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Autore: Losiliel    23/12/2015    8 recensioni
"Il suo corpo si riprese dai tormenti e riacquistò salute, ma l'ombra delle sofferenze subite era nel suo cuore" (Il Silmarillion, cap. XIII - Il ritorno dei Noldor).
Nelyafinwë, salvato da Findekáno, deve affrontare i propri demoni prima di riprendere il suo ruolo tra i Noldor quale erede di Fëanáro.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Capitolo Secondo - Delirio


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Entrava e usciva dall'incoscienza senza rendersene conto. Non percepiva la differenza tra sogno e realtà. A volte gli sembrava di essere ancora appeso sul baratro, altre di essere inchiodato al suolo. In entrambi i casi il dolore era immutato.

I pensieri sfuggivano completamente al suo controllo. La sua liberazione... era stata un inganno, estrema beffa del Nemico? Non avrebbe saputo dirlo. Findekáno… era stato un'allucinazione? A questo era più facile dare una risposta.

Dopo quel giorno sulla scogliera l'aveva allontanato da sé. Per riflettere sull'accaduto si era detto… per paura, in verità. Di lì a poco, gli scontri tra i loro padri e il successivo esilio di Fëanáro e dei suoi figli erano sembrati una valida scusa a quella insensata separazione. Infine il tradimento su quella spiaggia in fiamme aveva concluso amaramente la loro amicizia. Findekáno, fosse anche arrivato nell'Endor per vie a lui ignote, non avrebbe avuto più alcun motivo per venire in suo soccorso.

Allora perché gli sembrava di sentirne la voce? Gli sembrava di sentirlo parlare con qualcuno.

Trovò la forza di aprire gli occhi. Luce soffusa. Tela scura tesa sopra di lui: l'interno di una tenda. Abbassò lo sguardo. Un mantello pietosamente tirato a coprire ciò che restava del suo corpo. Un giaciglio morbido sotto di sé.

Alla sua sinistra la parete era investita da una luce tremolante che proveniva dall'esterno, di certo un fuoco, che stagliava su di essa due ombre che si fronteggiavano, appena fuori.

Le voci arrivavano da lì.

– Non lo porteremo al nostro campo in queste condizioni! – Impossibile non riconoscere quella forte di suo fratello Makalaurë. – La nostra gente non deve vedere l'erede di Fëanáro ridotto in quello stato! Per non parlare dei miei fratelli. 

I "miei" fratelli. Non i "nostri". Makalaurë lo dava già per spacciato? Forse non aveva tutti i torti.

– Ma ha bisogno di essere curato! E io non sono in grado di farlo! – Findekáno gridava. Il suo tono disperato lo preoccupò più della svista semantica del fratello. Il cugino non si abbandonava mai alla disperazione.

Lo scambio di battute proseguì concitato, Nelyafinwë faticava a stargli dietro. Le voci sembravano provenire da un altro mondo. Per quanto ne sapeva, poteva anche essere così.

– Andrò a chiamare qualcuno.

– Ne ha bisogno ora!

– Allora andrò a chiamare qualcuno ora!

Un fischio appena accennato, un nitrito sommesso.

– Intanto occupatene tu, ti prego.

Una delle due ombre scivolò fuori dalla sua visuale. Nelyafinwë udì un debole scalpitio, poi perse nuovamente il contatto con la realtà. Desiderava l'incoscienza, che leniva tutti i mali, invece schegge di percezione continuavano a colpire i suoi sensi, a intervalli, come lampi nel buio dell'oblio.

Un panno bagnato sulle labbra secche che gli gocciolava in bocca acqua pura.

La voce di Findekáno che gli parlava paziente: – Tutto andrà bene, vedrai, presto arriverà qualcuno che si occuperà di te. – Gli parlava come a un bambino a cui si vuole nascondere la dura realtà. Non voleva sentire quel tono accondiscendente! Voleva la voce sincera e schietta del suo migliore amico.

Un leggero scroscio, come di un panno intinto nell'acqua e poi strizzato. Una carezza umida che rimuoveva dal viso il sangue rappreso e il sudiciume. Bruciava inizialmente, poi regalava un breve sollievo. L'acqua era tiepida e profumava di erbe: un infuso di piante medicinali.

Sentì quel tocco gentile scendere lungo il collo e intuì cosa stava per accadere.

– No – mormorò, – no, ti prego… 

Ma le parole non riuscirono a staccarsi dalle sue labbra. Il mantello venne rimosso esponendo l'orrore.

Urlò. Non voleva mostrarsi a nessuno. Meno che a tutti a Findekáno. Non voleva vedere nei suoi occhi la pena, laddove un tempo c'era stata solo sconfinata ammirazione. Non voleva vedere la repulsione dipinta sul suo volto.

Nel tentativo di non guardare il viso del cugino, abbassò lo sguardo sul proprio corpo. La penombra era misericordiosa, ma non abbastanza. Pelle tesa sopra ossa e tumefazioni (i bastoni). Pelle lacerata, incrostata di sangue e di sporcizia (le fruste). Piaghe aperte, che grondavano infette (le zanne).

– Maitimo… – sussurrò il cugino, con voce rotta.

Basta! Non voleva più sentire quel tono compassionevole. Non voleva più vedere quegli occhi lucidi di commiserazione!

