Ci sono occhi giganteschi a guardarlo, orecchie ancora più grandi che ascoltano il suo respiro e lui è fermo a ricambiare lo sguardo, interdetto e destabilizzato per una manciata di secondi: ha dimenticato la sua meta e le mani si irrigidiscono, nelle tasche del cappotto.
Si concede un sospiro, affondando la bocca nella sciarpa, osservando
la condensa del suo respiro e poi tornando al coniglio gigante,
potrebbe mangiarlo con un solo morso.
Ma perché un coniglio
dovrebbe mangiare proprio lui? Ci sono poche cose che venera: i
conigli sono tra quelle, quasi sullo stesso piano del denaro. Un
coniglio non deciderebbe mai di mangiarlo.
Assurdo.
Assurdo anche e sopratutto, perché è un coniglio di ottone, quello che ha davanti: una titanica statua nel bel mezzo di una piazza e che lui ha sempre accuratamente evitato da almeno cinque anni a questa parte.
Sembra che qualcuno dall'alto -messo che esista, lui ha non pochi dubbi a riguardo- ci sia messo con impegno o semplicemente non riesce ad accettare di essere stato così sommerso dai pensieri e dalle elucubrazioni da esserci finito da solo lì. Assottiglia lo sguardo, con sfida, trovandosi in competizione con gli occhi inanimati della statua e che qualcuno aveva definito “inquietanti”, una volta.
Deglutisce: ha perso la sfida con un coniglio gigante, 'chè in una sorta di remémbrance, non ha potuto fare nulla per i ricordi che l'hanno investito come fotogrammi, neanche troppo sbiaditi, di un film che ha visto veramente troppe volte.
Abbassa le palpebre a mezz'asta e si porta la pipa alla bocca, aggira il monumento e appoggia la schiena ad un fianco del coniglio, gli occhi verdi si perdono ad osservare i ghirigori evanescenti del fumo mentre la mente, in modo altrettanto evanescente, si concede i propri ricordi, le proprie immagini e lui, questa volta, davvero non ha potuto nulla per bloccare il flusso di pensieri.
#Aprile, 2009.
Non era raro, ormai, che molte multinazionali, spostassero le loro sedi legali nei Pesi Bassi, anzi, sembrava essere diventata una prassi molto frequente ma nessuno, nessuno, aveva mai necessitato di tanto tempo e precisazione come gli svedesi.
Tre anni dalla proposta all'attuazione, tre anni di rimostranze e scetticismo: tanto tempo sprecato in una serie di riunioni che lui aveva giudicato come inutile, come qualunque spreco.
Uno spreco, resta uno spreco, anche di tempo: il tempo è denaro e lui lo sa bene. Il suo modus vivendi è filosofia pura: sprecare non produce, non produrre indica piattume statico nel guadagno.
Si raddrizzò sulla sedia, sentendo lamentarsi ogni singola vertebra della spina dorsale: quanto tempo era rimasto in quella posizione? Aveva perso la cognizione e nonostante questo, nulla, nella sua fisicità o nella sua espressione lasciava intendere l'insofferenza: si trattava di lavoro e di affari, in ogni caso, la serietà ed il rispetto erano sempre in primo piano, permeati anche della stima verso degli ospiti così puntigliosi e pruriginosi. A quel pensiero, spostò lo sguardo sul rappresentante della nazione svedese che sembrava particolarmente ligio, in quel contesto: seguiva la discussione con gli occhi fermi sui documenti, annuiva, ogni tanto, come a voler confermare la sua presenza mentale oltre fisica, faceva scivolare la penna sui fogli, firmando. Tutto ad intervalli regolari e perfettamente calibrati, poi senza parlare mentre una mano era ferma sulla pila, quella libera, gli passò uno dei documenti, con una piccola “x” su dove avrebbe dovuto firmare lui.
Olanda inarcò un sopracciglio: aveva sul serio precisato dove lui dovesse firmare? L'aveva fatto sul serio, come se lui fosse il primo incompetente passato di lì?
Questa era davvero esilarante. Che poi, cosa c'entravano loro, con l'Ikea? Non era mica patrimonio nazionale? Va bene avere le proprie fissazioni ma far sottoscrivere anche a lui un contratto in cui si impegnava a non infangarne il nome od assumesse comportamenti deleteri per la multinazionale svedese, era davvero troppo. Respirò profondamente, sciolse le braccia, ancora in conserta, per recuperare la propria penna.
