Libri > I Miserabili
Segui la storia  |       
Autore: Alchimista    05/01/2016    3 recensioni
[X-men!AU. Non è necessario conoscere quell'universo per comprendere la storia].
Anni '60. Nel pieno della guerra fredda, l'esistenza dei mutanti è ormai di dominio pubblico e in Francia il governo viene rovesciato per instaurarne uno che considera chiunque abbia una simile mutazione come pericoloso e da rinchiudere. Gli Amis sono uno dei gruppi di resistenza in quella che ben presto diventa una guerra civile in difesa dei diritti umani.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Combeferre, Enjolras, Grantaire, Les Amis de l'ABC, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Di ferro, fuoco e speranze.

 

 

Capitolo 2: La regola delle ventiquattro ore - parte seconda.

 

Il sospiro di Combeferre formò una sottile nuvola, uscendo dalle labbra, per il freddo che era sceso con la nebbia nella piazza, resa infinita dalla quasi nulla possibilità di vedere ciò che la componeva. Al ragazzo non piaceva per nulla l’idea di separarsi, ancora meno in una situazione tanto incerta.

«Che cosa ti è successo? Perché non hai deviato i proiettili?», chiese, rivolgendosi al leader – non voleva realmente saperlo, non in quel momento, non con tutto il pericolo che avevano addosso, ma pensare lo rilassava ed avere sotto controllo cause ed effetti faceva scemare parte del panico che, suo malgrado, gli stava togliendo il fiato.

«Ci ho provato». Enjolras si fissava ancora incredulo la mano libera dalle cure di Joly «Ma è stato come se improvvisamente i proiettili andassero dove volevano, seguendo una propria logica – qualcosa contrastava la mia volontà».

«Telecinesi?», intervenne Bossuet che, come Bahorel poco distante, aveva preso a guardarsi intorno con circospezione, sfilandosi un guanto e cacciando giù nello stomaco la brutta sensazione di insicurezza: sarebbe riuscito davvero ad attaccare qualcuno?

«Forse: ci sono davvero poche cose che possono fermarmi quando si tratta di controllare i metalli». Enjolras si teneva a stento in piedi ora e la voce tanto sicura cozzava con l’aspetto ferito, mentre l’aspirante medico restava ad un passo da lui, pronto ad intervenire.

«No, un attimo». Le parole di ‘Ferre invece suonarono troppo alte, quasi stridule, e veloci «State dando per scontato che un mutante sia intervenuto, che qualcuno di noi ci abbia attaccati».

Anche al leader degli Amis era costato ammettere una cosa del genere, eppure la gravità di quella considerazione gli apparve nella sua pienezza solo quando fu l’amico a sottolinearla – e il silenzio di assenso che seguì quelle parole non fu affatto di aiuto. Il Centre aveva dei mutanti tra gli alleati? Perché mai qualcuno di loro aveva deciso di aiutarli? O forse erano costretti? Forse la polizia aveva arrestato qualcuno con quel genere di poteri e una volta resasi conto del potenziale che aveva tra le mani... Ma era stupido pensare che chiunque col potere di muovere gli oggetti col pensiero non fosse in grado di liberarsi e fuggire. No... no, non erano stati costretti. Dovevano davvero esserci dei mutanti alleati col nuovo governo.

«Jehan! Jehan, svegliati! Jehan!».

Coufeyrac era quasi completamente nascosto dalla nebbia fitta pur non distando che qualche passo dal resto del gruppo: il ragazzo, nella concitazione degli eventi, era stato il solo a rendersi conto del mancamento che uno scoppio tanto improvviso e grande di emozioni aveva fatto abbattere Prouvaire al suolo, e le sue grida fecero animare i compagni.

Bahorel dissipò la nebbia nella direzione da cui aveva sentito provenire la voce - stando attento a non esporli troppo - e in un istante tutti gli Amis furono intorno ai due ragazzi.

«Sei ferito», sussurro 'Ferre, guardando la pozza di sangue che si allargava sotto la gamba di Courfeyrac - il ragazzo s'era seduto a terra perché in quelle condizioni non era riuscito a tirare su l'amico, ma del dolore alla gamba non sentiva che un fastidio lontano: l'adrenalina era come un antidolorifico naturale e la preoccupazione per Jehan impegnava ogni suo pensiero.

«Tutto questo deve essere stato troppo per lui», ipotizzò Joly, mentre sentiva con preoccupazione che il polso di Prouvaire era molto debole ed il pallore preoccupante; con un tocco in più s'accorse che era anche salita un'improvvisa febbre. «Ha bisogno di essere idratato e di stare al caldo», disse con urgenza.

«Dobbiamo andare via». La voce di Combeferre era nuovamente ferma mentre guardava Enjolras; il leader ricambiò il suo sguardo e comprese, leggendolo, che insistere in quel momento non sarebbe servito a nulla: il CCM era qualcosa contro cui bisognava battersi con tutti se stessi, ma in quelle condizioni sarebbe equivalso ad un suicidio e semplicemente da morti servivano a ben poco. E poi c'erano nuove informazioni da considerare e alcuni da curare.

«Bahorel?».

«Ne ho sentiti molti scappare - quelli rimasti si muovono con circospezione e senza fretta: devono essere soldati», rispose il ragazzo senza che Enjolras avesse bisogno di porre davvero la domanda: quando i cambiamenti atmosferici erano determinati dal suo potere, Bahorel poteva sentire quello che accadeva quasi il vento, la pioggia o le nuvole fossero una normale prosecuzione del suo corpo; in quel caso, le persone che attraversano la nebbia gli davano la sensazione di un lieve fruscio sulla pelle, quasi un brivido.

«Courfeyrac, riesci a portare via Jehan?», volle sapere il leader prima di decidere come muoversi.

