Padre, per esser io
professor d'armi son visso secondo il custume soldatesco, come anco sarei vivuto
da religioso se io avessi vestito l'abito che vestite voi; e se non che non è
lecito, mi confessarei in presenza di ciascuno, perchè non feci mai cose indegne di me.
(Attribuito a Giovanni dalle Bande Nere, tratto da una lettera di Pietro Aretino)
Sequenza 2 –
Capitolo 2
L’Età degli
Eroi
7 Agosto 1526, Roma, Quartier Generale
Giovanni aprì la porta e si allontanò
dall’edificio. Salutò con la mano i quattro ragazzi, poi si incamminò verso il
Ponte Fabricio. Cosimo corse verso di lui, e
iniziarono a parlare, poi il Capitano se ne andò e Cosimo tornò dagli altri.
“Sta partendo,” spiegò a Flavia,
Alessio e Roberto. “Torna a vincere la guerra.”
“Aspetta, che?” chiese Roberto. “Va
via senza Marcello?”
“Seriamente, Roberto, e ti stupisci
se ti chiamano ancora Bertino,” Flavia gli ribatté. “Neanche Cosimo si è
chiesto perché. La guerra non è un gioco da bambini.”
“Se non ci giochiamo noi,” precisò il
settenne.
“Non ci creeedo,
il topastro dice cose con un senso,” Alessio fece un
sorrisetto a Cosimo.
“Ehi!” il bambino si fece sfuggire un
grido di protesta.
“Vado da Marcello,” Flavia annunciò
andando verso l’ingresso del Quartier Generale. Non poteva evitare di essere
preoccupata, suo fratello aveva passato un anno nell’esercito, e ora che il suo
maestro se ne stava andando, a Marcello sarebbe sicuramente mancato parecchio.
Sarebbe stato molto difficile per lui. Flavia trovò Marcello seduto su una
panchina, con il broncio e lo sguardo fisso sui suoi piedi. Le tornò subito in
mente il giorno in cui avevano incontrato Giovanni, e Marcello era rimasto con
la schiena contro al muro, come se non avesse voluto fare altro che sparire.
“Ehi,” disse, avvicinandosi al
fratellino. Marcello alzò lo sguardo per un momento, poi abbassò di nuovo la
testa e fece una specie di verso depresso con la gola.
“Lo sai che non può riportarti sul
fronte, vero?” Flavia mise un braccio attorno alle spalle di suo fratello.
“Lo so sì,” mugugnò Marcello. “Ma non
vuol dire che mi piaccia.”
“… Marcello!”
Aspetta! Non volevo dire che voglio
combattere,” l’undicenne-quasi-dodicenne alzò le mani per parare il colpo. “So
come vanno le cose lassù. E non sai quante delle reclute più giovani ho visto
nella tenda del cerusico… volevo solo dire che… non voglio stare qui da solo…
accidenti, non è neanche quello! Lo so che non sono solo, non ti preoccupare. È
che… Giovanni già mi manca. Sarebbe lo stesso per te se fosse stato Francesco
ad andarsene.”
Flavia stava per ribattere qualcosa,
ma una parte di lei sapeva che era vero – Marcello non era contrariato perché
voleva prender parte a quella guerra. Era triste perché il suo maestro gli
mancava.
“Andiamo,” Flavia forzò un sorriso e
strofinò la schiena di suo fratello. “Ti ricordi quella storia che ci aveva
raccontato Mamma su Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda?”
“Re Artù andò ad Avalon
e promise che un giorno sarebbe tornato,” Marcello ricordò, accennò a un
sorriso, poi sbuffò. “Ma è solo una
storia! Voglio dire… maghi, streghe, profezie… non è così che va il mondo.
E Giovanni non è Re Artù. Voglio
dire, sarà anche un eroe di guerra, ma… gli eroi veri non sono come nelle
storie.”
“Lo so,” Flavia gli strinse
affettuosamente un braccio. “Siamo nella Fratellanza, non alla Tavola Rotonda.
E, come dice Zio Niccolò, il fine giustifica i mezzi.”
“Non l’ha mai detto,” Marcello fece
un sorrisetto e si mise in piedi.
“Non con queste parole,” Flavia si
alzò a sua volta. “Andiamo. Tra un po’ si cena.”
Non ero altro che una ragazzina un po’ scema quando incontrai Giovanni.
Pensavo che gli eroi ‘veri’, come gli Assassini e i condottieri, fossero eroi
come… come Ulisse, Enea, Re Artù… come gli eroi delle storie. Pensavo che anche
Papà fosse stato un eroe. Ma quando Giovanni lasciò Marcello a Roma, sapevo che
la verità era ben altra. L’età degli eroi era finita… l’infanzia era finita,
nonostante fossimo ancora bambini.
7 Settembre 1526, Roma, casa di proprietà della
famiglia Auditore
“Siamo a casa!” Flavia girò la chiave
e spinse in avanti la porta. Era stanca morta… ma probabilmente Marcello era
ridotto male quanto lei.
Ora che Giovanni non si occupava più
di Marcello, e il maestro di Alessio, Benvenuto, era occupato con il suo ruolo
di osservatore per conto della Fratellanza alla corte papale, Francesco aveva
iniziato a fare lezioni a tutti e tre, insieme, facendo fare loro duelli di
allenamento se Roberto Aldobrandi si univa a loro, o
dando loro esercizi da fare se restavano numero dispari. Quel giorno, Francesco
aveva preparato una pista ad ostacoli nelle Terme di Traiano, marcando un
percorso relativamente facile e sicuro con gesso e carbone, e aveva detto a
Flavia, Marcello ed Alessio di esercitarsi a correre.
Era stato divertente, anche se stancante,
e Alessio era stato sgridato quando si era allontanato dal percorso segnato per
cercare una sfida più difficile. Dopo che l’esercizio era finito, Francesco lo
aveva preso da parte e gli aveva detto che doveva ascoltare quel che gli veniva
detto, se non voleva finire con una gamba rotta o peggio. A quel punto, Alessio
aveva fissato il terreno e si era comportato come un cane bastonato. Non
prendeva molto bene le ramanzine. Dopo l’addestramento, era tornato a casa sua,
il laboratorio e gli alloggi soprastanti che Benvenuto aveva in Via dei Banchi,
a testa bassa e trascinando i piedi.
“Ciao,” Mamma li accolse dalla stanza
che usavano sia come cucina che per pranzare. “Allora, com’è stata la vostra
giornata?”
“Spettacolare,” Marcello commentò con
entusiasmo crollando su una sedia. “Voglio dire, l’addestramento con Giovanni
era una cosa. Ma in gruppo… è mille volte meglio. E correre tra le rovine…
voglio dire, con l’esercito mi dovevo accontentare di campi e colline. E andare
su e giù per i muri, e i pezzi delle colonne, e cascare con una capriola e
tutto se Francesco ci dice di farlo…”
“Beh, certo che per te è una novità,”
Flavia si sedette al suo posto e sogghignò. “Giovanni ha saputo solo
addestrarti a combattere!”
“Ha potuto solo addestrarmi a
combattere perché vorrei vedere te ad arrampicarti sulle tende,” Marcello
ribatté.
“Sì, gran bella scusa, fratellino!”