«Grazie per la “x”, pensavo di dover firmare in alto a destra.»
La lingua era partita prima che potesse giudicare se fosse un'affermazione pertinente oppure no, probabilmente, anche ragionandoci, non avrebbe potuto evitare quella constatazione sarcastica e velatamente piccata. Svezia lo guardo e sembrò accorgersi in quel momento di lui, arcuò entrambe le sopracciglia, restando interdetto per qualche istante.
Stava giudicando se fosse serio, forse? Questo avrebbe dovuto offenderlo nel verso senso della parola: sembrava che lo svedese credesse di interagire con uno sprovveduto.
O forse, aveva interrotto la sua concentrazione.
«Era
una battuta, Zweden.»
Puntualizzò mentre firmava leggermente
più lontano dal segno fatto precedentemente,
così, in uno slancio
di ribellione che probabilmente, avrebbe notato soltanto lui. Svezia
non aggiunse altro, tornando completamente concentrato alla riunione.
Che tipo.
«Fuori luogo.»
Olanda lo guardò con la coda dell'occhio: l'aveva appena rimbeccato. Increspò le labbra in un sorriso sghembo e soffiò aria dal naso conscio che forse, solo forse, era stato fuori luogo sul serio.
*
"Le chicche": Coffeeshop fuori dal
centro, frequentati
quasi esclusivamente dai locali, solitamente con prezzi più
bassi
rispetto alla media del centro.
"Le chicche" perché
non erano gremiti di turisti ed era lì che si viveva sul
serio la
notte olandese, la notte della sua Amsterdam.
Ed era per questo
che l'aveva condotto all' Het Ballonnetje, al confine fra il centro e
il quartiere Oost, di fronte all’università:
ambiente molto
pulito, grande varietà di the e infusi e zero orde di
stranieri coi
cappellini "Amsterdam". Storse appena il naso al solo
pensiero di quegli odiosi capi d'abbigliamento.
Portò la pipa
alla bocca, guardando con coda dell'occhio l'uomo accanto a lui,
erano entrambi di poche parole. Un eufemismo per descrivere la
"palpabile emozione" del soggiorno olandese di un
improbabile turista svedese.
Non si era ancora abituato a non dover
abbassare lo sguardo per raggiungere il viso del proprio
interlocutore: l'altro era probabilmente l'unica persona più
alta di
lui, che conosceva.
«Davvero
colorato.»
Commentò Berwald, fermo davanti la vetrina, la
borsa del computer portatile sotto il braccio. Lo stesso commento che
aveva fatto per le case sul porto, per le vetrate delle chiese, per i musei
d'arte. Wilhelm, d'altronde, s'era limitato a scrollare le spalle:
non è che lui vantasse questa grande dialettica ed andava
bene così:
nessuno dei due sentiva il bisogno di riempire i silenzi con
affermazioni ridondanti, superflue, considerazioni non richieste.
Tutte quelle cose che, alla fine, si rivelano sempre fastidiose ed -a
tratti- persino imbarazzanti.
Il brusio del locale non era
molesto, e non lo era neanche il leggero alone del fumo.
Entrambi,
inconsciamente, finirono per far indugiare le orecchie ed i pensieri
sulle parole degli altri clienti. L'olandese si chiese come fosse
possibile accostare la propria lingua a una serie di gargarismi:
aveva sentito più di una persona affermarlo.
Non lo svedese, lui
stava pensando che quella versione del tedesco gli piaceva, era
più
dolce, più musicale.
Nessuno dei due ne fa parola, entrambi classificano quel genere di considerazione come “inutile”.
Svezia
dovette giudicare “inutile” anche chiedere una
traduzione del
menù, perché, richiudendolo con tutta la calma
che ben celava un
certo fastidio nel non aver trovato la traduzione inglese, si
limitò
ad ordinare un “espresso” normale.
Se Wilhelm non fosse stato
sé stesso, probabilmente si sarebbe spalmato una mano sul
viso, in
evidente stato di frustrazione.
Si limitò, piuttosto, a scuotere
il viso ed espirare il fumo dalle narici, guardando il proprio
interlocutore.
«Bene.
Ordino io.»