«Ti preoccupi di questo?», minimizzò il ragazzo indicando il taglio appena fasciato alla meglio, «Joly mi ha rimesso a nuovo» ed ignorò il lieve cenno di diniego che l'aspirante medico stava facendo, più per disapprovazione che per sottolineare come fosse tutto fuorché "rimesso a nuovo".

Combeferre si avvicinò all'amico senza che questi gli dicesse nulla: si abbassò fino ad arrivare alle sue spalle e quando Courfeyrac ebbe lasciato Jehan, poggiando la sua testa con cura sulla propria gamba sana, 'Ferre gli sfilò con delicatezza il lungo soprabito e rimase a guardarlo, facendo giusto un passo indietro. Come sempre quello spettacolo lo lasciava senza fiato e sentiva dietro di sé gli occhi degli altri puntati allo stesso modo su Courf: dalla sua schiena, sopra un dolcevita scuro adattato al suo particolare proprietario, due lucenti ali bianche si allargarono con grazia in tutta la loro ampiezza, dissipando la nebbia intorno e lasciando che questa le circondasse sfumandone i contorni e rendendole ancora più lunghe e belle. Eteree.

Combeferre ed Enjolras ricordavano bene la sera in cui Courfeyrac aveva insistito perché sgattaiolassero fuori dalle rispettive case e raggiunta, correndo nel buio, una stradina isolata, aveva mostrato loro quello che gli stava succedendo: toltosi la maglietta, si era voltato, lasciando che i due ragazzini guardassero la sua schiena, dove due protuberanze segnavano la linea delle scapole ai lati della colonna vertebrale e su di esse delle piaghe rosse parevano sul punto di sanguinare. Courfeyrac piangeva senza singhiozzare - faceva male ed era impaurito, gli occhi lampeggiavano di terrore mentre guardava i suoi amici, in attesa di una loro reazione. 'Ferre non aveva detto nulla, ma lo aveva abbracciato facendo attenzione a non fargli male; Enjolras era rimasto a guardarlo,  avvicinandosi e con un sottile sorriso gli aveva asciugato una lacrima.

Courfeyrac portava stretto gelosamente nel cuore quel ricordo: in quella stradina era cominciato tutto, avevano scoperto che il mondo era grande, più di quanto credevano, e che esistevano così tante cose diverse e allo stesso modo stupende, tutte ugualmente bisognose di un sorriso dolce come quello di Enjolras o di un abbraccio caldo come quello di Combeferre.

«Fa’ attenzione quando sarai lassù», lo ammonì Joly, preoccupato.

«Non puoi dire ad un angelo di fare attenzione. Il cielo ci appartiene», rise Courfeyrac, riprendendo Jehan fra le braccia. Poi mosse le proprie ali come avrebbe fatto un qualsiasi uccello e in breve la ferita alla gamba non fu più un problema: si reggeva con grazia e possanza, finalmente libero, come ogni volta che toglieva il soprabito e faceva vibrare l’aria che aveva intorno. Si trasformava, era chiaramente visibile, e la scintilla che gli accendeva gli occhi sarebbe bastato agli Amis a giustificare l’intera lotta. Poteva esserci qualcosa di sbagliato in quello?

«Vale la regola delle 24 ore, Courfeyrac!», gridò Enjolras prima che questi fosse andato via. Lo sguardo che il ragazzo gli rivolse lo fece sorridere come la prima volta che gli aveva visto quelle ali – ora però non c’erano lacrime su quel viso, ma i lineamenti gli dicevano di non smettere di crederci, di non farsi abbattere.

«Dividiamoci e prendiamo strade diverse», disse allora il leader ai ragazzi che erano rimasti a terra – Combeferre non ebbe bisogno di chiedere, ma lo prese sotto braccio e lo aiutò a tenersi in piedi.

«Ci vediamo tra poco», sorrise Joly,  prima di sparire tra la nebbia, seguito da Bossuet e Bahorel.

 

Le fiamme illuminavano le mani forti del ragazzo davanti ad Eponine come un miracolo e allo stesso tempo con la stessa semplicità con cui avrebbero bruciato in un vecchio camino di mattoncini rossi. La ragazza non si stancava mai di vedere quelle lingue di fuoco circondare la pelle senza bruciarla, ma saltellando e giocando con essa come se fosse tutto un bellissimo scherzo.

Sorrise. In una simile situazione, nella più terribile paura, circondata da una strana nebbia, ad Eponine scappò un sorriso genuino, come quelli che sempre le allargavano le labbra se era in compagnia di Marius. Era stata lei a suggerirgli che forse, pur non essendo una nebbia naturale, il caldo l’avrebbe comunque dissipata e l’idea, anche se più lentamente del normale, si stava rivelando giusta: davanti alle mani di Marius cominciava ad apparire il profilo della casa verso la quale si erano miracolosamente indirizzati quando la situazione era precipitata.

«Dobbiamo cercare di tornare a casa», disse Marius in modo serio – Eponine si rese conto che non lo aveva mai visto tanto nervoso da quando lo aveva conosciuto: era sempre stato il classico ragazzo della porta accanto, sempre pronto a sorridere alle difficoltà della vita, mentre in quel momento la tensione era ben visibile sul suo volto.

«Andrà bene», sussurrò, prendendogli la mano, avvertendone il calore, nel freddo innaturale di quella mattina «Non riusciranno a farci del male». Sapeva che era una falsità, che se non avessero fatto in tempo, i soldati in bianco avrebbero potuto sparare contro di loro come avevano sparato sulla folla, ma per una volta voleva essere lei a rassicurarlo, per una volta voleva che lui la guardasse con la stessa ammirazione e lo stesso amore con cui di solito lo guardava lei.

«Hai ragione, faccio male a disperarmi».