Flavia solleticò Marcello con un dito. Marcello restituì il colpo. Presto si
ritrovarono a rotolare sul pavimento, cercando di farsi il solletico a vicenda.
“Non avevate finito per oggi?” Mamma
si avvicinò a loro, sorrise e scosse la testa.
“Non è addestramento, gli sto solo
dando una bella lezione,” Flavia si mise su a sedere. Marcello approfittò della
sua distrazione per placcarla di nuovo a terra.
“Arrenditi!” gridò.
“No!”
“Arrenditi!”
“No!”
Mamma si lasciò sfuggire una risata e
finse di tirare su Marcello per il cappuccio. “Va bene, adesso basta giocare e
rimbocchiamoci le maniche. Ho bisogno che uno di voi due vada a prendere
l’acqua e che l’altro accenda il fuoco.”
“Ma…” Marcello si mise in piedi e
protestò.
“Niente ma, giovanotto, è come
nell’esercito. Tutti devono aiutare,” ribatté Mamma. “Decidete voi chi fa
cosa.”
Flavia si mise in piedi e si scosse
la polvere dai vestiti. E adesso? Nel
mese che aveva passato a casa, Marcello aveva mostrato di apprezzare le gite
alla fontana esattamente quanto lei: le
detestava. Qualcuno doveva farlo, ma nessuno dei due voleva.
Flavia pensò in fretta e prese un
pugno di paglia dal mucchietto che tenevano per accendere il fuoco, poi lo mise
nelle mani di Mamma.
“Chi trova quella più corta va alla
fontana,” disse a Marcello. Suo fratello sbuffò, ma allungò la mano e prese un
fuscello. Flavia fece lo stesso. Quello più lungo era in mano sua.
Marcello sbuffò di nuovo ed emise un
suono di stizza, poi prese i secchi e uscì. Flavia sogghignò, anche se sapeva
che quella vittoria non sarebbe durata a lungo: per il bene dell’uguaglianza,
la volta successiva sarebbe toccato a lei.
“Allora,” Mamma iniziò mentre puliva
un pesce, “altro che vuoi raccontare della tua giornata?”
“Beh…” Flavia raccolse altri fili di
paglia, poi trovò esca e acciarino e iniziò a batterli tra loro. “Siamo andati
alle rovine. Francesco ha tracciato una pista e ci ha fatto correre. Non era
niente di troppo pericoloso, anche se Alessio ha provato a salire su delle
colonne. Francesco gli ha detto di scendere e dopo che abbiamo finito, gli ha
detto che si sarebbe potuto fare male sul serio. Oh, e Francesco aveva portato
un po’ di pane e formaggio, quindi quando è suonato mezzogiorno ci siamo messi
in un angolo all’ombra e abbiamo mangiato lì. Poi ci ha lasciati giocare un
po’, poi siamo tornati al Quartier Generale e ci ha fatto fare degli esercizi
con la balestra. O perlomeno ci ha provato, prima che gli arrivasse una
lettera.”
Era riuscita a dar fuoco alla paglia.
La spinse rapidamente nel camino, poi aggiunse il legno e iniziò ad attizzare
il fuoco. Era riuscita ad ottenere una fiamma discreta quando Flavia sentì dei
colpi alla porta. Non lo si poteva definire bussare, ma era sicuramente
Marcello.
“Vado io,” Flavia si mise in piedi e
andò verso la porta. Marcello era sulla soglia con i secchi pieni nelle mani. A
giudicare dalla posizione del suo piede sinistro, aveva bussato prendendo la
porta a calci.
“La prossima volta ci vai tu,”
sibilò, poi mise i secchi su un bancone e si sedette alla sua sedia.
“Marcello, per favore, puoi
apparecchiare?” Mamma gli chiese mentre finiva di pulire uno dei pesci ed
iniziava con il secondo.
“Va bene,” l’undicenne si mise di
nuovo in piedi e aprì uno degli armadi.
“Allora, Flavia, stavi dicendo che
Francesco ha ricevuto una lettera,” Mamma parlò di nuovo. “Vi ha detto cosa è
successo?”
“Sì, era un semplice scambio di
notizie, e lo sai che Francesco vuole sempre che sappiamo tutto quel che
succede nel mondo,” disse Marcello poggiando i piatti a tavola. “Era da un
certo Dogan… non so come faccia Francesco a
conoscerlo, ma dice che il Sultano Solimano ha conquistato la città di Mohacs, in Ungheria, e il re ungherese è stato ucciso in
battaglia. A onor del vero, secondo la lettera, anche
il Sultano ha rischiato la vita. Gli hanno sparato più volte, ma la sua
armatura ha fermato le pallottole,” il ragazzino continuò mentre cercava i
bicchieri. “L’ho visto succedere, sai? A Giovanni. Una volta tornò in tenda e
aveva un pallettone sulla corazza,” Marcello si mise in piedi, poggiò il
bicchiere che aveva in mano su un bancone, e colpì il palmo della mano con il
pugno per rafforzare il concetto. “Bam! Spiaccicata
come una moneta!”
Mamma alzò lo sguardo dal pesce che
stava pulendo e si fermò per un momento. Aveva un’aria abbastanza preoccupata,
ma non sembrava troppo sorpresa. Probabilmente aveva già visto proiettili sulle
armature, se aveva condiviso qualche avventura con Papà.
“Non tutte le armature riescono a
fermare le pallottole,” commentò in tono preoccupato. “Hanno entrambi avuto
molta fortuna.”
Flavia continuò ad attizzare il
fuoco. Forse era per quella ragione che Giovanni aveva lasciato Marcello
indietro. Quella pallottola probabilmente era stata ad un passo dall’ucciderlo.
Forse era stato quello a fargli
paura. O forse altro.
“Conoscevo il Sultano, sapete?” disse
Mamma mettendo il pesce in una padella e avvicinandosi al fuoco. “Aveva
diciassette anni ed era ancora un principe quando lasciammo Costantinopoli, e
lui e vostro padre avevano cercato di stroncare una congiura nella famiglia
reale. Finirono quasi per fare più danni che bene, ma… era un ragazzo sveglio,
e soprattutto aveva buone intenzioni.”
“Diciassette anni e sventa una
congiura?” Marcello lasciò coltelli e forchette sul tavolo e si grattò il
mento. “Quando a noi è già tanto se a quell’età ci danno missioni vere!”
“E ultima cosa, ma non per
importanza,” disse Flavia. “Quando ci siamo fermati al Quartier Generale, Francesco
ha chiesto a Cecchino e Roberto di andare a Firenze e mandare a chiamare qui
Liberata. Partono domattina.”
“Liberata Cellini?
L’apprendista veterana che ha portato i fratellini di Roberto qui per il suo
compleanno?” chiese Mamma, apparentemente perplessa. “Non credo che sia perché
a Benvenuto manca sua sorella. E non credo nemmeno sia l’unica sorella che
Benvenuto e Cecchino hanno, ne avevano menzionato un’altra.”
