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Autore: Arlie_S    15/12/2015    2 recensioni
[IN REVISIONE COMPLETA: scriverò accanto ad ogni capitolo se è stato revisionato o meno, mano a mano che ricomincerò a pubblicare]
Sei disposto a distruggere ciò che ami per i tuoi ideali, giusti o sbagliati che siano?
Esiste il “punto di non ritorno”, quando si parla di sentimenti?
Forse sì, forse no.
O magari, è solo una questione di scelte.
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[Dal testo del Cap. 7]
- Belle gambe! – le gridò dietro nel trambusto del Pozzo. Lei si immobilizzò dopo pochi passi.
- Hai per caso hai detto qualcosa, Turner? – disse gelida girando la testa verso di lui e guardandolo minacciosa.
- Ma figurati! Fai finta che non ti abbia detto niente! – le gridò lui alzando entrambe le mani.
Sul viso della ragazza di allargò un sorrisetto tra il divertito e il sadico.
- Sarà meglio, perché tra due ore hai la valutazione per l’addestramento dei Capofazione. E indovina a chi è toccato il sommo piacere di valutarti? – disse facendo trasparire la soddisfazione nella voce.
Eric si sentì sbiancare, mentre il sorrisetto arrogante che aveva messo su sparì immediatamente dal suo viso e le braccia gli ricadevano giù.
“Oh merda” pensò. “Questa volta sì, che sono fottuto.”
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Four/Quattro (Tobias), Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 14

 

 

Si scambiarono un’occhiata, tutti e tre.

Eric inspirò pesantemente. Secondo Miller cosa stavano facendo alle due di notte, con un borsone in spalla e Kaithlyn in quelle condizioni? Una simpatica gita fuori programma? Andava a inseguire le lucciole e rotolarsi su un verde prato fiorito? Una bella nottata in campeggio per dormire sotto le stelle?

- Kath ma che diavolo ti è successo? Stai male? – chiese spaesato, spalancando gli occhi a fissando allibito il viso pallido di Kaithlyn e il borsone che lui reggeva in mano.

Eric cercò di calmarsi.

Come diceva la psicologa? Respirazione profonda? Inspira, espira, inspira…

Era sull’orlo di una crisi di nervi. Da una parte avrebbe voluto prendere a testate Kaithlyn, dall’altra si sentiva colpevole per il danno che le aveva ‘involontariamente’ causato.

La vide sospirare dalla bocca e deglutire, forse per idratarsi la gola secca per le grida e per l’alcol.

- Credo di essermi giocata il nervo soprascapolare.  – spiegò Kaithlyn, massaggiandosi il braccio destro e lanciando un’occhiata alla fine del corridoio buio, con il chiaro intento di controllare che nessuno potesse vederla in quello stato.

Jason fece per dire qualcosa, ma lei proseguì. – E ho vomitato. – aggiunse con un cenno del capo, a mo’ di spiegazione.

Jason la fisso vagamente confuso. – Non posso neanche allontanarmi due minuti che ti riduci così… – commentò quasi più a se stesso che a loro.

Corrugò le sopracciglia, come se gli si fosse improvvisamente accesa in mezzo alla fronte una lampadina. – In che senso ti sei giocata il nervo soprascapolare? – domandò in modo tanto serio che quella non sembrava neanche la sua voce. – Voglio dire, che significa? Cosa… cosa innerva? – chiese, con un velo di preoccupazione sul viso inespressivo.

Kaithlyn aprì bocca per rispondere ma lui lo precedette. – Secondo te cosa cazzo innerva il nervo soprascapolare? Un piede, imbecille? – ringhiò, stringendo i manici del borsone e iniziando a sentire il sangue salirgli rapidamente al cervello e le tempie ricominciare a pulsare. Doveva controllarsi, se non voleva saltargli alla gola prima del tempo ma imporsi la calma gli sembrava un’impresa troppo ardua per quella serata: effettivamente sarebbe stato molto più semplice seguire l’istinto e strozzarlo sullo stipite della porta di Kaithlyn e mollare lei lì, da sola e dolorante.

Gli sarebbe bastato che lui chi desse una scusa valida, anche banale, per saltargli alla gola, e sarebbe stato un ragazzo felice.

Forse felice no, dato che dopo Kaithlyn l’avrebbe fatto in pezzettini talmente piccoli da farlo entrare in un porta monete, ma almeno sarebbe riuscito a sfogarsi.

Jason lo guardò stordito. – Sì... immagino che…-.

Eric lasciò cadere a terra il borsone. – Ecco, bravo! “Che ti è successo Kath?” “Stai male?” – lo scimmiottò, - no, cazzo, non vedi che è il ritratto del benessere? Di’ un po’, ce li hai gli occhi? Hai bisogno che vada a prenderti un bastone da non vedenti? Un paio di occhiali con lenti spesse tre centimetri? Vuoi un certificato di cecità? – sbraitò.

Per un secondo regnò il silenzio totale e fu abbastanza sicuro di vedere Kaithlyn irrigidire la mandibola, mentre le usciva un respiro secco ed esasperato dal naso. Sembrava si stesse quasi trattenendo dal girarsi e suonargliene di santa ragione, ma immagina che non la ritenesse una mossa molto brillante. E per quanto fosse un’Intrepida, Kaithlyn, raramente se non mai, faceva qualcosa da ritenersi stupido.

Non se ne curò, ci avrebbe pensato più tardi, tanto peggio di così non poteva andare. Era umanamente impossibile le cose tra loro peggiorassero ancora. L’unica possibilità per cui una cosa del genere potesse accadere, era che uno dei due sopprimesse definitivamente l’altro. Se non altro era in vantaggio!

Jason aprì la bocca per dire qualcosa. – Io… - incominciò, momentaneamente sorpreso, prima di riacquistare l’espressione indifferente di poco prima.

Gli occhi di Eric ebbero un guizzo. – Sì, tu, vuoi fare qualcosa di utile? – sibilò, afferrandolo per un braccio e trascinandolo al suo posto, dentro l’appartamento. - Prendi un maledetto straccio e sistema questo disastro. Sempre che tu non voglia farti un giretto al pronto soccorso e stringerle la mano mentre le infilano un ago di venti centimetri nella schiena! Sai qual è la procedura non chirurgica per questo genere di danni? Si prende una siringa lunga più o meno… -.

Jason lo fermò con i palmi alzati verso di lui. – Sono sicuro che sia un racconto avvincente, ma non m’interessa, grazie. Dammi le chiavi e sbrigati, prima che… -.

Prima di che cosa?

- Basta, ci vado da sola al pronto soccorso. – decretò Kaithlyn visibilmente irritata, interrompendolo e raccattando con il braccio sano il borsone. Trascinò la sacca per un paio di metri prima di caricarsela sulla spalla sana e andare spedita verso il corridoio che portava ai piani inferiori.

Se non avesse fatto una strage quella sera, non l’avrebbe fatta mai più ne era certo. Avrebbe veramente avuto bisogno di un bravo psichiatra, se voleva continuare a frequentarsi con lei.

- E tu dove cazzo vai in quelle condizioni, eh? Vuoi andare a piedi? Magari a corsa, facciamo a chi arriva… Kaithlyn? KAITHLYN! – gridò, mentre l’unica risposta che gli arrivava era un dito medio alzato.

Si girò febbrilmente verso l’altro, che stirò la bocca nel sorriso accondiscendente di chi sapeva già come sarebbero andate le cose. Forse gli sarebbe passata la voglia di ridere, dopo avergli buttato giù tutti i denti uno per uno e aver scambiato il posto a naso e bocca.

Eric gli lasciò cadere le chiavi in mano. – Io te l’avevo detto. – ghignò Jason, stringendo il mazzetto nel pugno. – Ti conviene correre, per avere le gambe così corte sa essere inquietantemente rapida. – gli consigliò con un’alzata di sopracciglia prima di chiudergli la porta in faccia.

Non sfondare la porta, Eric. Non è proficuo ai tuoi scopi. Potrai ucciderlo con calma, nessuno ti corre dietro.

Si passò le mani tra i capelli per toglierseli dal viso e cercare di darsi una calmata, prima di avviarsi a grandi falcate dietro alla ragazza.

Per quanto detestasse ammetterlo Miller aveva maledettamente ragione: era inquietantemente rapida per avere le gambe tanto più corte delle sue. La raggiuse e la agguantò per la stoffa del borsone, poco prima dell’uscita che conduceva verso il parcheggio, sbilanciandola e facendo cadere la borsa a terra con un tonfo.

- Forza muoviti, non ho tutta la notte. – le sibilò, prendendo il borsone con una mano e afferrando il braccio sano di Kaithlyn con l’altra.

Lei si divincolò, strattonandosi all’indietro e riuscendo a liberarsi. – Io non vado da nessuna parte con te. – ringhiò, stringendo i pugni e scostandosi una ciocca di capelli rossi che le era caduta sul viso.

Eric diede un’alzata di sopracciglia. – Davvero? Bene, sono curioso di vederti arrivare fino al Quartiere degli Eruditi a piedi! Dovrei prendere degli stuzzichini da portarmi dietro per godermi lo spettacolo. Posso invitare un amico? Se aspetti un secondo mando un messaggino a Sean! -.

Kaithlyn arricciò il naso e lo squadrò con sufficienza. Poi infilò una mano in tasca e ne estrasse una chiave elettronica con due bottoncini. – Ho la macchina, imbecille. – disse, facendogliela ondeggiare davanti.

Eric si rabbuiò prima di tirare fuori un sorriso tagliente, strappargliela di mano e infilarla fulmineamente in una tasca interna della giacca.

- Ridammele. – sibilò subito Kaithlyn cercando di infilargli le mani nel giubbotto per recuperare le chiavi.

Eric si scansò, facendola incespicare nei suoi stessi piedi. – Cosa? – chiese, candidamente alzando le mani in seno di resa.