Desiderò un'arma. Per porre fine a tutto. La propria vita, quella di Findekáno, quella del mondo intero!

Voglio la mia spada!

Delirava, ovviamente. Anche l'avesse ottenuta, gli mancava la mano per impugnarla.

 

 

*******

 

 

La sua spada giaceva abbandonata in una pozza di sangue.

Aveva appena trafitto il suo primo essere vivente. E non era stato un servo del Nemico, ma un Elda come lui, sulla tolda di una nave rubata.

Nelyafinwë non aveva voluto ucciderlo. La sua intenzione era stata solo quella di spaventarlo. Lui era più alto, più imponente e brandiva una spada lunga a due mani, mentre l'altro… cosa impugnava, per Eru? Un coltello? Un arpione? Non aveva più importanza ormai. Non era fuggito quel valoroso, e gli si era gettato addosso nel tentativo di colpirlo. Lui non aveva dovuto far altro che stendere le braccia per trafiggerlo da parte a parte.

E mentre inorridito ritraeva la lama, cercando di non prestare attenzione ai delicati tratti del suo viso, agli abiti leggeri che indossava, al colore argenteo dei suoi capelli, non era però riuscito a distogliere lo sguardo dai suoi occhi chiari, che lo fissavano mentre si accasciava a terra e la vita gli scivolava via insieme al sangue che sgorgava rapido dall'addome.

Quegli occhi, solo un istante prima sfavillanti di coraggio, ora sembravano via via rassegnarsi all'ineluttabile: domande che non avrebbero mai avuto risposta, sensazioni che non sarebbero mai state provate, promesse che sarebbero state disattese. Come quella di una vita immortale che giungeva invece al suo termine.

Infine, prima che l'ultimo barlume di vitalità li abbandonasse, si erano spalancati in una disperata richiesta d'aiuto. Di fermare tutto questo. Di non lasciarlo andar via. Di non lasciarlo andar via solo. Nelyafinwë aveva abbandonato la spada per afferrargli le mani, si era buttato in ginocchio per non perdere il contatto con quello sguardo, ma aveva trovato soltanto occhi vuoti. 

Ed ora, chino sul corpo disabitato, atterrito da quell'atto imperdonabile, esitava prima di rialzarsi, convinto di dover affrontare il giudizio di tutti i suoi simili, i loro volti pietrificati dall'orrore, agghiacciati davanti al sacrilegio di cui si era macchiato: l'omicidio. Peggio, l'omicidio nella terra dei Valar.

Al pari soltanto del Nero Nemico.

Invece, trattosi faticosamente in piedi, si trovò ad assistere a uno spettacolo ancora più terribile. Sulla nave di fianco alla sua, il padre, rosso di sangue, mulinava la spada falciando chiunque gli si opponesse. Sul molo sotto di lui, i giovani Ambarussa, schiena contro schiena, resistevano all'assalto dei Marinai. Più avanti, lo stesso Makalaurë menava fendenti letali nel tentativo di guadagnare un'imbarcazione. Verso l'entroterra la schiera di Nolofinwë avanzava veloce, pronta ad unirsi al massacro.

Omicidi. Che si ripetevano. Ovunque volgesse lo sguardo. La follia dilagava! 

Come erano arrivati a tutto questo?

Domanda senza senso. La scelta, se di scelta si era trattato, era stata fatta a Tirion sotto un cielo scuro, quando le lame erano brillate rosse e parole di pietra erano state pronunciate.

Ormai non restava altro che proseguire lungo una strada segnata.

Nelyafinwë decise di farlo il più velocemente possibile, e senza più guardarsi indietro.

Recuperò la spada e con un balzo fu sul molo in aiuto dei gemelli. Con colpi precisi dispensava la morte a coloro che si mettevano sul suo cammino. Letale, silenzioso.

Ma dentro gridava la sua pena.

 

 

*******

 

 

Gridava.

Il suono delle sue stesse urla lo riportò alla realtà.

Una figura nella penombra era aggrappata a ciò che rimaneva del suo braccio destro e gli puntellava un piede contro il costato.

In bocca il sapore del sangue e del cuoio. Qualcuno gli forzava un pezzo di cintura tra i denti. Qualcuno che, chino su di lui, lo immobilizzava con presa ferrea. Gli bisbigliava parole all'orecchio.

- Resisti. Ti rimette a posto la spalla.

La voce di Findekáno. Riconoscerla non servì a calmarlo.

- Coraggio Nelyo.

Uno strappo improvviso.

Coraggio.

 

 

*******

 

 

Aveva dovuto raccogliere tutto il suo coraggio per affrontare il padre. 

Aveva visto la follia crescere sempre più negli occhi di Fëanáro, dopo il Fratricidio e la Condanna, e adesso, sulle rive dell'Endor, temeva un atto irreparabile.

Con voce che si era sforzato di mantenere calma e razionale, come era sua abitudine, aveva richiesto ordini per disporre del rientro delle navi e per i nuovi imbarchi.

Ma più gli parlava, più intuiva che il padre aveva altri progetti.

Le parole avevano cominciato a sfuggire al suo controllo. Aveva fatto il nome di Findekáno.

