Di ferro, fuoco e speranze.
Capitolo 2: La regola
delle ventiquattro ore - parte seconda.
Il
sospiro di Combeferre formò una sottile nuvola, uscendo dalle labbra, per il
freddo che era sceso con la nebbia nella piazza, resa infinita dalla quasi
nulla possibilità di vedere ciò che la componeva. Al ragazzo non piaceva per
nulla l’idea di separarsi, ancora meno in una situazione tanto incerta.
«Che
cosa ti è successo? Perché non hai deviato i proiettili?», chiese, rivolgendosi
al leader – non voleva realmente saperlo, non in quel momento, non con tutto il
pericolo che avevano addosso, ma pensare lo rilassava ed avere sotto controllo
cause ed effetti faceva scemare parte del panico che, suo malgrado, gli stava
togliendo il fiato.
«Ci
ho provato». Enjolras si fissava ancora incredulo la mano libera dalle cure di
Joly «Ma è stato come se improvvisamente i proiettili andassero dove volevano,
seguendo una propria logica – qualcosa contrastava la mia volontà».
«Telecinesi?»,
intervenne Bossuet che, come Bahorel poco distante, aveva preso a guardarsi
intorno con circospezione, sfilandosi un guanto e cacciando giù nello stomaco
la brutta sensazione di insicurezza: sarebbe riuscito davvero ad attaccare
qualcuno?
«Forse:
ci sono davvero poche cose che possono fermarmi quando si tratta di controllare
i metalli». Enjolras si teneva a stento in piedi ora e la voce tanto sicura
cozzava con l’aspetto ferito, mentre l’aspirante medico restava ad un passo da
lui, pronto ad intervenire.
«No,
un attimo». Le parole di ‘Ferre invece suonarono troppo alte, quasi stridule, e
veloci «State dando per scontato che un mutante sia intervenuto, che qualcuno
di noi ci abbia attaccati».
Anche
al leader degli Amis era costato ammettere una cosa del genere, eppure la
gravità di quella considerazione gli apparve nella sua pienezza solo quando fu
l’amico a sottolinearla – e il silenzio di assenso che seguì quelle parole non
fu affatto di aiuto. Il Centre aveva
dei mutanti tra gli alleati? Perché mai qualcuno di loro aveva deciso di
aiutarli? O forse erano costretti? Forse la polizia aveva arrestato qualcuno
con quel genere di poteri e una volta resasi conto del potenziale che aveva tra
le mani... Ma era stupido pensare che chiunque col potere di muovere gli
oggetti col pensiero non fosse in grado di liberarsi e fuggire. No... no, non
erano stati costretti. Dovevano davvero esserci dei mutanti alleati col nuovo
governo.
«Jehan! Jehan, svegliati! Jehan!».
Coufeyrac era quasi completamente nascosto dalla nebbia
fitta pur non distando che qualche passo dal resto del gruppo: il ragazzo,
nella concitazione degli eventi, era stato il solo a rendersi conto del
mancamento che uno scoppio tanto improvviso e grande di emozioni aveva fatto
abbattere Prouvaire al suolo, e le sue grida fecero animare i compagni.
Bahorel
dissipò la nebbia nella direzione da cui aveva sentito provenire la voce -
stando attento a non esporli troppo - e in un istante tutti gli Amis furono intorno ai due ragazzi.
«Sei
ferito», sussurro 'Ferre, guardando la pozza di sangue che si allargava sotto
la gamba di Courfeyrac - il ragazzo s'era seduto a terra perché in quelle
condizioni non era riuscito a tirare su l'amico, ma del dolore alla gamba non
sentiva che un fastidio lontano: l'adrenalina era come un antidolorifico
naturale e la preoccupazione per Jehan impegnava ogni suo pensiero.
«Tutto
questo deve essere stato troppo per lui», ipotizzò Joly, mentre sentiva con
preoccupazione che il polso di Prouvaire era molto debole ed il pallore
preoccupante; con un tocco in più s'accorse che era anche salita un'improvvisa
febbre. «Ha bisogno di essere idratato e di stare al caldo», disse con urgenza.
«Dobbiamo
andare via». La voce di Combeferre era nuovamente ferma mentre guardava
Enjolras; il leader ricambiò il suo sguardo e comprese, leggendolo, che
insistere in quel momento non sarebbe servito a nulla: il CCM era qualcosa
contro cui bisognava battersi con tutti se stessi, ma in quelle condizioni
sarebbe equivalso ad un suicidio e semplicemente da morti servivano a ben poco.
E poi c'erano nuove informazioni da considerare e alcuni da curare.
«Bahorel?».
«Ne
ho sentiti molti scappare - quelli rimasti si muovono con circospezione e senza
fretta: devono essere soldati», rispose il ragazzo senza che Enjolras avesse
bisogno di porre davvero la domanda: quando i cambiamenti atmosferici erano
determinati dal suo potere, Bahorel poteva sentire quello che accadeva quasi il
vento, la pioggia o le nuvole fossero una normale prosecuzione del suo corpo;
in quel caso, le persone che attraversano la nebbia gli davano la sensazione di
un lieve fruscio sulla pelle, quasi un brivido.
«Courfeyrac,
riesci a portare via Jehan?», volle sapere il leader prima di decidere come
muoversi.
«Ti
preoccupi di questo?», minimizzò il ragazzo indicando il taglio appena fasciato
alla meglio, «Joly mi ha rimesso a nuovo» ed ignorò il lieve cenno di diniego
che l'aspirante medico stava facendo, più per disapprovazione che per
sottolineare come fosse tutto fuorché "rimesso a nuovo".