- Non fare l’idiota, rendimi le chiavi della mia auto! -.

Alzò le spalle. – Non so di cosa tu stia parlando, ma possiamo sicuramente discuterne in macchina. Forza, andiamo. – disse, mettendole una mano sulla schiena e spingendola verso l’uscita.

- No. – si ostinò Kaithlyn.

- Non cercare di convincermi che hai voglia di guidare con quel braccio. Non fare la bambina, ho il posto riservato e a quest’ora alla mia andatura arriveremo in meno di mezz’ora. – tentò, cercando di farla vacillare in quell’assurda convinzione di dover fare tutto da sola.

Contava sul fatto che fosse ancora un po’ frastornata dall’alcol.

Quanto poteva bere una ragazza minuta come lei, prima di perdere le inibizioni ed essere manovrabile?

In condizioni normali, con una ragazza normale, avrebbe ipotizzato un paio, massimo tre drink, ma trattandosi di Kaithlyn sospettava che neanche il veleno per topi potesse avere effetto; se l’avesse morsa una vipera, ad esempio, non aveva dubbi su chi avrebbe avuto la peggio: la vipera sarebbe morta tra atroci sofferenze.

Kaithlyn fortunatamente esitò per quel secondo che diede a Eric il tempo di riafferrarla per un braccio e di trascinarla, nonostante puntasse i piedi come una bambina capricciosa, fino alla sua auto parcheggiata sul lato destro del parcheggio.

Lasciò cadere il borsone a terra, estrasse le sue chiavi e aprì. Sempre tenendola ferma per un braccio e aiutandosi con un piede, spalancò lo sportello posteriore e ci lanciò il borsone, lo richiuse e poi andò agli sportelli anteriori. Infilare Kaithlyn di forza in macchina non fu esattamente una passeggiata dato che lei non era per niente collaborativa e continuava a piantare i piedi per non assecondarlo, oltre ai tentativi di colpirlo in parti del corpo non meglio identificate.  Alla fine, stufo di quella situazione la prese in braccio e la gettò di peso e senza nessuna delicatezza all’interno dell’abitacolo. In pochi secondi fu al posto di guida ed ebbe giusto il tempo di chiudere la macchina con il pulsantino che aveva sul volante per non farla uscire. Mise in modo e partì.

Kaithlyn si massaggiò un po’ il sedere e passò i primi minuti in silenzio, la fronte corrugata e l’espressione arrabbiata e stanca. Era uno strano connubio di emozioni, sul suo viso: difficilmente sembrava spossata, particolarmente amareggiata o arrabbiata in modo non disinteressato. Anzi, non l’aveva mai vista in alcun modo vulnerabile.

Qualche volta sembrava quasi impossibile smuovere una vera emozione dentro di lei, qualcosa che la toccasse sul serio e la facesse vacillare.

Era snervante, perché lui ogni tanto, quando erano da soli, si lasciava anche andare, un pochino.

La presenza di Kaithlyn, fino  a quel momento, nonostante le liti frequenti, aveva avuto un effetto perlopiù benefico su di lui: era più tranquillo, non aveva due dita ingessate per i troppi pugni alle pareti della Residenza e stava iniziando a gestire gli incubi. Quello di quella sera era stato il primo attacco d’ira serio da mesi, e ormai pensava di poterli gestire pienamente, di non aver più bisogno di sforzarsi di ricordare come aveva agito o di dover chiedere a Sean quello che aveva combinato perché non se lo ricordava.

Aveva addirittura progettato di non dirle niente, di lasciar correre. Perché avrebbe dovuto tirare fuori qualcosa che sembrava essere svanito e tanti vecchi ricordi? Con lei, per di più!

Già aveva fatto fatica a parlare con Sean, figurarsi con la ragazza per cui aveva, doveva purtroppo ammetterlo, preso completamente la testa. Gli era sembrato inutile e contro producente, ma aveva finito per sopravvalutare se stesse e il suo carattere iroso: avrebbe dovuto mettere in conto che, con una donna del genere, alla fine sarebbe accaduto qualcosa del genere. Invece aveva continuato a ignorare quella vocina fastidiosa, tanto simile a quella di William, che sembrava dirgli di avvertire la ragazza che aveva accanto del problema. Effettivamente sarebbe stata una cosa intelligente, matura e responsabile.

Peccato che nessuna di quelle tre caratteristiche facesse pienamente parte di lui. Certo, non era stupido. O ignorante o incapace. Non era mai riuscito a conformarsi del tutto alla sua fazione d’origine per la quale ogni comportamento, ogni azione, doveva avere un senso ed essere ben ponderata per valutarne ogni aspetto. Lui era sempre stato impulsivo, incostante e iperattivo facendo dannare i suoi genitori dal momento stesso in cui era nato, al contrario di suo fratello: riflessivo, equilibrato – anche se riteneva quell’aspetto quantomeno discutibile – e tranquillo. Un Erudito perfetto, in parole povere. Era sicuro che si trovasse perfettamente a suo agio in quella fazione che a lui era sempre andata troppo stretta.

Le strade erano deserte e sarebbe stata anche una bella serata per uscire a prendere una boccata d’aria o per un’escursione fuori porta, se non fosse stato tanto teso e la sua ragazza non gli avesse tenuto il muso, anche se forse “tenere il muso” era un eufemismo: era incazzata come non mai.

La luna era a meno di un quarto e almeno fino a quando non fossero arrivati nei pressi dell’ospedale, non c’erano altre fonti di luce se non i fari dell’auto. I vetri appannati per il freddo esterno avrebbero dato quasi un tocco di bellezza, di intimità, a quella serata, se non fosse che sembrava di poter tagliare la tensione con un coltello.

L’atmosfera gli ricordava quella della mattina, quando aveva litigato con Kaithlyn. Sembravano passati dei giorni e invece erano trascorse meno di ventiquattr’ore. L’aria tra loro sembrava quasi elettrica, ma non avvertiva lo stesso dinamismo, la stesse sensazione d’incombenza della mattinava che sembrava urlare a entrambi che stavano sovraccaricando l’aria, come se questa potesse prendere fuoco e distruggere entrambi. Era una tensione diversa: se quella mattina Kaithlyn, anziché proseguire con quella storia avesse bussato alla porta dopo che l’aveva chiusa e gli avesse strappato i vestiti di dosso, in quel momento, probabilmente, sarebbero stati entrambi mezzi ubriachi ad amoreggiare da qualche parte o già a casa, al caldo sotto le coperte a darsi piacere. Lei non si sarebbe fatta male – non le avrebbe fatto dal male – e non si sarebbe trovati sull’orlo di rompere i rapporti. Sarebbe stati bene, ma la ragazza che aveva accanto e per quale aveva straveduto per un anno e mezzo prima di chiederle di uscire, era estremamente orgogliosa e ostinata, e non sarebbe mai tornata sui suoi passi.

Voltò appena la testa verso di lei, per ripiantare gli occhi sulla strada non appena si rese conto che lei aveva fatto la stessa cosa. L’unica differenza era che l’occhiata che gli aveva riservato non era neutra come la sua ma truce. Ciò nonostante, la vide comunque abbassare gli occhi sulle braccia incrociate e imbronciarsi ancora di più. Era come se entrambi avessero qualcosa da dire, ma nessuno dei due volesse farlo, lasciando le parole non dette premere sul silenzio teso che si era creato.

Dopo i primi minuti notò Kaithlyn, che era rimasta fino a quel momento immobile e appoggiata allo schienale con tutto il peso, stringersi le gambe al petto e tirarsi più giù possibile le maniche della felpa prima di appoggiare il mento sulle proprie ginocchia e trattenere un smorfia di dolore: forse le tiravano i muscoli della schiena.

Allungò una mano verso i pulsanti del riscaldamento e lo accese, impostandolo intorno ai ventiquattro gradi. Approfittò del primo semaforo per togliersi il giaccone; osservò l’indumento per alcuni secondi, indeciso se darglielo o meno. Lei avrebbe preferito perdere tutte le dita dei piedi piuttosto che accettare una cosa idiota come un giaccone pesante, ma doveva riguadagnare terreno in fretta e cercare di essere il meno stronzo possibile poteva essere una soluzione. O fingere di pensare che lei avesse ragione. Il problema di quell’ultima opzione è che, se si fosse accorta che la stava assecondando, si sarebbe incazzata ancora di più: Kaithlyn aveva la strana abitudine di pretendere attenzione e di pensare che gli altri dovessero assecondare ciò che le passava per la testa e ciò che diceva ma, allo stesso tempo, non tollerava chi lo faceva perché si sentiva presa in giro.

Non era un comportamento molto equilibrato, alla fine dei conti. Almeno lui si comportava da stronzo con tutti, senza neanche sforzarsi, ma non esigeva certo che gli altri facessero volentieri ciò che gli veniva ordinato da lui. Non che gliene importasse qualcosa, le persone di cui poteva anche solo pensare di tenere in considerazione l’opinione si potevano contare sulle dita delle mani.

Inoltre non osava pensare a quando Kaithlyn potesse rompere i coglioni da malata, considerando quanto lo faceva quando stava bene. Sarebbe stato un incubo. Un incubo che gli avrebbe fatto scoprire nuovi orizzonti della pazienza e milioni di metodi fantasiosi per uccidere qualcuno e farlo passare per un incidente. In più, avrebbe potuto attaccargli qualcosa e non era il caso con l’azione di contenimento che stavano progettando. Con cosa avrebbe ucciso ribelli e divergenti? A suon di starnuti?

Aggrottò le sopracciglia e storse le labbra, come se il suo stesso giaccone potesse sussurragli la soluzione ai suoi problemi. Compreso il piccolo, insignificante dettaglio, del dover tenere all’oscuro la Nana Malefica dai piani dei Capofazione Intrepidi; perché lei lo avrebbe scoperto. Era troppo intelligente per bersi tutte le cazzate che le avrebbe rifilato nelle settimane successive; era troppo attenta ai dettagli, troppo paranoica per farsi fregare sotto il naso in quel modo o farsi iniettare un fiala di liquido sconosciuto.