Non sapeva nemmeno lui se l'aveva fatto per far leva sulla necessità di avere con loro validi guerrieri, o se, nella sua disperazione incalzante, aveva assurdamente pensato che il padre potesse riconoscere il suo bisogno di avere accanto l'amico più caro.

Forse era stato un errore fatale menzionare il figlio di Nolofinwë. O forse suo padre aveva già deciso tutto e non teneva in conto l'opinione di nessuno, come aveva sempre fatto.

Comunque fosse, quelle navi prese nel sangue bruciarono in un incendio devastante: lingue di fiamma che arrivavano fino al cielo.

Era il modo scelto da Fëanáro per urlare in faccia al suo Nemico: Sono arrivato! Entro in Endor non di soppiatto, come un ladro che si insinua non visto per rubare gioielli, ma gridando e sfidando e imponendo e minacciando e maledicendo.

Era il modo scelto da Fëanáro per urlare in faccia a suo fratello: Addio! Non ho bisogno di te, non ho bisogno di nessuno. Non ne ho mai avuto. La mia strada la traccio da solo e la percorro da solo.

Era partito con l'idea di fermare la follia del padre, invece si ritrovava con una torcia in mano, vicino a suo fratello Makalaurë che tentava a sua volta di farsi una ragione di tutta quella insensatezza.

– Forse è meglio così, Russandol… – mentiva, – forse riusciremo a cancellare perfino il ricordo di queste navi maledette.

Nelyafinwë lo guardò in silenzio. Poi scosse il capo e gli consegnò la propria torcia, lasciandolo da solo con le sue menzogne.

Mentre si allontanava sentiva lo sguardo del padre puntato su di sé. Che lo guardasse pure, maledizione! Che capisse, una volta per tutte, che il suo primogenito era diverso da come lui lo avrebbe voluto.

Voltò le spalle al fuoco che bruciava sulla costa e a quello che bruciava nel cuore del padre.

Voltò le spalle a Findekáno. La separazione che lui stesso aveva voluto, ora che diventava definitiva, gli pesava come un macigno sul cuore.

Le parole che non aveva mai pronunciato, i sentimenti che non aveva mai confessato, improvvisamente assumevano un'importanza vitale. Presagì la propria fine e comprese che non voleva andare verso la Tenebra Eterna senza aver avuto la possibilità di dire all'amico quello che provava per lui.

Lacrime affiorarono nei suoi occhi e un nome sulle sue labbra. Findekáno.

 

 

*******

 

 

– Findekáno.

Un rumore attutito nel buio.

– Sono qui.

Vicinissimo. Percepiva il soffio del suo respiro contro la pelle del viso.

Percepiva il dolore, ancora forte. La spalla, il braccio, il polso reciso.

La realtà irruppe. Il picco. Il salvataggio. La disperazione.

– Findekáno… perché non mi hai ucciso?

Una mano a stringere la sua, un tocco lieve.

– Lo sai perché.

– Non voglio più vivere...

– Riposa Maitimo. Ce la faremo.

 

 

*******

 

 

– Ce la faremo! – a corto di fiato incitava i suoi fratelli e gli altri guerrieri a proseguire la scalata. La salita era ripida. L'aria densa di vapori malsani.

Trasportavano un carico prezioso. Trasportavano il padre, in fin di vita.

Nell'arida piana sotto i tre imponenti picchi oscuri, avevano appena avuto un assaggio della reale potenza del Nemico. Nelyafinwë e i suoi fratelli erano riusciti a respingere persino i Valaraukar, ma ora era necessario mettere al più presto le montagne tra il loro esercito e il campo di battaglia. Solo Eru sapeva cos'altro il Nemico avrebbe scatenato fuori da quei neri cancelli.

Ma giunto sulla cima, grondante sangue, le ossa spezzate, il respiro che arrancava tra i denti, Fëanáro riprese conoscenza e intimò l'alt. Allontanati coloro che lo stavano sostenendo, volle ergersi in piedi senza aiuto.

Nelyafinwë gli si avvicinò pronto a sorreggerlo, ma il padre sembrava non averne bisogno. Il suo sguardo era lucido mentre puntava gli occhi sulle Montagne della Tirannia, per nulla spaventato dalla potenza del Nemico, per quanto dovesse presagirla insormontabile, né dal giudizio di Námo, che presto avrebbe dovuto affrontare.

– Ci hanno maledetti – disse, quasi tra sé, come se realizzasse solo in quel momento la reale portata della Sorte dei Noldor.

Poi si riscosse e trovò la forza di urlare.

– Moringotto! …

Il grido riverberò nitido tra le montagne che li circondavano e, innalzato dall'eco, arrivò a infrangersi contro i cancelli delle Prigioni di Ferro. Rabbia, disprezzo e sfida si intrecciavano in quell'insulto urlato con voce potente, nemmeno una traccia di disperazione.

– Io… Curufinwë Fëanáro… sono io che ti maledico!

Tacque, col respiro affannato. Nelyafinwë credette che avesse esaurito tutte le energie, invece lo sentì gridare ancora.

– Io ti condanno alla disfatta e all'oblio!

Infine, udito solo da coloro che gli stavano più vicini, esalò: – Che tu sia dannato, in eterno.

Nelyafinwë lo vide vacillare. Gli offrì una mano, convinto che il padre non avrebbe accettato il suo aiuto.

