S i a m o d o l c i e s i a m o s a l a t i ;
Tra le braccia del diavolo, un ritratto di te a sedici anni.
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Era un’astuta ingannatrice, un sensuale scampolo di velluto di colore rosso scuro; era anche bella, così bella che forse – in realtà – nemmeno si accorgeva della sua negligenza alla vita. Era una bugia in sé, Mahiru. Un’agghiacciante menzogna di un dio annoiato che un giorno afoso aveva deciso di forgiare una falsa esistenza, un ritaglio paradisiaco che pendeva dal cielo senza fili resistenti. Rideva, si arrabbiava, piangeva: i suoi movimenti burattinai parevano veri, ma dato il suo essere uno scherzo di mani annoiate, si spezzò presto. E Krul la guardò.
Non era amore, il suo, verso Mahiru, era un sentimento corvino dipinto di stelle. Quando seduta sul trono, tediata e prevalsa dal silenzio attorno, Krul rifletteva. Elucubrava sull’oscuro abbaglio di una ragazza strana, sullo sguardo che fuorviava. L’aveva separata una tarda nottata, in quella stessa stanza fortificata, scomponendo la sua entità tangibile, bella, specialmente bella. Le si avvicinò da dietro, avvolgendo l’uniforme scolastica impregnata di peccato, spostandole i fili di lavanda dal viso e osservandone il profilo: le ciglia calate incorniciavano gli occhi di platino, vezzeggiando l’area superiore degli zigomi rosacei; le pupille placide intente a scrutare flemmaticamente le labbra di Krul approcciare il collo caldo e il dolce profumo. Krul rimase per poco ad ammirare il corpo flessuoso e a immaginare le parole che mai avrebbe detto; il suo odore irreale, le sue idee, la sua bellezza, tutto sarebbe esploso lì, quietamente, e Mahiru sarebbe morta per lei. Immerse i canini lucidi nella carne amara, stringendole il ventre e udendo il respiro celere mozzato. Mahiru, però, era stravagante, diversa (bella). La linea retta della sua bocca s’incurvò all’insù, celando gli occhi dorati con le palpebre e gettando il capo all’indietro, proiettandosi nel morso di Krul e lisciando per un momento una sua ciocca fiorata, rigirandosela tra le dita e poi lasciandola in un movimento bonario, occultando solo per un attimo la colpa che la qualificava con la limpidezza e la nostalgia. Krul alzò le iridi cremisi su di lei, sussultando e successivamente riempiendosi il cuore con il torpore nero di ciò che – sicuramente – mai sarebbe potuto essere paragonato all’amore. Lei, la regina, le stava rubando tutto in un bacio letale, attuando la separazione finale della sua esistenza con il paradiso, finalmente scortandola all’inferno. Chi veniva smembrato dalla propria innocenza, chi presto avrebbe accolto il diavolo come equivalenza retorica, ordinariamente mostrava frammenti di sguardi feroci zampillati da un dissennato furore; chi veniva ucciso rilasciava la freddezza disumana di non avere fatto abbastanza. Nell’affondare il veleno nel sangue avrebbe almeno dovuto concederle la decenza di un urlo improvviso, del terrore alla visione futura delle sue iridi placcate spente. Ma Mahiru, invece, le mostrò un sorriso.
La separazione dell’angelo dal paradiso, felicemente spinto all’oltretomba, stuzzicava ancora la vanità di Krul: Mahiru era stata il suo unico sbaglio. Fuggendo dall’abbraccio tossico della regina, abbandonandola al suo regno malfatto, Mahiru l’aveva ringraziata in un sospiro nero, carezzandola o forse baciandola, cosicché Krul l’aveva segretamente perdonata, frugando negli occhi l’oro e scovandolo nelle pagliuzze vermiglie di un demone.