Di poche parole e pragmatico. Il benedetto caffè,
per Berwald, lo ordinò sul serio, insieme alle birre e a
dello
skunk, fu l'ennesimo tocco sarcastico. Non sarcastica quanto
infastidita, invece, fu la mano che con lentezza e decisione,
richiuse il portatile che l'altro aveva appoggiato sul tavolo: non
c'era stato un attimo in cui non l'avesse visto ticchettare al pc,
qualunque cosa stesse scrivendo, in quel momento non credeva di
riuscire a sopportare oltre il rumore molesto delle dita sulla
testiera. Lo svedese gli riservò un'occhiata perplessa e
moderatamente inquietante, probabilmente, non voleva esserlo ed, in
ogni caso, non è che Wilhelm avesse lo sguardo
più gentile e
cristallino del mondo, anche fermarsi a ragionare sulla questione,
quindi, fu classificato come “inutile”.
Ora,
non si sarebbe mai aspettato che la serata potesse prendere una piega
tanto diversa con il solo ausilio di un po' d'erba, per quanto fosse
pregiata, lo intuì velatamente soltanto quando l'altro,
sembrò
osservarlo con dovizia attonita, la naturalezza con cui lui
annusò
la bustina arrivata con l'ordinazione. Non contento, la
allungò
sotto il naso dello scandinavo che per il bene dell'integrazione
culturale e della mera e semplice curiosità, lo
imitò, limitandosi
ad un'altra occhiata, questa volta un pelo esterrefatta.
Olanda
accennò un sorrisino di soddisfazione mosso dall'insano
divertimento
nel constatare una reazione nell'altro, solitamente sempre troppo
composto e silenzioso.
Da che pulpito, poi.
Bisognava battere
il ferro finché era caldo: in altre parole, approfittare di
quel
momento di stordimento per evitare le lamentele o l'ostracismo che
sarebbe potuto arrivare a breve.
Una mano andò a frugare nella
tasca della giacca, tastando con le dita il contenuto: l'accendino,
la busta di tabacco ed il tritino.
Eh sì, il nostro caro
olandese, persino lui, s'esaltava quasi, in determinate situazioni.
Che piega assurda, che circostanza paradossali, che protagonisti inusuali.
}
}
}
«Tu lo fai spesso?»
«Sì.»
«É
un modo come un altro per rilassarsi ed allentare la presa.»
«Che c'è?»
«Non c'è nulla, notavo solo i tuoi occhiali sul tavolo, Zweden.»
«Anche
Belgio lo fa spesso?»
«No. Non penso sia
proprio il caso.»
«Hai ragione. Nemmeno io farei sentire queste cose a Tino.»
«Secondo
me, ci sarebbe da divertirsi con Finland.»
«Secondo me, ci sarebbe da divertirsi con Belgio.»
«Nee.
Non ci pensare neanche.»
«E tu non
pensare a Tino.
'Chè io, al massimo, con Belle cucinerei
waffles.»
«Nee. Non penso a Finland. Non é
propriamente il mio tipo. E grazie, Zweden, ora ho
voglia di
waffles.»
«Qual è il
tuo tipo? ― Non
vendono waffles qui? Siamo vicini al Belgio. ― Perfino all'Ikea si
vendono.»
«Stai diventando
logorroico. Che ci fanno dei waffles da Ikea? Zweden quanto tempo
trascorri in media da Ikea? Il mio tipo é un divano Ikea, ne
sono
fortemente convinto. Uno di quelli che si
aprono.»
«Bel
divano.
...Allora,
qual è?»
Gli
poggiò poi il filtro tra le labbra, tenendolo tra le sue
dita,
evitandogli di scottarsi, quindi. Non rispose, osservando il punto
esatto in cui la bocca di Berwald toccava i propri polpastrelli,
passò poi a guardare gli occhi leggermente arrossati
dell'altro:
probabilmente entrambi avevano i sensi alterati ed una
sensibilità
diversa in quel momento, una modalità stessa di approccio
nettamente
differente al loro usuale ed era divertente quasi, avere
quell'immagine dello svedese, laddove l'aveva solo visto rigoroso,
ligio e gelido.
Da che pulpito, poi, per la seconda volta.
«Ultimi tiri.»
Spiegò, non trattenendo il sorrisino sghembo ma questo non bastò all'altro che si chinò verso di lui aspirando il fumo, senza espirare e senza interrompere il contatto visivo. Era pacato, forse non glaciale come sempre ed era una sensazione che gli piaceva in cui, in fondo, si sentiva persino a proprio agio e Olanda continuava a guardarlo, deglutii.
