibile poteva essere una
soluzione. O
fingere di pensare che lei avesse ragione. Il problema di
quell’ultima opzione
è che, se si fosse accorta che la stava assecondando, si
sarebbe incazzata ancora
di più: Kaithlyn aveva la strana abitudine di pretendere
attenzione e di
pensare che gli altri dovessero assecondare ciò che le
passava per la testa e
ciò che diceva ma, allo stesso tempo, non tollerava chi lo
faceva perché si
sentiva presa in giro.
Non
era un comportamento
molto equilibrato, alla fine dei conti. Almeno lui si comportava da
stronzo con
tutti, senza neanche sforzarsi, ma non esigeva certo che gli altri
facessero
volentieri ciò che gli veniva ordinato da lui. Non che
gliene importasse
qualcosa, le persone di cui poteva anche solo pensare di tenere in
considerazione l’opinione si potevano contare sulle dita
delle mani.
Inoltre
non osava pensare a
quando Kaithlyn potesse rompere i coglioni da malata, considerando
quanto lo
faceva quando stava bene. Sarebbe stato un incubo. Un incubo che gli
avrebbe
fatto scoprire nuovi orizzonti della pazienza e milioni di metodi
fantasiosi
per uccidere qualcuno e farlo passare per un incidente. In
più, avrebbe potuto
attaccargli qualcosa e non era il caso con l’azione di
contenimento che stavano
progettando. Con cosa avrebbe ucciso ribelli e divergenti? A suon di
starnuti?
Aggrottò
le sopracciglia e
storse le labbra, come se il suo stesso giaccone potesse sussurragli la
soluzione ai suoi problemi. Compreso il piccolo, insignificante
dettaglio, del
dover tenere all’oscuro la Nana Malefica dai piani dei
Capofazione Intrepidi;
perché lei lo avrebbe scoperto. Era troppo intelligente per
bersi tutte le
cazzate che le avrebbe rifilato nelle settimane successive; era troppo
attenta
ai dettagli, troppo paranoica per farsi fregare sotto il naso in quel
modo o
farsi iniettare un fiala di liquido sconosciuto.
E
quella era la ragione per
cui aveva chiesto un incontro con Jeanine: sapeva che la Capofazione
degli
Eruditi non aveva alcuna simpatia per Kaithlyn, un po’
perché la irritava il
fatto di essere una seconda scelta. Era ancora al suo posto solo
perché una
ragazzina appena sedicenne aveva ignorato l’occasione che le
si prospettava
davanti per lanciarsi da treni in corsa, buttarsi legata a un cavo di
metallo
da un palazzo alto oltre trecento metri e sparare a un bersaglio.
Si
riscosse dai suoi
pensieri e scoccò un’occhiata di sottecchi
all’oggetto dei suoi pensieri che,
in quei pochi secondi si era adagiato contro il sedile con gli occhi
semichiusi
ma l’espressione ancora imbronciata.
-
Tieni. – brontolò senza
guardarla, allungandole il giaccone. In tutta risposta ricevette uno
schiaffo
sulla man o e un’occhiata che avrebbe polverizzato sul posto
anche Jack Kang,
il Capofazione dei Candidi, facendolo vergognare anche di esistere.
Sbuffò
dal naso. – Fai come
ti pare, muori di freddo. – sbottò con
un’alzata di spalle. - Se ti congeli
prima di essere arrivati ti scarico alla prima fila di cassonetti.
–aggiunse,
infilando l’indumento tra il vetro anteriore
dell’auto e il cruscotto, evitando
sempre accuratamente il suo sguardo truce. Kaithlyn seguì i
suoi movimenti
quasi come se volesse morderlo: aveva quasi timore a passarle un
braccio
davanti.
Ripartì
senza curarsi del
semaforo rosso, dato che a giro non c’era un’anima
a parte loro due. Seguirono
altri minuti di silenzio, durante i quali Kaithlyn guardò
fuori dal finestrino
e lui si concentrò sulla guida. – Non devi
accompagnarmi solo perché ti ho
fatto pena, sono in grado di badare a me stessa. –
esordì dopo un po’, senza guardarlo.
Storse
la bocca in una
smorfia. – Non mi fai pena. – precisò. -
Penso ancora che sia tu in torto. –
assicurò tenendo gli occhi puntati sulla strada e stringendo
maggiormente il
volante.
-
E allora perché tanta
premura? Se sono così pessima, forse non ti valgo la benzina
che stai sprecando
per accompagnarmi. Ci hai pensato? – mormorò
velenosamente poggiando il viso
sul palmo della mano e il gomito sulla base del vetro.
Respirò
pesantemente,
indeciso su cosa rispondere. – Perché da sola non
saresti durata un secondo e
non mi diverto a scannarmi con te ogni giorno che Dio manda in terra, io. E poi siamo ancora insieme ed
è mio
compito evitare che tu muoia per una stronzata del genere. Non sarebbe
un
granché, credo. – rispose evasivamente. Certi
discorsi l’avevano sempre messo
in grossa difficoltà e dirle che gli dispiaceva per il male
che le aveva fatto
non rientrava tra le cose che si sentiva capace di fare quella sera.
Kaithlyn
ridacchiò. –
Contento te di stare una puttana arrivista, che pensa solo a se stessa
e si
diverte a mortificarti… De
gustibus, giusto?
– disse con cattiveria.
-
Io non penso questo di … -
incominciò, girando appena la testa verso di lei e
lanciandole un’occhiata
risentita.
Kaithlyn
sembrò infiammarsi
e finalmente si voltò verso di lui con uno scatto.
– Davvero? Mi sembrava il
contrario, poco fa! Se non altro io posso parlare con cognizione di
causa
quando dico quanto tu sia stato patetico l’altro giorno e
stupido durante
l’iniziazione, facendo l’arrogante quando non
potevi permetterti di farlo! –
gridò, tutto d’un fiato.
Eric
respirò tra i denti,
stringendo le dita intorno al volante per non cedere alla tentazione di
colpirla. – Queste, - ringhiò cercando tuttavia di
controllare la voce, - sono
solo tue deduzioni. Io non ho mai detto… quelle cose di te.
– concluse, la voce
tremante di rabbia.
Stava
facendo uno sforzo non
indifferente per non cedere alla tentazione di inchiodare e farla
scendere.
Lei
lo guardò con le
sopracciglia inarcate, in una finta espressione scettica. –
Mie deduzioni? Che strano: mi
sembrava di
aver inteso perfettamente il tuo atteggiamento e i tuoi gesti. Mi sono
immaginata tutto? – lo schernì, - non mi hai
sollevata di peso, insinuando che
per arrivare dove sono, è stato necessario abbassarmi
davanti ai pantaloni dei
miei superiori? Perché magari ho le allucinazioni! Sai
cos’è un’allucinazione?
In quel caso dovresti farti vedere da… - ribatté
parlando con calma e con voce
chiara, come se stesse ripetendo una lezione o stesse spiegando un
argomento
sul quale aveva delle conoscenze più approfondite.
Un
ringhio gli uscì dalle
labbra, mentre una scossa di rabbia gli percorreva tutta la schiena e
lo
costringeva a irrigidirsi.
-
Bene! – sbottò, - vuoi
parlare di deduzioni? Di impressioni?
- la provocò, concitato.
Kaithlyn
gli fece un cenno
di sfida con il mento e incrociò le braccia.
-
Perché se la mettiamo
così, per quanto tu dica il contrario e neghi che ci sia
qualcosa sembra proprio che tu e
quel povero
demente biondo che ti porti appresso abbiate scopato! –
sbottò, lanciandole
un’occhiata vittoriosa.
La
risata di Kaithlyn lo
lasciò per un momento smarrito e confuso.
Che
diavolo c'era di divertente? Voleva ridere anche lui!
-
Che cazzo ridi? Lo trovi
divertente? Perché io non mi sto divertendo per niente!
– ringhiò, mentre
Kaithlyn si copriva la bocca con una mano.
Strinse
il volente con
forza, aspettando che smettesse. Era come se un leggero tremore gli si
stesse
diffondendo dal collo nel resto del corpo. Era la voglia di colpire
qualcosa,
di farle male.