Combeferre
si avvicinò all'amico senza che questi gli dicesse nulla: si abbassò fino ad
arrivare alle sue spalle e quando Courfeyrac ebbe lasciato Jehan, poggiando la
sua testa con cura sulla propria gamba sana, 'Ferre gli sfilò con delicatezza
il lungo soprabito e rimase a guardarlo, facendo giusto un passo indietro. Come
sempre quello spettacolo lo lasciava senza fiato e sentiva dietro di sé gli
occhi degli altri puntati allo stesso modo su Courf: dalla sua schiena, sopra
un dolcevita scuro adattato al suo particolare proprietario, due lucenti ali
bianche si allargarono con grazia in tutta la loro ampiezza, dissipando la
nebbia intorno e lasciando che questa le circondasse sfumandone i contorni e
rendendole ancora più lunghe e belle. Eteree.
Combeferre
ed Enjolras ricordavano bene la sera in cui Courfeyrac aveva insistito perché
sgattaiolassero fuori dalle rispettive case e raggiunta, correndo nel buio, una
stradina isolata, aveva mostrato loro quello che gli stava succedendo: toltosi
la maglietta, si era voltato, lasciando che i due ragazzini guardassero la sua
schiena, dove due protuberanze segnavano la linea delle scapole ai lati della
colonna vertebrale e su di esse delle piaghe rosse parevano sul punto di
sanguinare. Courfeyrac piangeva senza singhiozzare - faceva male ed era
impaurito, gli occhi lampeggiavano di terrore mentre guardava i suoi amici, in
attesa di una loro reazione. 'Ferre non aveva detto nulla, ma lo aveva
abbracciato facendo attenzione a non fargli male; Enjolras era rimasto a guardarlo, avvicinandosi e con un sottile sorriso gli
aveva asciugato una lacrima.
Courfeyrac
portava stretto gelosamente nel cuore quel ricordo: in quella stradina era
cominciato tutto, avevano scoperto che il mondo era grande, più di quanto
credevano, e che esistevano così tante cose diverse e allo stesso modo
stupende, tutte ugualmente bisognose di un sorriso dolce come quello di
Enjolras o di un abbraccio caldo come quello di Combeferre.
«Fa’
attenzione quando sarai lassù», lo ammonì Joly, preoccupato.
«Non
puoi dire ad un angelo di fare attenzione. Il cielo ci appartiene», rise
Courfeyrac, riprendendo Jehan fra le braccia. Poi mosse le proprie ali come
avrebbe fatto un qualsiasi uccello e in breve la ferita alla gamba non fu più
un problema: si reggeva con grazia e possanza, finalmente libero, come ogni
volta che toglieva il soprabito e faceva vibrare l’aria che aveva intorno. Si
trasformava, era chiaramente visibile, e la scintilla che gli accendeva gli
occhi sarebbe bastato agli Amis a
giustificare l’intera lotta. Poteva esserci qualcosa di sbagliato in quello?
«Vale
la regola delle 24 ore, Courfeyrac!», gridò Enjolras prima che questi fosse
andato via. Lo sguardo che il ragazzo gli rivolse lo fece sorridere come la
prima volta che gli aveva visto quelle ali – ora però non c’erano lacrime su
quel viso, ma i lineamenti gli dicevano di non smettere di crederci, di non
farsi abbattere.
«Dividiamoci
e prendiamo strade diverse», disse allora il leader ai ragazzi che erano
rimasti a terra – Combeferre non ebbe bisogno di chiedere, ma lo prese sotto
braccio e lo aiutò a tenersi in piedi.
«Ci
vediamo tra poco», sorrise Joly, prima
di sparire tra la nebbia, seguito da Bossuet e Bahorel.
Le
fiamme illuminavano le mani forti del ragazzo davanti ad Eponine
come un miracolo e allo stesso tempo con la stessa semplicità con cui avrebbero
bruciato in un vecchio camino di mattoncini rossi. La ragazza non si stancava
mai di vedere quelle lingue di fuoco circondare la pelle senza bruciarla, ma
saltellando e giocando con essa come se fosse tutto un bellissimo scherzo.
Sorrise.
In una simile situazione, nella più terribile paura, circondata da una strana
nebbia, ad Eponine scappò un sorriso genuino, come
quelli che sempre le allargavano le labbra se era in compagnia di Marius. Era
stata lei a suggerirgli che forse, pur non essendo una nebbia naturale, il caldo l’avrebbe comunque
dissipata e l’idea, anche se più lentamente del normale, si stava rivelando
giusta: davanti alle mani di Marius cominciava ad apparire il profilo della
casa verso la quale si erano miracolosamente indirizzati quando la situazione
era precipitata.
«Dobbiamo
cercare di tornare a casa», disse Marius in modo serio – Eponine
si rese conto che non lo aveva mai visto tanto nervoso da quando lo aveva
conosciuto: era sempre stato il classico ragazzo della porta accanto, sempre
pronto a sorridere alle difficoltà della vita, mentre in quel momento la
tensione era ben visibile sul suo volto.
«Andrà
bene», sussurrò, prendendogli la mano, avvertendone il calore, nel freddo
innaturale di quella mattina «Non riusciranno a farci del male». Sapeva che era
una falsità, che se non avessero fatto in tempo, i soldati in bianco avrebbero
potuto sparare contro di loro come avevano sparato sulla folla, ma per una
volta voleva essere lei a rassicurarlo, per una volta voleva che lui la
guardasse con la stessa ammirazione e lo stesso amore con cui di solito lo
guardava lei.
«Hai
ragione, faccio male a disperarmi».
Marius
strinse la presa sulla mano di lei, regalandole un nuovo sorriso, e continuò a
camminare, dissipando con accortezza la nebbia davanti a loro solo se
strettamente necessario; stettero in silenzio mentre camminavano, attenti ad
ogni minimo rumore che potesse indicare loro pericolo. E ne sentivano di
rumori: voci, di tanto in tanto grida, alle volte lamenti – persone che in un
modo o nell'altro erano rimaste coinvolte nella scarica di proiettili, che
avevano paura, che scappavano o protestavano, si infuriavano. Lo sconcerto, lo
choc per quello che era successo infuriava ovunque e Marius, trascinando con sé
Eponine, cercava semplicemente di tenersene lontano –
non di certo il più nobile dei comportamenti, ma aveva paura, semplicemente
paura, e voleva portare se stesso e la ragazza al sicuro.