«Chi
lo sa, Zweden. Potresti essere tu ed io ti sto inibendo le
capacità
per abusare di te.»
«Du
pratar nonsens.»*
«Nee.
Sono serissimo. Pensi che sia uno che parla a vanvera?»
«Prost.
No
― forse.»
Sebbene aspirasse, sentiva ormai solo il sapore
del filtro, e la consistenza delle dita dell'olandese che lo
riportò
alle proprie: ultimo tiro e con un'imprecazione dovuta alla
scottatura -che aveva provato ad evitare- spense il mozzicone nel
posacenere.
Sventolò la mano destra per far raffreddare il punto
dolente e fuori da ogni logica infilò le due dita nella
birra
dell'altro. La sensazione di refrigerio fu un'attenuante a non
interrompere quella posizione. A ben vedere, neanche Berwald
sembrò
stranirsi di quel gesto, anzi, si limitò a calare lo
sguardo, per un
istante, al bordo del bicchiere di vetro.
«Qual
é il tuo tipo, invece?»
Se Olanda, avesse pensato,
minimamente di aver ulteriormente scosso l'animo di Svezia, dovette
seriamente ricredersi quando lui, andando contro qualunque
pronostico, gli prese il polso alzandogli la mano quanto bastava per
prendere un sorso dal bicchiere e poi leccar via i sapore di birra
dalle sue dita.
«Skunk.
È uno skunk.
Si bloccò un attimo a quel sagace gesto,
dettato sicuramente dalla momentanea perdita dei freni
inibitori.
Inarcò un sopracciglio, lasciando ancora il polso
nella sua presa. Sembrava essersi innescata una sorta di sfida tra le
due personalità che definire ostica, si rivelava
eufemistico. C'era
un qualche senso? Era davvero colpa dell'alterazione dovuta all'erba?
Quanto c'era di reale in quei momenti?
E, sopratutto, c'era realmente bisogno di appesantire il momento con tutti quei pensieri, quegli interrogativi che non avrebbero mai avuto una risposta esaustiva?
Ancora una volta, entrambi ragionavano sulle stesse cose, inconsapevolmente ed ancora una volta, entrambi giudicarono sovrabbondanti le elucubrazioni, concedendosi l'incertezza di quel momento.
«E sia skunk. Ma non sai quante altre varietà esistono...»
«Altre
varietà di questo o di tipi?»
Svezia non riusciva a
focalizzare bene il discorso, le parole e, tuttavia, quella
momentanea e piccola perdita del controllo totale, non lo disturbava,
per quanto, ovviamente ne fosse stupito persino lui stesso. Sembrava
che le parole gli scivolassero da un orecchio a all'altro, e via, sul
tavolo, per terra. Guardò la mano dell'altro.
«Perché
se si parla di olandesi, non ho dubbi al momento.»
Restò in
silenzio per un momento, lasciando che le parole dell'altro si
chiarissero meglio nella mente, onde evitare refusi o
malintesi.
Distese le braccia, stiracchiandole e notando il viso
dell'altro prendere una leggera tonalità, reazioni fisiche
normali
in quella situazione, dovute anche al locale che si stava affollando
sempre di più.
Fece schioccare la lingua contro il palato,
scuotendo il viso ed ammettendo di essere stato preso alla
sprovvista.
Quasi per fargli il verso, si mise nella stessa
posizione dell'altro: poggiò i gomiti sul tavolo ed il viso
alle
mani, trovandosi più vicino al suo volto.
«Si
parla di quello che tu vuoi che si parli. Si intende quello che tu
vuoi si intenda.»
«...Quasi mi dimenticavo quanto tu sappia
vendere bene le tue cose.»
Lo svedese ghignò persino: belle
soddisfazioni da un uomo che era sempre sembrato troppo composto,
rigoroso ed -a tratti- imperturbabile. Una piacevole sorpresa che
sentì agitargli leggermente le membra, in modo lento e
strisciante,
qualcosa che si diramava fino alle estremità.
Gli occhi sondarono
le labbra piegare in quel sorriso, sentendo stranamente secche le
proprie, tirò un profondo respiro.
Rise sommessamente, gutturale,
le dita tamburellavano sulle proprie guance.