E quella era la ragione per cui aveva chiesto un incontro con Jeanine: sapeva che la Capofazione degli Eruditi non aveva alcuna simpatia per Kaithlyn, un po’ perché la irritava il fatto di essere una seconda scelta. Era ancora al suo posto solo perché una ragazzina appena sedicenne aveva ignorato l’occasione che le si prospettava davanti per lanciarsi da treni in corsa, buttarsi legata a un cavo di metallo da un palazzo alto oltre trecento metri e sparare a un bersaglio.

Si riscosse dai suoi pensieri e scoccò un’occhiata di sottecchi all’oggetto dei suoi pensieri che, in quei pochi secondi si era adagiato contro il sedile con gli occhi semichiusi ma l’espressione ancora imbronciata.

- Tieni. – brontolò senza guardarla, allungandole il giaccone. In tutta risposta ricevette uno schiaffo sulla man o e un’occhiata che avrebbe polverizzato sul posto anche Jack Kang, il Capofazione dei Candidi, facendolo vergognare anche di esistere.

Sbuffò dal naso. – Fai come ti pare, muori di freddo. – sbottò con un’alzata di spalle. - Se ti congeli prima di essere arrivati ti scarico alla prima fila di cassonetti. –aggiunse, infilando l’indumento tra il vetro anteriore dell’auto e il cruscotto, evitando sempre accuratamente il suo sguardo truce. Kaithlyn seguì i suoi movimenti quasi come se volesse morderlo: aveva quasi timore a passarle un braccio davanti.

Ripartì senza curarsi del semaforo rosso, dato che a giro non c’era un’anima a parte loro due. Seguirono altri minuti di silenzio, durante i quali Kaithlyn guardò fuori dal finestrino e lui si concentrò sulla guida. – Non devi accompagnarmi solo perché ti ho fatto pena, sono in grado di badare a me stessa. – esordì dopo un po’, senza guardarlo.

Storse la bocca in una smorfia. – Non mi fai pena. – precisò. - Penso ancora che sia tu in torto. – assicurò tenendo gli occhi puntati sulla strada e stringendo maggiormente il volante.

- E allora perché tanta premura? Se sono così pessima, forse non ti valgo la benzina che stai sprecando per accompagnarmi. Ci hai pensato? – mormorò velenosamente poggiando il viso sul palmo della mano e il gomito sulla base del vetro.

Respirò pesantemente, indeciso su cosa rispondere. – Perché da sola non saresti durata un secondo e non mi diverto a scannarmi con te ogni giorno che Dio manda in terra, io. E poi siamo ancora insieme ed è mio compito evitare che tu muoia per una stronzata del genere. Non sarebbe un granché, credo. – rispose evasivamente. Certi discorsi l’avevano sempre messo in grossa difficoltà e dirle che gli dispiaceva per il male che le aveva fatto non rientrava tra le cose che si sentiva capace di fare quella sera.

Kaithlyn ridacchiò. – Contento te di stare una puttana arrivista, che pensa solo a se stessa e si diverte a mortificarti… De gustibus, giusto? – disse con cattiveria.

- Io non penso questo di … - incominciò, girando appena la testa verso di lei e lanciandole un’occhiata risentita.

Kaithlyn sembrò infiammarsi e finalmente si voltò verso di lui con uno scatto. – Davvero? Mi sembrava il contrario, poco fa! Se non altro io posso parlare con cognizione di causa quando dico quanto tu sia stato patetico l’altro giorno e stupido durante l’iniziazione, facendo l’arrogante quando non potevi permetterti di farlo! – gridò, tutto d’un fiato.

Eric respirò tra i denti, stringendo le dita intorno al volante per non cedere alla tentazione di colpirla. – Queste, - ringhiò cercando tuttavia di controllare la voce, - sono solo tue deduzioni. Io non ho mai detto… quelle cose di te. – concluse, la voce tremante di rabbia.

Stava facendo uno sforzo non indifferente per non cedere alla tentazione di inchiodare e farla scendere.

Lei lo guardò con le sopracciglia inarcate, in una finta espressione scettica. – Mie deduzioni? Che strano: mi sembrava di aver inteso perfettamente il tuo atteggiamento e i tuoi gesti. Mi sono immaginata tutto? – lo schernì, - non mi hai sollevata di peso, insinuando che per arrivare dove sono, è stato necessario abbassarmi davanti ai pantaloni dei miei superiori? Perché magari ho le allucinazioni! Sai cos’è un’allucinazione? In quel caso dovresti farti vedere da… - ribatté parlando con calma e con voce chiara, come se stesse ripetendo una lezione o stesse spiegando un argomento sul quale aveva delle conoscenze più approfondite.

Un ringhio gli uscì dalle labbra, mentre una scossa di rabbia gli percorreva tutta la schiena e lo costringeva a irrigidirsi.

- Bene! – sbottò, - vuoi parlare di deduzioni? Di impressioni? - la provocò, concitato.

Kaithlyn gli fece un cenno di sfida con il mento e incrociò le braccia.

- Perché se la mettiamo così, per quanto tu dica il contrario e neghi che ci sia qualcosa sembra proprio che tu e quel povero demente biondo che ti porti appresso abbiate scopato! – sbottò, lanciandole un’occhiata vittoriosa.

La risata di Kaithlyn lo lasciò per un momento smarrito e confuso.

Che diavolo c'era di divertente? Voleva ridere anche lui!

- Che cazzo ridi? Lo trovi divertente? Perché io non mi sto divertendo per niente! – ringhiò, mentre Kaithlyn si copriva la bocca con una mano.

Strinse il volente con forza, aspettando che smettesse. Era come se un leggero tremore gli si stesse diffondendo dal collo nel resto del corpo. Era la voglia di colpire qualcosa, di farle male.

- Be'? Se me lo dici, rido anch'io! – insistette in un sibilo.

Kaithlyn tirò fuori un sorrisetto derisorio. – In effetti, è molto divertente. Rido perché, a quando pare, non sei stupido come sembri! – mormorò allungandosi per accarezzargli una guancia con il dorso della mano, che allontanò con un gesto di stizza.

Eric spalancò gli occhi e aprì la bocca, mentre il significato di quelle parole aveva su di lui l’effetto di una doccia fredda.

Inchiodò, facendo sbattere Kaithlyn sul cruscotto davanti a lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si portò una mano sul naso, mentre il dolore per la botta s’irradiava a tutta la faccia.

Eric la fissava con la bocca semi aperta e gli occhi spalancati, come se gli avesse rivelato chissà che cosa.

Ghignò. La reazione sconcertata di Eric era esattamente quello che voleva. Sapeva quanto il suo rapporto con Jason lo rendesse insicuro ed era la ragione per un cui aveva avanzato di raccontargli alcuni episodi degli ultimi quattro anni.

- Stai mentendo. – le sibilò, assottigliando gli occhi nell’espressione diffidente di chi non si sarebbe fatto prendere in giro. Era incredibile come riuscisse a passare da un’emozione all’altra in così pochi secondi.

- No, certo che no! – ridacchiò. – come vedi, le impressioni che spesso ci sembrano errate in un primo momento, qualche volta si rivelano corrette. – disse pragmaticamente, un ghigno di sufficienza ancora stampato sul viso.

Lui aprì e richiuse la bocca, basito.

- Be’? Non hai niente da dire? - lo stuzzicò, sistemandosi meglio sul seggiolino e guardandolo in attesa, le mani intrecciate davanti agli stinchi.

Lo vide irrigidire la mandibola. – Quando? – chiese cupamente, stringendo il volante e fissandola con espressione quasi idrofoba.

Si mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con non curanza. – Vuoi sapere l’ultima, la prima…? – infierì, spietata parlando lentamente in modo che gli arrivasse chiara alle orecchie ogni sillaba.

Eric pareva sul punto di mettersi a urlare. O di metterle le mani alla gola, immaginò dipendesse dal momento.

Lui andava a momenti: un attimo prima era tranquillo e l’attimo dopo era ai pazzi.

Respirò affannosamente per un attimo e si mise le mani sul viso, lasciandosi cadere contro il sedile. La macchina ebbe un sussulto e si spense, ma non infierì: voleva aspettare che prendesse consapevolezza di quello che gli aveva detto per rendere tangibili quelli che sapeva essere i suoi timori. Sapeva che Eric, nonostante all’apparenza sembrasse anche troppo spavaldo, e per certi versi lo era, nascondeva una profonda insicurezza per se stesso e per gli altri, anche se non era ancora riuscita a capirne a pieno il motivo.

Lo spegnimento improvviso sembrò riportarlo gradualmente con i piedi per terra, distogliendolo dall’immagine di lei e Jason avvinghiati da qualche parte. Magari stava proprio pensando al suo letto matrimoniale, dove erano stati tante volete insieme.

Ne sarebbe stata contenta, perché era esattamente quello a cui voleva che pensasse per le successive ore. Voleva che il tarlo del dubbio lo tormentasse fino allo stremo.

Sapeva di stargli facendo del male e sapeva anche che avrebbe dovuto dispiacerle. Ma non era così. Avere gli strumenti per sopraffarlo, come aveva fatto lui con lei poco prima, le dava una piacevole sensazione di predominanza. Era lei ad avere il coltello dalla parte del manico e avrebbe continuato ad affondarlo crudelmente in una ferita aperta e tanto delicata fintanto che non si sarebbe stancata.

Detestava essere sopraffatta e le poche volte in cui le era capitato aveva sempre reagito sfruttando quello che sapeva dell’altro, chiunque fosse, per ricambiare il favore non con una, ma con dieci volte la cattiveria che aveva ricevuto. Era così che si era fatta spazio nelle Forze Speciali, anche se era la più piccola, la più debole fisicamente e l’unica donna.

