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Autore: Losiliel    23/12/2015    5 recensioni
"Il suo corpo si riprese dai tormenti e riacquistò salute, ma l'ombra delle sofferenze subite era nel suo cuore" (Il Silmarillion, cap. XIII - Il ritorno dei Noldor).
Nelyafinwë, salvato da Findekáno, deve affrontare i propri demoni prima di riprendere il suo ruolo tra i Noldor quale erede di Fëanáro.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Capitolo Quarto - Findekáno


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ATTENZIONE: Un breve cambio di punto di vista, da Nelyafinwë (Maedhros) a Findekáno (Fingon), è evidenziato in corsivo!

Come sempre:
Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

___________

 

 

Una notte si alzò un vento gelido. Le raffiche colpivano la tela della tenda che si gonfiava e sgonfiava con schiocchi sordi.

Nelyafinwë riemerse da sogni confusi. Si avvolse meglio nel mantello di Findekáno e stava per riprendere il suo riposo, quando notò che il cugino non era disteso accanto a lui.

Era seduto sul suo giaciglio e gli dava le spalle rivolto verso l'ingresso. Era a torso nudo, incurante del freddo; una cascata di capelli neri gli ricadeva sulla pallida schiena, lasciando intravedere nella penombra la forma scolpita dei suoi muscoli perfetti e la pelle liscia, priva di imperfezioni. Priva di cicatrici. Nelyafinwë si sentì assalire dal risentimento e temette l'arrivo dell'odio.

Poi Findekáno ebbe un leggero sussulto. Nelyafinwë pensò a un brivido di freddo, ma presto si accorse che era un singhiozzo trattenuto.

Suo cugino piangeva.

– Findekáno – sussurrò, mettendosi a sedere a sua volta. Ma il rumore del vento copriva ogni suono. Allungò allora la mano ad accarezzare i capelli dell'amico. Era in assoluto la prima volta da quando si era risvegliato, parecchi giorni addietro, che si lasciava andare a un gesto di tenerezza.

Findekáno trasalì al tocco, ma non si girò a guardarlo, anzi, borbottando parole di scusa, uscì dalla tenda e lo lasciò solo.

Quando Nelyafinwë lo raggiunse, poco dopo, lo trovò seduto presso la piccola terrazza erbosa affacciata sul lago; i lunghi capelli gli sferzavano il corpo in balia del vento. Gli si sedette accanto e coprì entrambi con il mantello che lo avvolgeva, debole riparo contro il freddo pungente.

La sua attenzione fu subito catturata dallo spettacolo che si apriva davanti a loro. Un luminoso disco brillava nel cielo limpido e buio, la sua argentea luce si rifletteva sulle acque del lago, increspate dal vento, come scintille su una tavola nera. Stelle generate dall'acqua.

Telperion. Non poteva che essere quella la sorgente di tale incanto. Dunque i Valar non avevano lasciato le cose a metà: un fiore di Telperion la notte, come un frutto di Laurelin di giorno.

Preso dalla meraviglia, quasi non si accorse delle parole che Findekáno pronunciò a voce così bassa da essere appena percepibili.

– A volte anche per me è difficile tenere a bada i miei demoni.

Si voltò verso di lui, e in quello sguardo, ancora umido di lacrime, Nelyafinwë vide una richiesta d'aiuto che non fu in grado di ignorare. Arrivassero pure l'odio, la vergogna, l'ira… li avrebbe affrontati e tenuti a bada, perché non poteva rifiutare all'amico un gesto di conforto, l'unico che gli aveva chiesto da quando l'aveva tirato giù da quel picco. La sua mano strinse quella del cugino. Era una presa forte, ormai non c'era più tremore nei suoi gesti, non c'era più debolezza nei suoi muscoli.

– È stato al primo sorgere di Rána, la luna, che siamo giunti nell'Endor – cominciò esitante il cugino.

Poi sembrò prendere coraggio e gli raccontò tutto.

 

-

 

Alla vista dell'incendio aveva temuto che Fëanáro e la sua schiera fossero stati attaccati, sconfitti e dati alle fiamme. Ma suo padre, Nolofinwë, aveva capito subito la realtà delle cose e aveva gridato il suo odio e la sua delusione contro il fratello. Il vento aveva disperso le sue grida e portato in risposta solo un ululato spezzato, simile a un'amara risata.

Findekáno non sapeva con certezza cosa avesse spinto il padre, secondogenito del Re, a partire per quell'impresa. Forse l'amore per lui, che sarebbe andato comunque. Forse la responsabilità verso il suo popolo, che sedotto dalle parole di Fëanáro bramava conquiste nella loro terra d'origine. Oppure semplicemente il tener fede alla parola data a suo fratello maggiore: "guida, io ti seguirò".

Sapeva però ciò che lo sosteneva in quel momento: l'orgoglio.

Stagliato contro l'orizzonte in fiamme, alto e fiero, mentre esortava il suo popolo a non cedere e a proseguire la marcia, lo si sarebbe difficilmente potuto distinguere dal quel fratellastro che diceva di odiare.