Marius strinse la presa sulla mano di lei, regalandole un nuovo sorriso, e continuò a camminare, dissipando con accortezza la nebbia davanti a loro solo se strettamente necessario; stettero in silenzio mentre camminavano, attenti ad ogni minimo rumore che potesse indicare loro pericolo. E ne sentivano di rumori: voci, di tanto in tanto grida, alle volte lamenti – persone che in un modo o nell'altro erano rimaste coinvolte nella scarica di proiettili, che avevano paura, che scappavano o protestavano, si infuriavano. Lo sconcerto, lo choc per quello che era successo infuriava ovunque e Marius, trascinando con sé Eponine, cercava semplicemente di tenersene lontano – non di certo il più nobile dei comportamenti, ma aveva paura, semplicemente paura, e voleva portare se stesso e la ragazza al sicuro.

«Qui c'è qualcuno!».

«Fermi! Non un altro passo!».

Dissipata la nebbia, tanto Marius quanto Eponine potevano vedere due soldati, delle pistole quasi trasparenti nelle loro mani e gli occhi appena intuibili attraverso le visiere scure – non che avessero dubbi sulle loro facce, la minaccia delle armi bastava.

«'Ponine», sussurrò il ragazzo, sperando con tutto se stesso che l'altra capisse; ma lei era stata ancora più veloce e la voce di Marius non fu che l'approvazione di ciò che aveva in mente.

Un attimo prima i soldati del Centre avevano sotto tiro due possibili mutanti, quello dopo ce n'era uno solo – la ragazza era improvvisamente sparita nel nulla. Gli uomini si guardarono intorno in modo frenetico, spaventati, e caricarono le pistole pronti a mirare a ciò che potevano ancora vedere, abbatterne almeno uno – erano minacciati, autorizzati a farlo – quando qualcosa, nella fattispecie un  bastone di legno, colpì violentemente alla testa il soldato più alto, facendolo stramazzare al suono con un tonfo ed un breve lamento. Il secondo, ormai chiara l'inferiorità numerica ed il pericolo in cui si trovava, si distrasse quanto bastò a Marius per concentrarsi e surriscaldare l'arma, che bruciando dall'interno sembrò accartocciarsi e fece gridare di dolore il soldato.

Non ci volle che qualche altro istante prima che l'uomo decidesse di scappare. Marius abbracciò Eponine con uno slancio liberatorio e la ragazza arrossì in quella tenera stretta: si sentiva forte come non mai – accanto a lui avrebbe potuto abbattere l'intero governo.

Tornarono a muoversi, sempre con cautela ma con un certo ardore – parevano aver vinto un intera battaglia e si sentivano come tali, forgiati dalla paura e dal coraggio. Fu forse per questo che non potettero fare a meno di deviare dalla loro strada, sebbene mancasse ormai poco al palazzo nel quale abitavano, quando uno schianto fece tremare il terreno e l'aria intorno a loro. Marius pensò immediatamente che fosse una granata e scambiò uno sguardo veloce con Eponine prima di svoltare in direzione del forte boato, nella mano ancora le fiamme a dissipare lentamente la nebbia, finché non ce ne fu bisogno: il luogo dell'esplosione, con una grossa voragine tra i massi del terreno e in una bottega che si affacciava sulla destra, poteva mostrare i suoi spaventosi contorni con chiarezza disarmante, come un'angosciante oasi artificiale nel mezzo del deserto bianco.

Il ragazzo si fece lentamente avanti, i lineamenti contratti dalla distruzione e dai corpi che poteva vedere sotto le macerie – due, tre, quattro, smise di contare – finché qualcosa non lo paralizzò. Un uomo sulla cinquantina, i suoi stessi lineamenti tirati ma una disperazione più profonda sul suo volto, tirò su una ragazza che poteva aver superato da poco di diciassette o diciotto anni, pallida forse per chiarore naturale della pelle ma che sapeva di malsano in quel contesto, gli occhi socchiusi ed un espressione abbandonata. Sembrava stesse svenendo ed una sottile striscia di sangue le contornava la guancia sinistra scendendo fino al mento. Non un fiato attraversò quella scena, non un sospiro o una parola – l'uomo semplicemente s'incamminò con quel peso e quella ragazza: c'era qualcosa di eroico nei passi che conduceva.

Marius pensò che non avrebbe mai più dimenticato quel viso sottile ed etereo – una parte di lui avrebbe voluto seguire quella coppia, ma una strana soggezione gli impediva di muoversi, finché Eponine non gli prese la mano.

«Andiamo via, non c'è nient'altro che possiamo fare qui».

 

Combeferre aveva preso a muoversi con incertezza: la nebbia di Bahorel aveva permesso loro di sfuggire alle ronde di soldati che ormai affollavano piazza e strade, ma la fuga iniziale, confusa e veloce, aveva fatto sì che il ragazzo perdesse velocemente l'orientamento, immerso nel bianco sempre uguale che lo circondava.

Ed Enjolras aggiungeva ulteriore preoccupazione. Non poteva smettere di osservarlo mentre si trascinava con lui lungo diverse stradine isolate, e più camminava più si rendeva conto che qualcosa non andava, nella fattispecie il suo braccio, insanguinato per la ferita alla spalla che le bende improvvisate di Joly non riuscivano a tenere a bada. Il ragazzo era pallido, di tanto in tanto arrancava davanti a lui e Combeferre stava diventando nervoso.

«Fermiamoci per qualche istante, riprendiamo fiato», suggerì – non aveva intenzione di offenderlo, sapeva che Enjolras sarebbe andato avanti anche fino alla morte, ma davvero non gli pareva il caso di morire così, per dissanguamento o stenti.

Il ragazzo biondo lo guardò socchiudendo gli occhi – oh, avrebbe risposto qualcosa di serioso e offeso se solo non avesse sentito la testa tanto pensante e non stesse impiegando tutte le sue energie per tenersi sveglio ed in piedi; lesse preoccupazione nei suoi occhi e la cosa lo addolcì. Tentò di sorridergli.