Era stata la più intelligente, anche se non era un grande sforzo essere più svegli della maggior parte degli Intrepidi, e aveva ottenuto tutto ciò che si era prefissata di ottenere.

Negli Eruditi era stata viziata e abituata a non essere seconda a nessuna, mai e per nessuna ragione. Suo padre era più esigente con lei che con tutti e quattro i suoi fratelli maggiori messi insieme e lo era stato in particolare dal momento in cui aveva espresso la sua volontà di cambiare fazione pretendendo da lei niente di meno che l’eccellenza.

Lei ed Eric non parlavano granché di quello che c’era stato prima, o della vita che entrambi avevano condotto tra gli Eruditi; lui s’innervosiva, diventava cupo e scontroso, cambiava discorso e lei non aveva mai cercato di scavare più a fondo. O di renderlo partecipe di quello che riguardava lei.

Lo vide riafferrare il volante e fare un respiro profondo. – Bene, - disse prima di schiarirsi la voce, riaccendere la macchina e ripartire come se nulla fosse, forse, rifletté, per non darle soddisfazione.

Non aggiunse altro mentre percorrevano il viale buio e deserto; ogni tanto lanciava qualche occhiata a Eric, che sembrava, via via che si avvinavano sempre più nervoso e pallido. Notò che gli stremavano impercettibilmente le mani, e si chiese cosa lo spaventasse o lo innervosisse tanto.

Arrivati a uno degli stradoni principali che collegava diverse strade diramate per tutta la città, Eric, anziché percorrerlo e prendere la via più breve svoltò improvvisamente in una strada secondaria e fece il giro.

Lo guardò con sufficienza. – Si può sapere che fai? Ti si è guastato il GPS? – mormorò altezzosamente.

Eric non rispose e si limitò a deglutire appena e fissare insistentemente la strada, stringendo con ancora maggior vigore il volante e riaprendosi, piano e dolorosamente, le nocche. Quel gesto gli fece stringere le labbra, ma non lo udì emettere neanche un lamento nonostante fossero ridotte veramente, veramente male.

A causa di alcune strade chiuse furono costretti a tornare indietro e ad allungare ancora di più la strada. Quella faccenda inizia a irritarla più del dovuto e il dolore al braccio e alla spalla stava piano piano diventando globale e sordo.

Quando furono a poche centinaia di mentre dal parcheggio del retro dell’ospedale, dove si trovava anche l’ingresso delle ambulanze e l’entrata del pronto soccorso, Eric inchiodò nuovamente.

Kaithlyn mise il braccio sano in avanti, riuscendo a evitare di battere un’altra testa sul cruscotto della macchina. – Che c’è? –ringhiò, vedendo che non aggiungeva nulla. – Ti sei incantato? Vuoi una mano a riaccendere la macchina o…? -.

– Voglio sapere quando ti sei fatta sbattere da… da lui. Magari l’ultima volta che è rimasto da te, eh? – ringhiò improvvisamente di nuovo preda della furia, afferrandola per un braccio e tirandola verso di sé per arrivarle a due centimetri dal viso.

Kaithlyn non rispose. Tutto sommato se l’era cercata, ma il fatto che ogni scusa fosse buona per darle della poco di buono cominciava a diventare snervante e non aveva nessuna voglia di sopportare ancora. Era stato già abbasta strano, per lei, lasciar correre con l’episodio di qualche giorno prima e non aveva nessuna intenzione di ripetere l’esperienza.

La spalla le faceva male e lo strattone che le diede sembrò intensificare il dolore, facendola gemere. – Mollami. – sibilò.

- Lasciami indovinare. – disse, ignorandola e rafforzando la presa, spezzandole il fiato per il dolore. – Eri tanto scocciata perché ho interrotto la vostra seratina? Magari ti sei fatta scopare anche durante il turno di guardia, vero?! Dimmi un po’, almeno ti è piaciuto? O magari sei talmente abituata che uno vale l’altro – proseguì in un mormorio basso e letale.

Aveva appurato con se stessa di essersela cercata, di averlo provocato e spinto al limite… ma ciò non le impedì di caricare un pugno con la mano destra e colpirlo sul viso, costringendolo a lasciarla.

Sentì il naso di Eric scrocchiare sotto il suo colpo e, per solo un momento, temette di averglielo rotto di nuovo. Se così fosse stato, dato che conosceva il dolore, non si sarebbe sorpresa di ricevere una testata sui denti e un man rovescio tanto forte da rigirarle la faccia.

Si alzò comunque di scatto, scalciando il giubbotto di Eric che le era caduto sulle gambe raccolte, si alzò sulle ginocchia e prima che lui potesse fermarla premette il pulsante per aprire la macchina.

Scese come una furia, spalancò lo sportello posteriore con un’energia che non credeva di avere e si buttò la sacca in spalle, sbattendo la portiera con tutte le sue forze per poi avviarsi a piedi per l’ultimo chilometro di strada.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Kaithlyn?! Kaithlyn?! KAITHLYN! – le urlò dietro, senza tuttavia ricevere alcuna considerazione.

Lei non lo ascoltò e proseguì per la sua strada, a piedi.

- Cazzo! – imprecò, colpendo ripetutamente il volante con i palmi delle mani.

Ansimò, cercando di riacquistare il controllo della situazione e non gettarsi all’inseguimento della ragazza per finire l’opera che aveva involontariamente iniziato.

Kaithlyn era sparita, avvolta nell’oscurità e fuori dal raggio d’azione dei fari, così accese gli abbaglianti e la individuò, una centinaio di metri più avanti. Camminava spedita, trascinando il borsone per terra. Era incredibile quante energie avesse da sprecare, in quello stato. Quasi la invidiava.

Era ancora teso come una corda di violino, e percepiva, dietro la testa, ancora il formicolio della tensione che, lo sapeva, se avesse aspettato ancora lo avrebbe spinto e farle del male.

Continuavano a venirgli in mente immagini di lei con Miller, avvinghiati sul suo letto, dove tante volte erano stati insieme. Lo vedeva accarezzarle il viso, baciarle il collo con dolcezza e stringerla contro di sé. Lo vedeva spogliarla con calma, con quella complicità e quella confidenza fisica che loro due avevano dovuto costruire passo dopo passo, la stessa che per l’altro sembrava naturale. Lo vedeva accarezzarla, toccarla, premerla contro il suo petto e ridere insieme a lei, come se si conoscessero da sempre. Lo vedeva fare l’amore con lei, con una dolcezza che lui non avrebbe mai avuto e si sentì sprofondare.

Sarebbe stata meglio con lui. La conosceva bene, forse, per certi versi, anche meglio di lui ed era tranquillo, equilibrato e l’avrebbe trattata riservandole tutte le attenzioni che le servivano. La complicità c’era già, a letto insieme erano già andati… era sufficiente che si facesse da parte lui.

Quello che gli aveva detto Kaithlyn era stato come una doccia fredda, uno schiaffo. Più volte aveva pensato che, in effetti, ci potesse essere stato qualcosa tra loro, ma pensava anche, dato che erano in buoni rapporti, che fosse stato troncato sul nascere o che il fatto di essere l’uno la nemesi dell’altra gli avesse impedito di avvicinarsi in quel modo.

Si sbagliava, come sempre quando si trattava di Kaithlyn.

Deglutì, ingoiando l’amarezza di quella realizzazione e rimise in moto l’auto. Non appena fossero tornati alla Residenza, avrebbe dovuto mettere un paio di punti in chiaro con Jason. E sarebbe stato meglio che lui l’avesse ascoltato, perché sentiva in non star aspettando altro se non una buona scusa per sfogarsi su di lui, dato che su Kaithlyn non poteva. O meglio, poteva: ma le conseguenze erano ben peggiori di quelle che avrebbe subito per una bella scazzottata tra uomini e prendere a pugni un ragazza malconcia, che pesava meno della metà di lui non gli sembrava molto virile. Inoltre gli sarebbe dispiaciuto fare del male a Kaithlyn, mentre picchiare a sangue Jason fino a fargli sputare tutti i denti, gli avrebbe provocato un certo piacere.

Ripartì piano, seguendo Kaithlyn da una certa distanza per assicurarsi che non collassasse in mezzo di strada o infilasse in un tombino aperto, dato che in quella zona spesso facevano controlli e lavori. Gli sarebbe toccato soccorrerla, e non ne aveva alcuna voglia.

Sembrava stare meglio, comunque, o almeno così sembrava dato l’impegno che ci stava mettendo per seminarlo.

Era ancora assorto nei suoi pensieri, lasciati a vagare da una considerazione all’altra nel tentativo di calmarsi, quando la ricetrasmittente dell’auto gli comunicò con un trillo che aveva una chiamata in entrata dalla Residenza.

Premette il pulsante di risposta, prima di rinchiodare gli occhi sulla strada e sulla figura della ragazza.

- Che c’è? – ringhiò, incurante di chi ci fosse dall’altra parte.

- Dove diavolo sei? – gli rispose, quello che identificò come Sean.

Non aveva niente di meglio da fare alle due e mezzo di notte?

- Quasi al pronto soccorso, la Stronza si è sentita male. Sto aspettando che cada accidentalmente in un pozzo lasciato aperto per andarmene. – sbottò.

Dall’altra parte ci furono un paio di secondi di silenzio. – Quindi non è andata granché, eh? -.

Ma cosa andava a pensare? Chiunque avrebbe scelto quella zona per fare una piacevole escursione romantica, alle due e mezzo di notte e con quel freddo da lupi.