«Qui
c'è qualcuno!».
«Fermi!
Non un altro passo!».
Dissipata
la nebbia, tanto Marius quanto Eponine potevano
vedere due soldati, delle pistole quasi trasparenti nelle loro mani e gli occhi
appena intuibili attraverso le visiere scure – non che avessero dubbi sulle
loro facce, la minaccia delle armi bastava.
«'Ponine»,
sussurrò il ragazzo, sperando con tutto se stesso che l'altra capisse; ma lei
era stata ancora più veloce e la voce di Marius non fu che l'approvazione di
ciò che aveva in mente.
Un
attimo prima i soldati del Centre
avevano sotto tiro due possibili mutanti, quello dopo ce n'era uno solo – la
ragazza era improvvisamente sparita nel nulla. Gli uomini si guardarono intorno
in modo frenetico, spaventati, e caricarono le pistole pronti a mirare a ciò
che potevano ancora vedere, abbatterne almeno uno – erano minacciati,
autorizzati a farlo – quando qualcosa, nella fattispecie un bastone di legno, colpì violentemente alla
testa il soldato più alto, facendolo stramazzare al suono con un tonfo ed un
breve lamento. Il secondo, ormai chiara l'inferiorità numerica ed il pericolo
in cui si trovava, si distrasse quanto bastò a Marius per concentrarsi e
surriscaldare l'arma, che bruciando dall'interno sembrò accartocciarsi e fece
gridare di dolore il soldato.
Non
ci volle che qualche altro istante prima che l'uomo decidesse di scappare.
Marius abbracciò Eponine con uno slancio liberatorio
e la ragazza arrossì in quella tenera stretta: si sentiva forte come non mai –
accanto a lui avrebbe potuto abbattere l'intero governo.
Tornarono
a muoversi, sempre con cautela ma con un certo ardore – parevano aver vinto un
intera battaglia e si sentivano come tali, forgiati dalla paura e dal coraggio.
Fu forse per questo che non potettero fare a meno di deviare dalla loro strada,
sebbene mancasse ormai poco al palazzo nel quale abitavano, quando uno schianto
fece tremare il terreno e l'aria intorno a loro. Marius pensò immediatamente
che fosse una granata e scambiò uno sguardo veloce con Eponine
prima di svoltare in direzione del forte boato, nella mano ancora le fiamme a
dissipare lentamente la nebbia, finché non ce ne fu bisogno: il luogo
dell'esplosione, con una grossa voragine tra i massi del terreno e in una
bottega che si affacciava sulla destra, poteva mostrare i suoi spaventosi
contorni con chiarezza disarmante, come un'angosciante oasi artificiale nel
mezzo del deserto bianco.
Il
ragazzo si fece lentamente avanti, i lineamenti contratti dalla distruzione e
dai corpi che poteva vedere sotto le macerie – due, tre, quattro, smise di
contare – finché qualcosa non lo paralizzò. Un uomo sulla cinquantina, i suoi
stessi lineamenti tirati ma una disperazione più profonda sul suo volto, tirò
su una ragazza che poteva aver superato da poco di diciassette o diciotto anni,
pallida forse per chiarore naturale della pelle ma che sapeva di malsano in
quel contesto, gli occhi socchiusi ed un espressione abbandonata. Sembrava
stesse svenendo ed una sottile striscia di sangue le contornava la guancia
sinistra scendendo fino al mento. Non un fiato attraversò quella scena, non un
sospiro o una parola – l'uomo semplicemente s'incamminò con quel peso e quella
ragazza: c'era qualcosa di eroico nei passi che conduceva.
Marius
pensò che non avrebbe mai più dimenticato quel viso sottile ed etereo – una
parte di lui avrebbe voluto seguire quella coppia, ma una strana soggezione gli
impediva di muoversi, finché Eponine non gli prese la
mano.
«Andiamo
via, non c'è nient'altro che possiamo fare qui».
Combeferre
aveva preso a muoversi con incertezza: la nebbia di Bahorel aveva permesso loro
di sfuggire alle ronde di soldati che ormai affollavano piazza e strade, ma la
fuga iniziale, confusa e veloce, aveva fatto sì che il ragazzo perdesse
velocemente l'orientamento, immerso nel bianco sempre uguale che lo circondava.
Ed
Enjolras aggiungeva ulteriore preoccupazione. Non poteva smettere di osservarlo
mentre si trascinava con lui lungo diverse stradine isolate, e più camminava
più si rendeva conto che qualcosa non andava, nella fattispecie il suo braccio,
insanguinato per la ferita alla spalla che le bende improvvisate di Joly non
riuscivano a tenere a bada. Il ragazzo era pallido, di tanto in tanto arrancava
davanti a lui e Combeferre stava diventando nervoso.
«Fermiamoci
per qualche istante, riprendiamo fiato», suggerì – non aveva intenzione di
offenderlo, sapeva che Enjolras sarebbe andato avanti anche fino alla morte, ma
davvero non gli pareva il caso di morire così, per dissanguamento o stenti.
Il
ragazzo biondo lo guardò socchiudendo gli occhi – oh, avrebbe risposto qualcosa
di serioso e offeso se solo non avesse sentito la testa tanto pensante e non
stesse impiegando tutte le sue energie per tenersi sveglio ed in piedi; lesse
preoccupazione nei suoi occhi e la cosa lo addolcì. Tentò di sorridergli.
«Abbiamo
detto agli altri che avremmo rispettato le ventiquattro ore», poi prese
brevemente fiato «Sarebbe una seccatura venir meno alla parola data».
Combeferre
sorrise di rimando, in modo quasi automatico per il tono usato, e gli passò una
mano intorno a fianco per aiutarlo. Era un testardo di natura, quindi
assecondarlo era la sola cosa da fare – non che poi si trovasse in disaccordo
con lui: aveva davvero pochissima voglia di perdere tutto le sue cose. E poi a
Courf piaceva troppo il Cinema Musain.
