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Autore: Losiliel    23/12/2015    6 recensioni
"Il suo corpo si riprese dai tormenti e riacquistò salute, ma l'ombra delle sofferenze subite era nel suo cuore" (Il Silmarillion, cap. XIII - Il ritorno dei Noldor).
Nelyafinwë, salvato da Findekáno, deve affrontare i propri demoni prima di riprendere il suo ruolo tra i Noldor quale erede di Fëanáro.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Capitolo terzo: Il risveglio


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Quando riemerse dagli incubi si rese subito conto che qualcosa era cambiato. Provava una sensazione strana, indecifrabile. 

Aprì gli occhi. Era sdraiato sulla schiena, le braccia adagiate su un lenzuolo bianco che copriva il resto del corpo. Nella mano stringeva un lembo del mantello di Findekáno, il moncherino era fasciato con bende pulite. 

Rimase immobile per un lungo istante davanti a quel triste spettacolo. Il mantello e il moncherino. La libertà e il suo prezzo. Poco a poco emerse il ricordo. Prima annebbiato, poi più chiaro, infine doloroso: Findekáno che gridava disperato tra le lacrime, sotto una pioggia di sangue, mentre infieriva sul suo polso con il pugnale. Si trovò a pensare, forse non per la prima volta, che non avrebbe mai dovuto scendere vivo da quel picco.

Ma, a quanto pareva, il destino non la pensava allo stesso modo, perché ora si trovava al sicuro, da qualche parte, medicato e accudito.

Quando cercò di mettersi a sedere, fece istintivamente forza sul braccio sbagliato e fu allora che riuscì a dare un nome alla sensazione che lo pervadeva fin dal suo risveglio: assenza di dolore. Il polso reciso, infatti, sottoposto al carico di tutto il suo peso, non aveva mandato che un debole fastidio!

Assenza di dolore. Era davvero possibile o era un altro dei suoi deliri, una finzione, un inganno del Nemico? Per verificarlo si appoggiò al braccio sinistro e si mise seduto. Mantello e lenzuolo gli scivolarono in grembo e scoprirono il torso.

Cicatrici profonde, ma rimarginate. Nessuna traccia di ematoma. Magro, ma non più scheletrico.

Portò allora la mano alla spalla destra e strinse con cautela. Nessun dolore. Poi se la passò sul viso. Come rilievi sotto le sue dita scorrevano i solchi delle cicatrici, ma le ossa sembravano aver riassunto le proporzioni consuete e non facevano male al tatto. Infine affondò la mano tra i capelli. Li sentì folti, morbidi, puliti. Arrivavano fin quasi alle spalle.

Si guardò intorno: l'interno di una tenda a pianta rettangolare, pareti di tela color grigio-verde e un tetto a due falde ben teso sopra di lui. Un ambiente piccolo, ma non angusto. Stuoie pulite distese a coprire il pavimento. A sinistra un giaciglio come il suo, lenzuola bianche tirate su un sottile pagliericcio, davanti a lui alcune grandi borse di cuoio disposte ordinatamente vicino all'entrata.

Una piccola tenda da campo, dunque, uno spettacolo che poteva essere familiare… non fosse stato per la luce. Una luce forte, calda, dorata, che penetrava attraverso la tela e si insinuava tra i lembi di stoffa accostati che coprivano l'ingresso, rendendo ogni cosa troppo nitida, troppo brillante.

E mentre, confuso, si chiedeva quale potesse essere l'origine di quel prodigio, l'entrata si spalancò e apparve una figura alta e snella, scura contro quel chiarore abbagliante, ma con lingue dorate tra i capelli che scintillavano attorno al viso in ombra e seguivano il profilo armonioso delle spalle.

I suoi occhi ci misero qualche istante ad abituarsi alla luce e la sua mente ci mise ancora di più ad accettare per vero ciò che riconobbe. Findekáno stava di fronte a lui. Col viso stanco, affilato, e gli occhi arrossati; con una ciotola in mano e un cucchiaio nell'altra; con una maglia blu di tela grezza, pantaloni dall'aria consunta e i piedi nudi. Findekáno era lì, reale, a pochi passi da lui... e lui non sapeva assolutamente cosa provare.

