Un’ottava
sotto
Che
brano ridondante, zeppo d’acuti e acciaccature, come
può esserlo solo un
panettone di canditi. Infatti, proprio come quello, lo trovo pesante,
indigesto
al punto da darmi la
nausea.
Vorrei
essere altrove, distante dal leggio dove incombe e m’attende,
come una
maledizione biblica, questa esecrabile partitura punteggiata di trilli.
Mio
dio, mi riporta alla mente immagini di
bambole
di porcellana e melodie di carillon veneziani, di damine vezzose e
cicisbei
compiti.
Detesto
tutto questo e, sopra ogni cosa, vorrei correre all’aperto,
lontano dagli
stucchi che mi limitano il perimetro e dai velluti che ammorbano
l’aria già
stantia di questo salotto. Qui ho l’impressione che corra il
rischio di
diventare parte integrante del perenne immobilismo che lo satura. Pure
mi
costringo ad accomodarmi e aprire il coperchio, liberando il tenue
lucore dei
tasti ovattati dal panno.
Ed
eccomi qua, alle prese col mio personalissimo minuetto tra la noia e
l’insofferenza, ché non c’è
una sola nota moderata nell’intero spartito, è il
festino dell’esibizionismo, la gioia del pianista in vena di
virtuosismi, st’accidenti
stracarico di semicrome. Non c’è un basso neanche
a pagarlo oro.
Guardo
le note alte e veloci, più adatte ad un esecutore dalle mani
di farfalla, che
non a me, e mi chiedo perché la checca isterica che mi fa da
maestro insista ad
impormi un brano che non è assolutamente nelle mie corde.
Poggio
le dita sulla tastiera ed eseguo qualche fraseggio per scioglierle. Ho
le mani
quadrate, ma agili, dotate di una forza che compensa la mancanza di
estensione.
Purtroppo però mi manca del tutto quel che si suppone essere
il tocco delicato,
la levità adatta all’alta quota. In effetti danno
il meglio di sé nell’abisso
della scala di bemolle, solo là si trovano veramente a loro
agio.
Voglio
suonarlo un’ottava sotto.
Dico
con decisione e, per tutta risposta, mi arriva una bacchettata sulle
nocche.
Questo bastardo ha una mira incredibile quando si tratta di gonfiarmi
le falangi.
La
vedi la chiave? E’ una partitura in
violino, mica la puoi eseguire in contralto!
Replica
stizzito sia dai miei quotidiani dissensi, che
dall’inefficacia delle sferzate
che dovrebbero estinguerli.
Che
mi aspettavo da sto vezzoso amante di Hendel? Lui adora questi pezzi
pieni
d’infiorettature, la sobrietà non sa manco dove
sta di casa e mi costringe ad
esercitarmi su suoni barocchi, quando tutto quello che vorrei
è percuotere con
insistenza i tasti alla mia sinistra. Magari velocemente, con una
partitura
complicata sì, come pare a te maestro,
ma che siano note basse.
Ma
non si può, lo stampato parla chiaro e le curve giunoniche
della chiave di
violino, nonché dei quattro diesis piazzati al suo fianco
come altrettanti
mosconi, sembrano farsi beffe di me.
E
così reprimo le mie naturali doti e m’impongo
d’eseguire quest’armonica che per
me d’armonico non ha assolutamente niente. Dopo qualche
incertezza le mani
cominciano a piroettare sulla tastiera, ma è tutta tecnica,
non c’è cuore in
questa sonata, ché volontariamente o no, non ci sto mettendo
un briciolo
d’espressività.
Niente
da eccepire in tutto ciò da parte di chi dall’alto
mi osserva, evidentemente il
conformismo della tecnica per costui è di
gran lunga più importante della personale interpretazione.
Quanto a me, suono e
penso con malevolenza all’insieme, cadenzato dal timbro del
metronomo e,
soprattutto, mi domando perché mi assoggetti a questo
strazio. Lo faccio perché
lo devo fare, perché la chiave è alta e le note
pure, oppure perché, quando
l’indicazione è nero su bianco, mica ti puoi
ribellare?
Cantabile cita la dicitura sul
pentagramma.
Cantabile,
devi cantarlo,
ordina l'artiste
accanto a me.
E
io canto, modulo i suoni di questo pezzo pomposo, sebbene
l’abbia in antipatia
ancor più che suonarlo. Canto e porto la croce, quando
st’imbecille da anni
avrebbe dovuto capire lo spreco di tempo e tecnica operato
nell’impormi acuti
vocalizzi. Il mio registro è spiccatamente tenorile, ma per
dispetto mi fa
solfeggiare sempre quelli, perché non sta bene e la
tradizione è tradizione.
Soprano
sì, tenore mai.
Devi
imparare,
mi dice, è
nel costante esercizio la strada verso la perfezione.
E
io m’esercito, canto e mantengo
l’intensità, persino quando so che non
riuscirò
affatto a reggere una legatura così lunga. E nelle pause,
quel benedetto segno
di sospensione che giunge sospirato a liberarmi di tanto in tanto,
continuo a
pensare che posso star qui ad intonare fino a che pare a lui, ma la
perfezione
non esiste e non potrò mai emettere un Mi
tale
da spaccare i vetri. Ci devi nascere per riuscire, è una
dote che
non s’acquisisce questa e se ti ritrovi con una voce
d’un ottava sotto, è
inutile insistere o essere costretti a cantare un’ottava
sopra.
Termina
l’esecuzione, incasso le veementi critiche e qualche modesta
lode, piazzata ad
arte qua e là, perché comunque rappresento per
quest’esaltato una pingue
entrata mensile.
M’appresto
ad andarmene, lancio un’ultima occhiata all’odiato
spartito e chiudo
il pianoforte. Strano, non ne ho sbatacchiato
la sponda, tuttavia la cassa risuona d’un rumore cupo, quasi
avessi sigillato
un sarcofago. E il vibrare tetro delle corde, che dai martelletti
inerti, gli
stessi che fin qui avevano saltellato festosi, va propagandosi per
tutto il
corpo ligneo, ha il
potere di ripagarmi
di tutti quelli sopraelevati che ho appena prodotto.
Una
volta a casa l’eseguo esattamente come avrei voluto io, d’accordo, non
cambia molto e mi fa schifo lo
stesso. E allora?
Per
come la vedo io, è un filo meno insopportabile ed
è già tanto.