Quando
le cose avevano preso ad essere serie, gli Amis si erano messi alla
ricerca di un luogo in cui riunirsi, che fosse spazioso e garantisse loro
sicurezza: trovare nel vecchio Cinema Musain un
intero seminterrato costruito per resistere ai bombardamenti dell’ultima guerra
ondiale era stato un gran bel colpo di fortuna. Così
avevano preso a vivere lì, con la regola fissa, però, che in caso qualcuno di
loro non fosse tornato dopo ventiquattro e vi fosse pericolo di essere
scoperti, avrebbero dovuto abbandonare tutto e trovare un altro luogo sicuro.
Se non fossero tornati in tempo, il
semplice sospetto che il Centre li
avesse catturati avrebbe fatto spostare tutti.
Riuscirono
a proseguire solo di qualche passo prima che una scarica di mitraglietta
spezzasse il silenzio della strada e i loro fiati. Combeferre si gettò sulla
sinistra, appiattendosi contro il muro e trascinando con se Enjolras che per
poco non cadde – il biondo provò a sentire i proiettili che ancora volavano, ma
era stanco e per questo poco preciso: tutto risuonava, c'era così tanto metallo
intorno a lui da fargli avere il capogiro. Combeferre si accorse di quello che
stava facendo e con gesto deciso si espose coprendolo ed allungando le braccia
davanti a sé: l'onda d'urto che partì dal suo corpo, canalizzandosi nelle mani,
dovette avere pressoché l'effetto desiderato, nonostante l'avesse direzionato
praticamente alla cieca, perché i colpi smisero all'istante e furono sostituiti
da alcuni tonfi sul terreno.
Il
ragazzo sospirò, barcollando appena – c'era ancora del lavoro da fare riguardo
quanta energia dovesse mettere nei suoi campi di forza ed onde d'urto – ma si
voltò sorridente verso Enjolras, che mascherò con quanta più velocità possibile
la sua tensione e preoccupazione.
«Appena
saremo al Musain mi rimetterò all'opera con il
controllo dei pesi», lo rassicurò Combeferre: poteva facilmente immaginare che
cosa stesse pensando l'altro, non gli era di certo sfuggito il suo cipiglio
serio – tutto l'allenamento che aveva fatto per controllare il suo potere non
era ancora sufficiente a far sì che potesse gestirlo senza problemi.
Avrebbe
voluto dire altro, o magari semplicemente riprendere a camminare perché il
pallore di Enjolras era sempre più evidente, ma sentì improvvisamente il
respiro mozzarsi nei polmoni e l'aria mancare: quando capì che cosa poteva
essere successo aveva già fatto un volo di alcune decine di metri, atterrando
sul selciato con una spalla e rotolando svariate volte prima di fermarsi,
evitando di sbattere la testa per miracolo. L'aria faticava ancora ad
obbedirgli e permettergli di respirare, mentre ogni singolo muscolo si
ribellava a quell'urto.
«Enjolras!»,
chiamò non appena fu in grado di parlare: non gli pareva fosse stato spinto via
come lui, ma non aveva idea di dove fosse con ancora tutta la nebbia di Bahorel
a bloccargli la vista di ciò che non apparteneva al suo corpo. Solo in quel
momento si accorse che una lente dei suoi occhiali si era spaccata – ed era
stato fortunato a non farsi male col vetro.
«'Ferre!
Sei ferito?». Enjolras era rimasto accanto al muro dove s'erano fermati: aveva
sentito la nuova onda d'urto come un treno in corsa e non aveva potuto fare
altro che sussultare e cercare di capire da dove fosse venuta o cosa stesse
succedendo. Aveva cercato di richiamare a sé ogni briciolo di forza che gli
restava per provare a sentire il metallo ed improvvisare un mezzo di difesa o
offesa, ma tutto quello che aveva ottenuto era stato il tremulo movimento di
ciò che gli era più vicino.
«Mi
lamenterò domattina, mentre Joly mi farà un elenco dei modi in cui questa cosa
sarebbe potuta andare peggio», sentì dire «Resta dove sei, facendo la strada a
ritroso dovrei raggiungerti senza problemi».
Ad
Enjolras quella situazione stava cominciando a dare seriamente sui nervi - non
era mai stata una persona che apprezzava l'inattività o il riposo, era raro che
si ammalasse o che restasse a letto per pigrizia: dover dipendere fisicamente
da qualcuno, anche se un amico, lo innervosiva e non riuscire a gestire il suo
potere era ancora peggio. Tuttavia sapeva chiaramente che diventare emotivo non
lo avrebbe aiutato.
Combeferre
si mise in piedi con una certa difficoltà: più riacquistava consapevolezza di
sé, più sentiva l'intero corpo dolergli: essere colpito da qualcosa di molto
simile al suo potere faceva uno strano effetto – ora sapeva cosa si provava a
stare dall'altro lato e non era affatto una bella sensazione. Si concesse
qualche altro momento per essere sicuro della direzione da prendere e si
incamminò, accorgendosi che la manipolazione atmosferica di Bahorel stava
lentamente svanendo e i contorni dei palazzi più vicini cominciavano ad
apparire. Cercò di non farsi mettere in allarme più del dovuto: con molta
probabilità lui e gli altri erano riusciti a tornare più velocemente al Musain e Bahorel stava cercando di ridurre la nebbia con
lentezza per consentire a chi ancora era per strada di ritirarsi. Non si diede
tempo di pensare ad altre possibilità, ma chiamò di nuovo Enjolras per capire
quanto fosse distante.
«Ci
sono quasi», lo rassicurò non appena sentì la sua voce – poteva essere al
massimo a tre o quattro metri di distanza.
«Ferre,
è ancora qui!». Enjolras poteva sentirlo: chiunque li avesse attaccati era poco
lontano da loro e il metallo che aveva addosso cominciava a risuonare nonostante
il grande sforzo che stesse facendo per sentirlo.