“Sì, hanno una sorella maggiore. Ma
non è una Sorella,” Marcello fece le
virgolette con le dita. “Perlomeno non come la intenderemmo noi. Cecchino dice
che s’è fatta monaca. Pensi davvero che stiano chiamando Liberata per conto
della Fratellanza e non semplicemente per conto dei suoi fratelli?” Rimase in silenzio, poi abbassò lo sguardo e ridacchiò,
probabilmente si era reso conto delle due inconsapevoli battute che aveva
appena fatto.
“Deve essere per via dei furti,”
commentò Mamma.
“Ne sei così certa?” Marcello alzò lo
sguardo e le chiese.
“Mettiti nei panni dei Maestri,
tesoro,” gli disse Mamma. “Se c’è qualcuno che apre le porte per i ladri, potrebbe
essere chiunque a Roma. Uno straniero, qualcuno a miglia di distanza dal posto
dove è successo tutto, sarebbe la scelta migliore per risolvere un problema del
genere.”
Finirono di preparare la cena e
mangiarono in silenzio. Marcello, al solito, non prestava attenzione che al
cibo, e Flavia era affamata abbastanza da fare la stessa cosa. Una volta
finito, lavarono i piatti, poi Flavia e Marcello salirono le scale per
raggiungere la cameretta che dividevano e lasciarono i loro vestiti per le
camicie da notte.
“Pensi che stia bene?” Marcello le
chiese, sedendosi sul suo letto.
Flavia si sedette sul suo. “Non lo
so,” disse a voce bassa. Ovviamente, suo fratello non poteva che stare parlando
del suo maestro. “E direi che nessuno possa davvero saperlo, se la metà delle
storie che ho sentito sono vere…” Forzò una risatina, cercando di far ridere
suo fratello.
La verità era che… davvero, nessuno
poteva saperlo. Persino gli eroi morivano in battaglia, nelle storie che aveva
imparato da bambina. Il Pelide Achille, l’eroe
dell’Iliade, era stato colpito da una freccia nel suo punto debole. Eurialo e
Niso, i due amici nell’Eneide, erano stati massacrati mentre cercavano di
portare una missiva al comandante Enea. Orlando il paladino aveva aspettato
l’ultimo momento per suonare l’olifante e chiamare aiuto e le sue tempie erano
scoppiate. Non era raro, nei racconti, che l’eroe incorresse in un errore
fatale e cadesse, o in morte o in rovina. Sarebbe potuta accadere qualsiasi
cosa. Qualsiasi cosa.
“A che stai pensando?” Marcello le
chiese dal suo letto.
Ripensandoci…
Achille, Enea, Orlando… “Gli eroi nelle storie sono sempre uomini,” disse
Flavia. “E se sono donne, l’unica cosa che fanno è sposarsi e fare le brave mogliettine,
come quella Griselda nel Decameron… o peggio ancora hanno una storia d’amore
tragica.”
“Ti sei scordata Giovanna D’Arco,”
commentò Marcello.
“Sì, e sappiamo come finisce quella
storia. Per fin troppe persone, una ragazza forte e sicura di sé non è altro
che una strega.”
“Le Amazzoni? O Camilla nell’Eneide?”
“Quando mai sono in veste di eroine?
Al massimo stanno dalla parte dei nemici!” ribatté Flavia.
“Bradamante!”
Marcello scattò in piedi e fece un sorriso sornione.
“Chi?”
“Bradamante,
la cugina di Orlando,” spiegò l’undicenne. “Una ragazza cavaliere. Combatte con
i paladini proprio come suo fratello e suo cugino. Salva il re pagano della
Bulgaria, e solo dopo lo sposa… ma il
punto è che decide lei di sposarlo. Suo padre la voleva sposata con un altro. È
scritto tutto… beh, nel libro del Mentore Ariosto. Non è l’Eneide, siamo
onesti, sembrava più una fiaba che altro, ma c’è una ragazza che fa l’eroe.”
“Davvero?” Flavia non si aspettava
che suo fratello conoscesse un personaggio del genere. Scritto dal Mentore
Ariosto per giunta! Sembrava a dir poco interessante. “Penso che a questo punto
il Mentore sia meglio come scrittore che come Assassino.”
“L’ho pensato anche io,” Marcello
annuì. “Ora, il libro è ancora incompleto. Se la Fratellanza avesse una stampa,
magari potremmo anche fare delle copie, venderle, fare un po’ di soldi… e
potremmo anche chiedere a Zio Niccolò se farà mai pubblicare quel suo lavoro
sui principati…”
“Da quando in qua ti preoccupi delle
finanze della Fratellanza?” gli chiese Flavia.
“Da quando Giovanni è nella mer… in guai grossi,” suo fratello le spiegò. “Pensa che
qualcuno stia tagliando i fondi dell’esercito pontificio. I suoi fondi. Lo ha detto a Francesco da
quanto ne so. Dice anche che non si può più fidare di tutti qui.”
“Ti ha detto il perché?”
Marcello si sedette sul letto e si
abbracciò le ginocchia.
“No. Non mi dice tutto,” disse. “E
non penso che Francesco dica a te
tutto quello che succede. Quella lettera di oggi era troppo lunga per un
semplice scambio di notizie. Dev’esserci stato altro.
“Forse non vogliono che ci
preoccupiamo.” Flavia si mise in piedi, attraversò il piccolo spazio tra i
letti, e si sedette accanto al fratello.
“Certe volte vorrei essere grande,”
Marcello si morse il labbro. “Voglio aiutare. Voglio… fare la differenza.
Voglio dire, guardaci. Stiamo qui a giocare, a sfidarci a correre… mi hai
persino raccontato che quando Roberto ha fatto quattordici anni gli avete fatto
la festa!”
“E un giorno avrai sedici anni, ti
guarderai alle spalle e desidererai di averne ancora undici,” Flavia sorrise.
“Ricordi cosa dice sempre Francesco?”
“Che i bambini devono essere
bambini,” Marcello recitò con tono annoiato. “Ma voglio comunque aiutare.”
“Noi stiamo aiutando. Siamo le reclute. I prossimi combattenti,” ribatté
Flavia. “E di tanto in tanto, c’è anche qualcosa che facciamo noi. Sbrighiamo
le commissioni…”
“Come pulire le stalle…” Marcello
fece una smorfia di disgusto.
“Non solo quello. E comunque, ricordi
quella vecchia filastrocca della lepre pazza nella piazza?” Flavia prese la
mano del fratello in modo che il palmo puntasse verso l’alto.
“Ti
prego non quella!” l’undicenne alzò gli occhi al cielo. Una vita prima,
quando erano stati bambini piccoli, la filastrocca della piazza e della lepre
pazza li aveva lasciati a ridere per interminabili ore, ma ora che Marcello era
ansioso di diventare adulto, era solamente seccato.
“Il pollice l’ha vista, l’indice l’ha
presa, il medio l’ha catturata, l’anulare l’ha cucinata, e il mignolino se l’è
mangiata!” Flavia sorrise e indicò un dito dopo l’altro mentre recitava la
filastrocca.
“Non fai ridere!” Marcello sbottò,
anche se stava visibilmente reprimendo un sorriso. “E comunque quale sarebbe il
punto?”
“Facciamo tutti cose diverse, come le
dita delle mani,” spiegò Flavia. “Facciamo quello che possiamo fare.”
“Beh, la sai una cosa?” Marcello le
chiese mentre lei tornava al suo letto e si infilava sotto le coperte.