Né il cugino gli diede il tempo di elaborare la cosa, perché appena lo vide, seduto e cosciente, ciotola e cucchiaio finirono per terra, schizzando minestra sulla stuoia ai suoi piedi, un ampio sorriso gli illuminò il volto e in un attimo era in ginocchio presso di lui e lo stringeva tra le braccia.

Nelyafinwë si trovò impreparato. Chi era quest'Elda che lo intrappolava nella sua presa ferrea?

Era suo cugino, il suo migliore amico, il suo salvatore? O non era piuttosto un essere perfetto, integro nel corpo, immacolato nello spirito, che non aveva più nulla a che vedere con lui?

Per la prima volta dal suo risveglio percepì l'odio in agguato. Annidato nel suo cuore, pronto ad esplodere per sopprimere i sentimenti ingestibili.

Spinse via il cugino. Mano e moncherino insieme contro il suo petto, con forza inaspettata, lo scaraventarono contro la parete opposta. Voleva fargli del male? O voleva piuttosto evitare di fargli del male? Non avrebbe saputo dirlo, il confine tra i due estremi era labile come i suoi pensieri sfilacciati.

Findekáno alzò le mani in un gesto istintivo di difesa e restò immobile, guardingo. Nelyafinwë, libero dall'abbraccio, recuperò poco a poco il controllo di sé.

– Perdonami – disse, con una voce roca che stentò a riconoscere come propria.

Il volto del cugino si distese. – No, no, è colpa mia – si scusò. – Non avrei dovuto saltarti addosso in quel modo!

Gli si riavvicinò, ma con cautela. Nelyafinwë notò solo allora macchie violacee sul suo collo. Le impronte delle dita di una mano. Singola. Non c'era bisogno di un grande intuito per capire chi gliele aveva lasciate. Rabbrividì e gli sembrò di ricordare stralci di una conversazione sognata.

Findekáno notò la direzione del suo sguardo. – È meno grave di quello che sembra, te l'assicuro… – cominciò esitante, – non avrei dovuto cercare di toglierti di mano il mantello… 

Nelyafinwë si guardò in grembo. Il suo giaciglio era pulito, così come il suo corpo, ma il mantello di Findekáno era ancora macchiato di sangue rappreso e di sporcizia. Puzzava come la cella che l'aveva ospitato. Lentamente lo consegnò al cugino. Provò uno strano senso di riluttanza a separarsene. 

– Perdonami – ripeté. Sembrava non sapesse dire altro. Si sforzò di aggiungere qualcosa, ma i pensieri faticavano a prendere forma nella sua mente e, quando vi riuscivano, sfuggivano ben prima che potesse tramutarli in parole. Non riuscì a produrre che un balbettio incoerente: – Mi ci sono... aggrappato.

Findekáno annuì, come se quelle parole confuse avessero per lui un significato profondo. Accettò il mantello che gli veniva porto e si alzò. Raccolse la ciotola e il cucchiaio, arrotolò la stuoia macchiata e la prese con sé. 

– Torno subito – lo rassicurò, prima di uscire.

E davvero tornò, prima ancora che lui potesse decidere se la sua assenza fosse qualcosa che desiderava o che temeva. Portava con sé una nuova ciotola e un involto di tessuto. Appoggiò l'involto sul giaciglio e si sedette accanto a lui.

Nelyafinwë lo osservò silenzioso. Si stava accorgendo che, se pensare era difficile, parlare era quasi impossibile. Sembrava che il prezzo per la sua liberazione andasse ben oltre la perdita di una mano. Sembrava coinvolgesse l'incapacità di formulare pensieri coerenti, di esprimersi col linguaggio e, più di ogni altra cosa, quella di dominare i propri sentimenti contrastanti.

Guardando la ciotola che il cugino stringeva tra le mani, quel pasto chiaramente preparato apposta per lui, nutriente e facile da somministrare, invece che essere pervaso dalla gratitudine veniva assalito da domande scomode.

L'aveva sfamato il cugino per tutto questo tempo? L'aveva imboccato finché uno scatto d'ira inconsulto non aveva fatto finire minestra in giro per tutta la tenda? Peggio ancora: quando, perso tra sogni allucinatori, ricordava la brodaglia degli Orchi, era la zuppa di Findekáno che stava trangugiando o rigettando?