Non rispose.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era una persona molto orgogliosa e anche molto ostinata. Forse era per quella ragione che, nonostante le girasse la testa, sentisse freddo e le venisse da vomitare, oltre al dolore alla schiena, non si era ancora rassegnata ad aspettare che Eric la raggiungesse in macchina e a farsi portare al pronto soccorso comodamente seduta sul sedile del passeggero della sua auto. Con il riscaldamento acceso e un bel giaccone sulle spalle.

Preferiva soffrire, collassare a terra o arrivare alla meta strisciando piuttosto che fare un passo indietro, indipendentemente dall’essere nel torto o nella ragione, anche se a quel punto era difficile dire cosa fosse colpa di chi e perché; avrebbero potuto metterci una pietra sopra, cercare di andare d’accordo per qualche ora e riappacificarsi, ma lei non era intenzionata a fare un solo passo per migliorare le cose.

Piuttosto la vivisezione.

Ringhiò dal dolore per l’ennesima fitta alla schiena e lasciò andare il borsone inciampando per terra e frenando la caduta con i palmi delle mani. Una scossa le percorse la schiena e la costrinse a mordersi le labbra per soffocare un gemito di dolore.

Si mise in ginocchio e facendo leva sulle mani riuscì ad alzarsi, mentre la sensibilità ai muscoli della spalla diminuiva e un’altra fitta le faceva stringere i denti tanto da farsi male.

Strinse le labbra e si alzò: non era troppo lontana e continuando di quel passo sarebbe arrivata nel giro di pochi minuti. Forse una quindicina. Poteva farcela, non aveva bisogno di Eric o di chi per lui.

Non aveva bisogno di nessuno.

Forte di quella convinzione riafferrò il borsone per i manici e se lo mise in spalla a fatica; non era particolarmente pesante e l’avrebbe portato senza problemi se non le fosse girata in quel modo alla testa e se il dolore che andava e veniva a schiena e braccio non avesse distolto la sua attenzione da tutto il resto.

Scosse la testa, cercando di scacciare la sensazione d’impotenza che sembrava volersi impossessare di lei e riprese a camminare lentamente.

Non si sarebbe fatta mettere fuori gioco da una stupida, inutile scheggia di pietra.

La verità, nonostante avesse fatto la spavalda fino a pochi minuti prima in presenza di Eric, era che era preoccupata seriamente per il suo braccio: sapeva che non era colpa di Eric, ma non poteva fare a meno, in qualche modo, in imputargli un margine di responsabilità. Lei lavorava con le braccia, era la miglior Tiratrice degli Intrepidi e aveva davanti una carriera sfavillante, tecnicamente. Ma se non fosse stato possibile recuperare del tutto il braccio, cosa avrebbe fatto? Sarebbe finita al Centro di Controllo? A fissare un monitor per tutto giorno, lei? O magari in palestra, a misurare il pavimento e a insegnare a ragazzini che a malapena sopportava come allacciarsi gli scarponi.

Stare alla recensione o pattugliare la città le dava lo stesso entusiasmo che avrebbe avuto nel mettersi a fare un girotondo in un campo di grano e con una stupida corona di fiori in testa.

Avrebbe dovuto valutare e decidere: forse addirittura di andarsene. Sarebbe dipeso esclusivamente da chi avesse predominato tra orgoglio e intelletto.

Rise istericamente, a quel pensiero. Se non altro era riuscito a liberarsi di lei una volta per tutte.

Era abbastanza sicura, per quel che capiva lei di quella roba, che non fosse niente di troppo serio; sarebbe stato sufficiente estrarre il corpo estraneo dalla sua maledettissima scapola e prendere per qualche giorno gli altrettanto stramaledetti antidolorifici, o al massimo fare qualche iniezione. Eppure il tarlo del dubbio la rendeva nervosa, instabile e incredibilmente suscettibile.

Lo detestava in quel momento, e l’unica cosa che sembrava farla stare meglio era ferirlo e umiliarlo, esattamente come aveva fatto lui per tutta la sera. Sapeva che il tasto “Jason” era fastidiosamente dolente e che non avrebbe dovuto dirgli una cosa del genere in quel modo; sapeva che avrebbe dato i numeri e ne godeva.

Rabbrividì fin dentro le ossa per il freddo pungente della notte e si strinse per quanto possibile la felpa addosso. Aveva pensato, nei pochi secondi di cui aveva avuto bisogno per colpire Eric e scendere dall’auto, di afferrare anche il suo giaccone: non era una mossa intelligente arrancare in quelle condizioni e con quel freddo, ma era troppo orgogliosa per ammettere di aver bisogno di qualcosa di suo, anche se si trattava di una cosa stupida come un giaccone pesante. Sarebbe stato come ammettere di aver bisogno di aiuto, di essere accudita o, ancora peggio, di aver bisogno di lui. E piuttosto che riconoscere quell’eventualità, sarebbe morta di freddo e si sarebbe fatta trovare la mattina dopo come una bella statuina di ghiaccio; tutto, qualsiasi cosa pur di non fasi tendere la mano da Eric Turner.

Incespicò nei suoi stessi piedi, mentre sentiva la pressione calarle bruscamente e le ginocchia cederle. Cadde in ginocchio e fece appello a tutta la forza di cui disponeva per rimanere ancorata alla realtà e non svenire. Quando fu abbastanza sicura di essere in grado di alzarsi, cercò di tirarsi su facendo forza sulle gambe, ma un altro giramento la colse impreparata e la fece cadere in avanti.

Kaithlyn mise le mani avanti per non battere la testa e non finire distesa. Non sarebbe svenuta in mezzo di strada come la prima imbecille passata per caso. Che figura ci faceva? Era un soldato, nelle Forza Speciali da quasi quattro anni e sveniva per una sciocchezza del genere? Che cosa avrebbe fatto se ci fosse stata una guerra, una battaglia, e fosse rimasta ferita? Si sarebbe fatta portare in braccio da uno dei suoi compagni come una ragazzina piagnucolosa?

Riprovò ad alzarsi, ma il movimento le causò una stretta nauseante alla bocca dello stomaco. Riuscì a rimettere le mani avanti a sé giusto in tempo per bloccare nuovamente la caduta, ma un dolore pungente e frizzante le pervase la mano sana.

Ritrasse la mano dal terreno cercando di mettersi seduta sulle ginocchia e per non perdere l’equilibrio. Si guardò la mano nella quale era piantano, anche se non in profondità, un pezzo di vetro forse proveniente da un auto o da un incidente avvenuto in giornata.

Le braccia e le mani le tremavano e sentì le lacrime venirle quasi automaticamente agli occhi ma le ricacciò indietro. Afferrò il vetro con due dita informicolate e tirò appena, soffocando un gemito di dolore.

Doveva fare una cosa rapida, uno strappo e sarebbe finito tutto. Poteva tamponare il sangue con uno dei fazzoletti che teneva nel borsone e ormai era abbastanza vicino al pronto soccorso.

Contava di non morire dissanguata nel tragitto, sarebbe stato piuttosto imbarazzante: forse anche peggio di svenire.

Respirò profondamente dal naso ed estrasse la scheggia con uno strattone. Il dolore le fece mordere a sangue le labbra e la fece boccheggiare, mentre il sangue iniziava a zampillare dalla ferita. Aveva un taglio di cinque centimetri sul palmo della mano. Bene, c’era dell’altro? Magari poteva cadere in terra e procurarsi una commozione cerebrale, o poteva collassarle un polmone, così, giusto per non farsi mancare niente.

Si passò l’avambraccio del braccio ferito sugli occhi, cercando di controllare il tremore diffuso in tutto il corpo e iniziò a respirare profondamente, facendo entrare l’aria dalla bocca con lentezza e facendola uscire dal naso. Dopo circa un minuto sentì il rumore della macchina che si fermava in lontananza e s’impose di alzarsi. Sarebbe rotolata o strisciata prima di farsi vedere tra tutti, proprio da lui in quel modo. Anche se forse, gli avrebbe fatto più male vederla così, che pensare che stesse meglio.

Si alzò quasi di scatto, senza curarsi di tamponare la ferita come si era prefissata.

Lo sbalzo repentino di pressione le fece girare vorticosamente la testa e le provocò un’altra stretta allo stomaco. Le veniva da vomitare, maledizione. Avrebbe dovuto bere meno o coprirsi di più; di quel passo le sarebbe venuta una congestione.

Riuscì a mantenere l’equilibrio senza sapere neanche lei come, ma non riuscì a impedire alla bile di risalirle la gola.

Vomitò sull’asfalto, tenendosi lo stomaco come ad arginare la nausea. Un colpo di fosse la fece piegare in avanti, ma riuscì a rimanere in piedi divaricando leggermente le gambe per reggersi meglio.

Non sarebbe caduta di nuovo per terra, nel suo vomito per giunta.

Stava sudando freddo mentre iniziava a tramare visibilmente. Si passò una mano sulla fronte, trovandola madida di sudore, mentre le si annebbiava la vista di lacrime dovute alla tosse.

Si chinò cautamente per prendere i fazzoletti nella tasca interna del borsone: era un’operazione lenta e dolorosa, e impiegò alcuni minuti per portala a compimento; estrasse un fazzolettino di carta bianco e si pulì le labbra prima di gettarlo malamente a terra.

Si appoggiò una mano sulla fronte e spostò i capelli dal viso sudato prima di imporre alle sue gambe di muoversi nuovamente.

Riprese a camminare lentamente. Non si sentiva più il braccio, quindi l’unica soluzione fu trascinare il borsone per i manici. Avrebbe dovuto aspettare che le tornasse la sensibilità, ma era contenta che Eric non fosse corso ad aiutarla. Avrebbe dovuto insultarlo ancora e non era sicura di avere voce a sufficienza.

Stufa di trascinare il suo bagaglio se lo caricò in spalla, soffocando un ringhio di dolore. Non riusciva a chiudere la mano tagliata e trascinare quel peso iniziava a diventare più doloroso del consentito.

Malauguratamente, il borsone le scivolò, strattonandole il braccio verso il basso.