-
Be'? Se me lo dici, rido
anch'io! – insistette in un sibilo.
Kaithlyn
tirò fuori un
sorrisetto derisorio. – In effetti, è molto
divertente. Rido perché, a quando pare, non sei stupido come
sembri! – mormorò
allungandosi per accarezzargli una guancia con il dorso della mano, che
allontanò con un gesto di stizza.
Eric
spalancò gli occhi e
aprì la bocca, mentre il significato di quelle parole aveva
su di lui l’effetto
di una doccia fredda.
Inchiodò,
facendo sbattere
Kaithlyn sul cruscotto davanti a lei.
Si
portò una mano sul naso,
mentre il dolore per la botta s’irradiava a tutta la faccia.
Eric
la fissava con la bocca
semi aperta e gli occhi spalancati, come se gli avesse rivelato
chissà che
cosa.
Ghignò.
La reazione
sconcertata di Eric era esattamente quello che voleva. Sapeva quanto il
suo
rapporto con Jason lo rendesse insicuro ed era la ragione per un cui
aveva
avanzato di raccontargli alcuni episodi degli ultimi quattro anni.
-
Stai mentendo. – le sibilò,
assottigliando gli occhi nell’espressione diffidente di chi
non si sarebbe
fatto prendere in giro. Era incredibile come riuscisse a passare da
un’emozione
all’altra in così pochi secondi.
-
No, certo che no! –
ridacchiò. – come vedi, le impressioni che spesso
ci sembrano errate in un
primo momento, qualche volta si rivelano corrette. – disse
pragmaticamente, un
ghigno di sufficienza ancora stampato sul viso.
Lui
aprì e richiuse la
bocca, basito.
-
Be’? Non hai niente da
dire? - lo stuzzicò, sistemandosi meglio sul seggiolino e
guardandolo in attesa,
le mani intrecciate davanti agli stinchi.
Lo
vide irrigidire la
mandibola. – Quando? – chiese cupamente, stringendo
il volante e fissandola con
espressione quasi idrofoba.
Si
mise una ciocca di
capelli dietro l’orecchio, con non curanza. – Vuoi
sapere l’ultima, la prima…?
– infierì, spietata parlando lentamente in modo
che gli arrivasse chiara alle
orecchie ogni sillaba.
Eric
pareva sul punto di
mettersi a urlare. O di metterle le mani alla gola, immaginò
dipendesse dal
momento.
Lui
andava a momenti: un attimo prima
era tranquillo e l’attimo dopo
era ai pazzi.
Respirò
affannosamente per
un attimo e si mise le mani sul viso, lasciandosi cadere contro il
sedile. La
macchina ebbe un sussulto e si spense, ma non infierì:
voleva aspettare che
prendesse consapevolezza di quello che gli aveva detto per rendere
tangibili
quelli che sapeva essere i suoi timori. Sapeva che Eric, nonostante
all’apparenza sembrasse anche troppo spavaldo, e per certi
versi lo era,
nascondeva una profonda insicurezza per se stesso e per gli altri,
anche se non
era ancora riuscita a capirne a pieno il motivo.
Lo
spegnimento improvviso
sembrò riportarlo gradualmente con i piedi per terra,
distogliendolo
dall’immagine di lei e Jason avvinghiati da qualche parte.
Magari stava proprio
pensando al suo letto matrimoniale, dove erano stati tante volete
insieme.
Ne
sarebbe stata contenta,
perché era esattamente quello a cui voleva che pensasse per
le successive ore. Voleva
che il tarlo del dubbio lo tormentasse fino allo stremo.
Sapeva
di stargli facendo
del male e sapeva anche che avrebbe dovuto dispiacerle. Ma non era
così. Avere
gli strumenti per sopraffarlo, come aveva fatto lui con lei poco prima,
le dava
una piacevole sensazione di predominanza. Era lei ad avere il coltello
dalla
parte del manico e avrebbe continuato ad affondarlo crudelmente in una
ferita
aperta e tanto delicata fintanto che non si sarebbe stancata.
Detestava
essere sopraffatta
e le poche volte in cui le era capitato aveva sempre reagito sfruttando
quello
che sapeva dell’altro, chiunque fosse, per ricambiare il
favore non con una, ma
con dieci volte la cattiveria che aveva ricevuto. Era così
che si era fatta
spazio nelle Forze Speciali, anche se era la più piccola, la
più debole
fisicamente e l’unica donna.
Era
stata la più intelligente,
anche se non era un grande sforzo essere più svegli della
maggior parte degli
Intrepidi, e aveva ottenuto tutto ciò che si era prefissata
di ottenere.
Negli
Eruditi era stata
viziata e abituata a non essere seconda a nessuna, mai e per nessuna
ragione.
Suo padre era più esigente con lei che con tutti e quattro i
suoi fratelli
maggiori messi insieme e lo era stato in particolare dal momento in cui
aveva
espresso la sua volontà di cambiare fazione pretendendo da
lei niente di meno
che l’eccellenza.
Lei
ed Eric non parlavano
granché di quello che c’era stato prima, o della
vita che entrambi avevano
condotto tra gli Eruditi; lui s’innervosiva, diventava cupo e
scontroso, cambiava
discorso e lei non aveva mai cercato di scavare più a fondo.
O di renderlo
partecipe di quello che riguardava lei.
Lo
vide riafferrare il
volante e fare un respiro profondo. – Bene, - disse prima di
schiarirsi la
voce, riaccendere la macchina e ripartire come se nulla fosse, forse,
rifletté,
per non darle soddisfazione.
Non
aggiunse altro mentre
percorrevano il viale buio e deserto; ogni tanto lanciava qualche
occhiata a
Eric, che sembrava, via via che si avvinavano sempre più
nervoso e pallido. Notò
che gli stremavano impercettibilmente le mani, e si chiese cosa lo
spaventasse
o lo innervosisse tanto.
Arrivati
a uno degli
stradoni principali che collegava diverse strade diramate per tutta la
città,
Eric, anziché percorrerlo e prendere la via più
breve svoltò improvvisamente in
una strada secondaria e fece il giro.
Lo
guardò con sufficienza. –
Si può sapere che fai? Ti si è guastato il GPS?
– mormorò altezzosamente.
Eric
non rispose e si limitò
a deglutire appena e fissare insistentemente la strada, stringendo con
ancora
maggior vigore il volante e riaprendosi, piano e dolorosamente, le
nocche. Quel
gesto gli fece stringere le labbra, ma non lo udì emettere
neanche un lamento
nonostante fossero ridotte veramente, veramente male.
A
causa di alcune strade
chiuse furono costretti a tornare indietro e ad allungare ancora di
più la strada.
Quella faccenda inizia a irritarla più del dovuto e il
dolore al braccio e alla
spalla stava piano piano diventando globale e sordo.
Quando
furono a poche
centinaia di mentre dal parcheggio del retro dell’ospedale,
dove si trovava
anche l’ingresso delle ambulanze e l’entrata del
pronto soccorso, Eric inchiodò
nuovamente.
Kaithlyn
mise il braccio
sano in avanti, riuscendo a evitare di battere un’altra testa
sul cruscotto
della macchina. – Che c’è?
–ringhiò, vedendo che non aggiungeva nulla.
– Ti sei
incantato? Vuoi una mano a riaccendere la macchina o…? -.
–
Voglio sapere quando ti
sei fatta sbattere da… da lui. Magari l’ultima
volta che è rimasto da te, eh? –
ringhiò improvvisamente di nuovo preda della furia,
afferrandola per un braccio
e tirandola verso di sé per arrivarle a due centimetri dal
viso.
Kaithlyn
non rispose. Tutto
sommato se l’era cercata, ma il fatto che ogni scusa fosse
buona per darle
della poco di buono cominciava a diventare snervante e non aveva
nessuna voglia
di sopportare ancora. Era stato già abbasta strano, per lei,
lasciar correre con
l’episodio di qualche giorno prima e non aveva nessuna
intenzione di ripetere
l’esperienza.
La
spalla le faceva male e
lo strattone che le diede sembrò intensificare il dolore,
facendola gemere. –
Mollami. – sibilò.