Combeferre
chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi: quando si trattata di sprigionare campi
di forza per colpire qualcuno o qualcosa l'impeto andava bene, ma da poco aveva
imparato che le onde che emanava potevano avere diversa consistenza e diventare
sottili e permeabili; in questo modo otteneva più o meno lo stesso effetto
delle onde soniche dei pipistrelli, riuscendo a rilevare qualunque cosa
occupasse spazio entro un certo raggio. Percepì quasi subito Enjolras e lo
riconobbe perché la sua consistenza era qualcosa di familiare per lui; dopo
qualche istante un secondo corpo entrò nel suo raggio d'azione. Dritto, fermo
ma più piccolo di quello che si sarebbe aspettato, probabilmente il corpo di
una ragazza. Una ragazza che si preparava al contrattacco.
Sentì
chiaramente il campo di forza lasciare il corpo di lei e percepì chiaramente
l'orrore inondarlo quando capì che la traiettoria non mirava a lui ma ad
Enjolras.
«Stai
giù!», gridò all'amico e corse nella sua direzione proiettando un campo che
potesse proteggere entrambi – l'urto fu più duro di quello che si aspettava,
gli fece mancare di nuovo il fiato, come un colpo in pieno petto che lo lasciò
in ginocchio accanto all'altro ragazzo.
«'Ferre!»,
si allarmò Enjolras, prendendolo per le spalle, guardandolo preoccupato, ma
senza poter fare nulla. Non sapeva che cosa disprezzasse di più, se
quell'improvviso attacco da parte di chi chiaramente era come loro, o la sua
quasi impossibilità di agire per difendersi, che era sostanzialmente il motivo
per cui anche Combeferre ora era ferito.
«Dobbiamo
dividerci di nuovo», sussurrò l'altro – sapeva che era praticamente come dirgli
di scappare: Enjolras non era stupido, avrebbe capito subito che stava facendo
in modo di affrontare il pericolo da solo e metterlo al sicuro, ma davvero non
vedeva altra soluzione. Era seriamente preoccupato per lui.
«Non
ti lascio da solo contro un mutante, 'Ferre», fu la risposta secca del biondo,
mentre provava a rialzare entrambi con uno sforzo che non fece altro che
confermare le teorie dell'amico. La faccenda rischiava di andare a finire
seriamente male.
«Non
ti farai ammazzare in questo modo, Enj», fu la
risposta secca del ragazzo «Lo vediamo entrambi che non riesci a stare in piedi
ed il tuo potere è ingestibile».
Enjolras
sapeva che Combeferre aveva ragione, ma l'idea di lasciarlo da solo lo faceva
sentire ancora più male di quanto non facesse la spalla ferita. Non esisteva
uno scenario in cui sarebbe corso via e lo avrebbe lasciato lì ad affrontare
quel mutante, non importava le sue condizioni. Ma gli occhi di 'Ferre non gli
davano scampo, lo inchiodavano alla realtà effettiva dei fatti con più violenza
di una condanna. Dannazione.
«Ventiquattro
ore, no? Ci rivediamo entro il tempo stabilito, promesso», sorrise Combeferre,
stringendogli le spalle, con ancora quello sguardo deciso e sicuro di sé che
non ammetteva repliche, neanche da lui. E, maledizione, Enjolras lo sapeva che
avrebbe dovuto replicare qualcosa, che avrebbe potuto insistere e tentare
ancora, mostrarsi più forte di quello che era, ma la verità era che 'Ferre lo
conosceva troppo bene, che con lui non poteva mentire neanche riguardo le
minime cose e quindi figurarsi su questo. Mentre l'altro lasciava la presa, lui
si sentiva come sul punto di spezzarsi in due, una parte che restava e l'altra
che faceva ciò che gli era stato detto.
Alla
fine si mosse. Improvvisamente, senza dire nulla, facendo violenza a se stesso,
solo con un nuovo sguardo che voleva significare tutto, accumulava parole che
tra loro non erano più necessario fossero pronunciate. Si conoscevano
semplicemente da troppo. “Vedi non farti ammazzare o giuro che vengo li è ti
uccido personalmente”, avrebbe detto Courfeyrac e il suo sguardo diceva
praticamente lo stesso.
Quando
Combeferre rimase da solo, la nebbia artificiale era ormai solo un velo grigio
che aleggiava tra le strade, lasciando passare qua e là la luce del Sole –
pareva quasi arrivare da un ricordo, come se tutto fosse finito in un limbo
onirico dal momento in cui i primi colpi di pistola erano esplosi. Sentiva la
presenza della ragazza davanti a sé senza alcun bisogno di usare un campo di
forza. La risata di lei rivelò la sua precisa posizione.
«Mi
occuperò del tuo amico non appena avrò finito con te», disse sprezzante – la
voce sottile cozzava con la decisione delle parole, col tono beffardo e sicuro
di sé «Ma in effetti è da te che volevo cominciare. Campi di forza...».
Combeferre
le sentì prendere un respiro profondo e poi un nuovo campo gli si riversò contro,
sfiorandolo appena mentre si gettava alla propria destra per evitarlo. Il
braccio ora gli dava ufficialmente delle fitte, ma cercò di non pensarci ed
individuare di nuovo la posizione della sua avversaria, per poi lanciare a sua
volta un attacco.
“Presa!”, pensò, cercando di dimenticare che era un mutante come lei e che forse
non aveva neanche la sua età. Era il primo a pensare che quella guerra civile
fosse la cosa peggiore che potesse accadere loro, ma si trattava della sua vita
in quel momento e fermarla era qualcosa che poteva decisamente permettersi per riuscire a tornare dai suoi amici.
«Lento!»,
gridò la ragazza, prima di arrivargli praticamente addosso ed atterrarlo con un
cazzotto.