Il dolore durò poco, ma la fitta iniziale le riempì la testa e le sembrò quasi si sentire il suo sangue pulsare nelle vene, mentre le si annebbiava nuovamente la vista e barcollava pericolosamente all’indietro. Lasciò andare il borsone, senza più forza nella braccia e si sporse in avanti per mantenere l’equilibrio, come aveva fatto poco prima.

Mancava poco, era quasi arrivata. Un ultimo sforzo, doveva solo attraversare la strada intorno alla rotonda riservata alle ambulanze ed entrare dalle porte automatiche. Non era lontano, anche se salire e scendere i gradini del marciapiede mattonellato sarebbe stato doloroso.

Il passo che fece in avanti le causò un conato di vomito più forte dei precedenti, costringendola a piegarsi in avanti per non sporcarsi.

Tossì, mentre al primo conato ne seguiva un altro abbastanza forte da costringerla a cadere sulle ginocchia e a tenersi spasmodicamente allo stomaco con le mani.

Ora sentiva chiaramente i brividi su tutto il corpo e si accorse di tremare come una foglia. La testa le pulsava dolorosamente e sentì salirle agli occhi lacrime di frustrazione.

Era patetica, ecco cos’era.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- E quindi? -.

- E quindi nulla, mi ha mandato al diavolo ed è scesa di macchina. – ripeté, per la seconda volta. Quando ci si metteva Sean era più curioso di una donnicciola e nonostante fosse ormai un Intrepido, continuava a voler essere messo al corrente e a voler conoscere ogni aspetto di quello che succedeva.

“Se devo farti da avvocato difensore, devo conoscere ogni aspetto degli avvenimenti.”

Tralasciando le ovvie considerazioni sul fatto che, professandosi come suo migliore amico, avrebbe dovuto prendere le sue parti a prescindere dalle circostanze.

Ma quelli erano dettagli, giusto?

Osservò con più attenzione davanti a sé, sporgendosi leggermente in avanti per vedere nell’oscurità. Andava talmente piano che non aveva neanche bisogno di tenere le mani sul volante.

- Aspetta un attimo: forse sta collassando. – comunicò all’amico. In effetti, Kaithlyn era caduta. La vide provare ad alzarsi un paio di volte e dopo la seconda, vendendola rimanere a terra, spense il motore preparandosi a scendere per andare a raccattarla.

Le vide drizzare la testa e alzarsi repentinamente, forse sentendo il motore della macchina spengersi e immaginando che sarebbe andato ad aiutarla. Forse si alzò troppo velocemente, perché la vide piegarsi in avanti e vomitare anche l’anima. Non la vedeva chiaramente, era buio e lei si trovava a diverse decine di metri da lui.

Da un punto di vista teorico avrebbe dovuto correre da lei, caricarsela in spalle e portarla in ospedale, prima che avesse una congestione e restasse lì.

Aspetto diversi secondi, poi la vide rialzarsi barcollante, così riaccese la macchina e ripartì. La vide girata verso il borsone, che fisso per diversi secondi prima di afferrarlo per i manici e iniziare a trascinarlo.

- Mmh… falso allarme, respira ancora. – aggiunse rivolto a Sean.

Sean, dall’altra parte, ridacchiò. – Tu non vuoi veramente che ci resti secca. Contieniti e va ad aiutarla. -.

Lo ignorò, osservando dove stava camminando la ragazza. Non si sarebbe congelato per aiutare qualcuno che a) ce l’aveva a morte con lui b) lo trattava di merda da giorni e c) non voleva essere aiutato.

Perché forzarla? Se aveva deciso che la sua ora sarebbe arrivata proprio lì erano affari suoi… de gustibus. Se la strada nei dintorni dell’ospedale cittadino le piaceva come ultimo luogo da visitare prima di morire, avrebbe rispettato i suoi desideri.

- Lì spesso c’è un tombino aperto, forse stasera sono fortunato e… no, ovviamente no. – brontolò, mentre Kaithlyn sorpassava uno dei tanti tombini soggetti a manutenzione della zona.

Sean sospirò. – Eric. -.

Inarcò le sopracciglia. – Che c’è? Mi pareva che la speranza fosse l’ultima a morire! – protestò con indifferenza corrugando le sopracciglia e acuendo lo sguardo per individuare le sagome della ragazza.

- Certo, - gli concesse ironicamente l’altro. – è ancora in piedi? – indagò, dopo alcuni secondi di pausa.

- Ovviamente. Chi la ammazza quella? Se dovessero sequestrarla, mi preoccuperei di più per i sequestratori che per lei. Aveva ragione boccoli d’oro: avrei dovuto portarmi una mazza chiodata e finirla. Forse la decapitazione funziona davvero…– mormorò, senza tuttavia staccare gli occhi dalla figura barcollante che camminava a poche decine di metri da lui e che sembrava intenzionata a continuare per la sua strada anche a costo di strisciare sull’asfalto.

Era grande e vaccinata, se voleva arrivare in coma al pronto soccorso non poteva certo essere un problema suo. Non si sarebbe fatto esplodere le coronarie per quello e non glielo avrebbe impedito.

Sean rise. –Ti credo. –

- Tu, comunque, perché mi chiami a quest’ora? Non hai proprio niente di meglio da fare? – indagò, mentre osservava attentamente ogni movimento di kaithlyn che stava assumendo un’andatura quasi moribonda.

- Ho discusso con Mia e lei mi ha gentilmente invitato a trovarmi un altro letto, nella fattispecie il tuo. A quanto pare le tue discussioni con la tua ragazza hanno contagiato anche lei…. Comunque sono andato a casa tua, ma tu non c’eri, come ben sai… allora… - spiegò, con tutta calma.

- Io stasera sarei comunque rimasto da Kaithlyn, dato che aveva come “ospite” Mister Simpatia; avresti dormito fuori. – lo interruppe. Dopo quello che gli aveva schiaffato in faccia, tra l’altro, non avrebbe più passato una sola notte senza sapere esattamente dove fosse e cosa stesse facendo. Si sarebbe accampato nel suo salotto, se necessario, ma Miller doveva stare ad almeno trenta metri da lei. Avrebbe scritto un’ordinanza restrittiva facendolo passare per un maniaco pervertito che si divertiva a torturare le donne con giochetti sadici, per tenerlo alla larga da ciò che era solo ed esclusivamente suo.

Sean si zittì un attimo. – Mi lasci finire? Grazie. Comunque sono andato da Robert e Annie, i nostri compagni d’iniziazione, hai presente Re degli Asociali Patologici? Esatto proprio quei due tipi simpatici con cui abbiamo condiviso il bagno per un mese in quella topaia di dormitorio! Insomma, sono andato da loro e dato che non avevo il cercapersone mi hanno fatto chiamare con il telefono di casa. Ora sai che hai disturbato quasi tutta la nostra classe d’iniziazione, contento? – concluse, come se fossero entrambi in salotto e bere una birra.

Eric storse la bocca: non era particolarmente entusiasta del fatto che anche gli altri due sapessero di quel casino. – Non tutti. Se davvero vuoi fare una cosa come si deve, fammi un regalo e versa del cemento armato e rinforzato davanti alla porta di Quattro. – suggerì con un ghigno.

Il sogno della sua vita: sbarazzarsi per sempre di Tobias Eaton. Quattro. Come diavolo si chiamava.

Che poi, riflettendoci, farsi chiamare come un numero gli sembrava una cosa piuttosto idiota. Negli Eruditi gli avrebbero riso in faccia per… be’, per sempre. A malapena sopportavano gli abbreviativi. Lui, ad esempio, almeno quando era in casa e i suoi erano a portata d’orecchio doveva chiamare suo fratello William… avevano tollerato, sua madre in particolare, che lo chiamasse Will solo fino all’inizio dei Livelli Inferiori ed esclusivamente perché ancora non poteva parlare in modo del tutto corretto. Anche se sospettava che ci fosse lo zampino di suo padre, che era sempre stato più incline ad assecondarli di sua madre e il più delle volte si ritrovava a fare da mediatore.

Un movimento brusco, davanti a lui, lo distolse dai suoi pensieri. Il borsone di Kaithlyn era caduto a terra e lei era piegata in due e stava vomitando di nuovo. Aspettò alcuni secondi che si rialzasse, ma lei continuò a piegarsi sempre più su se stessa, scossa da conati e tosse.

Spense il motore ma non la macchina per mantenere la comunicazione e sentire lei nel caso l’avesse chiamato per aiutarla.

Kaithlyn si piegò in avanti, reggendosi con gli avambracci e continuando a tossire. La vedeva tremare anche da lì, forse le stava prendendo una congestione.

- Sean, ci sentiamo dopo, devo andare. – comunicò, slacciandosi la cintura.

- Kaithlyn? L’hai recuperata? – chiese, l’altro con una punta di interesse.

- No, ma sta rantolando. Ti richiamo. – disse prima di riattaccare e scendere velocemente dall’auto.

Si mise le chiavi in tasca, afferrò il suo giaccone e si avvicinò a passo svelto da lei, semi accasciata sull’asfalto.

Si chino su di lei e le scostò i capelli dal viso. Non l’aveva mai vista tanto stravolta: era sudata, tremante e aveva le mani coperte si sangue. Non sembrava neanche la stessa ragazza di poche ore prima, in quelle condizioni.

Lei scansò la sua mano con la testa, e due secondi dopo Eric, aveva infilato un braccio sotto le ascelle di Kaithlyn per non farla finire con la faccia  terra.

Si sedette a terra e le fece appoggiare la testa e la schiena sul suo torace, poi la coprì con la giacca, massaggiandole piano la pancia.

Kaithlyn scuoteva debolmente la testa e non appena gli sembrò stesse un po’ meglio, la sentì muoversi e la aiutò a mettersi in piedi.

- Tieni, infilati questo… - mormorò, mettendole il giaccone pesante sulle spalle.