-
Lasciami indovinare. –
disse, ignorandola e rafforzando la presa, spezzandole il fiato per il
dolore. –
Eri tanto scocciata perché ho interrotto la vostra seratina?
Magari ti sei
fatta scopare anche durante il turno di guardia, vero?! Dimmi un
po’, almeno ti
è piaciuto? O magari sei talmente abituata che uno vale
l’altro – proseguì in
un mormorio basso e letale.
Aveva
appurato con se stessa
di essersela cercata, di averlo provocato e spinto al
limite… ma ciò non le
impedì di caricare un pugno con la mano destra e colpirlo
sul viso,
costringendolo a lasciarla.
Sentì
il naso di Eric
scrocchiare sotto il suo colpo e, per solo un momento, temette di
averglielo
rotto di nuovo. Se così fosse stato, dato che conosceva il
dolore, non si sarebbe
sorpresa di ricevere una testata sui denti e un man rovescio tanto
forte da
rigirarle la faccia.
Si
alzò comunque di scatto,
scalciando il giubbotto di Eric che le era caduto sulle gambe raccolte,
si alzò
sulle ginocchia e prima che lui potesse fermarla premette il pulsante
per
aprire la macchina.
Scese
come una furia,
spalancò lo sportello posteriore con un’energia
che non credeva di avere e si
buttò la sacca in spalle, sbattendo la portiera con tutte le
sue forze per poi
avviarsi a piedi per l’ultimo chilometro di strada.
-
Kaithlyn?! Kaithlyn?!
KAITHLYN! – le urlò dietro, senza tuttavia
ricevere alcuna considerazione.
Lei
non lo ascoltò e
proseguì per la sua strada, a piedi.
-
Cazzo! – imprecò, colpendo
ripetutamente il volante con i palmi delle mani.
Ansimò,
cercando di
riacquistare il controllo della situazione e non gettarsi
all’inseguimento della
ragazza per finire l’opera che aveva involontariamente
iniziato.
Kaithlyn
era sparita,
avvolta nell’oscurità e fuori dal raggio
d’azione dei fari, così accese gli
abbaglianti e la individuò, una centinaio di metri
più avanti. Camminava
spedita, trascinando il borsone per terra. Era incredibile quante
energie
avesse da sprecare, in quello stato. Quasi la invidiava.
Era
ancora teso come una
corda di violino, e percepiva, dietro la testa, ancora il formicolio
della
tensione che, lo sapeva, se avesse aspettato ancora lo avrebbe spinto e
farle
del male.
Continuavano
a venirgli in
mente immagini di lei con Miller, avvinghiati sul suo letto, dove tante
volte
erano stati insieme. Lo vedeva accarezzarle il viso, baciarle il collo
con
dolcezza e stringerla contro di sé. Lo vedeva spogliarla con
calma, con quella
complicità e quella confidenza fisica che loro due avevano
dovuto costruire
passo dopo passo, la stessa che per l’altro sembrava
naturale. Lo vedeva
accarezzarla, toccarla, premerla contro il suo petto e ridere insieme a
lei,
come se si conoscessero da sempre. Lo vedeva fare l’amore con
lei, con una
dolcezza che lui non avrebbe mai avuto e si sentì
sprofondare.
Sarebbe
stata meglio con
lui. La conosceva bene, forse, per certi versi, anche meglio di lui ed
era
tranquillo, equilibrato e l’avrebbe trattata riservandole
tutte le attenzioni
che le servivano. La complicità c’era
già, a letto insieme erano già andati…
era sufficiente che si facesse da parte lui.
Quello
che gli aveva detto Kaithlyn
era stato come una doccia fredda, uno schiaffo. Più volte
aveva pensato che, in
effetti, ci potesse essere stato qualcosa tra loro, ma pensava anche,
dato che
erano in buoni rapporti, che fosse stato troncato sul nascere o che il
fatto di
essere l’uno la nemesi dell’altra gli avesse
impedito di avvicinarsi in quel
modo.
Si
sbagliava, come sempre
quando si trattava di Kaithlyn.
Deglutì,
ingoiando
l’amarezza di quella realizzazione e rimise in moto
l’auto. Non appena fossero
tornati alla Residenza, avrebbe dovuto mettere un paio di punti in
chiaro con
Jason. E sarebbe stato meglio che lui l’avesse ascoltato,
perché sentiva in non
star aspettando altro se non una buona scusa per sfogarsi su di lui,
dato che
su Kaithlyn non poteva. O meglio, poteva: ma le conseguenze erano ben
peggiori
di quelle che avrebbe subito per una bella scazzottata tra uomini e
prendere a
pugni un ragazza malconcia, che pesava meno della metà di
lui non gli sembrava
molto virile. Inoltre gli sarebbe dispiaciuto fare del male a Kaithlyn,
mentre
picchiare a sangue Jason fino a fargli sputare tutti i denti, gli
avrebbe
provocato un certo piacere.
Ripartì
piano, seguendo
Kaithlyn da una certa distanza per assicurarsi che non collassasse in
mezzo di
strada o infilasse in un tombino aperto, dato che in quella zona spesso
facevano
controlli e lavori. Gli sarebbe toccato soccorrerla, e non ne aveva
alcuna
voglia.
Sembrava
stare meglio, comunque,
o almeno così sembrava dato l’impegno che ci stava
mettendo per seminarlo.
Era
ancora assorto nei suoi
pensieri, lasciati a vagare da una considerazione all’altra
nel tentativo di
calmarsi, quando la ricetrasmittente dell’auto gli
comunicò con un trillo che
aveva una chiamata in entrata dalla Residenza.
Premette
il pulsante di
risposta, prima di rinchiodare gli occhi sulla strada e sulla figura
della
ragazza.
-
Che c’è? – ringhiò,
incurante di chi ci fosse dall’altra parte.
-
Dove diavolo sei? – gli
rispose, quello che identificò come Sean.
Non
aveva niente di meglio
da fare alle due e mezzo di notte?
-
Quasi al pronto soccorso,
la Stronza si è sentita male. Sto aspettando che cada
accidentalmente in un
pozzo lasciato aperto per andarmene. – sbottò.
Dall’altra
parte ci furono
un paio di secondi di silenzio. – Quindi non è
andata granché, eh? -.
Ma
cosa andava a pensare? Chiunque avrebbe scelto quella
zona per fare una piacevole escursione romantica, alle due e mezzo di
notte e
con quel freddo da lupi.
Non
rispose.
Era
una persona molto
orgogliosa e anche molto ostinata. Forse era per quella ragione che,
nonostante
le girasse la testa, sentisse freddo e le venisse da vomitare, oltre al
dolore
alla schiena, non si era ancora rassegnata ad aspettare che Eric la
raggiungesse in macchina e a farsi portare al pronto soccorso
comodamente
seduta sul sedile del passeggero della sua auto. Con il riscaldamento
acceso e
un bel giaccone sulle spalle.
Preferiva
soffrire,
collassare a terra o arrivare alla meta strisciando piuttosto che fare
un passo
indietro, indipendentemente dall’essere nel torto o nella
ragione, anche se a
quel punto era difficile dire cosa fosse colpa di chi e
perché; avrebbero
potuto metterci una pietra sopra, cercare di andare d’accordo
per qualche ora e
riappacificarsi, ma lei non era intenzionata a fare un solo passo per
migliorare le cose.
Piuttosto
la vivisezione.
Ringhiò
dal dolore per
l’ennesima fitta alla schiena e lasciò andare il
borsone inciampando per terra
e frenando la caduta con i palmi delle mani. Una scossa le percorse la
schiena
e la costrinse a mordersi le labbra per soffocare un gemito di dolore.
Si
mise in ginocchio e
facendo leva sulle mani riuscì ad alzarsi, mentre la
sensibilità ai muscoli
della spalla diminuiva e un’altra fitta le faceva stringere i
denti tanto da
farsi male.
Strinse
le labbra e si alzò:
non era troppo lontana e continuando di quel passo sarebbe arrivata nel
giro di
pochi minuti. Forse una quindicina. Poteva farcela, non aveva bisogno
di Eric o
di chi per lui.