– Fëanáro si arroga il diritto di scegliere per tutti – li incitava, – vuole spingerci a rientrare a Valinor con il capo chino ad implorare il perdono delle Potenze. Ma io vi dico: noi non imploreremo nessuno, mai! Per una strada più lunga e più difficile arriveremo alla meta e, quando finalmente giungeremo, saranno lui e la sua schiera che si dovranno inchinare alle nostre gesta. Secondi per nascita, saremo primi per valore!

Lo seguirono tutti. Non uno decise di tornare.

Dapprima avevano percorso sentieri rocciosi che si inerpicavano tra le estreme cime montuose settentrionali. Un cammino infido, tra pietre acuminate che a tratti sbucavano dal ghiaccio scivoloso che le copriva. Poi il terreno si era fatto pianeggiante ed erano cominciate le tempeste di neve. Con corde si erano legati l'uno all'altro in una lunga fila, per timore di perdersi, perché il vento scagliava loro addosso cristalli di ghiaccio pungente e la visibilità si limitava a pochi passi innanzi a loro.

Soli e sperduti in un inferno cieco. La pelle del viso esposta bruciava e si crepava, i pesanti mantelli intrisi d'acqua gelida gravavano sulle loro spalle, le membra ghiacciate erano come fredde lame conficcate nel corpo, i piedi insensibili minacciavano di incespicare ad ogni passo. E ogni passo era più faticoso del precedente. 

Le soste, se possibile, erano peggiori delle marce. Difficilmente riuscivano ad ancorare le tende al suolo, spazzate dalla tempesta perenne. Il più delle volte restavano ammassati l'uno all'altro, tentando di ripararsi a vicenda dal vento, succhiando provviste congelate che diventavano via via più esigue. Riposavano in piedi, sorretti dai compagni. Alla ripresa del cammino, molti di coloro che erano stati ai margini del gruppo non ripartivano più. 

Suo padre, uno dei pochi a non essere legato, andava su e giù lungo la colonna a spronare il suo popolo, infondere conforto, accertarsi che nessuno fosse lasciato indietro. E quando lui era impegnato a condurre la schiera, Findekáno prendeva il suo posto e presto a lui si aggiunsero i figli di Arafinwë, Findaráto, il primogenito, e l'irriducibile Artanis.

Fu un viaggio interminabile, in una bufera di ghiaccio.

Quando finirono le provviste macellarono i pochi cavalli ancora vivi.

La tempesta calò improvvisamente quando il ghiaccio non poggiò più sulla terraferma, ma sul mare. Erano giunti al confine di Aman. Il cielo, finalmente limpido, era adorno di tutte le stelle di Varda. Il silenzio regnava assoluto. Sembrava che Eru stesso trattenesse il fiato per assistere all'impresa dei Noldor.

Nolofinwë ordinò di rimuovere le corde e di abbandonare carichi pesanti che ancora avessero con loro. Armature, scudi, altri oggetti personali, tutto doveva essere lasciato indietro. Che conservassero soltanto i mantelli per proteggersi dal freddo, la spada per difendersi e il poco cibo rimasto per sostenersi. Poi si mise alla testa della colonna e avanzò sul ghiaccio.

Fu un percorso tortuoso, perennemente alla ricerca dei punti dove il ghiaccio era abbastanza spesso da sorreggere il loro peso. Nel silenzio assoluto si udivano solo gli scricchiolii sinistri sotto i loro piedi stanchi e gelidi. Durante le soste non si riunivano in più di quattro o cinque, per evitare un carico eccessivo. Quando la carne di cavallo finì, rimasero digiuni. Molti caddero, stremati dalla fame e dalla fatica.

Infine, contro ogni speranza, arrivarono a vedere nuovamente la terra. Davanti alla costa incombevano imponenti montagne di ghiaccio, enormi blocchi rimasti intrappolati tra gli scogli e immobilizzati dal mare congelato. Ma dietro di essi si intravedeva inequivocabile la nuda roccia grigia di vette fatte di pietra: erano giunti nell'Endor.

Affamati e allo stremo delle forze, credettero di essere finalmente in salvo, a un passo dalla meta, mentre percorrevano strette gole tra quei picchi di ghiaccio. Ma la temperatura meno rigida aveva reso la lastra sotto i loro piedi più sottile e i blocchi che incombevano sulle loro teste meno saldi. Alcuni di essi si staccarono, piombando su di loro, fracassando il fragile strato congelato e trascinando nell'acqua ciò che trovavano sul loro cammino.

Parecchi altri compagni morirono il tal modo, prima che la schiera finalmente si mettesse in salvo sulla solida roccia.

 

-

 

– Tra questi, Elenwë, la moglie di mio fratello – disse Findekáno dopo una lunga pausa.

L'eterea Elenwë, dai capelli dorati, della stirpe dei Vanyar. Nelyafinwë se la ricordava bene.

– Turukáno e la sua famiglia erano lontani davanti a me quando un blocco di ghiaccio li ha travolti, spaccando la lastra sotto di loro e trascinandoli in acqua. Mio fratello è riemerso quasi subito con la figlia tra le braccia. L'ha consegnata nelle mani di alcuni attendenti ed è tornato sott'acqua, alla ricerca di Elenwë.