La tenne una mano sulla pancia, per scaldarle lo stomaco congestionato e le passò l’altra sulla schiena.

Kaithlyn si divincolò con tutta la forza che le rimaneva e si voltò verso di lui, barcollante, sudata e ricoperta di sangue ma decisa. – Non toccarmi… - biascicò, con la voce impastata e debole come quella di un’ubriaca.

Eric la ignorò. – Ti porto all’entrata e poi torno a prendere la macchina. Non arriverai mai neanche all’aiuola centrale, di questo passo. – disse, cercando di farla ragionare. Se si ribellava rischiava di farle più male di quanto già non avesse fatto.

Kaithlyn lo allontanò con le braccia. – Non ho bisogno né di te né di nessun altro… non voglio che… che tu mi tocchi. – protestò con veemenza facendo altri due passi barcollanti all’indietro.

Fece appena in tempo ad afferrarla, prima che cadesse in terra e battesse una testa sull’asfalto.

– Se ci tieni tanto a fare la dura ti faccio arrivare all’entrata del pronto soccorso da sola mentre parcheggio, che dici? – la schernì, spingendola verso la macchina e afferrando il borsone con l’altra mano.

- Io non voglio fare “la dura”, idiota. Voglio solo arrivare al pronto soccorso e vedere cosa diavolo mi sono fatta e, se possibile, non sentire la tua voce. M’infastidisce. – ansimò con la voce arrochita dal freddo e ancora impastata.

Eric scosse la testa. Non riusciva a spiegarsi come potesse pensare ancora a qualcosa che non fosse il bisogno di farsi aiutare in quelle condizioni. Era incredibile. Dove trovava l’energia per discutere e per rimbeccarlo in quel modo?

Aveva ragione Miller: forse per uccidere Kaithlyn, l’unico modo era la decapitazione, un colpo netto e via. Qualsiasi altra cosa le avrebbe fatto il solletico, ne era sicuro.

- Ti porto fino all’ingresso, poi puoi fare quello che vuoi. – le comunicò stringendo i denti.

Aveva i brividi e non voleva restare un minuti di più lì. Kaithlyn si divincolò ancora, riuscendo a sgusciare dalla sua presa e tornado sui suoi passi.

E pensare che si era illuso che fosse finalmente fuori gioco. Era da quello che si distingueva un combattente: era ferita, stanca e piena di dolori ma nonostante sapesse che a lui sarebbe bastato un nulla per fermarla, caricarla in macchina e trascinarla di peso fino al pronto soccorso insisteva a seguire il suo obiettivo, inarrestabile. Forse iniziava a capire come mai Frederick, tra tutti i validi elementi presenti tra le Forse Speciali degli Intrepidi, insistesse a voler nominare proprio Kaithlyn come suo successore al Comando.

Lui però non era il vecchio e saggio Frederick Wood e non gli interessava quanto fosse straordinariamente ostinata Kaithlyn Evenson o quanto avrebbe resistito su un ipotetico campo di battaglia e con quanta freddezza e determinazione avrebbe condotto la sua Squadra alla vittoria. Lui era Eric Turner, e l’avrebbe trascinata per i capelli fino all’auto e infilata nel bagagliaio se l’avesse ritenuto necessario.

Gli bastarono poche falcate per raggiungere Kaithlyn, afferrarla per un braccio e girarla verso di sé.

Era mortalmente pallida, gli occhi circondati da occhiaie bluastre, la bocca screpolata e un’espressione stravolta. Aveva anche gli occhi lucidi, ma immagino fosse per i conati di poco prima.

- Non toccarmi! – urlò Kaithlyn facendolo quasi sussultare. – Non vedi che non sto bene? – disse con voce strozzata.

Era evidente che stesse da cani, anche un cieco se ne sarebbe accorto.

- Voglio solo portarti al pronto soccorso, non fare la bambina: se proprio ci tieni poi ti lascio lì e te ne puoi tornare a casa tua a piedi. O a corsa. A zoppino, camminando sulle mani o anche rotolando se ti aggrada. – le assicurò in tono pratico.

Kaithlyn rise istericamente, gli occhi appesantiti. – Vuoi rattopparmi per lenire i sensi di colpa? – lo schernì facendo roteare gli occhi verso l’alto.

Eric scosse appena la testa. – Non mi sento in colpa per te, stupida. – ribatté sprezzante, con un ghigno di sufficienza. - Non volevo colpirti, ovviamente, altrimenti non cammineresti. Ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, come al solito. -.

- Ha importanza? – lo interruppe. – Mi hai vista? Non sei tu quello che non sa se domani potrà riprendere a fare il suo lavoro solo perché uno di noi due ha perso la testa! – sibilò. – Non m’interessano le tue intenzioni, quello che preoccupa me è il risultato. -

Eric fece una pausa per cercare di mantenere quella poca calma che sembrava ancora appartenergli. Si meravigliava quasi di se stesso.

- Ero venuto al Pozzo per parlarti. Poi ti ho vista amoreggiare con… - iniziò, mentre la rabbia lo infiammava, mettendo da parte la sensazione di disagio di un attimo prima.

Kaithlyn spalancò la bocca. – Amoreggiare? AMOREGGIARE? ANCORA? – gridò con voce stridente, facendo un passo verso di lui e guardandolo dritto negli occhi.

Aprì la bocca per urlarle qualcosa, ma lei fu più veloce.

- Perché non fai una bella cosa e la pianti di insistere, quando qualcosa non va, eh? Smetti di insistere con me, con questa maledetta storia da piagnone del secondo stramaledetto posto e smetti di insistere nel voler forzatamente far andare le cose come vuoi! Non toccarmi, non parlarmi e non cercarmi più. Non peggiorare ancora la situazione, tanto come al solito non ottieni niente! – urlò arrabbiata ed esasperata.

S’irrigidì. – Bene. Muori pure nei prossimi cinquanta metri se ti fa piacere o aspetta che qualcuno venga a raccattarti; vuoi che ti lasci il telefono per chiamare il tuo amichetto neo depresso o il tuo paparino? – sibilò ferito.

Kaithlyn sembrò esplodere. – NON NOMINARE MIO PADRE! – gridò, barcollando in avanti. Nonostante il fisico fosse mal ridotto, gli occhi di Kaithlyn erano ancora vigili e battaglieri e lei riuscì a rimanere in piedi. Tanta cocciutaggine era da ammirare.

Non ce la faceva più: era esausto, gli era tornato mal di testa e non riusciva a capacitarsi della piega che aveva preso il loro rapporto. Si sentiva sul punto di esplodere, di nuovo e peggio di poco prima, ma doveva cercare di mantenere la calma. Se avesse perso di nuovo, il controllo avrebbe potuto benissimo strozzarla a mani nude e lasciarla agonizzante sull’asfalto senza quasi accorgersene e non voleva.

Strinse le labbra. – Stammi a sentire: non importa un cazzo di tuo padre, di Miller e della tua stupidissima spalla della quale l’unica responsabile sei tu e la tua mania di voler sempre controllare ogni cosa. Per quel che mi riguarda, sono beatissimi cazzi tuoi, Kaithlyn. – ringhiò, raddrizzando le spalle.

- Se ora però non muovi il culo e monti in macchina, ti giuro su Dio che ti prendo di peso e ti ci trascino per i capelli. – intimò la voce bassa e tagliente.

Kaithlyn rise, sprezzante. – Non hai ancora capito? Cazzo, ci credo che te ne sei andato dagli Eruditi! -.

Eric strinse i pugni e fece un passo verso di lei lasciando solo una cinquantina di centimetri a dividerli e cercando di imporsi di non piazzarle un pugno in pieno viso anche se la tentazione diventava più forte ogni secondo che passava.

Kaithlyn respirò profondamente e si schiarì la voce. – Io non posso stare con qualcuno che approfitta di ogni discussione per darmi della troia. E non posso stare con qualcuno tanto instabile da non rendersi conto di quello che fa. La prossima volta che mi vedrai parlare o respirare la stessa aria di un altro ragazzo cosa farai? Mi spaccherai la testa contro un muro e poi dirai “non ti volevo colpire”? “Ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato”? “Scusa, sai, ogni tanto parto con la testa e poi non ricordo più che cazzo ho fatto?” – infierì scimmiottandolo istericamente. – Quale sarà la prossima scusante? Che non volevi mettermi le mani alla gola e strangolarmi? Forse non ti è chiaro, ma non sono il tipo che sopporta in silenzio! – gridò.

Proseguì. – Davvero, riuscissi a capire cosa vuoi, cosa pretendi da me, forse potremo anche parlarne. Ma a te basta portami a letto e farti una scopata come si deve ogni tanto, giusto? -.

Fu come se la miccia di una bomba fosse arrivata alla fine del suo ardere e avesse innescato il meccanismo. Ci fu un lungo secondo di silenzio e poi esplose.

–NO! NON SONO IO, SEI TU! TU CHE CAZZO VUOI?! – ruggì, arrivandole a pochi centimetri dal viso, sovrastandola con la sua furia e facendola indietreggiare - Vuoi l’uomo zerbino, qualcuno che baci la terra su cui cammini e ti assecondi in ogni stronzata che ti esce dalla bocca? – urlò, - perché in questo caso avevi a rimanere negli Eruditi, con il tuo paparino a coprire tutte le porcate che hai fatto e ad assecondarti in tutto! Hai scelto la persona sbagliata per questo, stronzetta! E poiché l’unico momento in cui non rompi il cazzo commentando ogni aspetto della vita degli altri è quando ti scopo, forse non sarebbe male se tu ti facessi sbattere anche dal resto della fazione! – si sgolò. – Pensi di saperne qualcosa, eh? Tu e la tua perfetta esistenza tra gli Eruditi mi avete rotto i coglioni, viziatella del cazzo. Ora perché non chiami il tuo innamoratino e lasci che sia lui ad occuparsi di te? Ecco, tieni! – gridò, lanciandole addosso il Cercapersone di Kaithlyn, che si era premunito di acciuffare all’ultimo minuto prima di uscire.