“Cosa?”
“Con ogni giorno che passa parli
sempre più come il tuo maestro,” Marcello sorrise.
“Lo prendo come un complimento.”
Flavia si stese sul materasso, poi alzò la testa e soffiò sulla candela sul
comodino per spegnerla.
“Lo era.”
Liberata Cellini arrivò alcuni giorni dopo, e
prese immediatamente a parlare con chiunque avesse tempo di fare due
chiacchiere, per poi fare rapporto a Massimo. Poi, al tavolo della cena che
condivideva con i suoi fratelli e i loro allievi Alessio e Roberto, ripeteva a
Benvenuto e Cecchino quello che aveva scoperto e comparava con loro le
informazioni. A posteriori, ho saputo che Massimo all’inizio aveva messo il suo
metodo di indagine e le informazioni che aveva condiviso con Alessio e Roberto
in discussione, ma lei aveva ribattuto che i due allievi erano sicuramente
innocenti, perché Roberto non si allontanava quasi mai da Cecchino, e quando
Alessio non era con Benvenuto, era sempre con me, Marcello, o Francesco.
Inoltre, Alessio sapeva parecchio del sottosuolo romano, avendoci vissuto da
bambino.
Liberata aveva già iniziato a piacermi la prima volta che era venuta a
Roma e non aveva avuto alcuna remora a chiamare i suoi fratelli dei bischeri in
pubblico, ma ora che la vedevo in azione, la ammiravo ancora di più. Era, per così
dire, quasi un’eroina per me – era la persona che volevo diventare.
Avevo scoperto un altro significato della parola eroe. E quando Liberata
risolse il caso, decisi che rispondeva alla definizione, molto più di quanto
Giovanni dalle Bande Nere avesse fatto.
20 Settembre 1526, Roma, bottega di Benvenuto Cellini
Il laboratorio di Benvenuto era
sempre stato in disordine.
Alcuni dei banconi e il pavimento
erano coperti di polvere, o persino cenere e fuliggine nei punti più vicini
alla fornace, l’aria era pregna dell’odore acre degli intrugli che lo scultore
usava per i lavori più precisi di oreficeria, e c’era della spazzatura per
terra, ma se Liberata lo considerava un posto più sicuro per discutere rispetto
al Quartier Generale sull’Isola Tiberina, allora lo era.
“Oppure
potreste discuterne di sopra nel mio alloggio,” Benvenuto commentò togliendosi
il grembiule da lavoro e scagliandolo su un bancone vuoto mentre Liberata
conduceva Flavia e Marcello dentro.
“E derubarti del tuo allievo,
fratellone?” Liberata indicò Alessio, che aveva ancora il suo grembiule addosso
ed era concentrato sul suo lavoro. “Devo parlare anche con lui. Soprattutto con lui.”
“L’hai sentita, Alessio,” Benvenuto
tirò un sospiro. “Di sopra tutti quanti.”
“Va bene,” Alessio mugugnò, si tolse
il grembiule e lo mise nello stesso posto in cui il suo maestro aveva buttato
il suo. “Ciao Flavia, ciao Marcello. Buon pomeriggio, Liberata.”
“Mi occupo del fuoco e poi vi
raggiungo di sopra,” Benvenuto disse al suo allievo. “Fai strada, Alessio.”
“Va bene.” L’ex monello di strada
aprì una porta e imboccò una scalinata che conduceva di sopra, poi fece gesto
agli altri di seguirlo. Flavia decise che era il momento giusto per iniziare
una conversazione.
“Su cosa stavi lavorando?” chiese
all’amico.
“Benvenuto vuole che io inizi a
capire come funzionano le lame celate. Mi ha passato una rotta e vuole che io
capisca cosa c’è che non va e se può venire riparata,” Alessio tirò un sospiro.
“Beh, è la cosa più difficile di questo mondo! Voglio dire, c’è una molla
arrugginita che se n’è andata ar Creatore, quello era
facile da trovare. Ma mo il punto è, la posso
rimpiazzare senza rompere qualcos’altro? I meccanismi so piccoli, alcuni
attrezzi li rovinerebbero. E poi non ho mai visto prima una molla del genere, deve
essere stata fatta apposta apposta…”
“Non si aspetta che tu la ripari da
solo, stanne certo,” Liberata sogghignò. “Lui le costruisce quelle molle, di solito le tiene in qualche posto
segreto, magari sotto un’asse del pavimento o un buco nel muro. So che a
Firenze le nascondeva in un buco nel pavimento sotto al suo letto, ma qui…
Benvenuto sa come tenere i segreti, quando vuole. E non è più il sedicenne prevedibile
che conoscevo.”
“E allora perché non mi da un’altra
molla?” Alessio protestò.
“Tu gliel’hai chiesta?” l’apprendista
veterana gli chiese. Alessio rimase in silenzio, poi scosse la testa.
“Questo è il punto, Alessio. Non è
necessario che tu ripari la lama da solo. La lezione non era la lama celata,
era la tua testa dura!” Liberata bussò sulla testa di Alessio, e il ragazzo
trasalì.
“Ahia!” Alessio sfregò il punto
colpito. “E che devo fare allora?”
“Chiedere aiuto.” Liberata si strinse
nelle spalle.
“Sei comunque il primo di noi ad
averne una per le mani,” Marcello precisò da dietro Flavia.
“Non ne avevi una tu?” Alessio
raggiunse la cima della scalinata e guardò in basso. “Pensavo che il Mentore
Ariosto avesse dato le lame di tuo padre a Giovanni e il capitano le avesse
date a te.”
“Ahem,
Alessio,” l’undicenne-quasi-dodicenne si schiarì la gola e alzò il braccio, poi
si indicò la punta dell’indice. “Ho le braccia lunghe così e la lama mi arriva
qua. Le ho ma non le posso usare. E comunque se Zia Claudia scopre che sto
cercando di usarle, sono morto. E poi
lei uccide anche il povero Giovanni.”
“Ma hai provato a usarle?” Alessio
scoprì il dente rotto in un ghigno.
“No!” Marcello scosse la testa.
“A me dal tono sembrava di sì.”
“Non l’ho fatto!”
“Non l’ha fatto,” Flavia intervenne
con un sorriso. “Lo saprei se lo avesse fatto, dividiamo la stanza.”
Alessio fece un sorrisetto, poi aprì
la porta dell’alloggio e condusse gli Assassini al tavolo da pranzo. “Forza,
sedetevi pure. Non è un palazzo, ma dovrebbero esserci abbastanza sedie o
sgabelli per tutti quanti.”
“Bene,” asserì Liberata, prendendo
uno sgabello. “Ora, Alessio, so che vivevi per strada prima che…” Smise di
parlare quando si accorse che l’ex monello stava arrossendo. “Scusa, non volevo
disturbarti in quel modo. Volevo dire… sai chi vive ancora lì, no?”
“Se non li conosco io…” Alessio arricciò
il labbro superiore, mostrando il dente rotto e indicandolo. “Beh, loro me
conoscono abbastanza da avermi lasciato con un dente de meno.”
“Altri ragazzi?” chiese di nuovo la
giovane donna.