Non
aveva bisogno di nessuno.
Forte
di quella convinzione
riafferrò il borsone per i manici e se lo mise in spalla a
fatica; non era
particolarmente pesante e l’avrebbe portato senza problemi se
non le fosse
girata in quel modo alla testa e se il dolore che andava e veniva a
schiena e
braccio non avesse distolto la sua attenzione da tutto il resto.
Scosse
la testa, cercando di
scacciare la sensazione d’impotenza che sembrava volersi
impossessare di lei e
riprese a camminare lentamente.
Non
si sarebbe fatta mettere
fuori gioco da una stupida, inutile scheggia di pietra.
La
verità, nonostante avesse
fatto la spavalda fino a pochi minuti prima in presenza di Eric, era
che era preoccupata
seriamente per il suo braccio: sapeva che non era colpa di Eric, ma non
poteva
fare a meno, in qualche modo, in imputargli un margine di
responsabilità. Lei
lavorava con le braccia, era la miglior Tiratrice degli Intrepidi e
aveva
davanti una carriera sfavillante, tecnicamente. Ma se non fosse stato
possibile
recuperare del tutto il braccio, cosa avrebbe fatto? Sarebbe finita al
Centro
di Controllo? A fissare un monitor per tutto giorno, lei? O magari in
palestra,
a misurare il pavimento e a insegnare a ragazzini che a malapena
sopportava
come allacciarsi gli scarponi.
Stare
alla recensione o
pattugliare la città le dava lo stesso entusiasmo che
avrebbe avuto nel
mettersi a fare un girotondo in un campo di grano e con una stupida
corona di
fiori in testa.
Avrebbe
dovuto valutare e
decidere: forse addirittura di andarsene. Sarebbe dipeso esclusivamente
da chi
avesse predominato tra orgoglio e intelletto.
Rise
istericamente, a quel
pensiero. Se non altro era riuscito a liberarsi di lei una volta per
tutte.
Era
abbastanza sicura, per
quel che capiva lei di quella roba, che non fosse niente di troppo
serio;
sarebbe stato sufficiente estrarre il corpo estraneo dalla sua
maledettissima
scapola e prendere per qualche giorno gli altrettanto stramaledetti
antidolorifici, o al massimo fare qualche iniezione. Eppure il tarlo
del dubbio
la rendeva nervosa, instabile e incredibilmente suscettibile.
Lo
detestava in quel
momento, e l’unica cosa che sembrava farla stare meglio era
ferirlo e
umiliarlo, esattamente come aveva fatto lui per tutta la sera. Sapeva
che il tasto
“Jason” era fastidiosamente dolente e che non
avrebbe dovuto dirgli una cosa
del genere in quel modo; sapeva che avrebbe dato i numeri e ne godeva.
Rabbrividì
fin dentro le
ossa per il freddo pungente della notte e si strinse per quanto
possibile la
felpa addosso. Aveva pensato, nei pochi secondi di cui aveva avuto
bisogno per
colpire Eric e scendere dall’auto, di afferrare anche il suo
giaccone: non era
una mossa intelligente arrancare in quelle condizioni e con quel
freddo, ma era
troppo orgogliosa per ammettere di aver bisogno di qualcosa di suo,
anche se si
trattava di una cosa stupida come un giaccone pesante. Sarebbe stato
come
ammettere di aver bisogno di aiuto, di essere accudita o, ancora
peggio, di
aver bisogno di lui. E piuttosto
che
riconoscere quell’eventualità, sarebbe morta di
freddo e si sarebbe fatta
trovare la mattina dopo come una bella statuina di ghiaccio; tutto,
qualsiasi
cosa pur di non fasi tendere la mano da Eric Turner.
Incespicò
nei suoi stessi
piedi, mentre sentiva la pressione calarle bruscamente e le ginocchia
cederle.
Cadde in ginocchio e fece appello a tutta la forza di cui disponeva per
rimanere ancorata alla realtà e non svenire. Quando fu
abbastanza sicura di
essere in grado di alzarsi, cercò di tirarsi su facendo
forza sulle gambe, ma
un altro giramento la colse impreparata e la fece cadere in avanti.
Kaithlyn
mise le mani avanti
per non battere la testa e non finire distesa. Non sarebbe svenuta in
mezzo di
strada come la prima imbecille passata per caso. Che figura ci faceva?
Era un
soldato, nelle Forza Speciali da quasi quattro anni e sveniva per una
sciocchezza del genere? Che cosa avrebbe fatto se ci fosse stata una
guerra,
una battaglia, e fosse rimasta ferita? Si sarebbe fatta portare in
braccio da
uno dei suoi compagni come una ragazzina piagnucolosa?
Riprovò
ad alzarsi, ma il movimento
le causò una stretta nauseante alla bocca dello stomaco.
Riuscì a rimettere le
mani avanti a sé giusto in tempo per bloccare nuovamente la
caduta, ma un dolore
pungente e frizzante le pervase la mano sana.
Ritrasse
la mano dal terreno
cercando di mettersi seduta sulle ginocchia e per non perdere
l’equilibrio. Si
guardò la mano nella quale era piantano, anche se non in
profondità, un pezzo
di vetro forse proveniente da un auto o da un incidente avvenuto in
giornata.
Le
braccia e le mani le
tremavano e sentì le lacrime venirle quasi automaticamente
agli occhi ma le
ricacciò indietro. Afferrò il vetro con due dita
informicolate e tirò appena,
soffocando un gemito di dolore.
Doveva
fare una cosa rapida,
uno strappo e sarebbe finito tutto. Poteva tamponare il sangue con uno
dei
fazzoletti che teneva nel borsone e ormai era abbastanza vicino al
pronto
soccorso.
Contava
di non morire
dissanguata nel tragitto, sarebbe stato piuttosto imbarazzante: forse
anche
peggio di svenire.
Respirò
profondamente dal
naso ed estrasse la scheggia con uno strattone. Il dolore le fece
mordere a
sangue le labbra e la fece boccheggiare, mentre il sangue iniziava a
zampillare
dalla ferita. Aveva un taglio di cinque centimetri sul palmo della
mano. Bene,
c’era dell’altro? Magari poteva cadere in terra e
procurarsi una commozione cerebrale,
o poteva collassarle un polmone, così, giusto per non farsi
mancare niente.
Si
passò l’avambraccio del
braccio ferito sugli occhi, cercando di controllare il tremore diffuso
in tutto
il corpo e iniziò a respirare profondamente, facendo entrare
l’aria dalla bocca
con lentezza e facendola uscire dal naso. Dopo circa un minuto
sentì il rumore
della macchina che si fermava in lontananza e s’impose di
alzarsi. Sarebbe
rotolata o strisciata prima di farsi vedere tra tutti, proprio da lui
in quel
modo. Anche se forse, gli avrebbe fatto più male vederla
così, che pensare che
stesse meglio.
Si
alzò quasi di scatto,
senza curarsi di tamponare la ferita come si era prefissata.
Lo
sbalzo repentino di
pressione le fece girare vorticosamente la testa e le
provocò un’altra stretta
allo stomaco. Le veniva da vomitare, maledizione. Avrebbe dovuto bere
meno o
coprirsi di più; di quel passo le sarebbe venuta una
congestione.
Riuscì
a mantenere
l’equilibrio senza sapere neanche lei come, ma non
riuscì a impedire alla bile
di risalirle la gola.
Vomitò
sull’asfalto,
tenendosi lo stomaco come ad arginare la nausea. Un colpo di fosse la
fece
piegare in avanti, ma riuscì a rimanere in piedi divaricando
leggermente le
gambe per reggersi meglio.
Non
sarebbe caduta di nuovo
per terra, nel suo vomito per giunta.
Stava
sudando freddo mentre
iniziava a tramare visibilmente. Si passò una mano sulla
fronte, trovandola
madida di sudore, mentre le si annebbiava la vista di lacrime dovute
alla
tosse.
Si
chinò cautamente per
prendere i fazzoletti nella tasca interna del borsone: era
un’operazione lenta
e dolorosa, e impiegò alcuni minuti per portala a
compimento; estrasse un
fazzolettino di carta bianco e si pulì le labbra prima di
gettarlo malamente a
terra.