Combeferre
non era certo di dove fosse arrivata: sapeva di averla colpita ma era come se
lei avesse semplicemente ignorato la cosa, quasi non fosse importante o non
fosse il proprio corpo quello ferito, pur di poter attaccare nuovamente. C'era
un livello di spregiudicatezza nei suoi movimenti che il ragazzo stentava a
capire. Quando cominciarono un corpo a corpo serrato, si accorse che il suo
fianco sanguinava – fu in quell'istante che invece lei riuscì a puntargli un
coltello alla gola.
«Fine
dei giochi. Credevo fossi più divertente», sussurrò con un sorriso malato.
Enjolras
si sentiva stanco come mai prima d'ora. L'adrenalina avrebbe dovuto tenerlo
sveglio e farlo muovere fino a che non fosse stato al sicuro, ma la ferita al
braccio lo stava prosciugando e non era certo di avere abbastanza forze per
proseguire. Si fermò, quasi accasciandosi contro il muro di una casa e cercò di
riprendere fiato – la testa aveva cominciato a girargli e il suo potere era
debole ma incontrollabile: il metallo risuonava senza ordine nella sua testa,
lo schiacciava ed Enjolras non poteva fare a meno di sentirsi improvvisamente
disorientato, come le prime volte da ragazzino, quando ancora non sapeva come
muoversi.
“Andrà bene. Entra. Andrà bene, Enjolras”.
Il
ragazzo sussultò. In tutto quel marasma di sensazioni stordite una parte di lui
era certa di aver sentito una voce – e no, non poteva essere “la sua
coscienza”; l'altra semplicemente gli suggeriva che la mancanza di sangue aveva
cominciato a fare brutti scherzi e che doveva muoversi se non voleva finire
svenuto da qualche parte. Eppure, non riusciva a togliersi da dosso la
sensazione che sarebbe dovuto entrare, che fosse meglio così, che sarebbe stato
davvero al sicuro.
Fece
qualche passo avanti, raggiunse la porta di quella che per via della nebbia
sempre meno fitta si accorse essere in realtà una vecchia osteria e senza la
forza di chiedersi quando intorno a lui le cose avessero cominciato a ritrovare
i loro contorni, entrò dentro: peggio di così potevano esserci davvero poche
cose, si arrese a pensare. All'interno, la luce faticava ad entrare dal momento
che metà delle finestre erano chiuse, forse sprangate; per il resto,
semplicemente Enjolras era troppo stanco – l'ultima cosa che vide fu qualcuno
avvicinarsi, forse chiamarlo. Poi fu buio.
«Cerca di non agitarti, hai appena recuperato le forte».
Quando
si riprese, Enjolras cominciò a muoversi in modo scoordinato, cercando di
tenere gli occhi aperti e non perdere nuovamente conoscenza, ma senza riuscire
a capire dove fosse o a chi appartenesse quella voce. La testa gli girava
ancora abbastanza da fargli venire mal di stomaco, per non parlare della spalla
che aveva davvero deciso di ucciderlo.
«Avevo
cominciato a pensare che non volessi più svegliarti!». Stavolta la voce era più
vicina e il ragazzo riuscì a capire da dove venisse: una testa riccioluta era
appena entrata nel suo campo visivo, con un sorriso sincero sulle labbra ed il
viso un po' pallido anche nella penombra di quel posto.
«Tu!
Sei stato tu...». Enjolras aveva provato a mettersi seduto – perché, s'era
accorto, era sdraiato sul pavimento freddo – ma il suo corpo aveva
immediatamente protestato, facendolo stendere di nuovo con una smorfia di puro
dolore «Sei stato tu a dirmi di entrare...», sussurrò, con gli occhi serrati ma
l'espressione seria.
Lo
sconosciuto rise appena, alzando le mani.
«Ascolta,
tu sei entrato e sei collassato sul pavimento. Se il tuo sesto senso ti ha
detto di entrare qui, buon per te: quantomeno ho potuto disinfettare quella
ferita con dell'alcool», spiegò con una scrollata di spalle «Mi hai fatto
preoccupare quando non hai battuto ciglio, ma l'importante è che tu ti sia
svegliato adesso».
Enjolras
lo osservava e pareva non capire: era davvero stato il suo istinto, o
buonsenso, a dirgli di fermarsi lì? Quella voce... ne ricordava appena la
sensazione ma era lontana come un sogno e più cercava di raggiungerla,
afferrarla, più sembrava sfuggirli, sgusciare via sinuosa e rapida, sempre più
lontano, dove non poteva raggiungerla, dove faceva male.
Tentò
nuovamente di sollevarsi, con più cautela e lentezza, calcolando ad ogni
movimento quale poteva permettersi come successivo, finché non fu seduto.
Allora notò la nuova fasciatura, più grossa, che gli copriva tutta la spalla ed
una cosa ancora più preoccupante: il sole stava tramontando.
«Dannazione»,
imprecò a denti stretti: doveva alzarsi, uscire da lì, tornare dagli altri;
aveva perso già troppo tempo. «Devo
andarmene da qui», e fece per mettersi in piedi – o almeno provarci.
«Hey,
hey, che fretta c'è, sta' fermo!», lo ammonì lo sconosciuto, facendo attenzione
che non perdesse l'equilibrio o gli svenisse davanti «Puoi restare qui tutto il
tempo che vuoi, questo posto è praticamente chiuso. Io vivo di sopra».
Enjolras
perse giusto qualche secondo a notare che quel posto non era affatto l'ideale
per vivere – buio, pieno di polvere e con una puzza di muffa da dare fastidio,
si chiese per quale motivo quel ragazzo avesse deciso di stare proprio lì.
«Devo
tornare a casa», dopotutto non era poi una menzogna «Mi staranno aspettando e
non posso fare tardi, si staranno preoccupando».
Il
ragazzo bruno si incupì appena a quelle parole. Il mutante si chiese se avesse
detto qualcosa di sbagliato – o semplicemente se avesse parlato troppo. Voleva
andare via, eppure qualcosa in quello sconosciuto lo incuriosiva.