Gli bruciava la gola, i muscoli e gli occhi. Non aveva neanche sbattuto le palpebre e le urla gli avevano prosciugato la gola.

- E la prossima volta che ti senti male crepa sull’asfalto già che ci sei! – ringhiò, fuori di sé.

Kaithlyn si scagliò contro di lui e lo colpì con entrambe le braccia.

Incassò il colpo: non aveva abbastanza forza da fargli male e sentì nascergli in petto una risata di schermo.

Lei però si girò quasi come riflesso all’impatto e la vide avanzare per qualche metro con le ginocchia piegate e il braccio stretto contro il patto, poi la sentì esalare un singhiozzo. Era un pianto esasperato, liberatorio. Come se le fosse rimasto impigliato in gola fino a quel momento e finalmente avesse trovato una buona scusa per liberarlo.

Sbuffò dalle narici, fissandola intensamente, come a scandagliarla dalla testa ai piedi per verificare che non stesse fingendo. Kaithlyn non era il tipo di ragazza che dopo una discussione si metteva a frignare per suscitare pena o far sentire in colpa gli altri… anche perché, lo sapeva, se si metteva al voi con qualcuno, era perché si sentiva fermamente dalla parte della ragione. Se avesse pensato di essere in torto, conoscendola, se ne sarebbe fregata e basta.

La vide stringersi le braccia intorno al corpo, poggiando anziché le dita, i polsi per via delle mani insanguinate. Si avvicinò a lei, camminando rigidamente per non cedere alla tentazione pulsante di caricarsela in spalle e trascinarla di forza, con il rischio di peggiorare la situazione, fino a quel dannatissimo pronto soccorso.

Non fece neanche in tempo a poggiarle una mano sulla spalla per girarla, che lei, nel tentativo di scansarlo, si voltò troppo velocemente e per poco non cadde a terra.

- Non toccarmi! – gridò Kaithlyn. – Non ti rendi conti che come ti muovi mi fa del male? Lasciami in pace, vattene. –

- Kaithlyn… - espirò, mentre il tremore che annunciava la perdita completa delle sue facoltà, tanto simile a quello che aveva avvertito poche ore prima iniziava a diffondersi alle braccia.

- No! Pensi che mi diverta? Pensi che io voglia stare con te così, con qualcuno che ha un’opinione tanto bassa e scadente di me? – gridò, nonostante avesse la voce rotta e ruvida come carta vetrata dalle lacrime e dalla rabbia.

- Da che pulpito. Pensavo di essere io il fallito. A quanto pare mi sbagliavo…– commentò gelidamente prima di darle un leggero colpetto con una mano che la fece finire a terra, in ginocchio.

Kaithlyn nella caduta, per parare l’impatto mise avanti il braccio dolorante.

Ci furono un paio di secondi di silenzio, poi scoppiò a piangere, piegata in avanti e con le braccai strette al petto.

Sentirla singhiozzare in quel modo lo fece rabbrividire fin dentro le ossa, ma ignorò l’istinto di chinarsi a terra e consolarla e fece due passi indietro mettendo su un ghigno cinico, mentre la parte più incontrollabile e sadica di lui prendeva il sopravvento per la seconda volta.

- Guardati: sei veramente patetica. – sorrise divertito.

Kaithlyn respirò affannosamente per calmare i singhiozzi e poi alzò il viso insanguinato dalle mani e rigato di lacrime su di lui. È questo, l’unico modo in cui poi sentirti qualcuno, vero? Approfittane finché puoi, perché in altre circostanze potresti solo pulirmi le scarpe. – esalò.

Eric rise, anche se il suo ghigno si affievolì leggermente. – Bene, allora ti lascio qui a goderti il tuo momento di gloria. – commentò mentre la tensione iniziava ad andarsene rapidamente com’era arrivata.

- Se non altro non mi faccio scoppiare le tempie e prendo a pugni chi mi sta intorno solo per un paio di pugni… - mormorò, - comunque sia, non voglio più vederti. Puoi considerarmi un capitolo chiuso, piccolo Turner. È stato divertente costatare quanto sei realmente patetico. –

Eric si congelò sul posto per un paio di secondi, la mandibola contratta e gli occhi brucianti di frustrazione. Ecco a cosa si riferiva quando rimuginava sul fatto che Kaithlyn sapesse essere inequivocabilmente più stronza di chiunque.

Afferrò senza pensarci il borsone nero abbandonato per terra e quando arrivò alla macchina lo scaraventò sul sedile del passeggero.

Si sentiva frustrato, infuriato e amareggiato.

Urlò di frustrazione, battendo con violenza mani e piedi contro il volante e il tappetino per i piedi.

Si dimenò per alcuni secondi, prima di stringere il volante fino a farsi riaprire le nocche incrostate di sangue, mettere in moto e partire con uno stridio di gomme verso l’ospedale.

Passò davanti a Kaithlyn lanciandole solo un’occhiata di sbieco dallo specchietto retrovisore. Sembrava stare anche peggio di prima e per un momento ne godette in modo cinico.

Bene, ne godeva.

Le stava bene, se l’era meritato. Avrebbe tanto voluto far provare a quella che in quel momento gli sembrava solo una ragazzina viziata anche solo un decimo di quello che aveva passato lui tra gli Eruditi durante l’infanzia e l’adolescenza. Solo un decimo e sarebbe stato contento perché forse le si sarebbe accesa in testa un tenue lucina di comprensione e si sarebbe ridimensionata. Avrebbe voluto, anche solo per un minuto, chiuderla in una stanza e farle provare un po’ della paura e della disperazione che aveva provato lui qualche anno prima, ma immaginava fossero sentimenti troppo distanti da lei, da qualcuno a cui non era mai mancato niente, mai una tragedia, qualcosa di storto.

Faceva tante storia per quell’articolo, ma se non fosse stata al suo posto non le sarebbe sembrato nulla. Stronzate, ecco cos’erano quei piagnistei. Una vagonata senza fine di stronzate.

Parcheggiò sgommando davanti all’entrata del pronto soccorso e dopo aver afferrato il borsone entrò.

Cercò con gli occhi qualcuno del personale e quando un’infermiera gli passo davanti lanciò il borsone ai suoi piedi. – Tra qualche minuto dovrebbe arrivare la proprietaria: ha i capelli rossi, una felpa nera ed è piuttosto mal ridotta. Glielo lascio qui. – disse, prima di fare dietro front verso la macchina.

Ripartì a tutta velocità, come se andare più forte potesse farlo sentire meglio, come se la scarica di adrenalina che gli data l’alta velocità, l’eccedere oltre i limiti consentiti, potesse riempire tutto quel vuoto che sentiva invadergli il petto e la mente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Sono puntuale, anzi, rispetto agli ultimi mesi in super anticipo! Ci credete? Io no!”

Quando ho scritto questa come prima frase dello spazio finale, dovevo essere in un momento di profondo ottimismo, non c’è che dire.

So che divento ripetitiva, ma mi dispiace veramente moltissimo per i ritardi degli ultimi aggiramenti. Il fatto è che parto in quarta con i nuovi capitoli, lì butto giù quasi istantaneamente, spesso mentre sistemo l’aggiornamento ma poi ci sono un milione di cose che non mi tornano e nelle ultime due settimane di Novembre, non ho avuto veramente tempo per respirare, figuriamoci per scrivere! E vi chiedo anche scusa, mille volte, per eventuali orrori ma il capitolo è piuttosto denso di particolari e a forza di leggere è come se la mia mente "sapesse già"  cosa c'è scritto... quindi ci sta che qualcosa mi sia sfuggito... se trovate strafalcioni non esitate farmelo notare!

Quindi scusate ancora, cercherò di velocizzarmi anche se si avvicina la famigerata sessione invernale e, oggi stesso pubblicherò il terzo capitolo di Mind’s Shades che un po’ per mancanza di ispirazione un po’ per mancanza di tempo, è ferma da mesi.

Preparatevi a una serie di capitoli con una serie di domande, perché saranno tutti piuttosto… particolari. Scopriremo alcuni avvenimenti del passato di Eric e qualcosa di quello di Kaithlyn e inserirò un “nuovo” personaggio che farà la sua comparsa proprio nel prossimo capitolo. Sono curiosa di sapere se qualcuno di voi indovina chi è, anche se non ho lasciato nessuna indicazione.

Vi lascio un indizio: in questa storia ancora non è comparso... neanche in forma “virtuale”!

Da qui, parte il mio solito interrogatorio.

Vi aspettavate una cosa del genere? Sembra esagerata? È stata una bella litigata, secondo voi come prosegue?

Idee? Sono curiosissima di sapere cose pensate e cosa immaginate per i futuri capitoli! A cosa si riferisce Eric quando parla del suo passato? Cosa c’entra il padre di Kaithlyn con quello che le è successo? Chi compare tra poco? Secondo voi riusciranno a ricucire il rapporto? Per farlo è necessario che qualcuno faccia un passo indietro… vi sembra possibile che accada? Se sì, chi è tra i due testoni?

Spero il capitolo vi sia comunque piaciuto e aspetto i vostri pareri per sapere se tutto questo casino secondo voi funziona o devo farmi internare una volta per tutte!

A me è piaciuto molto scriverlo e immaginarlo, ora a voi “l’ardua” sentenza!

Ringrazio tantissimo Kaimy_11 e CloveRevenclaw per la recensione, Yerinh per averla inserita tra le preferite e tutti i lettori silenziosi!

E, abbiate pazienza ma ormai è un’abitudine, vi lascio il link della mia pagina facebook!

Link à https://www.facebook.com/Kaithlyn-J-Evenson-865334640156569/

  
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