Alla fine le parole vennero fuori da sole, con un accento più aggressivo di quel che avrebbe voluto.

– Mi hai nutrito tu? – chiese, secco.

– Come? – domandò il cugino colto alla sprovvista, con lo sguardo di chi si attendeva un altro genere di domande… o forse nessuna del tutto.

– Mi hai dato da mangiare tu mentre ero… inconsapevole di ciò che accadeva? – ripeté, facendo uno sforzo terribile nel mettere quei pochi vocaboli uno di seguito all'altro.

Findekáno esitò, forse alla ricerca delle parole adatte per rispondere senza dover ricorrere alla menzogna.

– Quando me l'hai permesso – replicò infine, cauto.

L'ambiguità della risposta accrebbe il disagio di Nelyafinwë. La vista del cugino, con le sue mani abili, il suo viso privo di imperfezioni, i suoi occhi che non tradivano incertezze, suscitava in lui un misto di invidia e di vergogna, e una profonda inadeguatezza che lo faceva sentire indifeso. 

– Ti sei preso tu cura di me? – gli venne fuori in un tono quasi offensivo, come se non lo ritenesse capace di un compito così delicato. Eppure non c'era niente di più falso, Nelyafinwë riteneva Findekáno capace di tutto.

Il cugino non raccolse la provocazione, anche se il suo sguardo si incupì. – Un guaritore ti ha medicato, poi ti ha lasciato alle mie cure – rispose, senza aggiungere altro. 

– Perché non mi hai riportato dai miei fratelli? – lo incalzò allora Nelyafinwë.

Ma dentro di sé si chiese perché aveva fatto quella domanda, quando lui per primo non avrebbe mai voluto essere portato da loro, ridotto in quello stato. Un peso quando doveva essere una guida, un problema quando doveva essere una soluzione. 

– Non sapevamo se saresti riuscito a venirne fuori… indenne – rispose il cugino.

Nelyafinwë afferrò il significato sotteso a quelle parole: tra recuperare l'erede di Fëanáro fuori di senno e recuperare l'erede di Fëanáro morto, non c'erano dubbi su quale fosse l'alternativa migliore. D'altronde, nel secondo caso, ce n'erano altri sei che potevano pendere il suo posto. Improvvisamente si sentì esausto e svuotato, e non desiderò altro che chiudere quella conversazione iniziata male e chiaramente destinata a finire peggio.

E invece continuò, in una parodia perversa delle loro antiche schermaglie verbali, nelle quali ognuno cercava di prevalere sull'altro a colpi di frecciate ironiche e che si concludevano sempre tra le risate. Ebbene questa si sarebbe conclusa con Findekáno che gli riversava addosso tutto il suo rancore, finalmente, invece di quella disgustosa, insopportabile, immeritata compassione!

– Mi hai lavato tu? – chiese con un tono volutamente provocatorio, e tuttavia non riuscì a impedirsi di arrossire leggermente al pensiero che un gesto così intimo fosse intercorso tra loro.

– Si, Nelyo – sbottò Findekáno, esasperato, – ti ho lavato, ti ho dato da mangiare, ti ho cambiato le medicazioni, ho vegliato accanto a te, ti ho tenuto quando avevi bisogno di essere tenuto e mi sono allontanato quando avevi bisogno di stare solo. Come vedi, non ci sono che io qui.

Di fronte all'esposizione brutale di tutto ciò che il cugino aveva fatto per lui, Nelyafinwë fu completamente avvinto dalla vergogna e, come estrema provocazione, gridò: – Stai mentendo! Ricordo Makalaurë… 

– Káno è stato qui diverse volte, è vero – lo interruppe bruscamente il cugino che, contrariamente a quanto Nelyafinwë si era aspettato, non sembrava affatto intimidito dall'accenno al fratello, – ma non si è offerto di accudirti… e comunque non gli avrei mai permesso di avvicinarsi a te.

Il rumore di una lama che viene sguainata emerse dalla nebbia dei ricordi. Come per sovrastarlo, Nelyafinwë alzò la voce: – E questo che significa? 

Findekáno sembrò meditare a lungo sulla risposta, negli occhi uno sguardo indecifrabile. Poi, con un repentino cambio di tattica, pose fine a quel gioco al massacro. 