Invece, inaspettatamente, Fëanáro la afferrò. La sua pelle bruciava.

– Nelyafinwë – disse.

I loro occhi si incontrarono e per un istante lui riconobbe il padre dietro alla follia che lo ottenebrava.

La fierezza di sé e delle proprie capacità, il desiderio di conoscenza, la straordinaria abilità nel creare opere di sublime bellezza, la passione per gli studi e l'autorevolezza che ne era derivata, l'orgoglio per la famiglia che si era creato. E l'amore sconfinato per il padre. 

Come si erano volte al male tutte queste virtù? Come avevano potuto condurre il più abile di tutti i Noldor a una morte atroce, per mano non del suo stesso avversario bensì dei suoi schiavi, in una terra desolata, al crepuscolo?

Ma era troppo tardi per cercare le risposte, sempre che esistessero. Il tempo, da sempre alleato degli Eldar, un bene dato per scontato dagli Immortali, ora veniva loro sottratto.

Fëanáro, pur stringendogli ancora la mano, già si rivolgeva agli altri figli, che chiamava uno ad uno con i nomi che lui stesso aveva scelto per loro.

– La nostra stirpe è stata maledetta – parlava a fatica, ma le sue parole erano chiare e, come sempre, andavano dritte al cuore, – siamo soli contro il mondo intero.

In un istante il furore riprese il sopravvento e la sua voce tornò impetuosa ad infiammare i loro animi.

– Forse alloggeremo in eterno a Mandos, bramando un corpo che ci verrà negato... ma le parole del nostro Giuramento riecheggeranno nelle Ere a venire! E quando il mondo finirà, ancora risuoneranno alle orecchie dei Valar a ricordare loro chi non si è mai sottomesso!

Infine, in un ultimo slancio pervaso di passione, disse ciò che si aspettava da loro.

 – Non abbiate paura, voi che avete rinunciato alla codardia! Resistete, fedeli al Giuramento che ci vincola, e portate a compimento la vendetta, da veri discendenti ed eredi di Finwë quali siete.

Giurarono tutti, ancora una volta, senza esitare, e le parole si levarono alte come una preghiera che accompagnava lo Spirito di Fuoco nel suo ultimo addio.

E mentre loro giuravano, chi tra le lacrime e chi con gli occhi inariditi dall'odio, chi gridando alta la propria ira e chi sussurrando la vendetta, il corpo ormai vuoto di Curufinwë Fëanáro rovinò al suolo e in un istante si consumò, non lasciando altro che un cumulo di cenere.

Nelyafinwë la guardò volare via, trasportata lontano dal vento. 

Nulla restava in Arda di ciò che era stato suo padre, tranne quei Gioielli che, ora più che mai, sembravano irraggiungibili.

Nulla restava su quel picco, così freddo ora che lo spirito del padre non lo scaldava più, così spaventoso ora che la sua voce non infondeva più coraggio.

Nulla restava se non gli sguardi atterriti dei suoi fratelli rivolti a lui, in attesa. 

In attesa di cosa? Si domandò. Di conforto? Di parole? Di ordini, forse.

Nelyafinwë chinò il capo, per la prima volta nella sua vita incapace di dar loro ciò di cui avevano bisogno.

Era solo.

Il gelo scendeva nel suo cuore, mentre la mano ancora bruciava del calore che aveva consumato suo padre.

 

 

*******

 

 

La mano bruciava! 

Come poteva bruciare, se gli era stata amputata? Eppure andava a fuoco.

Era immobilizzato. Legato!

– Nelyo, ti stanno curando. – La voce della razionalità. La voce di Findekáno.

– Ho dovuto legarti… non ero più sicuro di riuscire a tenerti…

Il viso di Findekáno su di lui: occhi blu, profondi, inquieti come il mare in tempesta. Occhi che cercavano di ancorare i suoi per distoglierli dall'orrore.

Fallirono.

Volse lo sguardo al braccio mutilato. Disteso su una piccola tavola di legno chiaro, il moncherino esposto era un grumo informe rosso bruno. Mani esperte erano al lavoro. Mani pallide, abili dita affusolate, ricucivano alcuni lembi, ne asportavano altri. Cauterizzavano col fuoco.

Quando percepì l'odore di carne bruciata, perse nuovamente i sensi.

 

 

*******

 

 

– C'è odore di qualcosa che brucia.

– Sì. Devono essere vicini.

Nel folto del bosco il buio regnava quasi totale. La luce delle stelle non penetrava tra le chiome e loro si erano arrischiati ad accendere pochissime lanterne. I suoi compagni si muovevano nel silenzio più assoluto.

Ad un tratto gli alberi cominciarono a farsi meno fitti e in breve si aprirono su una radura.

Nelyafinwë e il suo luogotenente vi si affacciarono con cautela. Videro le braci di un falò quasi spento nel centro dello spiazzo, intorno sagome avvolte in stracci scuri.

– Attacchiamo, mio Signore? – sussurrò il Noldo accanto a lui. Era un valido combattente, da sempre fedele a suo padre, che si era offerto volontario per quel compito.

Nelyafinwë si prese un istante per pensare. Non aveva con sé molti guerrieri: la sua era una missione esplorativa per scoprire quali forze il Nemico avesse destinato a raggiungere il luogo della trattativa.