La voce di Findekáno si ridusse a un sussurro quasi impercettibile, nel vento che soffiava imperterrito. – Non sono riuscito a raggiungerlo, Nelyo… correvo… ma slittavo… inciampavo…

Per un attimo sembrò non riuscire a dire altro, poi continuò: – Mio padre invece ha mantenuto la calma… quando ha perso l'equilibrio ha sfruttato il ghiaccio… è scivolato fino alla breccia e appena mio fratello è emerso per respirare lui l'ha afferrato per le spalle e l'ha trascinato fuori, con una forza sorprendente. Turukáno ha tentato di divincolarsi, ma era ormai prossimo al congelamento, e gli arti non gli rispondevano più. 

Nelyafinwë sentì il cugino rabbrividire contro la sua spalla. Senza pensarci, aprì la mano e la ruotò leggermente per cambiare la presa su quella dell'amico. Ora le loro dita erano intrecciate.

– Quando sono arrivato, pochi istanti dopo, il ghiaccio si era già richiuso. Ho cercato di estrarre la spada per infrangerlo, ma mio padre mi ha fermato. Stringeva ancora mio fratello con una mano, ma con l'altra mi bloccava il polso in una presa ferrea. Scuoteva la testa: non c'era più nulla da fare. Lo sguardo di Turukáno… non lo dimenticherò mai. Due occhi vuoti in un corpo disabitato, come se il suo spirito avesse già raggiunto la moglie a Mandos.

Findekáno tacque a lungo, lasciandolo disarmato ad affrontare nuovi sensi di colpa. Finora si era sentito responsabile dell'abbandono dell'amico più caro, del tradimento nei suoi confronti per non essersi opposto all'incendio delle navi. Ora scopriva che forse avrebbe potuto evitare qualcosa di molto simile a un altro fratricidio.

Ancora non arrivava a comprendere che nulla avrebbe potuto fermare Fëanáro nella sua corsa inarrestabile verso l'autodistruzione.

Ma il cugino non aveva ancora concluso il suo racconto, sembrava anzi che tutto il suo parlare non fosse altro che una lunga premessa per arrivare a quello che gli importava di più.

– Non avevo capito veramente cosa stava provando mio fratello in quel momento – disse. – Non l'ho davvero capito finché non sono stato su quel picco, con arco e freccia tra le mani, pronto ad ucciderti.

Findekáno cercò il suo sguardo, come se avesse bisogno di una conferma. Poi proseguì: – Solo quando ho rischiato di perderti irrimediabilmente, ho capito cosa ha provato mio fratello quando ha realizzato che avrebbe trascorso il resto della sua vita immortale da solo.

Il cugino abbassò gli occhi sulle loro mani, strette l'una nell'altra. – La mia colpa non è solo quella di essere sopravvissuto al ghiaccio. È quella di averti qui con me, ora.

Nelyafinwë restò senza parole, la mente confusa che arrancava nel tentativo di interpretare l'affermazione dell'amico. Findekáno, in un momento di fragilità, gli aveva confessato i sentimenti che provava per lui? O gli aveva semplicemente detto che l'amicizia che li aveva sempre legati era sopravvissuta al ghiaccio e all'abbandono intatta fino a quel giorno? O aveva frainteso tutto?

Una cosa però l'aveva capita senza pericolo di sbagliarsi, e cioè che le domande rischiavano di portare soltanto a incomprensioni maggiori. Così, prima ancora di rendersene conto, decise di comportarsi come avrebbe fatto il Nelyafinwë di Valinor, Maitimo incorrotto, come aveva sempre agito prima di trasformarsi in quell'essere arido e vuoto.

Scoprì, con sorpresa, che era meno difficile di quanto si aspettasse.

Sfilò la mano da quella di Findekáno e gli circondò le spalle. Lo attrasse a sé e gli fece appoggiare la testa sul proprio petto, come era accaduto sul dorso dell'Aquila, ma a parti invertite. Tentò di cingerlo anche con l'altro braccio, ma senza la mano con cui fare presa ottenne uno scarso risultato. Questa volta dominò la frustrazione senza difficoltà. Dominò la repulsione di sé stesso nel vedere la pelle immacolata di Findekáno contro il proprio petto grottesco. E, quando si chinò per posargli un leggero bacio sulla testa, dominò la risposta involontaria del proprio corpo al profumo dei suoi capelli.

Non aveva parole per consolarlo. Non ne aveva neppure per sé stesso. Sperò che trovasse conforto nel suo abbraccio goffo e nell'udire il battito forte del suo cuore.

Dopo tutto, se batteva ancora, era solo per merito suo.

 

__________

 

Note Finali:

01.
La Luna
Rána (Wayward, il Caparbio) nome Quenya dato dai Noldor alla Luna. Vale la stessa considerazione fatta per Vása.

02.
Quenya - Sindarin
Nolofinwë: Fingolfin
Turukáno: Turgon
Findaráto: Finrod
Artanis: Galadriel
Arafinwë: Finarfin

  
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