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Autore: Helena Kanbara    19/01/2016    0 recensioni
[Raccolta di missing moments provenienti da kaleidoscope, da leggere anche separatamente]
Dopo mesi decisamente non “rose e fiori”, Stiles ed Harriet decidono di prendersi una strameritata pausa da Beacon Hills e tornano insieme nella città natale della piccola chiaroveggente: Austin, in Texas.
Ma tra cani combinaguai, parenti impiccioni ed apprensivi, ex-cotte non gradite e un sacco di zucchero, le vacanze natalizie di Harry e Stiles non saranno poi così tranquille come credevano e speravano i due.
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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so you can talk to them and let go of everything and even when
you’re at your worst they still like you, they still want to
speak to you and care about you.
 
«Mia nonna mi ha guardata come se fossi una delinquente».
Stiles scoppiò a ridere, reclinando la testa all’indietro contro il tronco del melo che mia madre aveva piantato nel nostro giardino circa un anno prima. Eravamo da poco arrivati ad Austin ed esausti avevamo entrambi deciso di rifugiarci lì dietro per godere di quel poco di frescura che l’ombra del melo offriva. Cullata dal suono dolce della risata di Stiles, mi limitai ad attendere una sua risposta mentre osservavo Randall scorrazzare avanti e indietro sull’erba bagnata dall’estivo sole cocente.
«Come darle torto?», domandò retoricamente Stiles, afferrandomi il mento affinché riportassi i miei occhi sul suo viso. «Con questo faccino qui, sentirti dire parolacce sarà stato un trauma per lei. Pensava fossi un angelo e invece…».
Alzai gli occhi al cielo.
«Sono solo entrata in casa urlando: “Siamo tornati, stronzetti!”, mica ho lanciato bestemmie a vanvera», mi giustificai. «Poi, sinceramente, non mi aspettavo nemmeno di trovarla qui».
Cadde il silenzio e quella pausa mi permise di riflettere a fondo sulla situazione: erano gli inizi di giugno, ero uscita incolume dal mio secondo anno di liceo e Cassandra sarebbe diventata ufficialmente la signora Irvine nel giro di una settimana. Il matrimonio di mia sorella era alle porte e l’intera famiglia in fermento: avrei dovuto aspettarmelo, ma tornando ad Austin insieme a Stiles non avevo immaginato nemmeno per un attimo di potermi ritrovare casa stipata di parenti alle prese con gli ultimi preparativi per la cerimonia.
«Non me l’aspettavo neanch’io, a dire il vero», mormorò Stiles, distogliendomi con mia grande gioia dal ciclo confuso dei miei pensieri. «Ci siamo ritrovati di botto tua nonna di fronte e tu ti sei immobilizzata mentre lei ti guardava come se avesse appena visto un fantasma e tuo zio scoppiava a ridere. È stato esilarante, in effetti».
Sbuffai. «Mezzo parentado a casa e nessuno che si sia degnato di venirci a prendere in aeroporto».
Stiles ridacchiò del mio tono indispettito, pizzicandomi giocosamente un fianco lasciato scoperto dal crop top rosa pallido che avevo deciso di indossare nella vana speranza di poter scampare all’afoso caldo texano.
«Guarda il lato positivo», mi incoraggiò poi a bassa voce, ghignando divertito. «abbiamo avuto più tempo da passare da soli».
Sollevai un sopracciglio con aria scettica. «Io e te passiamo già fin troppo tempo da soli, Stiles. Quando siamo qui mi sembra di poter morire all’idea di doverti stare lontana per forza. Non ci sono abituata».
«Neanch’io».
Distolsi gli occhi stanchi dal viso di Stiles, abbassando lo sguardo sui fili d’erba sfortunata ai miei piedi che presi a strappare nervosamente dal terreno. «Immagina quando dovrò tornare qui per sempre…».
«Ehi», Stiles mi sfiorò velocemente una guancia, «Non roviniamoci la vacanza. Riesci a non pensare troppo a tutto per almeno un giorno, scimmietta?».