“Eh-eh.” Alessio annuì. “Il più
grosso di loro, Attilio, gli fa da capo. Fanno tutto quel che dice lui. Alto,
spalle larghe, capelli scuri, non c’ha parecchi denti e c’ha er naso rotto. Pensi che il ladro potrebbe essere lui? Non
è tanto sveglio, non penserebbe mai a cercare di rubare delle chiavi.
Butterebbe giù la porta o entrerebbe dalla finestra.”
“Non ho detto che sia una sua idea,”
spiegò Liberata. “Dov’eri quando ho detto che qualcuno nella Fratellanza
potrebbe aver aperto la porta ai ladri?”
“Uhm, qua?”
Flavia si colpì la fronte con la
mano, mentre Marcello scoppiò a ridere.
“Per questo sto parlando a voi tre,”
l’apprendista veterana continuò la sua spiegazione. “So di potermi fidare.
Alessio, tu sei sempre tappato qua con quel bischero di mio fratello se non sei
con loro due, e quanto a voi, Flavia e Marcello, a quanto pare i furti sono
iniziati quando Marcello non era nemmeno qui a Roma, e durante quella stessa
mattinata, ho sentito testimoni oculari raccontare che Flavia ha prima fatto
infuriare una guardia cittadina…”
“Una guardia cittadina lardosa, lenta
e detestabile,” Flavia sentì il bisogno di precisare. “E Alessio era con me,
per giunta.”
“Grazie, Flavia,” Liberata fece un
sorriso sarcastico. “E un altro novizio mi ha detto che avete anche fatto la
fila per prendere l’acqua a una fontana di Trastevere.”
Flavia annuì. Per quanto potesse
detestare andare a prendere l’acqua, se poteva provare la sua innocenza, le
stava benissimo farlo.
“Aspetta,” Marcello intervenne. “Vuoi
dire che c’è stato un furto il giorno che sono arrivato… e stavi cercando
Assassini che mancavano all’appello… beh, Peppo, volevo dire Giuseppe Simoni, il novizio che puliva le stalle vicino al
Pantheon…”
“Pulito,” gli rispose Liberata. “Per
quanto lo poteva essere dopo aver spalato cacca di cavallo, ma è pulito.”
“Intendevo quello,” l’Auditore più
giovane annuì. “Ma aveva menzionato che ci sarebbe dovuto essere qualcun altro
con lui – qualcuno che non c’era.”
“Esattamente. Il ragazzo che avrebbe
dovuto condividere il suo onere non può dire di essere altrettanto onesto.”
I sospetti di Liberata erano orientati su Fabrizio Carbone, un
quattordicenne grassoccio che era stato riportato come mancante all’appello
parecchie volte. Non era mai stato né particolarmente sveglio né forte, e dopo
una caduta durante un esercizio in cui aveva voluto strafare, aveva un
ginocchio ridotto male. Per farla breve, era sotto la media degli allievi e
decisamente frustrato per quella ragione.
Tutti gli studenti presi da maestri il giorno dopo quel Capodanno del
1525, tra cui c’eravamo anche io e Marcello, erano già abili corridori,
sapevano difendersi in un duello con armi finte, e alcuni di noi avevano già
trovato qualcosa che potevamo considerare punti di forza. Alcuni di quel
piccolo gruppo, come Laura Gaspari, stavano
continuando il loro addestramento in un’altra città.
Se ci fossero stati dei punteggi, Fabrizio Carbone sarebbe finito in
fondo – e come se non bastasse, allievi che avevano iniziato l’addestramento
più tardi, come Alessio o Giuseppe Simoni, erano
arrivati al suo livello, se addirittura non lo avevano superato.
A quanto pare, era sufficiente per un movente.
Ovviamente non potevamo agire senza essere certi dei nostri sospetti.
Liberata era molto attenta nel formulare piani, e non voleva incastrare un
ragazzo potenzialmente innocente.
Dovevamo coglierlo con le mani nella marmellata, il che non era facile.
Chiunque avesse pianificato i furti cercava sempre di esser certo che
l’edificio era vuoto.
La Fratellanza scelse sei tra gli allievi più esperti e li fece
nascondere nel laboratorio di Benvenuto – Liberata era tra di loro e li
comandava. Nei giorni precedenti, Benvenuto si era intenzionalmente vantato di
un grosso onorario ricevuto dal soglio pontificio… lasciando un’enorme esca per
un qualche ladro. Quando i ladri furono in casa sua, la trappola scattò.
Un allievo veterano nascosto in un mucchio di fieno lì vicino sbarrò la
porta dall’esterno, e quelli nell’edificio catturarono gli intrusi, che vennero
legati e identificati.
Ovviamente la Fratellanza aveva bisogno di qualcuno che conoscesse le
loro facce, ma avevamo il nostro uomo. Più o meno, dato che l’ “uomo” aveva
tredici anni.
3 Ottobre 1526, Roma, bottega di Benvenuto in Via dei
Banchi
Alessio si fermò davanti alla porta,
la faccia coperta da un cappuccio e una sciarpa cosicché i suoi ex “compagni di
sventura” non potessero riconoscere i suoi tratti facciali. Sentiva le sue
viscere annodarsi al solo pensiero di dover incontrare ancora quei ragazzi…
sapeva che era irrazionale, che era una cosa del passato, e sapeva anche che la
Fratellanza contava su di lui perché lui conosceva le loro facce… non voleva
dire che dovesse anche piacergli.
Avrebbe voluto che Flavia e Marcello
gli fossero stati accanto. Magari anche Roberto. Voleva tornare a giocare con i
suoi amici. Avrebbe voluto essere da qualsiasi altra parte, ma non lì.
Una mano callosa gli strinse la
spalla.
“Alessio, qualcosa non va?” la voce
di Benvenuto interruppe i suoi pensieri.
“Io…” fu l’unica cosa che l’ex
monello di strada riuscì a dire.
“Va tutto bene.” Lo scultore lo
strinse in un abbraccio. “Sono qui. Massimo è qui, e Liberata, e gli altri.
Nessuno ti farà del male. Non te ne potranno più fare.”
Sotto la sciarpa, Alessio si morse il
labbro. Era quasi felice che Benvenuto non potesse vedere la sua smorfia.
“Grazie.”
L’ex monello di strada… l’apprendista
Assassino… oltrepassò la soglia ed entrò nella bottega. Massimo Ricoveri,
Liberata, e sei apprendisti intorno ai vent’anni stavano sorvegliando otto
ragazzini, tutti con le mani legate, alcuni imbavagliati, altri ancora con una
benda sugli occhi.
“Sono questi i ragazzi che
conoscevi?” Massimo chiese ad Alessio. Il tredicenne li guardò, non esattamente
entusiasta di avvicinarli. Poi, alzò una mano e li segnò a dito.
“Uno, due, e tre… no, non li
conosco,” disse indicando i tre più piccoli e spaventati. Notò subito che erano
stati messi lontani dagli altri.
“Quei tre si sono arresi subito, non
appena ci hanno visti,” Liberata gli disse, confermando la sua ipotesi. “Hanno
detto di essere stati forzati, e a onor del vero
posso anche crederci.”