Si
appoggiò una mano sulla
fronte e spostò i capelli dal viso sudato prima di imporre
alle sue gambe di
muoversi nuovamente.
Riprese
a camminare
lentamente. Non si sentiva più il braccio, quindi
l’unica soluzione fu
trascinare il borsone per i manici. Avrebbe dovuto aspettare che le
tornasse la
sensibilità, ma era contenta che Eric non fosse corso ad
aiutarla. Avrebbe
dovuto insultarlo ancora e non era sicura di avere voce a sufficienza.
Stufa
di trascinare il suo
bagaglio se lo caricò in spalla, soffocando un ringhio di
dolore. Non riusciva
a chiudere la mano tagliata e trascinare quel peso iniziava a diventare
più
doloroso del consentito.
Malauguratamente,
il borsone
le scivolò, strattonandole il braccio verso il basso.
Il
dolore durò poco, ma la
fitta iniziale le riempì la testa e le sembrò
quasi si sentire il suo sangue
pulsare nelle vene, mentre le si annebbiava nuovamente la vista e
barcollava
pericolosamente all’indietro. Lasciò andare il
borsone, senza più forza nella
braccia e si sporse in avanti per mantenere l’equilibrio,
come aveva fatto poco
prima.
Mancava
poco, era quasi
arrivata. Un ultimo sforzo, doveva solo attraversare la strada intorno
alla
rotonda riservata alle ambulanze ed entrare dalle porte automatiche.
Non era
lontano, anche se salire e scendere i gradini del marciapiede
mattonellato
sarebbe stato doloroso.
Il
passo che fece in avanti
le causò un conato di vomito più forte dei
precedenti, costringendola a piegarsi
in avanti per non sporcarsi.
Tossì,
mentre al primo
conato ne seguiva un altro abbastanza forte da costringerla a cadere
sulle
ginocchia e a tenersi spasmodicamente allo stomaco con le mani.
Ora
sentiva chiaramente i
brividi su tutto il corpo e si accorse di tremare come una foglia. La
testa le
pulsava dolorosamente e sentì salirle agli occhi lacrime di
frustrazione.
Era
patetica, ecco cos’era.
-
E quindi? -.
-
E quindi nulla, mi ha
mandato al diavolo ed è scesa di macchina. –
ripeté, per la seconda volta.
Quando ci si metteva Sean era più curioso di una donnicciola
e nonostante fosse
ormai un Intrepido, continuava a voler essere messo al corrente e a
voler
conoscere ogni aspetto di quello che succedeva.
“Se
devo farti da avvocato difensore, devo conoscere ogni
aspetto degli avvenimenti.”
Tralasciando
le ovvie
considerazioni sul fatto che, professandosi come suo migliore amico,
avrebbe
dovuto prendere le sue parti a prescindere dalle circostanze.
Ma
quelli erano dettagli,
giusto?
Osservò
con più attenzione
davanti a sé, sporgendosi leggermente in avanti per vedere
nell’oscurità.
Andava talmente piano che non aveva neanche bisogno di tenere le mani
sul
volante.
-
Aspetta un attimo: forse
sta collassando. – comunicò all’amico.
In effetti, Kaithlyn era caduta. La vide
provare ad alzarsi un paio di volte e dopo la seconda, vendendola
rimanere a
terra, spense il motore preparandosi a scendere per andare a raccattarla.
Le
vide drizzare la testa e
alzarsi repentinamente, forse sentendo il motore della macchina
spengersi e
immaginando che sarebbe andato ad aiutarla. Forse si alzò
troppo velocemente,
perché la vide piegarsi in avanti e vomitare anche
l’anima. Non la vedeva
chiaramente, era buio e lei si trovava a diverse decine di metri da lui.
Da
un punto di vista teorico
avrebbe dovuto correre da lei, caricarsela in spalle e portarla in
ospedale,
prima che avesse una congestione e restasse lì.
Aspetto
diversi secondi, poi
la vide rialzarsi barcollante, così riaccese la macchina e
ripartì. La vide girata
verso il borsone, che fisso per diversi secondi prima di afferrarlo per
i
manici e iniziare a trascinarlo.
-
Mmh… falso allarme,
respira ancora. – aggiunse rivolto a Sean.
Sean,
dall’altra parte,
ridacchiò. – Tu non vuoi veramente che ci resti
secca. Contieniti e va ad
aiutarla. -.
Lo
ignorò, osservando dove
stava camminando la ragazza. Non si sarebbe congelato per aiutare
qualcuno che
a) ce l’aveva a morte con lui b) lo trattava di merda da
giorni e c) non voleva
essere aiutato.
Perché
forzarla? Se aveva
deciso che la sua ora sarebbe arrivata proprio lì erano
affari suoi… de gustibus.
Se la strada nei dintorni
dell’ospedale cittadino le piaceva come ultimo luogo da
visitare prima di
morire, avrebbe rispettato i suoi desideri.
-
Lì spesso c’è un tombino
aperto, forse stasera sono fortunato e… no, ovviamente no.
– brontolò, mentre
Kaithlyn sorpassava uno dei tanti tombini soggetti a manutenzione della
zona.
Sean
sospirò. – Eric. -.
Inarcò
le sopracciglia. –
Che c’è? Mi pareva che la speranza fosse
l’ultima a morire! – protestò con
indifferenza corrugando le sopracciglia e acuendo lo sguardo per
individuare le
sagome della ragazza.
-
Certo, - gli concesse
ironicamente l’altro. – è ancora in
piedi? – indagò, dopo alcuni secondi di
pausa.
-
Ovviamente. Chi la ammazza
quella? Se dovessero sequestrarla, mi preoccuperei di più
per i sequestratori
che per lei. Aveva ragione boccoli
d’oro:
avrei dovuto portarmi una mazza chiodata e finirla. Forse la
decapitazione
funziona davvero…– mormorò, senza
tuttavia staccare gli occhi dalla figura
barcollante che camminava a poche decine di metri da lui e che sembrava
intenzionata a continuare per la sua strada anche a costo di strisciare
sull’asfalto.
Era
grande e vaccinata, se
voleva arrivare in coma al pronto soccorso non poteva certo essere un
problema
suo. Non si sarebbe fatto esplodere le coronarie per quello e non
glielo
avrebbe impedito.
Sean
rise. –Ti credo. –
-
Tu, comunque, perché mi
chiami a quest’ora? Non hai proprio niente di meglio da fare?
– indagò, mentre
osservava attentamente ogni movimento di kaithlyn che stava assumendo
un’andatura quasi moribonda.
-
Ho discusso con Mia e lei
mi ha gentilmente invitato a
trovarmi
un altro letto, nella fattispecie il tuo. A quanto pare le tue
discussioni con
la tua ragazza hanno contagiato anche lei…. Comunque sono
andato a casa tua, ma
tu non c’eri, come ben sai…
allora… -
spiegò, con tutta calma.
-
Io stasera sarei comunque
rimasto da Kaithlyn, dato che aveva come “ospite”
Mister Simpatia; avresti
dormito fuori. – lo interruppe. Dopo quello che gli aveva
schiaffato in faccia,
tra l’altro, non avrebbe più passato una sola
notte senza sapere esattamente
dove fosse e cosa stesse facendo. Si sarebbe accampato nel suo salotto,
se
necessario, ma Miller doveva stare ad almeno trenta metri da lei.
Avrebbe
scritto un’ordinanza restrittiva facendolo passare per un
maniaco pervertito
che si divertiva a torturare le donne con giochetti sadici, per tenerlo
alla
larga da ciò che era solo ed
esclusivamente suo.
Sean
si zittì un attimo. – Mi
lasci finire? Grazie. Comunque sono
andato da Robert e Annie, i nostri compagni d’iniziazione,
hai presente Re degli Asociali Patologici?
Esatto
proprio quei due tipi simpatici con cui abbiamo condiviso il bagno per
un mese
in quella topaia di dormitorio! Insomma, sono andato da loro e dato che
non
avevo il cercapersone mi hanno fatto chiamare con il telefono di casa.