Si aspettavano un esercito, ma la realtà sembrava diversa. Riusciva a contare poco più di cinquanta unità nella radura. Che il Nemico avesse veramente deciso di inviare una delegazione per negoziare e non un'armata per sterminarli, come si erano immaginati?

Se era davvero così, uno dei Gioielli poteva essere in quella radura!

Un Silmaril, un frammento dell'anima di Fëanáro, una scintilla di speranza per i Noldor.

La sua mente, di solito dominata dalla calma razionalità, venne accecata da quella visione ed egli rispose senza più esitare: – Dai l'ordine.

Così cominciò l'assalto alla radura e gli Orchi, presi di sorpresa, non ebbero alcuna possibilità di opporsi ai guerrieri Noldorin, che brandivano armi forgiate nelle fucine di Fëanáro e combattevano spinti dalla sete di vendetta per il loro Signore. Fu un massacro di breve durata.

Nelyafinwë allora abbandonò ogni cautela e, riposta la spada, cominciò a perquisire i corpi e gli stracci alla ricerca febbrile del Gioiello.

Voleva tornare dai suoi fratelli mostrando loro che il Giuramento era perseguibile, voleva infondere speranza al suo popolo tenendo alta la luce del Reame Beato…  o forse voleva soltanto stringere tra le mani l'essenza stessa di suo padre, la cui mancanza lo feriva come mai avrebbe creduto possibile.

E mentre lui era chino sui cadaveri con la mente occupata da tali pensieri, la trappola scattò. I Valaraukar calarono dal cielo e una moltitudine di Orchi sciamò dalle profondità del bosco per accerchiarli.

A Nelyafinwë bastò un'occhiata per capire che nessuno sarebbe uscito vivo da lì.

Allora non perse tempo a maledirsi per la propria ingenuità o a farsi assalire dalla vergogna, ma si portò in prima linea, alto, imponente, fiero. La luce delle torce portate dagli Orchi accendeva i suoi capelli come fiamma viva e proiettava lingue di fuoco sull'acciaio affilato della sua spada. Una lama ardente brandita da un guerriero nei cui occhi si leggeva la furia di chi non ha più nulla da perdere.

Nelyafinwë era pronto ad affrontare lo stesso destino del padre, pronto a esibire altrettanto coraggio davanti a qualsiasi terrore gli si fosse parato davanti. Pronto a morire una morte degna di essere ricordata, in una sorta di redenzione finale.

Ma il Nero Nemico aveva altri progetti, purtroppo. Nessun colpo mortale gli fu inflitto mentre cadevano uno ad uno tutti i suoi compagni.

Il coraggioso capitano che l'aveva seguito in quell'impresa malnata fu l'ultimo. Glielo trascinarono davanti e lo decapitarono con un colpo di sciabola. La testa rotolò ai suoi piedi: occhi fissi puntati nei suoi. 

Non riuscì a reggerne lo sguardo: incredulo di fronte alla sconfitta. Lo specchio del proprio.

Serrò le palpebre.

 

 

*******

 

 

Quando le riaprì era immerso nelle tenebre.

Era coperto di sudore, tremava di freddo. Il cuore gli martellava furioso nel petto e ogni respiro gli costava fatica, come avesse il torace schiacciato da un macigno.

Un dolore acuto proveniva da dove un tempo c'era stata la sua mano.

D'istinto allungò il braccio sinistro di lato. Cercava calore, conforto.

Cercava Findekáno.

Non trovò nulla. Era solo.

Il silenzio era angosciante. Il buio opprimente. Perché era stato lasciato solo?

L'odio lo travolse. L'odio scacciava la paura. Era l'unico modo.

Le sue dita brancolanti alla ricerca del cugino si chiusero su una stoffa pesante: era il mantello di Findekáno.

Lo afferrò con rabbia, pronto a scagliarlo via.

Invece se lo portò al viso.

Inspirò profondamente.

La paura allentò la morsa sul suo cuore.

L'incoscienza lo riaccolse tra le sue braccia.

 

 

*******

 

 

Un'aspra voce gutturale lo riportò alla realtà. Era il cambio della guardia. 

Lo sportello nel centro della pesante porta di ferro nero era aperto e lasciava entrare una luce rossastra, tremolante, che illuminava fiocamente la cella, piccola e umida, angusta. Le pareti di nuda roccia restavano nell'ombra. 

Come per un riflesso involontario, alla vista della luce Nelyafinwë si scostò di lato, quanto glielo permetteva la corta catena che gli vincolava la caviglia alla parete.

Schivò di poco un piccolo otre scagliatogli addosso. 

Immediatamente la botola si richiuse, lasciandolo nel buio più completo. Non vi fece caso, si era abituato alle tenebre. Come si era abituato agli scalpiccii degli esseri ripugnanti che vi strisciavano, all'odore nauseante che permeava la cella, ai brividi sulla pelle nuda, alle fitte di dolore provenienti dalle piaghe aperte.

Nelyafinwë brancolò carponi fino a trovare l'otre. Lo aprì e bevve. Un intruglio rivoltante che il più delle volte gli procurava conati, ma che sempre più spesso il suo corpo accettava.

Istinto di conservazione. La normale reazione di un organismo sotto attacco, che diventa aberrante quando lo spirito vi si adegua.