«Abbiamo detto agli altri che avremmo rispettato le ventiquattro ore», poi prese brevemente fiato «Sarebbe una seccatura venir meno alla parola data».

Combeferre sorrise di rimando, in modo quasi automatico per il tono usato, e gli passò una mano intorno a fianco per aiutarlo. Era un testardo di natura, quindi assecondarlo era la sola cosa da fare – non che poi si trovasse in disaccordo con lui: aveva davvero pochissima voglia di perdere tutto le sue cose. E poi a Courf piaceva troppo il Cinema Musain.

Quando le cose avevano preso ad essere serie, gli Amis si erano messi alla ricerca di un luogo in cui riunirsi, che fosse spazioso e garantisse loro sicurezza: trovare nel vecchio Cinema Musain un intero seminterrato costruito per resistere ai bombardamenti dell’ultima guerra ondiale era stato un gran bel colpo di fortuna. Così avevano preso a vivere lì, con la regola fissa, però, che in caso qualcuno di loro non fosse tornato dopo ventiquattro e vi fosse pericolo di essere scoperti, avrebbero dovuto abbandonare tutto e trovare un altro luogo sicuro. Se non fossero tornati in tempo,  il semplice sospetto che il Centre li avesse catturati avrebbe fatto spostare tutti.

Riuscirono a proseguire solo di qualche passo prima che una scarica di mitraglietta spezzasse il silenzio della strada e i loro fiati. Combeferre si gettò sulla sinistra, appiattendosi contro il muro e trascinando con se Enjolras che per poco non cadde – il biondo provò a sentire i proiettili che ancora volavano, ma era stanco e per questo poco preciso: tutto risuonava, c'era così tanto metallo intorno a lui da fargli avere il capogiro. Combeferre si accorse di quello che stava facendo e con gesto deciso si espose coprendolo ed allungando le braccia davanti a sé: l'onda d'urto che partì dal suo corpo, canalizzandosi nelle mani, dovette avere pressoché l'effetto desiderato, nonostante l'avesse direzionato praticamente alla cieca, perché i colpi smisero all'istante e furono sostituiti da alcuni tonfi sul terreno.

Il ragazzo sospirò, barcollando appena – c'era ancora del lavoro da fare riguardo quanta energia dovesse mettere nei suoi campi di forza ed onde d'urto – ma si voltò sorridente verso Enjolras, che mascherò con quanta più velocità possibile la sua tensione e preoccupazione.

«Appena saremo al Musain mi rimetterò all'opera con il controllo dei pesi», lo rassicurò Combeferre: poteva facilmente immaginare che cosa stesse pensando l'altro, non gli era di certo sfuggito il suo cipiglio serio – tutto l'allenamento che aveva fatto per controllare il suo potere non era ancora sufficiente a far sì che potesse gestirlo senza problemi.

Avrebbe voluto dire altro, o magari semplicemente riprendere a camminare perché il pallore di Enjolras era sempre più evidente, ma sentì improvvisamente il respiro mozzarsi nei polmoni e l'aria mancare: quando capì che cosa poteva essere successo aveva già fatto un volo di alcune decine di metri, atterrando sul selciato con una spalla e rotolando svariate volte prima di fermarsi, evitando di sbattere la testa per miracolo. L'aria faticava ancora ad obbedirgli e permettergli di respirare, mentre ogni singolo muscolo si ribellava a quell'urto.

«Enjolras!», chiamò non appena fu in grado di parlare: non gli pareva fosse stato spinto via come lui, ma non aveva idea di dove fosse con ancora tutta la nebbia di Bahorel a bloccargli la vista di ciò che non apparteneva al suo corpo. Solo in quel momento si accorse che una lente dei suoi occhiali si era spaccata – ed era stato fortunato a non farsi male col vetro.

«'Ferre! Sei ferito?». Enjolras era rimasto accanto al muro dove s'erano fermati: aveva sentito la nuova onda d'urto come un treno in corsa e non aveva potuto fare altro che sussultare e cercare di capire da dove fosse venuta o cosa stesse succedendo. Aveva cercato di richiamare a sé ogni briciolo di forza che gli restava per provare a sentire il metallo ed improvvisare un mezzo di difesa o offesa, ma tutto quello che aveva ottenuto era stato il tremulo movimento di ciò che gli era più vicino.

«Mi lamenterò domattina, mentre Joly mi farà un elenco dei modi in cui questa cosa sarebbe potuta andare peggio», sentì dire «Resta dove sei, facendo la strada a ritroso dovrei raggiungerti senza problemi».

Ad Enjolras quella situazione stava cominciando a dare seriamente sui nervi - non era mai stata una persona che apprezzava l'inattività o il riposo, era raro che si ammalasse o che restasse a letto per pigrizia: dover dipendere fisicamente da qualcuno, anche se un amico, lo innervosiva e non riuscire a gestire il suo potere era ancora peggio. Tuttavia sapeva chiaramente che diventare emotivo non lo avrebbe aiutato.

Combeferre si mise in piedi con una certa difficoltà: più riacquistava consapevolezza di sé, più sentiva l'intero corpo dolergli: essere colpito da qualcosa di molto simile al suo potere faceva uno strano effetto – ora sapeva cosa si provava a stare dall'altro lato e non era affatto una bella sensazione. Si concesse qualche altro momento per essere sicuro della direzione da prendere e si incamminò, accorgendosi che la manipolazione atmosferica di Bahorel stava lentamente svanendo e i contorni dei palazzi più vicini cominciavano ad apparire. Cercò di non farsi mettere in allarme più del dovuto: con molta probabilità lui e gli altri erano riusciti a tornare più velocemente al Musain e Bahorel stava cercando di ridurre la nebbia con lentezza per consentire a chi ancora era per strada di ritirarsi. Non si diede tempo di pensare ad altre possibilità, ma chiamò di nuovo Enjolras per capire quanto fosse distante.