“Devono essere arrivati da poco,”
Alessio mugugnò rivolgendosi al maestro. Il suo sguardo si soffermò sulla loro
aria spaventata. Esattamente come gli altri, erano sporchi e visibilmente
provati dagli stenti, ma la faccia di uno dei tre mostrava vecchi lividi, e i
loro vestiti sembravano più nuovi, ma c’erano delle macchie di sangue
relativamente fresche. “Tirati dentro. Voglio dire, guardateli, li avranno
sicuramente picchiati nei giorni scorsi. O trascinati qui a forza come aiuto a
poco prezzo. È quello che fa lui.” Indicò il secondo ragazzo da destra, quello
che sembrava il più grosso. Attilio.
“Quel ragazzo è il capo?” Massimo
chiese ad Alessio.
“Sì.”
“I nomi?”
“Attilio…” Alessio iniziò a indicare
dal secondo da destra. “Paolino… Cristiano… Romolo… e quello lì non lo so come
si chiama, in tutta onestà.” Poi guardò al ragazzo a destra di Attilio, l’unico
con una benda sugli occhi, e sogghignò. “Ma penso che tutti voi sappiate chi è
lui.”
Il ragazzo alla destra non era un
monello di strada. Portava i vestiti degli apprendisti della Fratellanza e la
sua corporatura era tale da ben dimostrare che non gli mancasse né il pane né
il companatico. Anche con la benda sugli occhi ed il bavaglio, poi, Alessio
avrebbe riconosciuto Fabrizio Carbone ovunque.
Massimo alzò una mano e fece un
cenno, e due degli allievi veterani tirarono fuori una fiala e degli stracci.
Inzupparono gli stracci con il liquido nella fiala e, uno per uno, premettero
gli stracci bagnati sul naso dei ragazzi imbavagliati. Solo quelli che si erano
arresi rimasero svegli.
“Ora, voi tre, il nostro uomo ha
detto che probabilmente siete stati forzati a rubare dalla bottega di mio
fratello,” Liberata si avvicinò a loro e chiese. “Mi confermate questa
ipotesi?”
Uno di loro fece di sì con la testa,
e dopo alcuni momenti di esitazione, anche gli altri due fecero cenni di
assenso.
“Mi spiegate come diamine siete
finiti in mezzo a gente del genere?” Liberata indicò Attilio e gli altri. “Non
mi sembra ci andiate molto d’accordo.”
“Non ho dove andare,” uno dei tre, il
più coraggioso, mugugnò. “Io e mio padre eravamo qui per andare a San Pietro. E
poi…”
Il ragazzo non disse nulla, ma
Alessio non aveva bisogno che finisse il discorso per capire cosa potesse
essere accaduto. I pellegrini diretti alla tomba di San Pietro erano forse le
vittime preferite dei tagliagole della città. Nessuno li conosceva, non avevano
nessuno a cui poter chiedere aiuto… e nessuno si accorgeva della loro
sparizione o riconosceva i cadaveri buttati nel fiume.
“E ti sei ritrovato da solo, senza un
soldo, e con solo i vestiti che hai addosso,” Massimo lo interruppe. “Avresti
potuto cercare aiuto.”
“Non conosco nessuno.”
“Beh, non dirmi che conosci quel topo
di fogna laggiù,” Massimo indicò Attilio. “Senti… se vuoi tornare a casa, se
hai qualcuno che ti aspetta… potremmo fartici portare. E quanto a voi altri due
laggiù, anche voi avreste molto da spiegare. Se avete bisogno di aiuto… o di
tornare a casa… non posso sprecare tutta la giornata a cercare di conoscervi,
ma se siete stati davvero tirati dentro, non avete più nulla, e volete cambiare
vita, posso darvi una possibilità. Ora, questi ragazzi vi porteranno in un
posto sicuro e ne riparleremo lì.”
Massimo fece di nuovo gesto ai due ragazzi
della fiala e loro presero tre strisce di stoffa e bendarono gli occhi dei tre
ragazzi. Uno di loro trasalì, ma il ragazzo che lo stava bendando gli mise una
mano sulla spalla e gli disse che sarebbe andato tutto bene.
“E gli altri?” Alessio chiese a
Massimo.
“Benvenuto è noto per negoziare a
pugni chiusi,” Liberata rispose al posto del maestro. “Faremo credere alle
guardie che voi due li avete sorpresi nella bottega e li avete messi fuori
gioco. Tu sai combattere, giusto?”
Alessio annuì. Era una storia che
sarebbe potuta facilmente essere accettata come vera. Lui e Benvenuto
conoscevano il laboratorio, era casa loro. Cinque avversari non erano pochi, ma
Benvenuto era un adulto, lui e Alessio erano armati, e avrebbero potuto
sfruttare tutti gli ostacoli della bottega a loro vantaggio. Carboni ardenti,
armadi pesanti, metallo rovente… la gente avrebbe persino potuto sorprendersi
che non ci fosse scappato il morto.
“Benvenuto chiamerà le guardie non
appena ce ne andiamo di qui. Penso che sarete capaci di raccontare una
storiella a cui le guardie credano abbastanza per punire i ladri,” continuò
Massimo. “Insomma, Benvenuto lavora per Sua Santità. La cosa ha i suoi
vantaggi.”
Alessio poteva immaginare cosa
intendesse Massimo. Gli sembrava… crudele, ora che ci pensava. Quale poteva
essere la punizione per un furto? Nella casa di un protetto della Santa Sede,
per giunta? Attilio e i suoi scherani sarebbero sicuramente diventati un
esempio per la popolazione. Prigione? La forca? Alessio non lo sapeva… e non
voleva saperlo.
Quei ragazzi lo avevano quasi
ammazzato di botte, ma lui… si sentiva male al pensiero che probabilmente
sarebbero morti appesi per il collo. Come
il nonno e gli zii di Flavia, una voce gli ronzò nella testa.
“Li uccideranno?” chiese a Massimo.
“Le guardie. Li uccideranno?”
“Non lo so,” rispose Massimo.
“Li odio,” Alessio tirò un sospiro.
“Mi hanno fatto del male. Ma io… io…”
“Non vuoi che muoiano per questo
motivo.” Liberata lo interruppe di nuovo. “Alessio… non siamo eroi. Non
possiamo salvare il mondo intero. Dobbiamo anche difendere noi stessi.”
Alessio sospirò di nuovo. “Il fatto
che dobbiamo farlo non vuol dire che faccia meno schifo.”
Ma il vero problema era Fabrizio Carbone. Ci conosceva e sapeva troppo.
La Fratellanza non poteva tenere un traditore nelle nostre fila, ma non
potevamo lasciarlo alle guardie o abbandonarlo al suo destino, avrebbe vuotato
il sacco.
E nessuno voleva sulle sue mani il sangue di un bambino.
Dopo un po’, Massimo trovò una soluzione. Lo mandammo lontano. Fabrizio
Carbone venne portato a Modena, una città lontana dove non conosceva nessuno, e
assegnato come bracciante nei vigneti e nei campi.
Francesco mi disse che altri avrebbero semplicemente tagliato la lingua
del ragazzo per impedirgli di rivelare informazioni, ma dopo quello che era
successo ad uno degli apprendisti ai tempi di mio padre… beh, nessuno aveva il
coraggio di farlo, specialmente ad una persona così giovane.