Aveva provato a rifiutare il cibo. Gli era sembrato l'unico modo per togliersi la vita, chiuso in una cella, nudo e in catene. Erano entrati con un tubo, glielo avevano ficcato in gola e l'avevano sfamato con la forza.

Per cinque cambi di guardia consecutivi.

Ora accettava la brodaglia docilmente… quando il suo corpo decideva di trattenerla. Quando decideva di no, la rigettava nel secchio dei liquami, unico suo compagno di cella.

Dopo il cibo arrivava il dolore. Mai alla stessa ora. E mai lo stesso dolore. A volte arrivava la frusta, altre volte la lama, altre ancora i bastoni. Raramente arrivavano coi lupi. I lupi erano difficili da controllare e loro non volevano che finisse sbranato.

Non c'era particolare sadismo in tutto ciò. C'era metodo. Per tenerlo in vita dovevano sfamarlo, ma sfamandolo si erano accorti, a loro spese, che il suo corpo riusciva a riprendersi in modo straordinario. E lo stesso accadeva se gli infliggevano un solo genere di ferita. Il suo corpo sembrava adattarsi perfettamente a tutto: un organismo creato per sopravvivere.

Ma anche loro imparavano in fretta e presto avevano capito come mantenerlo sulla sottile linea che separa la vita e la morte: sfibrato il corpo, spento lo spirito, confusa la mente.

Questa era la cosa peggiore per lui, che era sempre stato acuto e veloce nel ragionare. Ora concentrarsi su qualcosa che non fosse la fame, o il dolore, o il freddo, era quasi impossibile. L'unico pensiero che lo distoglieva da tali stimoli era il ricordo della sua ultima vittima. Sempre più vivido ogni volta che riusciva a richiamarlo alla mente, permeato di un piacere oscuro, avviluppato in una spirale di odio che si infittiva.

Era successo il giorno della sua cattura.

Pioveva sul tetro cortile antistante la fortezza. Pioveva acqua scura, impregnata di polvere nera, che formava pozze di fango denso sul terreno di terra battuta. Ai margini dello spiazzo, sotto tettoie che ospitavano rastrelliere cariche di armi, bruciavano numerose torce.

Lui stava in piedi nel centro, accerchiato da Orchi armati di picche. L'acqua gli scorreva sulla pelle d'avorio, disegnando sul suo corpo perfetto nere striature. Si insinuava tra i folti capelli, legati in una lunga treccia che gli scendeva sinuosa sulla schiena fino alle natiche.

Nudo, sfiancato, ferito, in attesa ormai passiva della morte, restavano in lui ancora fierezza e nobiltà sufficienti da incutere in quegli esseri un certo timore reverenziale. Le risate sguaiate che avevano accompagnato la sua svestizione e fatto da sfondo alle pungolature con le picche erano pian piano scemate e ora gli Orchi lo circondavano silenziosi.

Il loro capitano, un esemplare di dimensioni enormi, alto poco meno di lui ma molto più massiccio, gli era scivolato alle spalle, aveva afferrato la spessa treccia e con uno strappo gli aveva tirato indietro la testa.

Era stato un attimo: il soffio di un alito fetido sulla guancia, il rumore di una lama sguainata, un debole tirare di capelli. Poi la spinta. In ginocchio, nel fango, si era voltato per vedere il suo carceriere che gli sventolava qualcosa davanti agli occhi.

Sembrava un indomito serpente bruno che mandava guizzi rossastri alla luce delle torce.

Era la sua treccia. I suoi capelli intessuti di rame. 

Una visione improvvisa era balenata alla sua mente: capelli come i suoi, ma dalla tonalità più accesa, che ricadevano tristi su un viso amato, che coprivano misere spalle scosse da singhiozzi. Una figura prostrata presso una scultura incompiuta piangeva alla notizia che lo spirito di Fëanáro era giunto a Mandos. Era sola. Sola come l'avevano lasciata. Nemmeno uno dei suoi numerosi figli era rimasto al suo fianco.

Era stato il suo primo attacco d'ira. Un balzo e le sue mani si erano strette attorno al collo dell'Orco. Erano serviti cinque di loro per fargli mollare la presa. A quel punto la sua vittima era a terra col collo spezzato. Accanto a lui, in una pozza battuta dalla pioggia, la sua treccia abbandonata. Sembrava che nessuno osasse toccarla.

Si era ritrovato nella cella sotterranea prima ancora di capire che aveva la spalla trapassata da una lancia.

Così era cominciato il dolore. Così era cominciata la regressione da Alto Principe Noldorin, Elda di Aman, ad animale.

Nelyafinwë terminò la brodaglia e con grandissima fatica gettò l'otre in direzione della porta. Poi trascinò il suo corpo piagato fino al secchio e lo spinse davanti a sé, fin dove glielo permetteva la catena. Infine si ritirò, spossato, contro il muro umido alle sue spalle. Non gli restava che attendere il dolore.

Come una bestia domata, attendeva.

Assalito dalla sofferenza e dalla debolezza, macerando nell'odio che montava, attendeva.

Nel buio.

 

 

*******

 

 

Nel buio, due voci indistinte parlavano.

Parlavano la sua lingua.

Brandelli di conversazione giungevano fino a lui.