«Ci sono quasi», lo rassicurò non appena sentì la sua voce – poteva essere al massimo a tre o quattro metri di distanza.

«Ferre, è ancora qui!». Enjolras poteva sentirlo: chiunque li avesse attaccati era poco lontano da loro e il metallo che aveva addosso cominciava a risuonare nonostante il grande sforzo che stesse facendo per sentirlo.

Combeferre chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi: quando si trattata di sprigionare campi di forza per colpire qualcuno o qualcosa l'impeto andava bene, ma da poco aveva imparato che le onde che emanava potevano avere diversa consistenza e diventare sottili e permeabili; in questo modo otteneva più o meno lo stesso effetto delle onde soniche dei pipistrelli, riuscendo a rilevare qualunque cosa occupasse spazio entro un certo raggio. Percepì quasi subito Enjolras e lo riconobbe perché la sua consistenza era qualcosa di familiare per lui; dopo qualche istante un secondo corpo entrò nel suo raggio d'azione. Dritto, fermo ma più piccolo di quello che si sarebbe aspettato, probabilmente il corpo di una ragazza. Una ragazza che si preparava al contrattacco.

Sentì chiaramente il campo di forza lasciare il corpo di lei e percepì chiaramente l'orrore inondarlo quando capì che la traiettoria non mirava a lui ma ad Enjolras.

«Stai giù!», gridò all'amico e corse nella sua direzione proiettando un campo che potesse proteggere entrambi – l'urto fu più duro di quello che si aspettava, gli fece mancare di nuovo il fiato, come un colpo in pieno petto che lo lasciò in ginocchio accanto all'altro ragazzo.

«'Ferre!», si allarmò Enjolras, prendendolo per le spalle, guardandolo preoccupato, ma senza poter fare nulla. Non sapeva che cosa disprezzasse di più, se quell'improvviso attacco da parte di chi chiaramente era come loro, o la sua quasi impossibilità di agire per difendersi, che era sostanzialmente il motivo per cui anche Combeferre ora era ferito.

«Dobbiamo dividerci di nuovo», sussurrò l'altro – sapeva che era praticamente come dirgli di scappare: Enjolras non era stupido, avrebbe capito subito che stava facendo in modo di affrontare il pericolo da solo e metterlo al sicuro, ma davvero non vedeva altra soluzione. Era seriamente preoccupato per lui.

«Non ti lascio da solo contro un mutante, 'Ferre», fu la risposta secca del biondo, mentre provava a rialzare entrambi con uno sforzo che non fece altro che confermare le teorie dell'amico. La faccenda rischiava di andare a finire seriamente male.

«Non ti farai ammazzare in questo modo, Enj», fu la risposta secca del ragazzo «Lo vediamo entrambi che non riesci a stare in piedi ed il tuo potere è ingestibile».

Enjolras sapeva che Combeferre aveva ragione, ma l'idea di lasciarlo da solo lo faceva sentire ancora più male di quanto non facesse la spalla ferita. Non esisteva uno scenario in cui sarebbe corso via e lo avrebbe lasciato lì ad affrontare quel mutante, non importava le sue condizioni. Ma gli occhi di 'Ferre non gli davano scampo, lo inchiodavano alla realtà effettiva dei fatti con più violenza di una condanna. Dannazione.

«Ventiquattro ore, no? Ci rivediamo entro il tempo stabilito, promesso», sorrise Combeferre, stringendogli le spalle, con ancora quello sguardo deciso e sicuro di sé che non ammetteva repliche, neanche da lui. E, maledizione, Enjolras lo sapeva che avrebbe dovuto replicare qualcosa, che avrebbe potuto insistere e tentare ancora, mostrarsi più forte di quello che era, ma la verità era che 'Ferre lo conosceva troppo bene, che con lui non poteva mentire neanche riguardo le minime cose e quindi figurarsi su questo. Mentre l'altro lasciava la presa, lui si sentiva come sul punto di spezzarsi in due, una parte che restava e l'altra che faceva ciò che gli era stato detto.

Alla fine si mosse. Improvvisamente, senza dire nulla, facendo violenza a se stesso, solo con un nuovo sguardo che voleva significare tutto, accumulava parole che tra loro non erano più necessario fossero pronunciate. Si conoscevano semplicemente da troppo. “Vedi non farti ammazzare o giuro che vengo li è ti uccido personalmente”, avrebbe detto Courfeyrac e il suo sguardo diceva praticamente lo stesso.

Quando Combeferre rimase da solo, la nebbia artificiale era ormai solo un velo grigio che aleggiava tra le strade, lasciando passare qua e là la luce del Sole – pareva quasi arrivare da un ricordo, come se tutto fosse finito in un limbo onirico dal momento in cui i primi colpi di pistola erano esplosi. Sentiva la presenza della ragazza davanti a sé senza alcun bisogno di usare un campo di forza. La risata di lei rivelò la sua precisa posizione.

«Mi occuperò del tuo amico non appena avrò finito con te», disse sprezzante – la voce sottile cozzava con la decisione delle parole, col tono beffardo e sicuro di sé «Ma in effetti è da te che volevo cominciare. Campi di forza...».

Combeferre le sentì prendere un respiro profondo e poi un nuovo campo gli si riversò contro, sfiorandolo appena mentre si gettava alla propria destra per evitarlo. Il braccio ora gli dava ufficialmente delle fitte, ma cercò di non pensarci ed individuare di nuovo la posizione della sua avversaria, per poi lanciare a sua volta un attacco.

“Presa!”, pensò, cercando di dimenticare che era un mutante come lei e che forse non aveva neanche la sua età. Era il primo a pensare che quella guerra civile fosse la cosa peggiore che potesse accadere loro, ma si trattava della sua vita in quel momento e fermarla era qualcosa che poteva decisamente permettersi  per riuscire a tornare dai suoi amici.