«È
per via della manifestazione, vero? È lì che ti hanno sparato», sussurrò quello
senza staccare gli occhi da Enjolras. «È stato un disastro, non pensavo che-».
«C'eri
anche tu? Sei un mutante?». Ecco cos'era? Era anche lui un mutante? Per questo
ad Enjolras pareva di averlo già visto da qualche parte? Il ragazzo spalancò
gli occhi, sussultando. Sembrò nel panico per qualche istante prima di
rispondere.
«No,
certo che no! Io- c'era tanta confusione, gente che scappava, gridava...
c'erano dei feriti. Allora ho capito che la manifestazione non doveva essere
andata bene».
«E
sei rimasto qui a bere?». Con tutte le domande che si stavano rivolgendo,
Enjolras non aveva potuto fare a meno di sentire l'odore di alcool che veniva
da quel ragazzo – e certo, aveva detto di averlo usato per disinfettare la sua
ferita, ma non era solo questo, lo sapeva. Lo sconosciuto lo guardò, poi di
tutte le opzioni tra cui poteva scegliere decise di sorridere: non era un
sorriso di chi compatisce la stoltezza o l'ignoranza altrui, né di qualcuno che
voleva farsi beffe del prossimo. Era un semplice sorriso, dolce a tratti,
strano per qualcuno che si incontrava la prima volta, forse appena un po'
triste.
«Ovunque
tu debba tornare, non puoi andare da solo o rischierai di accasciarti da
qualche parte», disse, cambiando argomento «Lascia che ti aiuti, che ti
accompagni».
C'era
una gentilezza nella sua voce che Enjolras stentava a comprendere – certamente
lui non avrebbe lasciato andare via nessuno da solo nelle sue stesse
condizioni, eppure gli sembrava troppo da quello sconosciuto e l'istinto gli
suggeriva che ci fosse dell'altro sotto.
«Lo
so, tu sei un mutante ed io salto fuori dal nulla e ti offro aiuto... non suona
tanto bene. Ma posso fermarmi anche prima e non vedere dove entrerai. Voglio
solo accertarmi che tutto quell'alcool non sia stato sprecato, capisci?», rise.
Ed
Enjolras si fidò. Al di là di qualunque istinto protettivo e buonsenso, si fidò
di quello sconosciuto che si trascinava fuori dall'osteria forse ancora un po'
sbronzo nonostante stesse appena facendo notte.
Se
c'era una cosa che Courfeyrac aveva imparato da quando gli Amis si erano
ufficialmente riuniti al Musain era non sottovalutare
il potere di nessuno. E più di tutti, non sottovalutare il potere di Jehan.
Quel ragazzo sempre con la testa fra le nuvole, la mente che rincorreva chissà
quale pensiero, aveva una forza che chi non lo conosceva stentava ad immaginare
ed il suo potere era un valore aggiunto ad essa, che la alimentava rendendolo
eccezionale.
Forse
proprio in beneficio di quella sua personale forza il suo potere era tanto
grande e solitamente tutti – e Courfeyrac anche più degli altri – lo
incoraggiavano a non trattenersi, a non avere paura ma usarlo, conviverci, imparare
come gestirlo. In momenti come quello, tuttavia, le cose si facevano difficili.
Da quando si era ripreso, Jehan era furioso. Furioso con se stesso, furioso con
i soldati del Centre e preoccupato
perché Combeferre ed Enjolras non erano ancora tornati e addolorato perché
aveva sentito lo spavento e la paura di tutti quelli che, in piazza, non si
sarebbero mai aspettati che la manifestazione potesse prendere una simile
piega. In preda a tutte quelle emozioni gridava e si disperava, quasi senza
controllo e riversava tutto ciò che sentiva sugli altri, nonostante si fosse
chiuso nella sua stanza.
Joly
cercava di distrarsi, disinfettava qualche strumento, sistemava la propria
borsa portando tutta la sua attenzione sui gesti che faceva, ma gli tremavano
le mani ed involontariamente faceva profondi respiri ogni volta che un'emozione
di Prouvaire diventava più forte. A Bahorel prudevano le mani – ad onor del vero parte di quell'istinto era suo – e prendere a
pugni il sacco di sabbia che aveva appeso in camera era parsa una buona idea
finché, tanto in sintonia con le emozioni del poeta, non aveva cominciato a
perdere il controllo e a colpire anche le pareti che dividevano gli ambienti
del seminterrato. Bossuet se ne stava rannicchiato in un angolo: il suo naturale
buonumore era stato dissipato da una malinconia artificiale che gli toglieva
voglia di qualsiasi cosa; Courfeyrac infine camminava su e giù per il corridoio
davanti la porta di Jehan incurante del dolore alla gamba e delle
raccomandazioni di Joly, troppo preoccupato per badarci davvero.
Alla
fine si decise ad entrare nonostante lo sguardo di disapprovazione di Joly e
trovò il ragazzo rannicchiato su se stesso in un angolo della stanza, per
terra. Sì, c'era tantissima forza in Jehan ed era il motivo per cui riusciva a
convivere con un potere tanto grande senza farsi risucchiare del tutto da esso.
Ma era anche il motivo per cui, di tanto in tanto, si abbatteva e si chiudeva
in se stesso, senza parlare anche per giorni – quei tempi non aiutavano, la
tensione a Parigi, in tutto lo Stato, era forte e Prouvaire poteva sentirla
tutta. Alle volte aveva detto di essere sollevato: se fosse nato in tempo di
guerra sarebbe sicuramente impazzito – e tuttavia... che cos'erano quei tempi
se non l'annuncio di una nuova guerra?