Gli Assassini non volevano divenire quello che i Borgia erano stati… non
volevamo arrivare a mezzi del genere per mantenere la nostra influenza nella
città.
Magari non eravamo eroi, ma non volevamo perdere noi stessi.
Quell’episodio mi lasciò con parecchi dubbi. Tutto è lecito, diceva il
Credo. E Fabrizio Carbone non era stato affatto un innocente. Ucciderlo sarebbe
stato lecito. Ridurlo per sempre al silenzio sarebbe stato più che lecito.
Ma Massimo aveva frenato la mano.
Con il tempo, la sua pietà si rivelò come un errore, ma quello accadde
parecchi anni dopo.
In quell’anno, ci furono problemi anche peggiori.
30 Novembre 1526, Roma
Flavia quel giorno avrebbe voluto
restare a letto.
Era ‘quel’ giorno, come Francesco
avrebbe detto.
Forse era semplicemente ironico, o
forse era perché Francesco sapeva come ci si sentiva, ma fu il suo maestro ad
entrare nella stanza che divideva con Marcello e li convinse finalmente ad
alzarsi e uscire.
“Restare a letto a pensarci non vi
aiuterà,” spiegò mentre entravano nel Quartier Generale e cercavano di
asciugarsi come meglio potevano. Due anni prima, a Firenze, il tempo era stato
talmente mite che parecchia gente aveva ritenuto che l’Estate di San Martino
fosse durata l’intero mese. Ora, invece, il gelo entrava nelle ossa e pioveva
come se lo avesse fatto da secoli.
“Giovanni dice che non si guarisce
mai,” Marcello si morse il labbro e disse in tono mesto.
“Non ha tutti i torti,” Francesco
sbuffò, mettendosi una mano sul fianco – dove aveva la cicatrice, ricordò
Flavia. “Ma pensaci un momento. Tuo padre non vorrebbe vederti ridotto così.”
“Che tempo di merda,” Marcello
mugugnò. “Dove ci alleniamo oggi, Francesco?”
“Se ti sentisse Mamma,” Flavia
bisbigliò al fratellino.
“Massimo aveva nei piani di portare
voi ragazzi a fare una gara dalle parti di Castro Pretorio, ma con un tempo del
genere, nessuno l’ha giudicata una buona idea, quindi ci manda i grandi al
vostro posto. Quanto a voi, ho accettato di farvi una lezione nella sala delle
cerimonie,” Francesco rispose con un sorriso.
“Fammi indovinare, ‘nessuno l’ha
giudicata una buona idea’ vuol dire che Zia Claudia non vuole che ci prendiamo
un guaio con tutta quest’acqua,” Marcello sogghignò.
“Pensi davvero che tua zia sia
l’unica a preoccuparsi?” Francesco abbozzò un sorriso. “Un giorno non troppo
lontano, ci aspetteremo che voi
corriate e combattiate con un tempo del genere. Ma la pioggia non vuol solo
dire pulcini bagnati. Vuol dire anche terreno
bagnato. E nessuno vi lascerà scivolare sulle rovine e rovinare a terra se non
sapete come cadere.”
“Cadere?” Marcello alzò un
sopracciglio. “Io non cado.”
“A parte quella volta che sei caduto
e ti sei slogato il polso alla villa,” Flavia precisò, guadagnandosi
un’occhiataccia dal fratellino.
“E non guardare tua sorella in quel
modo, giovanotto,” Francesco disse a Marcello. “Imparare a cadere vuol dire
arrivare a terra in una maniera che impedisca o renda minime le ferite. È una
lezione che dovresti imparare dopo che hai passato il grosso della crescita. In
breve: è questo il motivo per cui Massimo sta mandando i più grandi a correre
nella pioggia.”
La porta si aprì di nuovo, e Alessio
e Roberto corsero dentro, ansimando, mentre Alessio cercava di scuotersi via
l’acqua dai capelli meglio che poteva.
“Ora capisci perché li dovresti
tagliare più spesso?” Roberto fece una smorfia al suo compagno più giovane e
passò una mano tra i suoi corti capelli ricci. “Ti ci vorrà una vita per
asciugarli!”
“Ah davvero, Bertino?” Alessio
ribatté agitando una mano sopra la testa di Roberto. “E io che credevo che tu
li tenessi corti solo per sembrare più alto.”
“Niente prese in giro, ragazzi,” intervenne
Francesco.
“Guarda che anche Cecchino lo chiama
così,” l’ex monello sorrise. “Lo starei prendendo in giro se lo chiamassi
Sgorbietto come fanno gli altri.”
“Non sei divertente,” sbuffò Roberto.
“Andiamo,” Francesco li interruppe
tutti. “Non ripeterò la spiegazione che ho fatto con Marcello, ma il succo
della cosa è che Massimo non vuole che scivoliate e vi spezziate una gamba,
quindi oggi vi insegnerò come gestire una squadra.”
Il Maestro Assassino li condusse nel
salone, dove si era già radunato un gruppetto di studenti. In un angolo,
qualcuno aveva piazzato due barili di spade di legno e due cesti di quelli che
sembravano sacchetti di stoffa, leggermente più piccoli di un pugno,
probabilmente pieni di sabbia. Sia le spade che i sacchetti di stoffa erano
coperti di una qualche polvere colorata, o rossa, o nera.
“Formate due squadre,” ordinò
Francesco. “E sceglietevi dei comandanti. Poi, ognuno di voi avrà una spada e
una fionda. Scegliete voi cosa usare in battaglia, scegliete voi come agire, ma
vedete i colori delle armi? Se il colore degli avversari finisce su voi o sui
vostri vestiti, siete feriti. Chi è ferito lascia il campo. Ora, le spade sono
di legno, e nelle munizioni per le fionde c’è solo sabbia, ma controllatevi.
Non vi serve per la scherma o la mira, ma per il lavoro di squadra. Dovete
fidarvi dei vostri Fratelli e Sorelle e mettere la vostra vita nelle loro
mani.”
C’erano circa venti allievi nella
sala, e i gruppi vennero rapidamente decisi dalle amicizie. Flavia, Marcello,
Alessio e Roberto vennero raggiunti dai fratelli Simoni,
che vedevano Flavia e Marcello come eroi, e da altri quattro ragazzi.
Molti di loro votarono Marcello come
comandante. (Era abbastanza ovvio, pensò Flavia, come al solito c’era un certo
pregiudizio contro le ragazze, Roberto aveva la cattiva fama di essere basso e
gracile, Alessio era più bravo a lanciare cose che a combattere con una spada,
e molti ragazzi dicevano in giro che Marcello avesse combattuto con l’esercito
nonostante a malapena lui avesse maneggiato un’arma vera.)
“Ora, la squadra di Marcello prende
il nero,” Francesco disse quando i due comandanti si fecero avanti. “Settimio,
tu avrai il rosso. Prendete le vostre armi, decidete una strategia, e poi… si
combatte!”
Nonostante fosse stato scelto come
comandante, Marcello ovviamente non aveva ricevuto molte lezioni che potessero
essere utili a combattere in una sala dove il nemico era visibile e poteva
vedere loro, o, molto più probabile, sentiva troppo sulle spalle la
responsabilità di essere il comandante nonostante non fosse né il più anziano
né quello con più esperienza. Flavia dovette aiutarlo con le tattiche.