«Lento!», gridò la ragazza, prima di arrivargli praticamente addosso ed atterrarlo con un cazzotto.

Combeferre non era certo di dove fosse arrivata: sapeva di averla colpita ma era come se lei avesse semplicemente ignorato la cosa, quasi non fosse importante o non fosse il proprio corpo quello ferito, pur di poter attaccare nuovamente. C'era un livello di spregiudicatezza nei suoi movimenti che il ragazzo stentava a capire. Quando cominciarono un corpo a corpo serrato, si accorse che il suo fianco sanguinava – fu in quell'istante che invece lei riuscì a puntargli un coltello alla gola.

«Fine dei giochi. Credevo fossi più divertente», sussurrò con un sorriso malato.

 

Enjolras si sentiva stanco come mai prima d'ora. L'adrenalina avrebbe dovuto tenerlo sveglio e farlo muovere fino a che non fosse stato al sicuro, ma la ferita al braccio lo stava prosciugando e non era certo di avere abbastanza forze per proseguire. Si fermò, quasi accasciandosi contro il muro di una casa e cercò di riprendere fiato – la testa aveva cominciato a girargli e il suo potere era debole ma incontrollabile: il metallo risuonava senza ordine nella sua testa, lo schiacciava ed Enjolras non poteva fare a meno di sentirsi improvvisamente disorientato, come le prime volte da ragazzino, quando ancora non sapeva come muoversi.

“Andrà bene. Entra. Andrà bene, Enjolras”.

Il ragazzo sussultò. In tutto quel marasma di sensazioni stordite una parte di lui era certa di aver sentito una voce – e no, non poteva essere “la sua coscienza”; l'altra semplicemente gli suggeriva che la mancanza di sangue aveva cominciato a fare brutti scherzi e che doveva muoversi se non voleva finire svenuto da qualche parte. Eppure, non riusciva a togliersi da dosso la sensazione che sarebbe dovuto entrare, che fosse meglio così, che sarebbe stato davvero al sicuro.

Fece qualche passo avanti, raggiunse la porta di quella che per via della nebbia sempre meno fitta si accorse essere in realtà una vecchia osteria e senza la forza di chiedersi quando intorno a lui le cose avessero cominciato a ritrovare i loro contorni, entrò dentro: peggio di così potevano esserci davvero poche cose, si arrese a pensare. All'interno, la luce faticava ad entrare dal momento che metà delle finestre erano chiuse, forse sprangate; per il resto, semplicemente Enjolras era troppo stanco – l'ultima cosa che vide fu qualcuno avvicinarsi, forse chiamarlo. Poi fu buio.

«Cerca di non agitarti, hai appena recuperato le forte».

Quando si riprese, Enjolras cominciò a muoversi in modo scoordinato, cercando di tenere gli occhi aperti e non perdere nuovamente conoscenza, ma senza riuscire a capire dove fosse o a chi appartenesse quella voce. La testa gli girava ancora abbastanza da fargli venire mal di stomaco, per non parlare della spalla che aveva davvero deciso di ucciderlo.

«Avevo cominciato a pensare che non volessi più svegliarti!». Stavolta la voce era più vicina e il ragazzo riuscì a capire da dove venisse: una testa riccioluta era appena entrata nel suo campo visivo, con un sorriso sincero sulle labbra ed il viso un po' pallido anche nella penombra di quel posto.

«Tu! Sei stato tu...». Enjolras aveva provato a mettersi seduto – perché, s'era accorto, era sdraiato sul pavimento freddo – ma il suo corpo aveva immediatamente protestato, facendolo stendere di nuovo con una smorfia di puro dolore «Sei stato tu a dirmi di entrare...», sussurrò, con gli occhi serrati ma l'espressione seria.

Lo sconosciuto rise appena, alzando le mani.

«Ascolta, tu sei entrato e sei collassato sul pavimento. Se il tuo sesto senso ti ha detto di entrare qui, buon per te: quantomeno ho potuto disinfettare quella ferita con dell'alcool», spiegò con una scrollata di spalle «Mi hai fatto preoccupare quando non hai battuto ciglio, ma l'importante è che tu ti sia svegliato adesso».

Enjolras lo osservava e pareva non capire: era davvero stato il suo istinto, o buonsenso, a dirgli di fermarsi lì? Quella voce... ne ricordava appena la sensazione ma era lontana come un sogno e più cercava di raggiungerla, afferrarla, più sembrava sfuggirli, sgusciare via sinuosa e rapida, sempre più lontano, dove non poteva raggiungerla, dove faceva male.

Tentò nuovamente di sollevarsi, con più cautela e lentezza, calcolando ad ogni movimento quale poteva permettersi come successivo, finché non fu seduto. Allora notò la nuova fasciatura, più grossa, che gli copriva tutta la spalla ed una cosa ancora più preoccupante: il sole stava tramontando.

«Dannazione», imprecò a denti stretti: doveva alzarsi, uscire da lì, tornare dagli altri; aveva perso già troppo tempo.  «Devo andarmene da qui», e fece per mettersi in piedi – o almeno provarci.

«Hey, hey, che fretta c'è, sta' fermo!», lo ammonì lo sconosciuto, facendo attenzione che non perdesse l'equilibrio o gli svenisse davanti «Puoi restare qui tutto il tempo che vuoi, questo posto è praticamente chiuso. Io vivo di sopra».

Enjolras perse giusto qualche secondo a notare che quel posto non era affatto l'ideale per vivere – buio, pieno di polvere e con una puzza di muffa da dare fastidio, si chiese per quale motivo quel ragazzo avesse deciso di stare proprio lì.

«Devo tornare a casa», dopotutto non era poi una menzogna «Mi staranno aspettando e non posso fare tardi, si staranno preoccupando».

Il ragazzo bruno si incupì appena a quelle parole. Il mutante si chiese se avesse detto qualcosa di sbagliato – o semplicemente se avesse parlato troppo. Voleva andare via, eppure qualcosa in quello sconosciuto lo incuriosiva.