«Smettila di chiamarmi così», borbottai, sollevando gli occhi sul viso di Stiles alla velocità della luce.
«Non posso. Non mi dimenticherò mai di quella volta che ti sei arrampicata addosso a me manco fossi un albero di banane solo perché c’era un ragno sul pavimento».
«Sono entomofobica, Stiles!», strillai, rifilandogli una meritatissima pacca sulla spalla.
Stiles comunque non reagì, si limitò semplicemente a squadrarmi con un sorrisetto poco rassicurante stampato in viso.
«Buono a sapersi, perché hai un grillo tra i capelli», mormorò poi con nonchalance estrema, esattamente un attimo prima che il panico facesse di me la sua preda.
All’improvviso avrei voluto nient’altro che poter essere al sicuro in casa mentre lontana dalla natura maledicevo l’estate e tutti gli insetti inutili che portava con sé. Se fossi stata solo un minimo più coraggiosa e meno schiava di quella mia fobia mi sarei controllata i capelli per liberarli del nemico: al contrario me ne rimasi ferma immobile di fronte a Stiles mentre lo fulminavo col peggiore dei miei sguardi.
«Toglimelo, per favore», riuscii a sibilare solo alla fine, tanto piano che Stiles si perse quella mia preghiera accorata e mi costrinse ad urlare come un’ossessa: «STILES!».
«Ah, non urlare! Non c’è niente, scherzavo!».
Un’esplosione di colori mi accecò gli occhi, accompagnata dal sanissimo sentimento di rabbia che sciolse la trance e mi spinse ad assalire Stiles.
«Sei un bastardo».
 
Un paio di dita lunghe e ormai fin troppo conosciute dalla mia pelle mi si strinsero sul braccio nudo, arrestando all’improvviso la mia corsa veloce. Alle prime luci della sera, casa mia era ancora stipata di gente, ma non ebbi bisogno di chiedermi chi fosse nemmeno per un attimo.
Stiles mi costrinse contro il muro foderato di carta da parati a fantasia floreale, impedendomi qualsiasi tipo di replica con un bacio che mi tolse il respiro. Dopo il suo scherzetto nient’affatto divertente in giardino l’avevo evitato come la peste, preferendo di gran lunga aiutare le donne di casa con gli ultimi preparativi del matrimonio incombente. Ma sapevo bene che quella situazione non sarebbe potuta durare a lungo. E infatti…
Stiles affondò le dita tra i miei capelli mentre io ricambiavo il suo bacio irruento, anche se avrei preferito riuscire a tenere maggior fede alla mia arrabbiatura. Ma non potevo chiedere tanto al mio cuore innamorato e lo sapevo benissimo, ecco perché lo lasciai fare finché non mi mancò del tutto il respiro.
«Non ho intenzione di perdonarti, stavolta», soffiai, lontana dalle sue labbra tentatrici ma ancora fin troppo vicina perché potessi ragionare lucidamente.
Stiles mi sorrise, facendo scivolare le mani sui miei fianchi larghi poco prima di afferrarli con una smania che raramente gli avevo visto addosso. Boccheggiai. Se intendeva farsi perdonare così…
«Mi hai già perdonato». Rifletté qualche secondo. «piccola».
Come, prego?
Gli spinsi le mani sul petto, nella speranza vana di poterlo fare lontano da me. Ma Stiles era troppo forte ed io troppo debole, in tutti i sensi.
«Stai diventando troppo sicuro di te», sussurrai, improvvisamente timorosa del fatto che uno qualunque dei miei parenti avrebbe potuto trovarci avvinghiati nel bel mezzo del corridoio. «Non–».
Di nuovo Stiles riuscì a troncare qualsiasi mia replica: gli bastò cercare le mie labbra con le sue affinché la mia mente si svuotasse completamente di tutto ciò che non riguardava la sensazione delle labbra di Stiles sulle mie e delle sue mani sul mio viso, sul mio collo e poi giù lungo la schiena, i fianchi e ritorno. In presenza di Stiles mi annullavo, con lui e per lui. E non esisteva nient’altro.  