– Come mai sei qui fuori… Valar! Cosa è accaduto?

– Mi ha aggredito…

– Ti ha aggredito? Ma… ma quanta forza ha recuperato?

– Molta… avesse avuto entrambe le mani mi avrebbe spezzato il collo.

– Non ce la farà mai, Findo. Non puoi continuare così!

– Cosa vuoi fare allora? Ucciderlo?

– Forse lui ne sapeva più di noi quando ti ha chiesto di farlo.

Il suono di una lama che esce dal fodero. Un sussulto nell'oscurità.

– Tieni. Vai. Va' là dentro e uccidi tuo fratello. L'hai abbandonato a marcire appeso come una bestia al macello… Vai a terminare l'opera!

Un lungo silenzio. Un leggero tonfo metallico.

– Non ce la faccio, Findo… non ce la faccio più a vederlo così. Cosa dobbiamo fare?

– Aspettare. Sta arrivando a toccare il fondo. Deve ripercorrere tutto l'orrore per riuscire a risalire.

– Come fai a saperlo?

– Ho avuto anch'io il mio orrore da affrontare, Káno.

– Come ne sei uscito?

– Avevo qualcosa per cui valeva la pena farlo. Mi ci sono aggrappato con tutte le mie forze.

– E lui, ce l'ha?

– Lo spero.

 

 

*******

 

 

Sperava che per quel turno l'avrebbero lasciato in pace. Era già successo qualche volta. Un intero turno di guardia senza dolore. Ultimamente accadeva più spesso.

Forse si sarebbero dimenticati di lui. Forse non gli avrebbero più dato da mangiare e finalmente il suo spirito avrebbe abbandonato quella carcassa marcescente.

Ma alla fine arrivarono. Invece di affliggerlo con nuovo dolore, fecero qualcosa che non avevano mai fatto. Gli si avvicinarono con circospezione, lo liberarono dalla catena e lo trascinarono fuori.

Aleggiava un tenue bagliore grigiastro. Sufficiente per accecarlo, dopo il lungo soggiorno nell'oscurità. 

Quando i suoi occhi si abituarono, riconobbe il piazzale dove gli era stata recisa la treccia. Pullulava di Orchi indaffarati. Chi riponeva o prelevava armi, chi distribuiva cibo a un'orda appena rientrata, chi impartiva ordini a una che stava per lasciare la fortezza: un mondo popolato da Orchi.

E lui? Si confondeva con loro ora che non riusciva a mantenere la posizione eretta, la pelle grigia e tumefatta, il viso deformato dalle percosse, i corti capelli incrostati di sporcizia… oppure si poteva ancora annoverare tra gli Eldar?

Alzò gli occhi alle stelle, come per cercare conferma. Ma il cielo era coperto da una pesante cortina plumbea. Sembrava un fitta nebbia scura, o fumo, forse. Niente stelle. Solo quell'inconsueta luce malsana, come di una torcia morente dietro un telo putrido.

Con una scorta di una ventina di Orchi lasciarono la fortezza e si diressero verso le montagne. Non essendo lui in grado di reggersi in piedi, cominciarono col trascinarselo appresso come un sacco, poi, quando il terreno cominciò a salire, se lo caricarono sulle spalle.

Si addentrarono sempre più tra le alture, irti picchi scuri rocciosi contro un cielo che da grigio plumbeo virava al nero più cupo. Si inerpicarono per sentieri scoscesi che solo i servi del Nemico riuscivano a riconoscere come tali.

Cosa volevano farne di lui? Abbandonarlo in un crepaccio preda delle bestie? Perché darsi tanta pena, se avevano deciso di porre fine alla sua vita?

La marcia si concluse ai piedi di un alto picco, su una terrazza di roccia levigata che si affacciava a sbalzo sul nero abisso. Gli Orchi lo scaricarono malamente presso il ciglio e si allontanarono di qualche passo. Sembravano improvvisamente inquieti, quasi spaventati.

Ed ecco, dall'abisso sotto di loro sorgere un'enorme ombra cupa, che pian piano prese forma vagamente antropomorfa.

Anche se gli Orchi non si fossero prostrati davanti ad essa, Nelyafinwë non avrebbe avuto alcun dubbio sulla sua identità. L'ombra emanava una potenza annichilente, come se lo spazio occupato dallo spirito che la abitava non si limitasse a un confine preciso, ma si espandesse ad occupare anche i corpi di coloro che gli stavano intorno.

Nelyafinwë, ridotto a un mero fantasma di ciò che era stato, non ebbe la forza di opporsi a quell'attacco.

Colui che un tempo veniva chiamato Melkor irruppe nella sua essenza. Trovò la via per insinuarsi nel profondo della sua anima e vi penetrò. E mentre penetrava non procurava dolore ma, al contrario, lo asportava. Leniva la sofferenza, placava la stanchezza, riscaldava le membra.

E parlava. Parlava al suo cuore con parole di seduzione destinate a lui soltanto.

Nelyafinwë, terzo del tuo nome. Erede di Fëanáro. Re dei Noldor.