«È per via della manifestazione, vero? È lì che ti hanno sparato», sussurrò quello senza staccare gli occhi da Enjolras. «È stato un disastro, non pensavo che-».

«C'eri anche tu? Sei un mutante?». Ecco cos'era? Era anche lui un mutante? Per questo ad Enjolras pareva di averlo già visto da qualche parte? Il ragazzo spalancò gli occhi, sussultando. Sembrò nel panico per qualche istante prima di rispondere.

«No, certo che no! Io- c'era tanta confusione, gente che scappava, gridava... c'erano dei feriti. Allora ho capito che la manifestazione non doveva essere andata bene».

«E sei rimasto qui a bere?». Con tutte le domande che si stavano rivolgendo, Enjolras non aveva potuto fare a meno di sentire l'odore di alcool che veniva da quel ragazzo – e certo, aveva detto di averlo usato per disinfettare la sua ferita, ma non era solo questo, lo sapeva. Lo sconosciuto lo guardò, poi di tutte le opzioni tra cui poteva scegliere decise di sorridere: non era un sorriso di chi compatisce la stoltezza o l'ignoranza altrui, né di qualcuno che voleva farsi beffe del prossimo. Era un semplice sorriso, dolce a tratti, strano per qualcuno che si incontrava la prima volta, forse appena un po' triste.

«Ovunque tu debba tornare, non puoi andare da solo o rischierai di accasciarti da qualche parte», disse, cambiando argomento «Lascia che ti aiuti, che ti accompagni».

C'era una gentilezza nella sua voce che Enjolras stentava a comprendere – certamente lui non avrebbe lasciato andare via nessuno da solo nelle sue stesse condizioni, eppure gli sembrava troppo da quello sconosciuto e l'istinto gli suggeriva che ci fosse dell'altro sotto.

«Lo so, tu sei un mutante ed io salto fuori dal nulla e ti offro aiuto... non suona tanto bene. Ma posso fermarmi anche prima e non vedere dove entrerai. Voglio solo accertarmi che tutto quell'alcool non sia stato sprecato, capisci?», rise.

Ed Enjolras si fidò. Al di là di qualunque istinto protettivo e buonsenso, si fidò di quello sconosciuto che si trascinava fuori dall'osteria forse ancora un po' sbronzo nonostante stesse appena facendo notte.

 

Se c'era una cosa che Courfeyrac aveva imparato da quando gli Amis si erano ufficialmente riuniti al Musain era non sottovalutare il potere di nessuno. E più di tutti, non sottovalutare il potere di Jehan. Quel ragazzo sempre con la testa fra le nuvole, la mente che rincorreva chissà quale pensiero, aveva una forza che chi non lo conosceva stentava ad immaginare ed il suo potere era un valore aggiunto ad essa, che la alimentava rendendolo eccezionale.

Forse proprio in beneficio di quella sua personale forza il suo potere era tanto grande e solitamente tutti – e Courfeyrac anche più degli altri – lo incoraggiavano a non trattenersi, a non avere paura ma usarlo, conviverci, imparare come gestirlo. In momenti come quello, tuttavia, le cose si facevano difficili. Da quando si era ripreso, Jehan era furioso. Furioso con se stesso, furioso con i soldati del Centre e preoccupato perché Combeferre ed Enjolras non erano ancora tornati e addolorato perché aveva sentito lo spavento e la paura di tutti quelli che, in piazza, non si sarebbero mai aspettati che la manifestazione potesse prendere una simile piega. In preda a tutte quelle emozioni gridava e si disperava, quasi senza controllo e riversava tutto ciò che sentiva sugli altri, nonostante si fosse chiuso nella sua stanza.

Joly cercava di distrarsi, disinfettava qualche strumento, sistemava la propria borsa portando tutta la sua attenzione sui gesti che faceva, ma gli tremavano le mani ed involontariamente faceva profondi respiri ogni volta che un'emozione di Prouvaire diventava più forte. A Bahorel prudevano le mani – ad onor del vero parte di quell'istinto era suo – e prendere a pugni il sacco di sabbia che aveva appeso in camera era parsa una buona idea finché, tanto in sintonia con le emozioni del poeta, non aveva cominciato a perdere il controllo e a colpire anche le pareti che dividevano gli ambienti del seminterrato. Bossuet se ne stava rannicchiato in un angolo: il suo naturale buonumore era stato dissipato da una malinconia artificiale che gli toglieva voglia di qualsiasi cosa; Courfeyrac infine camminava su e giù per il corridoio davanti la porta di Jehan incurante del dolore alla gamba e delle raccomandazioni di Joly, troppo preoccupato per badarci davvero.

Alla fine si decise ad entrare nonostante lo sguardo di disapprovazione di Joly e trovò il ragazzo rannicchiato su se stesso in un angolo della stanza, per terra. Sì, c'era tantissima forza in Jehan ed era il motivo per cui riusciva a convivere con un potere tanto grande senza farsi risucchiare del tutto da esso. Ma era anche il motivo per cui, di tanto in tanto, si abbatteva e si chiudeva in se stesso, senza parlare anche per giorni – quei tempi non aiutavano, la tensione a Parigi, in tutto lo Stato, era forte e Prouvaire poteva sentirla tutta. Alle volte aveva detto di essere sollevato: se fosse nato in tempo di guerra sarebbe sicuramente impazzito – e tuttavia... che cos'erano quei tempi se non l'annuncio di una nuova guerra?