– Significa che adesso il tuo pasto te lo mangi da solo – disse. Gli posò in grembo la ciotola della zuppa, si alzò e uscì.

La sua voce, ora scherzosa, lo raggiunse da fuori: – Se ci riesci!

 

-

 

Ci riuscì.

Anzi, fu proprio il concentrarsi sull'arduo compito di mangiare che lo aiutò a riemergere dalla confusione che gli annebbiava la mente.

Bloccò la ciotola tra le ginocchia e impugnò il cucchiaio. Dopo qualche boccone incerto acquisì dimestichezza. La zuppa era buona e il suo stomaco la accettò volentieri. 

Terminato il pasto, rivolse la sua attenzione al fagotto che il cugino aveva lasciato presso di lui. Erano vestiti. Una maglia e una casacca beige prive di bottoni, notò, e pantaloni di morbida stoffa marrone, chiusi da un laccio alla vita.

Vestirsi fu molto impegnativo, ma non spiacevole. Rimanere focalizzato su un compito pratico gli permetteva di mantenere i pensieri entro i limiti della razionalità. Ebbe qualche difficoltà con i pantaloni, che non riuscì ad allacciare, ma per il resto se la cavò. Gli abiti erano suoi e pur standogli larghi lo mettevano a proprio agio. Se non altro nascondevano le cicatrici che coprivano il suo corpo. Lo facevano sentire meno esposto, meno vulnerabile.

Gratificato da quelle conquiste, provò ad alzarsi in piedi. Ma le gambe, ancora troppo deboli o non più abituate all'uso, non lo ressero e rovinò al suolo.

Il rumore fece accorrere Findekáno. Alla vista dell'amico per terra parve allarmarsi, ma i suoi movimenti erano pacati quando lo raggiunse per aiutarlo e la sua presa salda non durò più del tempo necessario per rimetterlo in piedi. Non una parola uscì dalle sue labbra e Nelyafinwë riuscì ad accettare senza difficoltà il suo intervento discreto.

Ma quando il cugino si chinò per legargli i lacci dei pantaloni, il suo autocontrollo venne messo a dura prova. Vederlo in quella posizione inconsueta, oltre a farlo sentire vergognosamente inadeguato, risvegliò in lui l'eco di un desiderio che pensava di aver soppresso per sempre.

Le ferite potevano essersi rimarginate, ma l'anima era ancora lacera, esposta spietatamente al mondo. Emozioni, sentimenti, pulsioni, desideri, esplodevano fuori controllo al minimo stimolo. 

Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. Quando li riaprì, Findekáno era in piedi davanti a lui e gli porgeva un braccio al quale appoggiarsi. Lui lo accettò esitante e così sorretto uscì dalla tenda con passi incerti.

La luce dorata che lo aveva tanto incuriosito li investì. Ed ora poteva vederne la sorgente: in alto nel cielo splendeva un disco talmente abbagliante da non potervi soffermare lo sguardo. Illuminata da questo prodigio, intorno a loro la natura tutta riluceva di tonalità accese, che portavano alla memoria lo splendore del Reame Beato.

L'erba della piccola radura in cui era stata eretta la tenda brillava del colore dei giovani germogli, le chiome degli alberi che circondavano lo spiazzo rilucevano di tutte le tonalità del verde, cangianti nella brezza che le increspava. I tronchi sottostanti erano di un caldo marrone acceso. Il focolare presso la tenda era un cerchio di pietre bianche candide attorno a resti di carbone nero come la notte. Uno spettacolo che quasi accecava la vista, tanto era diverso dal debole chiarore stellare al quale erano stati costretti ad abituarsi.

Nelyafinwë restò senza parole per un lungo momento. Poi chiese, stupefatto: – Che cos'è?

– Questa è Vása, il sole – disse Findekáno, e al suo sguardo interrogativo proseguì: – I Valar sono davvero imperscrutabili… prima ti maledicono, poi ti mandano doni. Come un'Aquila gigante. O un frutto di Laurelin che quando è alto nel cielo mette in fuga i servi del Nemico. 