Ora sai
che hai disturbato quasi tutta la nostra classe
d’iniziazione, contento? –
concluse, come se fossero entrambi in salotto e bere una birra.
Eric
storse la bocca: non
era particolarmente entusiasta del fatto che anche gli altri due
sapessero di
quel casino. – Non tutti.
Se davvero
vuoi fare una cosa come si deve, fammi un regalo e versa del cemento
armato e
rinforzato davanti alla porta di Quattro. –
suggerì con un ghigno.
Il
sogno della sua vita:
sbarazzarsi per sempre di Tobias Eaton. Quattro. Come diavolo si
chiamava.
Che
poi, riflettendoci,
farsi chiamare come un numero gli sembrava una cosa piuttosto idiota.
Negli
Eruditi gli avrebbero riso in faccia per… be’, per
sempre. A malapena
sopportavano gli abbreviativi. Lui, ad esempio, almeno quando era in
casa e i
suoi erano a portata d’orecchio doveva chiamare suo fratello
William… avevano
tollerato, sua madre in particolare, che lo chiamasse Will solo fino
all’inizio
dei Livelli Inferiori ed esclusivamente perché ancora non
poteva parlare in
modo del tutto corretto. Anche se sospettava che ci fosse lo zampino di
suo
padre, che era sempre stato più incline ad assecondarli di
sua madre e il più
delle volte si ritrovava a fare da mediatore.
Un
movimento brusco, davanti
a lui, lo distolse dai suoi pensieri. Il borsone di Kaithlyn era caduto
a terra
e lei era piegata in due e stava vomitando di nuovo. Aspettò
alcuni secondi che
si rialzasse, ma lei continuò a piegarsi sempre
più su se stessa, scossa da
conati e tosse.
Spense
il motore ma non la
macchina per mantenere la comunicazione e sentire lei nel caso
l’avesse
chiamato per aiutarla.
Kaithlyn
si piegò in avanti,
reggendosi con gli avambracci e continuando a tossire. La vedeva
tremare anche
da lì, forse le stava prendendo una congestione.
-
Sean, ci sentiamo dopo,
devo andare. – comunicò, slacciandosi la cintura.
-
Kaithlyn? L’hai recuperata?
– chiese, l’altro con una punta di interesse.
-
No, ma sta rantolando. Ti
richiamo. – disse prima di riattaccare e scendere velocemente
dall’auto.
Si
mise le chiavi in tasca,
afferrò il suo giaccone e si avvicinò a passo
svelto da lei, semi accasciata
sull’asfalto.
Si
chino su di lei e le
scostò i capelli dal viso. Non l’aveva mai vista
tanto stravolta: era sudata,
tremante e aveva le mani coperte si sangue. Non sembrava neanche la
stessa
ragazza di poche ore prima, in quelle condizioni.
Lei
scansò la sua mano con
la testa, e due secondi dopo Eric, aveva infilato un braccio sotto le
ascelle di
Kaithlyn per non farla finire con la faccia
terra.
Si
sedette a terra e le fece
appoggiare la testa e la schiena sul suo torace, poi la
coprì con la giacca,
massaggiandole piano la pancia.
Kaithlyn
scuoteva debolmente
la testa e non appena gli sembrò stesse un po’
meglio, la sentì muoversi e la aiutò
a mettersi in piedi.
-
Tieni, infilati questo… -
mormorò, mettendole il giaccone pesante sulle spalle.
La
tenne una mano sulla
pancia, per scaldarle lo stomaco congestionato e le passò
l’altra sulla
schiena.
Kaithlyn
si divincolò con
tutta la forza che le rimaneva e si voltò verso di lui,
barcollante, sudata e
ricoperta di sangue ma decisa. – Non toccarmi… -
biascicò, con la voce
impastata e debole come quella di un’ubriaca.
Eric
la ignorò. – Ti porto
all’entrata e poi torno a prendere la macchina. Non arriverai
mai neanche
all’aiuola centrale, di questo passo. – disse,
cercando di farla ragionare. Se
si ribellava rischiava di farle più male di quanto
già non avesse fatto.
Kaithlyn
lo allontanò con le
braccia. – Non ho bisogno né di te né
di nessun altro… non voglio che… che tu
mi tocchi. – protestò con veemenza facendo altri
due passi barcollanti
all’indietro.
Fece
appena in tempo ad
afferrarla, prima che cadesse in terra e battesse una testa
sull’asfalto.
–
Se ci tieni tanto a fare
la dura ti faccio arrivare all’entrata del pronto soccorso da
sola mentre
parcheggio, che dici? – la schernì, spingendola
verso la macchina e afferrando
il borsone con l’altra mano.
-
Io non voglio fare “la
dura”, idiota. Voglio solo arrivare al pronto soccorso e
vedere cosa diavolo mi
sono fatta e, se possibile, non sentire la tua voce.
M’infastidisce. – ansimò con
la voce arrochita dal freddo e ancora impastata.
Eric
scosse la testa. Non
riusciva a spiegarsi come potesse pensare ancora a qualcosa che non
fosse il
bisogno di farsi aiutare in quelle condizioni. Era incredibile. Dove
trovava
l’energia per discutere e per rimbeccarlo in quel modo?
Aveva
ragione Miller: forse
per uccidere Kaithlyn, l’unico modo era la decapitazione, un
colpo netto e via.
Qualsiasi altra cosa le avrebbe fatto il solletico, ne era sicuro.
-
Ti porto fino
all’ingresso, poi puoi fare quello che vuoi. – le
comunicò stringendo i denti.
Aveva
i brividi e non voleva
restare un minuti di più lì. Kaithlyn si
divincolò ancora, riuscendo a
sgusciare dalla sua presa e tornado sui suoi passi.
E
pensare che si era illuso
che fosse finalmente fuori gioco. Era da quello che si distingueva un
combattente: era ferita, stanca e piena di dolori ma nonostante sapesse
che a
lui sarebbe bastato un nulla per fermarla, caricarla in macchina e
trascinarla
di peso fino al pronto soccorso insisteva a seguire il suo obiettivo,
inarrestabile. Forse iniziava a capire come mai Frederick, tra tutti i
validi
elementi presenti tra le Forse Speciali degli Intrepidi, insistesse a
voler
nominare proprio Kaithlyn come suo successore al Comando.
Lui
però non era il vecchio
e saggio Frederick Wood e non gli interessava quanto fosse
straordinariamente
ostinata Kaithlyn Evenson o quanto avrebbe resistito su un ipotetico
campo di
battaglia e con quanta freddezza e determinazione avrebbe condotto la
sua
Squadra alla vittoria. Lui era Eric Turner, e l’avrebbe
trascinata per i
capelli fino all’auto e infilata nel bagagliaio se
l’avesse ritenuto
necessario.
Gli
bastarono poche falcate
per raggiungere Kaithlyn, afferrarla per un braccio e girarla verso di
sé.
Era
mortalmente pallida, gli
occhi circondati da occhiaie bluastre, la bocca screpolata e
un’espressione
stravolta. Aveva anche gli occhi lucidi, ma immagino fosse per i conati
di poco
prima.
-
Non toccarmi! – urlò
Kaithlyn facendolo quasi sussultare. – Non vedi che non sto
bene? – disse con
voce strozzata.
Era
evidente che stesse da
cani, anche un cieco se ne sarebbe accorto.
-
Voglio solo portarti al
pronto soccorso, non fare la bambina: se proprio ci tieni poi ti lascio
lì e te
ne puoi tornare a casa tua a piedi. O a corsa. A zoppino, camminando
sulle mani
o anche rotolando se ti aggrada. – le assicurò in
tono pratico.
Kaithlyn
rise istericamente,
gli occhi appesantiti. – Vuoi rattopparmi per lenire i sensi
di colpa? – lo
schernì facendo roteare gli occhi verso l’alto.
Eric
scosse appena la testa.
– Non mi sento in colpa per te, stupida. –
ribatté sprezzante, con un ghigno di
sufficienza. - Non volevo colpirti, ovviamente, altrimenti non
cammineresti. Ti
sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, come al solito.
-.
