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Autore: frown    23/01/2016    1 recensioni
Elle ha solo diciannove anni ma si divide tra amici dalle personalità estrose, serate alcoliche da sobria e una sorella maggiore petulante che non ha la minima idea di cosa siano la privacy o lo spazio personale e sembra ottenere comunque tutto ciò che lei ha sempre voluto.
In tutto questo capitano casualmente Andreas e Lysander.
Tra pensieri incoerenti di un cervello esausto, Elle capirà che ciò che ha sempre desiderato l'ha sempre avuto di fronte e, nonostante tutto e tutti, lei può ancora prenderselo quando vuole.
"Ho diciannove anni, pochi spiccioli per le sigarette, gli occhi stanchi, le labbra screpolate, qualche sogno irrealizzabile, ma non ho te"
"Non te ne rendi proprio conto? Sai quanto fanno male le tue parole? E i condizionali passati? Ma non lo senti il dolore fragile in 'Saremmo stati'?"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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cocoa butter kisses

(1).

I feel the chemicals kickin' in 

 



Non c'è niente di romantico in un campo di fiori. O in una canzone alla radio. Né nella nuvola a forma di vascello volante.
Ma noi? Cosa c'è di romantico negli sguardi fugaci e introversi che lancio allo specchietto retrovisore, ad intervalli regolari, dove puntualmente incontro i tuoi occhi scaltri e impavidi?
Nella tua auto che odora di agrumi, negli zaini pesanti nel baule polveroso, nei finestrini abbassati, nei biglietti lasciati sul cruscotto, nella mappa che impugno così forte da farmi sbiancare le nocche. Cosa c'è di romantico?
“Sta dormendo” mi lascio stupidamente sfuggire dalle labbra audaci. “C'è qualcosa che vuoi dirmi?”
Le mie ginocchia si scontrano l'una con l'altra quando la tua auto calpesta un ramoscello piuttosto spesso. Lancio uno sguardo a mia sorella rannicchiata sul sedile del passeggero, dorme spensierata con un braccio a coprirle gli occhi e producendo un sottile rumore nasale.
“Cosa?” dice ridendo.
Sorrido, cercando di fare in modo che il mio cuore non si spezzi troppo in fretta.
“Niente” rispondo scuotendo la testa con aria innocente.
“Sei solo la mia migliore amica. Lo sai, vero?”






L'amore della mia vita ho sempre sognato di incontrarlo ad una festa, amico di amici. Il festeggiato è prematuramente ubriaco quando ci presenta e io non mi rendo conto di avere di fronte l'amore della mia vita.
Ci presentiamo, quindi, inconsapevoli.
Magari non rispetta i miei canoni ideali del “Ragazzo Perfetto”: non è biondo come vorrei o forse ha la “r” moscia.
Cominciamo a parlare, a conoscerci. E io quella sera non sono neanche truccata, indosso la camicia di mio fratello sopra al giaccone di mio padre, un paio di jeans sdruciti. Tuttavia, non mi sento nemmeno un po' a disagio, non essendo intenzionata a fare colpo, non mi fingo qualcuno che non sono e chiacchiero liberamente, scoprendo che abbiamo molti interessi in comune.
Ci salutiamo prima di andare a casa e magari mi ritrovo a fantasticare su un bacio che avrei potuto dargli, su una me intraprendente che non sarò mai. Poi, su un nostro futuro insieme.
Ma sono quei pensieri che scacci subito con un sorriso perché in fondo sai che non potranno mai accadere. Quei pensieri che ti accompagnano anche prima di andare a dormire.
Lui lo rincontro in giro per caso. Parliamo ancora, perché a me piace il suono della sua voce, il modo in cui gesticola. Magari ci ritroviamo in biblioteca, scopro che non mi sento in imbarazzo con lui e che i suoi occhi sono belli quanto la sua voce. E non me ne frega niente se non è biondo.
Non ho mai pensato a due persone che senza conoscersi minimamente iniziano a frequentarsi, ci ho sempre visto un'amicizia dietro, ed è così che comincia.
Ed è così che è iniziata con Andreas.