– O come un amico che credevi ti avesse dimenticato – aggiunse Nelyafinwë, e nell'attimo stesso in cui quelle parole sfuggirono dalle sue labbra seppe che erano quelle sbagliate.

Findekáno reagì come se avesse ricevuto un pugno in faccia.

– Questo credevi di me? – alzò la voce e si allontanò quanto più poteva, senza però fargli mancare l'appoggio. – Come hai potuto? – gli domandò incredulo. – Come potevi pensare questo, dopo che davanti al tuo Giuramento ho preso posizione contro il mio stesso padre?

Nelyafinwë non avrebbe mai dimenticato quel momento. A quell'epoca lui e il cugino non si frequentavano più da diverso tempo, ma quanto orgoglio aveva suscitato in lui il comportamento di Findekáno, sempre pronto a difendere le sue idee davanti a chiunque! Vederlo sostenere la partenza dei Noldor gli aveva fatto credere di essere nel giusto, nonostante il suo cuore gli suggerisse diversamente. Se anche Findekáno approvava quell'impresa, si era detto, forse non tutto era sbagliato e, in quel momento fatidico in cui veniva decisa la sorte di tutti, loro due venivano destinati a compiere grandi gesta insieme, di nuovo fianco a fianco.

– Ricordo i tuoi atti e le tue parole. – Nelyafinwë abbassò lo sguardo, assalito invece da un altro ricordo, quello della costa in fiamme, quello del tradimento. In un mormorio a malapena udibile, sussurrò: – Ma le navi…?

– Neanche per un momento ho creduto che tu avessi avuto a che fare con l'incendio delle navi. – Findekáno riusciva sempre a sorprenderlo con risposte di una semplicità disarmante.

Ma stavolta quell'innocenza lo fece sentire a disagio. Metteva in evidenza le sue colpe. Fuoco che brucia sull'acqua. Spalle voltate davanti alla follia.

– Non ho appiccato il fuoco io stesso, è vero… ma non ho fatto nulla per fermare mio padre! – esclamò, ammettendo il suo torto davanti a quell'irritante candore.

– Nelyo – cominciò il cugino, con un tono calmo e ragionevole che indisponeva Nelyafinwë ancor più delle grida, – come puoi fartene una colpa? Nessuno, nemmeno i Valar stessi, ha mai potuto distogliere Fëanáro dalle sue decisioni.

Poi, come parlando tre sé, aggiunse: – Spirito di Fuoco, che Eru lo perdoni.

Spirito di Fuoco. Suo padre, il più grande di tutti i Noldor. Suo padre, cenere incandescente dispersa nel vento.

Aveva ucciso, a causa sua. Aveva implorato la morte, a causa sua. Aveva rinunciato a ciò che aveva di più caro.

E adesso Findekáno si permetteva di pronunciare il suo nome. Si permetteva di averne pietà, di implorare per lui la compassione dell'Unico. Mettendolo di fronte a una cosa che lui non era in grado di fare.

Non voleva il perdono per suo padre! Non voleva il perdono per nessuno! L'odio finalmente tornò a divampare nel suo cuore, bruciando ogni emozione, ogni colpa, ogni rimorso, ogni vergogna. Così come il fuoco aveva divorato quelle navi maledette.

Si allontanò di scatto, lasciando la presa sul braccio del cugino. Fece qualche passo indietro, ma perse l'equilibrio. Inciampò. Allungò un braccio per attenuare l'impatto col terreno. Era il destro. Finì con la faccia nell'erba, fitte alla spalla e a ciò che rimaneva del polso.

Findekáno lo raggiunse per aiutarlo. Lui lo respinse in malo modo. Lo respinse urlando.

Il cugino allora gli voltò le spalle e si allontanò. Nelyafinwë lo sentì mormorare ancora: – Che Eru lo perdoni, per tutto questo.
 

-
 

Seduto per terra, al centro della radura, cercò di calmarsi facendo respiri profondi e concentrandosi sul paesaggio intorno a lui. Poco a poco riprese il contatto con la realtà. L'erba morbida sotto di sé, gli alberi che lo circondavano, la tenda con accanto i resti del focolare.