«Jehan?»,
lo chiamò, avvicinandosi lentamente – sentiva una confusione di emozioni nel
petto e sapeva che provenivano da lui, come sapeva che lo aveva sentito,
nonostante non si fosse mosso. Gli si sedette accanto, senza sfiorarlo perché
aveva imparato che in quel momento anche un semplice contatto avrebbe potuto
destabilizzarlo, ma abbastanza vicino da fargli sentire la sua presenza ed il
suo calore. Lo sentì sospirare con voce tremula – chiuso a riccio com'era gli
faceva tenerezza e un po' di tristezza, ma provare a consolarlo sarebbe stato
peggio: che avrebbe potuto dirgli poi? Che sarebbe andato tutto bene? Che
Enjolras e Combeferre sarebbero tornati presto e che la situazione si sarebbe
risolta per il meglio? Come poteva garantirglielo? Come poteva parlare senza
risultare falso dal momento che neanche lui riusciva a crederci del tutto?
Sperava: la speranza era la sola cosa che avevano, ormai...
«Forse
la speranza ci basta».
Courfeyrac
sentì il caos di emozioni che aleggiava su di loro distendersi lentamente,
mentre Prouvaire alzava la testa e si voltava verso di lui. Era un po' pallido,
ancora provato dalla folla della piazza e gli occhi erano arrossati per il
pianto di collera, ma era serio nei lineamenti, serio e bello come un bocciolo
bagnato dopo la pioggia.
«Con
la speranza possiamo ancora farcela», sussurrò di nuovo, prima di appoggiarsi
con la testa alla spalla dell'amico. Si stava calmando, il peggio era passato,
la razionalità stava tornando a galla per riportare ordine tra le emozioni, per
dare la forza al ragazzo di tornare al comando.
«Com'è
la speranza?», chiese Courf senza lasciarlo andare.
«Cambia
spesso colore», si trovò a pensare il poeta «E' come rendere una sinfonia in
colori. Ci sono gli alti e i bassi, il ritmo aumenta e poi decelera, quasi
muore, poi si riprendere con uno scoppio di violini ed incalza, sempre più
veloce, sempre più serrante fino al culmine. La speranza è così. Accumula
colori come la sinfonia inserisce man mano gli strumenti dell'orchestra ed
assume sfumature tenui quando osa appena farsi scorgere nei petti più impavidi
per poi brillare sempre più man mano che si diffonde. Quando tutto questo sarà
finito, quando potremo ancora sperare davvero, penso che vedrò lo spettacolo
più bello di sempre. I fuochi d'artificio saranno un banale trucco da quattro
soldi a confronto».
Courfeyrac
rise: il potere di Jehan era a tratti terribilmente singolare, ma la poesia che
usava per descriverlo riusciva a renderlo vivido e presente quasi appartenesse
a tutti.
«Credevo
che quello fosse l'amore», disse.
«E'
più un cliché che altro», alzò le spalle Jehan, ridendo all'espressione
sconcertata dell'amico, poi tornò serio «L'amore assume tutte le sfumature del
fuoco, dal giallo al rosso intenso. Ma varia a seconda dell'intensità».
«Non
del tipo?».
«L'amore
è amore. Non varia a seconda di chi sia il destinatario», sorrise il poeta.
E
poi finì. Courfeyrac sentì come se tutta l'allegria, la spensieratezza che
aveva costruito con Jehan in quei minuti fosse stata improvvisamente
risucchiata via: entrò improvvisamente in tensione, mentre l'ansia si
impossessava di lui e si voltò verso l'altro giusto in tempo per scorgere il
volto tirato di Jehan che osservava un punto imprecisato della stanza.
«Combeferre»,
sussurrò questi, prima di scattare in piedi e correre fuori.
Al
seminterrato adibito a rifugio durante la Seconda Guerra mondiale si accedeva
attraverso una porta in fondo alla grossa sala del Cinema Musain
– chi entrava, raramente la notava, preso com'era dalla grande stanza, adibita
con poltrone e in fondo un palco che precedeva il tendone bianco, così che al
cinema si alternasse il più vecchio teatro. La sua chiusura per problemi
strutturali aveva causato rammarico nella popolazione di tutto il quartiere – e
di tanto in tanto Bossuet sosteneva che averlo lì con loro avrebbe causato
l'effettivo crollo di tutta la struttura.
Jehan
salì di corsa la scala che lo portava alla sala del cinema: sentiva
distintamente Combeferre, aveva imparato a conoscerlo e lo distingueva senza
che questi dovesse provare una qualche precisa emozione; tuttavia in quel
momento percepiva dolore, confusione e stanchezza mischiate a tal punto da
farlo barcollare – non stava affatto bene.
Courfeyrac,
dietro di lui, lo aveva seguito senza farsi alcuna domanda – il nome dell'amico
era bastato – mettendo in allarme gli altri, che avevano visto scattare fuori
prima l'uno e poi l'altro e capito che stava succedendo qualcosa.
«'Ferre!»,
gridò, quando fu fuori insieme a Prouvaire.
Il
ragazzo davanti a loro barcollava, i vestiti malconci, probabilmente un colpo
alla testa a giudicare dal sangue che scorreva lungo il viso e chissà che
altro. I due gli corsero incontro mentre questi faceva ancora qualche passo,
prima di crollare senza più forze fra le loro braccia.
«Enjolras-»,
fu la sola cosa che sussurrò prima di perdere completamente i sensi e
Courfeyrac si rese conto con orrore che Combeferre era tornato da solo.
_______________
Here
I am again!
Ebbene
sì, anche questo capitolo è fatto! Con un po’ di cliffhanger,
ma temo sia una cosa a cui vi abituerete presto, è un mio guilty pleasure. Non hanno fatto molti passi
avanti, ma sono riuscita ad introdurre quasi tutti i protagonisti della storia
(la vecchia generazione – concedetemi il modo di dire – ci metterà un po’ ad
entrare in scena, ma come si dice? Chi va piano, va sano e va lontano. O almeno
spero).
Spero
che i diversi poteri mostrati siano abbastanza chiari. Quelli che ancora non
sono stati specificati, arriveranno presto!
Detto
ciò mi eclisso, non prima di aver ringraziato chi ha recensito la storia o chi
ha dedicato un po’ del suo tempo ad essa *fa inchino*.
A
presto~
Alch.