Gli tirai dispettosamente qualche ciocca di capelli, stringendoli forte tra le dita e guadagnandomi un basso gemito che mi fece sorridere soddisfatta tra un bacio e l’altro.
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Stiles cercò il mio orecchio per sussurrarci quelle parole contro, carezzandomi il lobo mentre le sue dita abbandonavano i miei fianchi per risalire lungo il profilo del mio crop top. Fermò l’avanzata ad un passo dal mio seno, facendo aumentare ancor di più l’intensità dei miei respiri.
Deglutii, chiudendo gli occhi nell’attesa di una carezza che sapevo già non sarebbe arrivata. «Tantissimo».
«Cosa posso fare per farmi perdonare?».
Riaprii gli occhi al suono di quella domanda impertinente, cercando di riacquistare il controllo di me stessa e dei miei muscoli. Sciolsi le dita dai capelli lunghi di Stiles, scendendo lungo il collo e le spalle larghe fino a giungere ad un passo dalla meta: il cavallo dei suoi bermuda. Arrestai le mie carezze lì, costringendolo alla stessa tortura che stava riservando a me coi timidi tocchi che dispensava al profilo del mio seno. Gli sollevai la canotta quanto bastava ad infilarci le dita sotto e accarezzare appena appena la sottile striscia di peluria che partendo dal suo ombelico spariva poi all’interno dei pantaloni. Il punto oltre il quale non intendevo scendere.
«Smettila di fare il coglione», gli ordinai, quando mi reputai almeno in parte sazia dei suoi lunghi sospiri eccitati.
Stiles annuì col viso contro i miei capelli.
«Non lo farò più», deglutì un attimo, «te lo prometto».
Sorrisi, ben consapevole di tutto il potere che avevo su Stiles in quel momento. Da predatore era diventato preda, i ruoli si erano invertiti ed era ora che la tortura finisse – per entrambi.
«Lo spero per te», mormorai. Poi mi districai dalla sua presa, spingendogli le mani sul petto quanto bastava a riprendere respiro.
E me ne andai, lasciandolo solo e sconvolto nel bel mezzo del corridoio di casa mia.
 
Mi lasciai colpire dall’ennesimo abito da cerimonia esposto nelle vicinanze dei camerini, mettendomi alla ricerca della taglia giusta per me mentre Stiles mi seguiva all’interno della boutique con aria lievemente annoiata. Mancavano meno di quattro giorni al matrimonio di mia sorella ed io, famosa per ridurmi sempre all’ultimo anche con le cose più importanti, ero ancora alla spasmodica ricerca di un abito da indossare in onore dell’occasione.
«Una parte di me vorrebbe che tu non vedessi il mio vestito fino all’ultimo. L’altra invece sa benissimo che non siamo noi due a doverci sposare e se ne frega».
Mi feci lontana dagli ultimi stand che avevo deciso di controllare, con le braccia ricolme di vestiti e l’aria stanca. Avevo girato milioni di negozi d’alta moda alla ricerca dell’abito perfetto senza però trovare niente che mi convincesse sul serio: sapevo fosse troppo tardi per mettersi a fare la schizzinosa, ma non volevo comunque che mia madre spendesse soldi per un vestito che poi non avrei più indossato. Dovevo fare una scelta ragionevole e ragionata, ma decisi mentre mi dirigevo verso i camerini che quella sarebbe stata l’ultima boutique nella quale avrei messo piede. Mi conveniva quindi trovare qualcosa di davvero carino.
«Non potevo venire qui solo con mia madre e Cass: loro mi direbbero che sono bellissima anche se decidessi di indossare un vecchio sacco di patate», continuai a straparlare tra me e me – tipico di quand’ero nervosa – senza nemmeno curarmi dell’evenienza che Stiles potesse non starmi più né seguendo né ascoltando. Ecco perché prima di riprendere con quel discorso senza senso mi voltai a cercare la sua figura magra e slanciata: «Tu invece mi dirai cosa pensi anche stando zitto: mi basterà leggere l’espressione del tuo viso. O la tua mente».