-
Ha importanza? – lo
interruppe. – Mi hai vista? Non sei tu quello che non sa se
domani potrà
riprendere a fare il suo lavoro solo perché uno di noi due
ha perso la testa! –
sibilò. – Non m’interessano le tue
intenzioni, quello che preoccupa me è il
risultato. -
Eric
fece una pausa per
cercare di mantenere quella poca calma che sembrava ancora
appartenergli. Si
meravigliava quasi di se stesso.
-
Ero venuto al Pozzo per
parlarti. Poi ti ho vista amoreggiare con… -
iniziò, mentre la rabbia lo
infiammava, mettendo da parte la sensazione di disagio di un attimo
prima.
Kaithlyn
spalancò la bocca.
– Amoreggiare? AMOREGGIARE? ANCORA? –
gridò con voce stridente, facendo un
passo verso di lui e guardandolo dritto negli occhi.
Aprì
la bocca per urlarle
qualcosa, ma lei fu più veloce.
-
Perché non fai una bella
cosa e la pianti di insistere, quando qualcosa non va, eh? Smetti di
insistere
con me, con questa maledetta storia da piagnone del secondo
stramaledetto posto
e smetti di insistere nel voler forzatamente far andare le cose come
vuoi! Non
toccarmi, non parlarmi e non cercarmi più. Non peggiorare
ancora la situazione,
tanto come al solito non ottieni niente! – urlò
arrabbiata ed esasperata.
S’irrigidì.
– Bene. Muori
pure nei prossimi cinquanta metri se ti fa piacere o aspetta che
qualcuno venga
a raccattarti; vuoi che ti lasci il telefono per chiamare il tuo
amichetto neo
depresso o il tuo paparino? – sibilò ferito.
Kaithlyn
sembrò esplodere. –
NON NOMINARE MIO PADRE! – gridò, barcollando in
avanti. Nonostante il fisico
fosse mal ridotto, gli occhi di Kaithlyn erano ancora vigili e
battaglieri e
lei riuscì a rimanere in piedi. Tanta cocciutaggine era da
ammirare.
Non
ce la faceva più: era
esausto, gli era tornato mal di testa e non riusciva a capacitarsi
della piega
che aveva preso il loro rapporto. Si sentiva sul punto di esplodere, di
nuovo e
peggio di poco prima, ma doveva cercare di mantenere la calma. Se
avesse perso
di nuovo, il controllo avrebbe potuto benissimo strozzarla a mani nude
e
lasciarla agonizzante sull’asfalto senza quasi accorgersene e
non voleva.
Strinse
le labbra. – Stammi a
sentire: non importa un cazzo di tuo padre, di Miller e della tua
stupidissima
spalla della quale l’unica responsabile sei tu e la tua mania
di voler sempre
controllare ogni cosa. Per quel che mi riguarda, sono beatissimi cazzi
tuoi,
Kaithlyn. – ringhiò, raddrizzando le spalle.
-
Se ora però non muovi il
culo e monti in macchina, ti giuro su Dio che ti prendo di peso e ti ci
trascino per i capelli. – intimò la voce bassa e
tagliente.
Kaithlyn
rise, sprezzante. –
Non hai ancora capito? Cazzo, ci credo che te ne sei andato dagli
Eruditi! -.
Eric
strinse i pugni e fece
un passo verso di lei lasciando solo una cinquantina di centimetri a
dividerli
e cercando di imporsi di non piazzarle un pugno in pieno viso anche se
la
tentazione diventava più forte ogni secondo che passava.
Kaithlyn
respirò
profondamente e si schiarì la voce. – Io non posso
stare con qualcuno che
approfitta di ogni discussione per darmi della troia. E non posso stare
con
qualcuno tanto instabile da non rendersi conto di quello che fa. La
prossima
volta che mi vedrai parlare o respirare la stessa aria di un altro
ragazzo cosa
farai? Mi spaccherai la testa contro un muro e poi dirai “non
ti volevo
colpire”? “Ti sei trovata nel posto sbagliato al
momento sbagliato”? “Scusa,
sai, ogni tanto parto con la testa e poi non ricordo più che
cazzo ho fatto?” –
infierì scimmiottandolo istericamente. – Quale
sarà la prossima scusante? Che
non volevi mettermi le mani alla gola e strangolarmi? Forse non ti
è chiaro, ma
non sono il tipo che sopporta in silenzio! –
gridò.
Proseguì.
– Davvero,
riuscissi a capire cosa vuoi, cosa pretendi
da me, forse potremo anche parlarne. Ma a te basta portami a
letto e farti
una scopata come si deve ogni tanto, giusto? -.
Fu
come se la miccia di una
bomba fosse arrivata alla fine del suo ardere e avesse innescato il
meccanismo.
Ci fu un lungo secondo di silenzio e poi esplose.
–NO!
NON SONO IO, SEI TU! TU
CHE CAZZO VUOI?! – ruggì, arrivandole a pochi
centimetri dal viso,
sovrastandola con la sua furia e facendola indietreggiare - Vuoi
l’uomo
zerbino, qualcuno che baci la terra su cui cammini e ti assecondi in
ogni stronzata
che ti esce dalla bocca? – urlò, -
perché in questo caso avevi a rimanere negli
Eruditi, con il tuo paparino a coprire tutte le porcate che hai fatto e
ad
assecondarti in tutto! Hai scelto la persona sbagliata per questo,
stronzetta!
E poiché l’unico momento in cui non rompi il cazzo
commentando ogni aspetto
della vita degli altri è quando ti scopo, forse non sarebbe
male se tu ti
facessi sbattere anche dal resto della fazione! – si
sgolò. – Pensi di saperne
qualcosa, eh? Tu e la tua perfetta esistenza tra gli Eruditi mi avete
rotto i
coglioni, viziatella del cazzo. Ora perché non chiami il tuo
innamoratino e
lasci che sia lui ad occuparsi di te? Ecco, tieni! –
gridò, lanciandole addosso
il Cercapersone di Kaithlyn, che si era premunito di acciuffare
all’ultimo minuto
prima di uscire.
Gli
bruciava la gola, i
muscoli e gli occhi. Non aveva neanche sbattuto le palpebre e le urla
gli
avevano prosciugato la gola.
-
E la prossima volta che ti
senti male crepa sull’asfalto già che ci sei!
– ringhiò, fuori di sé.
Kaithlyn
si scagliò contro
di lui e lo colpì con entrambe le braccia.
Incassò
il colpo: non aveva abbastanza
forza da fargli male e sentì nascergli in petto una risata
di schermo.
Lei
però si girò quasi come
riflesso all’impatto e la vide avanzare per qualche metro con
le ginocchia
piegate e il braccio stretto contro il patto, poi la sentì
esalare un singhiozzo.
Era un pianto esasperato, liberatorio. Come se le fosse rimasto
impigliato in
gola fino a quel momento e finalmente avesse trovato una buona scusa
per liberarlo.
Sbuffò
dalle narici,
fissandola intensamente, come a scandagliarla dalla testa ai piedi per
verificare che non stesse fingendo. Kaithlyn non era il tipo di ragazza
che
dopo una discussione si metteva a frignare per suscitare pena o far
sentire in
colpa gli altri… anche perché, lo sapeva, se si
metteva al voi con qualcuno,
era perché si sentiva fermamente dalla parte della ragione.
Se avesse pensato
di essere in torto, conoscendola, se ne sarebbe fregata e basta.
La
vide stringersi le
braccia intorno al corpo, poggiando anziché le dita, i polsi
per via delle mani
insanguinate. Si avvicinò a lei, camminando rigidamente per
non cedere alla
tentazione pulsante di caricarsela in spalle e trascinarla di forza,
con il
rischio di peggiorare la situazione, fino a quel dannatissimo pronto
soccorso.
Non
fece neanche in tempo a
poggiarle una mano sulla spalla per girarla, che lei, nel tentativo di
scansarlo, si voltò troppo velocemente e per poco non cadde
a terra.
-
Non toccarmi! – gridò
Kaithlyn. – Non ti rendi conti che come ti muovi mi fa del
male? Lasciami in
pace, vattene. –
-
Kaithlyn… - espirò, mentre
il tremore che annunciava la perdita completa delle sue
facoltà, tanto simile a
quello che aveva avvertito poche ore prima iniziava a diffondersi alle
braccia.