“Ora che Giovanni torna a casa,”
Marcello sospirò mentre fronteggiavano la squadra rossa di Settimio. “Gli
chiederò di insegnarmi a pianificare una battaglia.”
“Mi dispiace che ti abbiano tirato
dentro,” Flavia abbozzò un sorriso. “Comunque, grazie di aver votato per me.”
Marcello sorrise e le diede una pacca
sulla spalla. “Sei mia sorella. Per te ci sarò sempre.”
Doveva essere la simulazione di una
battaglia, ma sembrava molto più un gioco da bambini – e probabilmente lo era.
Dopo i primi attimi di combattimento,
Marcello dovette ritirarsi. Un sacchetto di sabbia dal gruppo di Settimio aveva
ridotto la sua gamba destra a macchie rosse. Alessio si era immediatamente
rifatto tingendo la tunica di Settimio di nero con un altro sacchetto di
sabbia, ma c’era stato un momento in cui, senza un comandante, la squadra nera
si era ritrovata senza un piano fino a quando Flavia non prese la situazione in
mano e ordinò loro di tenere il terreno, difendersi, e non sprecare i sacchetti
di sabbia.
Stavano per consolidare il loro
vantaggio quando un ragazzone biondo, coperto di acqua, fango e probabilmente
sangue, irruppe nella stanza ansimando: “Maestro!”
“Chi sei?” Francesco lo squadrò da
capo a piedi quando il ragazzo si fermò davanti a lui.
“Siete Massimo Ricoveri?” il giovane
gli chiese, mentre ancora ansimava. Sembrava stanco morto, come se avesse
viaggiato senza fermarsi per giorni.
Marcello si alzò dalla panca dei
‘feriti’ e si avvicinò al nuovo arrivato, con un’espressione incredula in
volto.
“Arturo?”
Flavia lo sentì sussurrare. “Ma cosa ci fa qui?”
“Sono Francesco Vecellio,
ragazzo. E tu saresti?” Francesco chiese allo straniero.
“Arturo Spada da Pescarenico, soldato
delle Bande Nere. Pietro Aretino mi ha spiegato come arrivare qui,” il ragazzo
spiegò tra un rantolo e l’altro. Sembrava abbastanza giovane. Probabilmente non
era molto più vecchio di Roberto. “Ho un messaggio per il Maestro Massimo
Ricoveri. Anche se il Capitano ha detto che… se ci foste stato voi… potete
leggerlo, Messere.”
Arturo passò a Francesco un pezzo di
carta. Francesco aprì il messaggio e iniziò a leggere.
Se il suo sguardo era preoccupato
alle prime righe, quando ripiegò il foglio era bianco come un lenzuolo sotto la
barba.
“Roberto!” quasi balbettò.
“Maestro?” Roberto Aldobrandi si fece avanti.
“Qui sei tu il più grande. Vai a
cercare Massimo al Castro Pretorio. Poi, cerca Claudia, Giampiero, Enrico e
Rosa. E… Cecchino è alle caserme?”
“L’ultima volta che l’ho visto…” il
quattordicenne annuì.
“Chiama anche lui. Se vedi altri
Fratelli, o Sorelle in giro, di’ loro di radunarsi qui al Quartier Generale.”
Roberto fece qualche passo verso la
porta, poi si guardò alle spalle.
“Cosa devo dire se me lo chiedono?”
chiese a Francesco.
“Di’ loro…” il Maestro Assassino
disse con un gemito. “Di’ loro che… è successo quel che temevamo.”
Roberto guardò Francesco, poi Arturo,
poi deglutì e corse fuori dalla sala.
“Cos’è che temevate?”
La voce di Marcello infranse il
silenzio.
“Cos’è successo, Arturo?” chiese di
nuovo.
Il ragazzo più grande trattenne un
singhiozzo e strinse i pugni.
“Mi dispiace, Marcello… mi dispiace…”
disse, il torace che gli si alzava e abbassava rapidamente mentre prendeva
fiato. “I tedeschi, avevano dei cannoni. Cannoni piccoli, li avevano nascosti
nelle rovine… avevamo cercato di imboscarli, ma ci hanno teso una trappola…”
Non furono i cannoni a uccidere Giovanni dalle Bande Nere.
Fu l’attesa.
Era ancora vivo, con un piede straziato da una palla di cannone, quando
Arturo era partito dal campo con il messaggio per Massimo. Ma nessuno era
riuscito a trovare un cerusico all’accampamento, e l’esercito aveva dovuto
aspettare un giorno per entrare nelle mura di Mantova e chiamare lo stesso
dottore che gli aveva salvato la vita l’anno prima.
Ma quando arrivò Mastro Abramo, persino amputare il piede non servì a
salvare la vita al Capitano. Era troppo tardi.
Giovanni dalle Bande Nere si spense il 30 Novembre del 1526.
Esattamente due anni dopo l’Assassino che aveva ammirato di più al mondo.
DATABASE Eventi
-> La Battaglia di Governolo e quel che accadde dopo Il punto di
svolta delle varie battaglie combattute tra l’esercito pontificio e i
lanzichenecchi di Frundsberg fu quando i tedeschi
riuscirono ad attraversare il fiume Po e sconfiggere l’avanguardia
pontificia – le Bande Nere. La
situazione era di stallo, ma i sovrani di Mantova e Ferrara, temendo le
conseguenze di due armate sui loro territori, decisero di favorire le sorti
militari dei tedeschi, che non erano esattamente interessati a restare lì,
anziché delle Bande Nere, che cercavano di fermare Frundsberg
in qualsiasi maniera possibile. Quando un esercito non aveva possibilità di
avanzata, ai soldati veniva permesso di razziare il territorio. Quindi, il
marchese di Mantova lasciò che i tedeschi passassero una porta che poi
chiuse in faccia a Giovanni, rallentando l’esercito pontificio… e il Duca
di Ferrara (imparentato con i Borgia tramite matrimonio, il mondo è
piccolo!) approvvigionò i tedeschi con dei cannoni. La
battaglia di Governolo non è qualcosa di ampiamente menzionato nei libri di
storia, ma non fu solo un punto di svolta nelle guerre italiane. Fu un
punto di svolta nella guerra. Di solito,
i condottieri facevano qualche fine teatrale, come un duello, o se avevano
meno fortuna, in pubblica esecuzione dopo un arresto. Se poi avevano
davvero fortuna, invecchiavano e morivano nel loro letto con i loro
ricordi. Uno di loro, Muzio Attendolo Sforza,
capostipite della famiglia famosa, morì attraversando un fiume durante una
campagna militare. Le guerre
erano decise dal carisma, dalla forza di un comandante e di un esercito. La morte di
Giovanni De’ Medici segnò un punto di svolta. Fu sconfitto con complotti di
palazzo anziché da nemici più forti, morì di un’infezione sfociata in sepsi
che sarebbe potuta essere evitata se il marchese di Mantova avesse avuto
più onore e lo avesse lasciato entrare subito. Diciamo le
cose come stanno. Giovanni non morì da eroe, come ci si sarebbe aspettato
da un condottiero come lui. Morì
abbandonato, come un cane rabbioso.