Quella sera, si festeggiava il compleanno di Connor.
Rhett aveva organizzato la festa, che in realtà doveva trattarsi di una festa a sorpresa, ma l'incapacità di Rhett a tenere la bocca chiusa sommata alla curiosità infantile e morbosa di Connor aveva portato tutto in un'unica direzione.
Al mio arrivo Connor era già ubriaco e Rhett cercava di impedire a Lols di vomitare anche nel vaso della pianta che avevano comprato al British Museum.
Connor mi era subito venuto incontro con un sorriso birichino, adocchiandomi varcare la soglia con un pacco regalo ingombrante e una t-shirt che recitava “he is gay” con due frecce che indicavano sia a destra che a sinistra.
Mi aveva raggiunto sudato, ridendo e gridando gioioso, salutando tutti gli invitati con baci volanti. Quando mi fu vicino, mi si gettò addosso improvvisando un abbraccio molto espansivo.
Ed era iniziata così quella maledetta serata, tra schiamazzi, alcool e principi di risse.
A metà serata già non vedevo l’ora che finisse, non credevo avrei sopportato ancora a lungo un approccio di Yunas o un drink ideato e creato da Lola.
Il Cosmopolitan che Lols aveva servito a Nancy le era costato dieci minuti di sessioni di piegamenti sulla tazza del water.
Connor stava giusto per spiegarmi come creare un Cosmopolitan fai-da-te decente quando, un ragazzo con le gambe scandalosamente lunghe fece il suo ingresso. Aveva il volto contorto in una smorfia irrisoria e un ragazzo al suo seguito. “Lysander!” aveva gridato il mio amico arrampicandosi sul corpo del primo ridendo come un matto.
Lysander – come presupponevo si chiamasse – aveva accettato l’esuberanza del mio amico ricambiandola con un paio di pacche sulle spalle.
Il secondo ragazzo aveva, invece, optato per un saluto più anonimo, che tutti giustificammo come timidezza.
“Sono sicuro che ti divertirai” aveva continuato Connor, una volta recuperata un po’ di calma, fissando Lysander un po’ trasognato. “Anche tu Andreas, ti affido a Elle, non è ancora oltraggiosamente ubriaca, conto su di te: quando torno la voglio trovare in coma” e così il mio amico mi aveva presentato quel ragazzo dal sorriso affabile.
Connor aveva a quel punto preso sotto braccio Lysander e trascinato verso un gruppo di persone che l’ultimo arrivato sembrava conoscere.


Andreas era adorabile, neanche un po' saccente o presuntuoso, non mi parlò di sé con fare arrogante narcisizzando la conversazione, anzi, tendeva a basare il nostro dialogo sulle mie osservazioni, sottovalutando la sua vita con esclamazioni tipo “non sono poi così interessante” minimizzando tutte le sue imprese.
Quando rideva due dolci fossette comparivano ai lati della sua bocca. Quando invece vedeva una cosa scocciante, contorceva le labbra arricciandole, assumendo un'espressione infantile. Mentre, quando era sinceramente stupito, spalancava la bocca in una smorfia ridicola, mostrando un dente scheggiato.
Dopo un paio di bicchierini contenenti un liquido verdognolo, aveva preso a cantilenare il mio nome con una lena che mi ricordava una ninna nanna. Era dolce, nonostante il tono quasi di rimprovero. “Eléna, Elèna, Helena” diceva, cambiando a suo piacimento la pronuncia.
Gli raccontai dei cd che mia sorella dimenticava nella mia macchina, del grammofono che avevo in camera mia, dei libri che avrei dovuto restituire alla biblioteca da settimane.
Lui ascoltava, rideva e commentava con altri anedotti.
Mi raccontò di tutti i criceti che gli erano morti da bambino, del gatto antipatico della vicina di casa, di quanto avrebbe voluto avere un cane e della sua allergia alle arachidi.
Quando la serata stava già giungendo al termine, seduti sul divano diroccato al centro del salotto, gesticolavo spalancando gli occhi di tanto in tanto parlando di Amsterdam e della metropolitana coloratissima di Barcellona, lui mi ascoltava ammaliato, seguendo con gli occhi una volte le mie mani, un'altra la mia bocca, un'altra ancora i miei occhi. “Gesticoli come un italiano” aveva detto a un certo punto. Io avevo riso, arrossendo e stringendomi nelle spalle.
A un certo punto, puntò lo sguardo su Lysander che sfidava a Guitar Hero Rhett, mentre Connor esausto, con indosso le tende del bagno e il volto travolto da pennarelli indelebili colorati, annaspava sdraiato sul tavolino di vetro, su cui di solito cenavamo.
“Vorrei rimanere più a lungo, ma, davvero, domani devo alzarmi presto e-”
“Okay” l'avevo subito interrotto, col timore di sembrare disperata o appiccicosa. Si alzò, stiracchiò e iniziò a rassettarsi i vestiti.
Con indifferenza lo imitai, accompagnandolo alla porta grattandomi il gomito
“Tu che fai? Resti?”
“Aspetto che Lols smaltisca la sbornia con il quarto espresso, poi dormo da lei. Abita qui affianco” e gli indicai maldestramente l'appartamento sbagliato. “No, forse era quello” replicai indicandone un altro difronte a quello di Rhett e Connor.
Lui aveva ridacchiato divertito dal mio cattivo senso dell'orientamento, guidato dai bicchieri di Tequila di troppo, passando in rassegna gli altri tre appartamenti sullo stesso piano di quello di Rhett.
Mi salutò – alla fine – scuotendo la manina come un bambino, e sorridendomi mi disse: “E' stata davvero una bellissima serata, Elena. Solo grazie. Per averla trascorsa con me” ed era sparito.
   
 
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