«Jehan?», lo chiamò, avvicinandosi lentamente – sentiva una confusione di emozioni nel petto e sapeva che provenivano da lui, come sapeva che lo aveva sentito, nonostante non si fosse mosso. Gli si sedette accanto, senza sfiorarlo perché aveva imparato che in quel momento anche un semplice contatto avrebbe potuto destabilizzarlo, ma abbastanza vicino da fargli sentire la sua presenza ed il suo calore. Lo sentì sospirare con voce tremula – chiuso a riccio com'era gli faceva tenerezza e un po' di tristezza, ma provare a consolarlo sarebbe stato peggio: che avrebbe potuto dirgli poi? Che sarebbe andato tutto bene? Che Enjolras e Combeferre sarebbero tornati presto e che la situazione si sarebbe risolta per il meglio? Come poteva garantirglielo? Come poteva parlare senza risultare falso dal momento che neanche lui riusciva a crederci del tutto? Sperava: la speranza era la sola cosa che avevano, ormai...

«Forse la speranza ci basta».

Courfeyrac sentì il caos di emozioni che aleggiava su di loro distendersi lentamente, mentre Prouvaire alzava la testa e si voltava verso di lui. Era un po' pallido, ancora provato dalla folla della piazza e gli occhi erano arrossati per il pianto di collera, ma era serio nei lineamenti, serio e bello come un bocciolo bagnato dopo la pioggia.

«Con la speranza possiamo ancora farcela», sussurrò di nuovo, prima di appoggiarsi con la testa alla spalla dell'amico. Si stava calmando, il peggio era passato, la razionalità stava tornando a galla per riportare ordine tra le emozioni, per dare la forza al ragazzo di tornare al comando.

«Com'è la speranza?», chiese Courf senza lasciarlo andare.

«Cambia spesso colore», si trovò a pensare il poeta «E' come rendere una sinfonia in colori. Ci sono gli alti e i bassi, il ritmo aumenta e poi decelera, quasi muore, poi si riprendere con uno scoppio di violini ed incalza, sempre più veloce, sempre più serrante fino al culmine. La speranza è così. Accumula colori come la sinfonia inserisce man mano gli strumenti dell'orchestra ed assume sfumature tenui quando osa appena farsi scorgere nei petti più impavidi per poi brillare sempre più man mano che si diffonde. Quando tutto questo sarà finito, quando potremo ancora sperare davvero, penso che vedrò lo spettacolo più bello di sempre. I fuochi d'artificio saranno un banale trucco da quattro soldi a confronto».

Courfeyrac rise: il potere di Jehan era a tratti terribilmente singolare, ma la poesia che usava per descriverlo riusciva a renderlo vivido e presente quasi appartenesse a tutti.

«Credevo che quello fosse l'amore», disse.

«E' più un cliché che altro», alzò le spalle Jehan, ridendo all'espressione sconcertata dell'amico, poi tornò serio «L'amore assume tutte le sfumature del fuoco, dal giallo al rosso intenso. Ma varia a seconda dell'intensità».

«Non del tipo?».

«L'amore è amore. Non varia a seconda di chi sia il destinatario», sorrise il poeta.

E poi finì. Courfeyrac sentì come se tutta l'allegria, la spensieratezza che aveva costruito con Jehan in quei minuti fosse stata improvvisamente risucchiata via: entrò improvvisamente in tensione, mentre l'ansia si impossessava di lui e si voltò verso l'altro giusto in tempo per scorgere il volto tirato di Jehan che osservava un punto imprecisato della stanza.

«Combeferre», sussurrò questi, prima di scattare in piedi e correre fuori.

Al seminterrato adibito a rifugio durante la Seconda Guerra mondiale si accedeva attraverso una porta in fondo alla grossa sala del Cinema Musain – chi entrava, raramente la notava, preso com'era dalla grande stanza, adibita con poltrone e in fondo un palco che precedeva il tendone bianco, così che al cinema si alternasse il più vecchio teatro. La sua chiusura per problemi strutturali aveva causato rammarico nella popolazione di tutto il quartiere – e di tanto in tanto Bossuet sosteneva che averlo lì con loro avrebbe causato l'effettivo crollo di tutta la struttura.

Jehan salì di corsa la scala che lo portava alla sala del cinema: sentiva distintamente Combeferre, aveva imparato a conoscerlo e lo distingueva senza che questi dovesse provare una qualche precisa emozione; tuttavia in quel momento percepiva dolore, confusione e stanchezza mischiate a tal punto da farlo barcollare – non stava affatto bene.

Courfeyrac, dietro di lui, lo aveva seguito senza farsi alcuna domanda – il nome dell'amico era bastato – mettendo in allarme gli altri, che avevano visto scattare fuori prima l'uno e poi l'altro e capito che stava succedendo qualcosa.

«'Ferre!», gridò, quando fu fuori insieme a Prouvaire.

Il ragazzo davanti a loro barcollava, i vestiti malconci, probabilmente un colpo alla testa a giudicare dal sangue che scorreva lungo il viso e chissà che altro. I due gli corsero incontro mentre questi faceva ancora qualche passo, prima di crollare senza più forze fra le loro braccia.

«Enjolras-», fu la sola cosa che sussurrò prima di perdere completamente i sensi e Courfeyrac si rese conto con orrore che Combeferre era tornato da solo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_______________

Here I am again!

Ebbene sì, anche questo capitolo è fatto! Con un po’ di cliffhanger, ma temo sia una cosa a cui vi abituerete presto, è un mio guilty pleasure. Non hanno fatto molti passi avanti, ma sono riuscita ad introdurre quasi tutti i protagonisti della storia (la vecchia generazione – concedetemi il modo di dire – ci metterà un po’ ad entrare in scena, ma come si dice? Chi va piano, va sano e va lontano. O almeno spero).

Spero che i diversi poteri mostrati siano abbastanza chiari. Quelli che ancora non sono stati specificati, arriveranno presto!

Detto ciò mi eclisso, non prima di aver ringraziato chi ha recensito la storia o chi ha dedicato un po’ del suo tempo ad essa *fa inchino*.

A presto~

 

Alch.

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > I Miserabili / Vai alla pagina dell'autore: Alchimista