Parlava l'ombra e, mentre parlava, sondava la sua mente. Sondava il suo cuore. Rovistava nei recessi più profondi e trovava cose che lui stesso pensava di aver dimenticato. Deboli incomprensioni e piccoli timori, che ora apparivano grandi torti e paure insormontabili. E sembrava offrirgli una soluzione per ogni cosa. L'autorità per farsi valere sui fratelli. Il potere per essere riconosciuto Re. La forza per eguagliare il padre. Per superarlo.

I Silmarilli sono tuoi di diritto, diceva, e la sua voce era come un tocco sensuale che accarezzava il suo spirito straziato. 

Tre Silmarilli, sette fratelli. Insinuava. Sarebbe la fine della casa di Fëanáro.

La voce sondava, e parlava in risposta a ciò che scovava. Trovava i desideri nascosti, li portava alla luce, li ripuliva dalla vergogna e glieli offriva in dono.

Con un Silmaril adornerai la tua corona e regnerai su tutti i Quendi dell'Endor e su tutti gli Atani che verranno.

Il tuo giudizio sarà assoluto, le tue leggi incontestabili.

Sondava. Sempre più in profondità. 

Al tuo fianco potrai avere chiunque tu desideri.

Lunghi capelli neri intrecciati d'oro balenarono nella sua mente. Il Nemico si era spinto nell'affondo finale.

Ma se si aspettava una resa, ottenne l'effetto opposto. Nelyafinwë mai avrebbe permesso ad alcuno di macchiare il ricordo di ciò che aveva avuto di più caro al mondo. L'accenno al cugino, invece di farlo capitolare, gli diede la forza di chiudere la mente. 

Come un tuffo in acqua ghiacciata, in un istante gli si riversò addosso tutto il dolore del suo corpo martoriato. Le ferite, le fratture, le lacerazioni, il freddo che aggrediva la sua pelle nuda. 

Vide l'ombra, che ora lo avvolgeva in un abbraccio voluttuoso, perdere la presa e indietreggiare di qualche spanna. Si accorse di essere in piedi e, invece di crollare nuovamente in ginocchio, riuscì a mantenersi eretto di fronte al Nemico.

In un impeto di orgoglio gli sputò addosso saliva e disprezzo.

– Io sono il figlio di Curufinwë Fëanáro Finwion, colui che ti chiuse la porta in faccia quando tutti a Tirion pendevano dalle tue labbra. Le tue menzogne non hanno presa su di me, Moringotto. Non sarò mai uno strumento nelle tue mani.

Per un attimo sembrò quasi che l'ombra chinasse il capo in segno di rispetto, poi esplose in una risata bassa e profonda.

– Questo lo vedremo – disse, e la sua voce ora risuonava come un tuono tra le montagne di nera roccia.

Si piegò su di lui. Un braccio si svelò. All'estremità, un maglio d'acciaio. Gli afferrò il polso destro e lo sollevò da terra. In alto, sempre più in alto. Man mano che saliva, l'ombra che celava la forma fisica scelta dal Vala per sé stesso si dissolse, lasciando intravedere un'immensa armatura nera come giaietto e una corona sormontata da tre accecanti bagliori, irraggiungibili promesse di redenzione.

Il maglio che cingeva il suo braccio scattò in avanti verso la parete a un'altezza vertiginosa. Impattò contro di essa. Il contraccolpo gli slogò la spalla. Un brivido freddo attorno al polso e poi fu rilasciato. Cadde per meno di una spanna: il polso era intrappolato in un anello di ferro appeso a una corta catena ancorata alla roccia. Sotto di lui, il vuoto.

– Lo vedremo – ripeté il Nemico, le cui sembianze erano nuovamente nascoste dall'ombra che tornava a perdersi nell'oscurità dell'abisso. 

Nelyafinwë rimase solo.

Solo, ma con la consapevolezza di aver respinto la Potenza divina.

L'orgoglio arse allora ancor più vivido nel suo cuore. Era come una fiamma che lo accendeva, lo accecava, lo bruciava, lo consumava. Rendendolo ora più che mai somigliante al padre.

Non avrebbe supplicato ("Non abbiate paura…")
non avrebbe implorato ("… voi che avete rinunciato alla codardia…")
non avrebbe ceduto ("… resistete…").

Avrebbe invece odiato ("… fedeli al Giuramento…")
e continuato ad odiare ("… e portate a compimento la vendetta").

Che il destino gli riservasse una fine rapida o un eterno tormento, o persino una liberazione insperata, Nelyafinwë avrebbe odiato per tutto il tempo che gli rimaneva da vivere.

 

_____________________

 

Note Finali

01.
Quenya - Sindarin
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Ambarussa: Amrod e Amras
Nolofinwë: Fingolfin
Valaraukar: i Balrog
Moringotto: Morgoth
Curufinwë Fëanáro: Fëanor
Finwion: figlio di Finwë

02.
Russandol è il soprannome (l'epessë) di Maedhros, ed è riferito ai suoi capelli ramati. Gli è stato dato dai suoi fratelli e dai suoi familiari.

03.
"Terzo del tuo nome…"
Il significato di Nelyafinwë, il nome che Fëanor ha scelto per il suo primogenito, è "terzo Finwë", dopo il nonno e il padre (Finwë e Curufinwë)

04.
Quendi, ovvero "coloro che parlano con voci" e Atani, ovvero "il secondo popolo"
In sostanza: Elfi e Uomini
 

  
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