Lasciò che lo sguardo vagasse oltre la tenda, dove una leggera salita conduceva a una sorgente che dava origine a un piccolo ruscello. Più sopra, un sentiero si inoltrava tra gli alberi che coprivano le falde del monte fino al punto in cui emergeva la grigia roccia. Tornò poi a guardare innanzi a sé, dove il bosco lasciava spazio a un sentiero più ampio che scendeva verso il fondo della valle.

Infine, quando sentì di aver ripreso il controllo, guardò alla sua destra, nella direzione presa da Findekáno. Lo vide in un punto in cui gli alberi si aprivano su una piccola terrazza erbosa. Gli dava le spalle e guardava qualcosa ai suoi piedi.

Cercò di alzarsi. Ci riuscì a fatica, la testa gli girava, le gambe gli tremavano. Avanzò incerto fino a raggiungere il cugino. Gli appoggiò la mano su una spalla. Per reggersi, ma non solo. Per chiedergli nuovamente scusa. Per fargli capire che non voleva allontanarlo di nuovo.

Findekáno non si mosse e Nelyafinwë allora si portò al suo fianco e gli circondò le spalle con il braccio. Automatico arrivò quello del cugino attorno alla sua vita scarna. Così sorretto si concentrò sullo spettacolo che si apriva davanti ai suoi occhi.

Nella vallata sottostante un lago cristallino rifletteva il celeste abbagliante del cielo sereno. Le vette delle montagne che lo racchiudevano sembravano emergere da esso e contemporaneamente affondarvi, dando origine a un mondo speculare nitido e reale come quello vero.

Era uno spettacolo pieno di fascino. Rimasero a lungo immobili, in silenzio, come erano soliti fare un tempo, quando assistevano ai giochi cromatici prodotti dall'alternanza delle luci sui paesaggi di Valinor. Rimasero fianco a fianco finché il sole fece tutto il suo corso e cominciò a scendere dietro le montagne di fronte a loro, incendiando le cime all'orizzonte.

Infine il cugino osò rompere il silenzio, sfidando il pericolo che una nuova conversazione avrebbe potuto scatenare. Dopotutto era sempre stato lui, se non il più coraggioso, senz'altro il più avventato.

– È un bel posto, vero?

– Dove siamo? – domandò Nelyafinwë.

– A circa un giorno di viaggio a sud del Mistaringwë, volendo andare a piedi.

– Perché proprio qui?

– Perché qui il sole sorge ancora – rispose Findekáno. – Più a Nord il cielo è sempre coperto dalla nube oscura che conosci bene. Abbiamo pensato che la tua guarigione, se fosse stata possibile, sarebbe dovuta avvenire alla luce.

– È un bel posto – confermò Nelyafinwë, dopo un lungo momento.

– Già – annuì il cugino guardando il lago. Poi continuò, in tono più leggero: – Sembra quasi che oltre la superficie possa esistere davvero un mondo uguale al nostro… e magari ci siamo anche noi due, che stiamo guardando quassù chiedendoci la stessa cosa.

– Magari è un mondo in cui… – Nelyafinwë esitò, alla ricerca della parola per descrivere la morte degli Alberi e tutto il dramma che ne era seguito, – … in cui il crepuscolo non è mai calato – concluse. 

– Se non fosse calato il crepuscolo – disse Findekáno, – noi non saremmo affacciati su questo lago.

– Saremmo ancora in Aman – osservò Nelyafinwë.

– A ignorarci – concluse il cugino sottovoce, e strinse la presa attorno alla sua vita.

Ma Nelyafinwë si sciolse dall'abbraccio e si fece ricondurre al suo giaciglio, dove stette a lungo esausto e confuso.

 

 

*******

 

 

La comparsa del sole, gli aveva spiegato Findekáno, aveva ridefinito il concetto di scorrere del tempo. Il giorno, ora inteso come il periodo durante il quale Vása percorreva il suo corso nel cielo, e la notte si susseguivano a ritmi quasi frenetici, come a sottolineare l'urgenza della missione dei Noldor nella Terra di Mezzo.

Nelyafinwë vi faceva poco caso. Dal pomeriggio in cui, per la prima volta, aveva messo piede fuori dalla tenda, per lui i giorni erano cominciati a trascorrere identici. Mangiava ciò che gli preparava Findekáno, si vestiva con gli abiti che gli forniva, faceva gli esercizi fisici che gli imponeva e, quando calava il sole e gli veniva detto di riposare, riposava.