-
No! Pensi che mi diverta?
Pensi che io voglia stare con te così, con qualcuno che ha
un’opinione tanto
bassa e scadente di me? – gridò, nonostante avesse
la voce rotta e ruvida come
carta vetrata dalle lacrime e dalla rabbia.
-
Da che pulpito. Pensavo di
essere io il fallito. A quanto pare
mi sbagliavo…– commentò gelidamente
prima di darle un leggero colpetto con una
mano che la fece finire a terra, in ginocchio.
Kaithlyn
nella caduta, per
parare l’impatto mise avanti il braccio dolorante.
Ci
furono un paio di secondi
di silenzio, poi scoppiò a piangere, piegata in avanti e con
le braccai strette
al petto.
Sentirla
singhiozzare in
quel modo lo fece rabbrividire fin dentro le ossa, ma ignorò
l’istinto di
chinarsi a terra e consolarla e fece due passi indietro mettendo su un
ghigno
cinico, mentre la parte più incontrollabile e sadica di lui
prendeva il
sopravvento per la seconda volta.
-
Guardati: sei veramente
patetica. – sorrise divertito.
Kaithlyn
respirò
affannosamente per calmare i singhiozzi e poi alzò il viso
insanguinato dalle
mani e rigato di lacrime su di lui. È questo,
l’unico modo in cui poi sentirti
qualcuno, vero? Approfittane finché puoi, perché
in altre circostanze potresti
solo pulirmi le scarpe. – esalò.
Eric
rise, anche se il suo
ghigno si affievolì leggermente. – Bene, allora ti
lascio qui a goderti il tuo
momento di gloria. – commentò mentre la tensione
iniziava ad andarsene
rapidamente com’era arrivata.
-
Se non altro non mi faccio
scoppiare le tempie e prendo a pugni chi mi sta intorno solo per un
paio di
pugni… - mormorò, - comunque sia, non voglio
più vederti. Puoi considerarmi un
capitolo chiuso, piccolo Turner.
È stato
divertente costatare quanto sei realmente patetico. –
Eric
si congelò sul posto
per un paio di secondi, la mandibola contratta e gli occhi brucianti di
frustrazione. Ecco a cosa si riferiva quando rimuginava sul fatto che
Kaithlyn
sapesse essere inequivocabilmente più stronza di chiunque.
Afferrò
senza pensarci il
borsone nero abbandonato per terra e quando arrivò alla
macchina lo scaraventò
sul sedile del passeggero.
Si
sentiva frustrato,
infuriato e amareggiato.
Urlò
di frustrazione,
battendo con violenza mani e piedi contro il volante e il tappetino per
i
piedi.
Si
dimenò per alcuni secondi,
prima di stringere il volante fino a farsi riaprire le nocche
incrostate di
sangue, mettere in moto e partire con uno stridio di gomme verso
l’ospedale.
Passò
davanti a Kaithlyn
lanciandole solo un’occhiata di sbieco dallo specchietto
retrovisore. Sembrava
stare anche peggio di prima e per un momento ne godette in modo cinico.
Bene,
ne godeva.
Le
stava bene, se l’era
meritato. Avrebbe tanto voluto far provare a quella che in quel momento
gli
sembrava solo una ragazzina viziata anche solo un decimo di quello che
aveva
passato lui tra gli Eruditi durante l’infanzia e
l’adolescenza. Solo un decimo
e sarebbe stato contento perché forse le si sarebbe accesa
in testa un tenue
lucina di comprensione e si sarebbe ridimensionata. Avrebbe voluto,
anche solo
per un minuto, chiuderla in una stanza e farle provare un po’
della paura e
della disperazione che aveva provato lui qualche anno prima, ma
immaginava
fossero sentimenti troppo distanti da lei, da qualcuno a cui non era
mai
mancato niente, mai una tragedia, qualcosa di storto.
Faceva
tante storia per
quell’articolo, ma se non fosse stata al suo posto non le
sarebbe sembrato
nulla. Stronzate, ecco cos’erano quei piagnistei. Una
vagonata senza fine di
stronzate.
Parcheggiò
sgommando davanti
all’entrata del pronto soccorso e dopo aver afferrato il
borsone entrò.
Cercò
con gli occhi qualcuno
del personale e quando un’infermiera gli passo davanti
lanciò il borsone ai
suoi piedi. – Tra qualche minuto dovrebbe arrivare la
proprietaria: ha i
capelli rossi, una felpa nera ed è piuttosto mal ridotta.
Glielo lascio qui. –
disse, prima di fare dietro front verso la macchina.
Ripartì
a tutta velocità,
come se andare più forte potesse farlo sentire meglio, come
se la scarica di
adrenalina che gli data l’alta velocità,
l’eccedere oltre i limiti consentiti,
potesse riempire tutto quel vuoto che sentiva invadergli il petto e la
mente.
“Sono
puntuale, anzi, rispetto agli ultimi mesi in super
anticipo! Ci credete? Io no!”
Quando
ho scritto questa
come prima frase dello spazio finale, dovevo essere in un momento di
profondo
ottimismo, non c’è che dire.
So
che divento ripetitiva,
ma mi dispiace veramente moltissimo per i ritardi degli ultimi
aggiramenti. Il
fatto è che parto in quarta con i nuovi capitoli,
lì butto giù quasi
istantaneamente, spesso mentre sistemo l’aggiornamento ma poi
ci sono un milione
di cose che non mi tornano e nelle ultime due settimane di Novembre,
non ho
avuto veramente tempo per respirare, figuriamoci per scrivere! E vi
chiedo anche scusa, mille volte, per eventuali orrori ma il capitolo
è piuttosto denso di particolari e a forza di leggere
è come se la mia mente "sapesse già"
cosa c'è scritto... quindi ci sta che qualcosa mi
sia sfuggito... se trovate strafalcioni non esitate farmelo notare!
Quindi
scusate ancora,
cercherò di velocizzarmi anche se si avvicina la famigerata
sessione invernale
e, oggi stesso pubblicherò il terzo capitolo di
Mind’s Shades che un po’ per
mancanza di ispirazione un po’ per mancanza di tempo,
è ferma da mesi.
Preparatevi
a una serie di
capitoli con una serie di domande, perché saranno tutti
piuttosto… particolari.
Scopriremo alcuni avvenimenti del passato di Eric e qualcosa di quello
di
Kaithlyn e inserirò un “nuovo”
personaggio che farà la sua comparsa proprio nel
prossimo capitolo. Sono curiosa di sapere se qualcuno di voi indovina
chi è,
anche se non ho lasciato nessuna indicazione.
Vi
lascio un indizio: in
questa storia ancora non è comparso... neanche in forma
“virtuale”!
Da
qui, parte il mio solito
interrogatorio.
Vi
aspettavate una cosa del
genere? Sembra esagerata? È stata una bella litigata,
secondo voi come prosegue?
Idee?
Sono curiosissima di
sapere cose pensate e cosa immaginate per i futuri capitoli! A cosa si
riferisce Eric quando parla del suo passato? Cosa c’entra il
padre di Kaithlyn
con quello che le è successo? Chi compare tra poco? Secondo
voi riusciranno a
ricucire il rapporto? Per farlo è necessario che qualcuno
faccia un passo
indietro… vi sembra possibile che accada? Se sì,
chi è tra i due testoni?
Spero
il capitolo vi sia
comunque piaciuto e aspetto i vostri pareri per sapere se tutto questo
casino
secondo voi funziona o devo farmi internare una volta per tutte!
A
me è piaciuto molto
scriverlo e immaginarlo, ora a voi
“l’ardua” sentenza!
Ringrazio
tantissimo Kaimy_11 e CloveRevenclaw
per la recensione, Yerinh
per averla inserita tra le preferite e tutti i lettori silenziosi!
E,
abbiate pazienza ma ormai
è un’abitudine, vi lascio il link della mia pagina
facebook!
Link à
https://www.facebook.com/Kaithlyn-J-Evenson-865334640156569/