«Non
sprecherei energie a vendere qualcosa che sembri aver deciso
già di
prendere.
Nee. Piuttosto, ti lasciavo un margine di decisione,
dopotutto, sei l'ospite.»
Entrambi
avvertivano, sempre più prepotente, quel senso di sfida, una
certa
adrenalina che non sapevano addurre se alla situazione, al contesto.
Wilhelm pensò che quegli occhi glaciali contrastavano
fortemente con
i gesti, con le parole di quella sera amorfa.
«Quale
risposta vuoi avere, Zweden?»
*
«Non è la cosa più bella che tu abbia mai visto?»
La
sensazione di trance edenica in cui cadeva ogni volta che si
ritrovava davanti a quel coniglio é vagamente paragonabile
alla
sindrome di Stendhal, un amore viscerale e si faceva quasi violenza
nel non correre ad attaccarsi al muso del gigantesco animale, gemendo
appena nel reprimere quell'impulso e mordendosi l'interno della
guancia, spostò lo sguardo sul proprio interlocutore.
No, era più
forte di lui: non ci riusciva. Lo trascinò come mosso da
volontà
superiore vicino la scultura e si fermò proprio in
corrispondenza
della testa.
«Il
coniglio, intendi? Nej.»
E si era persino limitato: Berwald
trovava quell'obbrobrio, non solo orribile ma anche fastidioso.
Bloccava il transito, bisognava aggirarlo e, tuttavia, intercettando
gli occhi verdi dell'olandase in stato di semi-adorazione,
intuì che
doveva piacergli molto e l'ennesimo pensiero, quella sera,
sfuggì
alla razionalità, trovando a giudicare adorabile
l'espressione
assunta dall'altro che si trasformò in contrita non appena
lui aveva
risposto.
« È sicuramente impressionante, ma non
è il mio
genere di cose.»
Wilhelm era incredulo: nella sua testa
confusa dai fumi e dai conigli, non poteva esistere qualcosa di
più
mirabile. Sospirò impercettibilmente cercando di recuperare
contegno
e la virilità scivolata via davanti a cotanta commozione.
Lo
guardò serio e portò la pipa alla bocca.
«Quale
sarebbe il tuo genere di cose? Cosa c'è di meglio?»
«Uh, se intendi di arte...Arte figurativa. Non capisco quest'arte concettuale. Ma a parità di scenicità, mi godo molto di più la natura.»
«Guarda che questa scultura, prima, era ad Örebro, in Svezia. Ce l'avere regalata voi. Si trovava contro contro la statua di Engelbrekt. Un modo per esplorare le dimensione del vedere e del vivere lo spazio pubblico.»
Sì, l'olandese, risultava davvero adorabile quando provava a dare un senso a qualcosa di così inutile e ingombrante. Fondamentalmente, a Berwald, non interessava da dove venisse quel coniglio gigante, anzi, fu contento che non si trovasse più in Svezia. Evitò di sciorinare almeno venti motivi circa l'idiozia di un tale spreco di rame -o forse era ottone?-, solo per non distrarlo, per continuare ad osservarlo indisturbato e forte di uno slancio di...- non seppe spiegarsi bene cosa, la propria mano raggiunse quella dell'altro.
Fu un
gesto non eclatante e neanche destabilizzante, nessuno dei due se ne
stranì, fu un qualcosa di basso, come un sussurro e per
nulla
invadente. Sembrò totalmente naturale.
Olanda lo guardò con la
coda dell'occhio.
«Andiamo. Ho ancora voglia di waffles.»
«Jhoo.»
***
E così, come nei ricordi, loro si allontanarono dalla statua, lui svolta a destra, diretto verso casa.
Solo che, questa volta, è solo.
E
DUNQUE.
Ho partorito questo primo capitolo. Evviva Dio.
Ringrazio _ ghost_ writer e LEDitbe che hanno recensito lo scorso capitolo, passo subuto a rispondere anche alle vostre recensioni.
Sono le
2.26. Domani ho un esame e probabilmente ho dimenticato il 90% di
quello che volevo dire in queste note autore.
Vogliate scusarmi.
Grazie per aver letto e grazie a chi recensirà e, come
sempre,
grazie a chi mi sostiene ed ha sopportato i miei continui scleri su
questo capitolo.
Alla prossima,
Awesomissima123