Non faceva più domande. Non aveva chiesto al cugino come fosse arrivato nell'Endor, né cosa fosse successo dal momento della sua cattura. Non aveva chiesto come stessero i suoi fratelli, o per quale motivo non si fossero ancora fatti vedere.

Aveva soppresso di proposito la propria volontà per riuscire a mantenere sedato l'odio che sempre minacciava di travolgerlo, pronto a esplodere contro sé stesso o, peggio, contro Findekáno. Era distaccato e mansueto, come lo era stato nella cella degli Orchi. Allora per allontanarsi dal dolore, adesso dalle conseguenze di quel dolore.

Ma quando arrivava la sera, quando, terminati tutti i suoi compiti, stava sdraiato nel suo giaciglio aspettando l'arrivo dell'incoscienza e degli incubi che essa portava con sé, allora aveva paura. E si disprezzava per questo. Avrebbe dovuto scacciare l'ombra del passato come si scaccia un insetto, con un noncurante gesto della mano, bruciare sulla pira del suo fuoco interiore i ricordi di tutto ciò che gli era stato inflitto per alimentare la sua determinazione nel perseguire il Giuramento.

Questo avrebbe fatto suo padre. Questo avrebbe voluto da lui. 

Invece giaceva al buio, preda di sentimenti contrastanti, che lo soffocavano, incapace di accettare l'aiuto che Findekáno cercava di dargli con parole di conforto o con gesti d'affetto.

Odiami, avrebbe voluto dirgli. Odiami per quello che ti ho fatto. Odiami per ciò che sono diventato. Odiami come io mi odio.

O forse avrebbe voluto dirgli: amami. Nonostante quello che ti ho fatto. Nonostante ciò che sono diventato. Amami ancora.

In quella tenda, di notte, quando tutti i suoi demoni tornavano ad assalirlo, non sopportava la presenza del cugino accanto a sé, e ancor meno ne sopportava l'assenza.

Findekáno, dopo aver fatto qualche vano tentativo di avvicinamento, aveva trovato il modo di risolvere anche questo dilemma. Una sera, invece di sdraiarsi accanto a lui, gli aveva consegnato un fagotto di stoffa blu scuro e l'aveva lasciato solo. 

Nelyafinwë ci aveva messo un attimo a capire di cosa si trattasse, poi aveva dispiegato il mantello e l'aveva stretto a sé. Aggrappato a quella stoffa rassicurante si era lasciato andare all'incoscienza.

Quando Findekáno era rientrato, lui era già affondato in un benevolo oblio privo di incubi.

In questo modo, una nuova consuetudine si era unita alle altre e un nuovo equilibrio era stato raggiunto.

 

______________

Note Finali:

01.
Il Sole
Vása (Heart of Fire, Cuore di Fuoco) è il nome dato dai Noldor al Sole. Gliel'ho fatto precisare a Findekáno, in modo del tutto superfluo ovviamente, perché poi durante la narrazione verrà chiamato semplicemente "il sole".

02.
Quenya - Sindarin
Mistaringwë: il lago Mithrim
Makalaurë (Kanafinwë, Káno): Maglor
Fëanáro: Fëanor

03.
Location
L'accampamento dei due cugini è sui Monti del Mithrim, catena montuosa che separa il Mithrim dal Dor-Lómin… notoriamente famosa per la presenza di ameni laghetti (sorry).

04.
Perché Maedhros ignora l'esistenza del sole?
È vero che quando il sole fece la sua comparsa, Fingolfin marciò fino alle porte di Angband, suonò le trombe e "Maedhros le udì tra i suoi tormenti e gridò forte, ma la sua voce si perdette negli echi del sasso." (Silmarillion, cap XIII - Il ritorno dei Noldor).
Ma io mi permetto di immaginare Thangorodrim avvolto in fumi ed esalazioni già da prima della comparsa dell'astro e, in ogni caso, all'arrivo di Fingolfin nella Terra di Mezzo, Maedhros è già appeso da diversi anni, quindi presumo che la sua capacità di percepire la realtà sia svanita da tempo (chissà cosa ha visto o non visto nei suoi deliri... e che significato gli abbia attribuito…).

  
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