Quelle ultime parole – e il tono fintamente minaccioso col quale le avevo pronunciate – sembrarono finalmente smuovere Stiles dalla trance silenziosa nella quale era caduto, procurandogli un visibilissimo brivido.
«Mi spaventi, quando fai così», spiegò, torturandosi nervosamente il retro del collo prima di muovere l’ennesimo passo nella mia direzione. «Mi sento scoperto su tutti i fronti».
Alzai gli occhi al cielo, stringendomi al petto la pila di vestiti prima di dare a Stiles le spalle e riprendere ad avanzare in direzione dei camerini. «Scherzo, lo sai. Non uso su nessuno il mentalismo».
«Ma ti sei comunque allenata per migliorarlo».
«Certo che sì», concessi, voltandomi a guardare Stiles un’altra volta ancora. «Nessuno sa quando e quanto potrebbe servirmi. Non voglio più sentirmi debole. Ma ciò non vuol dire che comincerò ad usare i miei poteri su chiunque, sta’ tranquillo».
Stiles sospirò e nel silenzio che cadde mi presi tutto il tempo che mi serviva per riflettere sul significato delle parole che c’eravamo scambiati, sulla sua apparente preoccupazione riguardo i miei poteri sempre più forti – una preoccupazione che capivo perché era anche mia. Solo un anno prima non avrei mai potuto immaginare di dover scoprire così tante cose sul mio conto, non mi vedevo portatrice di poteri di chiaroveggenza né tantomeno in grado di leggere i pensieri altrui a comando. Eppure era successo, quella era la mia vita e stavo finalmente imparando a conviverci. Dopo quasi un anno ogni tassello sembrava aver ritrovato il suo posto ed io avevo acquistato un nuovo – e forse migliore – equilibrio.
«Sono tranquillo. Mi fido di te».
Ricercai la figura di Stiles alla velocità della luce: lo trovai poggiato contro lo stipite della porta del camerino che avevo infine scelto, intento a riservarmi uno degli sguardi per i quali sarei stata capace di fare qualsiasi cosa – quegli sguardi che erano solo suoi e che probabilmente avevano quell’effetto deleterio solo su di me. Poi recepii le sue parole – Mi fido di te – e non sorridergli mi venne impossibile.
«Anch’io. Ecco perché sei qui», mormorai, dando le spalle a Stiles per dedicarmi alla scelta del primo vestito che avrei indossato. «Aspettami fuori e preparati a fare al meglio il tuo lavoro di giudice». Feci per chiudermi la porta alle spalle, ma Stiles la bloccò con un piede facendomi sobbalzare dall’estrema velocità con la quale si era mosso. «Cosa c’è?»
Cercò i miei occhi, ancora. «Sei sicura di volere che aspetti fuori? Non è che hai bisogno di aiuto con la zip o…».
Dovetti sforzarmi per non scoppiare a ridere. Per Stiles ogni scusa era buona. Scossi la testa, spingendolo fuori dal camerino quanto bastava a chiudermi la porta alle spalle. E poi cominciai a spogliarmi, libera da occhi indiscreti e fin troppo deconcentranti.
 
Schiacciata all’improvviso da un cumulo di emozioni inaspettatamente intense, mi strinsi le braccia al petto, lasciando che la pelle mi si riempisse di pelle d’oca al contatto con gli strass bianchi che adornavano la parte frontale del vestito che anche grazie all’aiuto di Stiles avevo scelto di indossare durante uno dei giorni più felici della vita di mia sorella Cassandra.
Inspirai, nella speranza piuttosto vana di riuscire a calmare il tumulto che mi aveva presa di botto mentre poggiavo la schiena contro il freddo muro del ristorante. Dopo la cerimonia in chiesa ci eravamo tutti riuniti lì ed era stato un continuo ridere e ballare, almeno finché una violenta consapevolezza non mi aveva colpita allo stomaco. Mia sorella era una donna sposata, ora. Era adulta. Mai come in quel momento i nostri undici anni di differenza mi pesarono tanto.
«Puoi piangere, se vuoi».
Il respiro mi si mozzò nuovamente in gola a quelle parole. Cercai velocemente lo sguardo apparentemente inespressivo di Stiles: se ne stava di fronte a me, con gli occhi fissi sulla mia figura tremante e le mani infossate come quasi sempre nelle tasche del pantalone scuro ed elegante che aveva scelto di indossare per l’occasione. Sospirai.
«Non…», provai a spiegargli, ma quella mia replica non trovò mai fine.
Non voglio piangere? Non posso? Non ci riesco? Cosa avrei sul serio voluto dire a Stiles? Non lo sapevo neanch’io.
«Mia sorella è la signora Irvine, ora», dissimulai quindi.
Stiles annuì, facendomisi più vicino contro il muro del ristorante. Era una calda giornata di inizio giugno e l’aria estiva illuminava il suo viso privo di sfumature. «La cosa ti sconvolge tanto?».
«Non so nemmeno perché», borbottai, fissandomi le braccia nude come se all’improvviso fossero la cosa più interessante del mondo. «È come se avessi realizzato a pieno solo ora, a cose fatte e finite. È assurdo, ho sempre saputo che Cass e Jamie avrebbero finito per sposarsi».
«Magari non ti aspettavi che succedesse così presto. Per te, intendo. O credevi che sarebbe andata diversamente. Va bene essere sconvolti. Sono sicuro che lo sei in positivo, ed è normale».
«Certo che lo sono in positivo! Sono contenta per Cass. Hai visto come sorrideva? Non credo di averla mai vista così felice in vita mia», osservai, quasi incredula – inspiegabilmente. «Solo che è tutto così strano…».
Non guardavo più Stiles in viso, eppure lo sentii comunque ridacchiare al mio fianco e immaginai l’espressione sul suo volto senza alcuna difficoltà. «È normale, Harry».
No. No che non era normale. Come niente nella mia vita da circa un anno a quella parte.
Presi un profondo respiro, chiudendo brevemente sugli occhi sullo spiazzo erboso nel retro del ristorante.
«Mio padre l’ha accompagnata all’altare, Stiles», mormorai infine, quando riuscii a sentirmi almeno un po’ di più padrona delle mie sensazioni. «Quando parlavamo dei nostri matrimoni lo facevamo sempre convinte del fatto che quella navata l’avremmo percorsa da sole, come siamo sempre state. Ultimamente avevamo preso a sperare che potesse accompagnarci Adam. Ma Philip…».
Di nuovo, le parole mi morirono in gola e nel giardino assolato cadde un silenzio fin troppo rilassato. Nella calma del momento mi presi tutto il tempo di cui avevo bisogno per ripassarmi nella mente l’immagine di mio padre avvolto in un completo scuro ed elegante – senza occhiali da sole né una delle sue solite giacche di pelle – mentre percorreva la navata centrale della cattedrale di Austin con mia sorella sottobraccio. Ancora stentavo a crederci.
«La vita ci sorprende sempre quando meno ce l’aspettiamo», osservò Stiles all’improvviso, e il tocco delle sue dita sul mio braccio nudo mi riportò bruscamente alla realtà.
Una realtà nella quale mi toccava assolutamente fare i conti con la sincerità delle sue parole. La vita ci sorprende sempre quando meno ce l’aspettiamo, era vero.
Trasferendomi a Beacon Hills il settembre prima mai avrei potuto immaginare di poterci trovare una seconda famiglia, un ragazzo che amavo, parenti che nemmeno sapevo di avere, rapporti persi e potenzialità sempre state nascoste. Ma era successo, tutto, e non mi pentivo di nulla. Per quanto improvviso e inaspettato fosse stato. Come un fulmine a ciel sereno.
   
 
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