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Autore: LeoValdez00    08/02/2016    1 recensioni
Seconda classificata al contest "L'inizio e la fine di ogni cosa" indetto da ManuFury su forum di Efp.
***
Lei uccide, non è capace di fare altro, non dopo ciò che è successo con Revihal. Lei uccide, ne ha bisogno, un bisogno viscerale che può essere spento solo dalla morte. La morte di persone innocenti, che è solo un blando palliativo per ciò che il suo cuore brama davvero.
***
(9063 parole)
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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L’assassina di innocenti
 
Diventare un mercenario al servizio del Re era stato per anni il suo sogno e la sua più grande aspirazione.
Anche in quel momento, mentre le gocce di sangue cadevano a terra lente formando macchie scure e nauseabonde sulla pietra grezza, non riusciva a pentirsene davvero.
Gli occhi vitrei e spalancati della donna sul tavolo scrutavano la sua figura senza provocarle il benché minimo rimorso.
Una vita non aveva alcun valore.
La ragazza pulì la lama del suo pugnale nero, sulla parte superiore dei pantaloni di cuoio che usava per la caccia, l’odore ferroso e rivoltante del sangue che le invadeva i sensi.
Ormai era abituata, era assuefatta dalla morte, dalla sensazione sublime che provava ogni volta che vedeva la luce sparire dagli occhi delle sue vittime.
Ma, più di tutto, amava la tortura, lenta e distruttiva, fisica e psicologica.
Le pupille dilatate dalla paura e quell’assurda e insensata disperazione nel continuare a lottare contro un nemico invincibile.
Perché lei si sentiva esattamente così…
Invincibile.
Uccidere era come il sesso, aveva i suoi preliminari, il suo culmine e poi quella sensazione di beatitudine che offuscava i sensi.
Era diventata come una droga per lei.
‘Vihen’ la chiamavano le guardie del Re quando arrivava a palazzo, nella lingua del volgo con la quale era cresciuta, l’assassina di innocenti.

***

La parte più dura del suo lavoro era inginocchiarsi di fronte a quel Re bambino che governava tutti i territori conosciuti, dall’estremo Sud della Terra del Sole all’estremo Nord della Terra della Notte, dove era nata e cresciuta per quindici anni.
Inginocchiarsi di nuovo era ciò che odiava di più, dopo anni passati da schiava, passati a sentirsi ripetere di essere solo uno sbaglio, un errore, solo la figlia bastarda di un noto nobile e di una ninfa del sottosuolo che lo aveva sedotto con l’inganno.
Non aveva mai conosciuto sua madre, morta di parto le avevano detto, suo padre invece non voleva nemmeno ricordare che esistesse.
Aveva vissuto anni da serva, sempre inginocchiata, sempre sottomessa al volere di qualcun altro.
Odiava Re Trehinan, ma ormai era l’unico davanti al quale dovesse ancora chinare la testa, era il vantaggio di essere diventata il capo degli assassini di Sua Maestà.
Il Sovrano la guardava attentamente, lo sguardo di ragazzino sedicenne che scandagliava il suo corpo allenato, ricoperto solo dall’attillata tuta di cuoio macchiata di sangue in più punti, mentre lei si rialzava.
“Il lavoro da voi affidatomi due giorni fa è andato a termine, in che altro posso ubbidirvi?” chiese freddamente osservandolo.
Il giovane Re, che sembrava avere ripreso contegno, tornò con lo sguardo sul suo viso, coperto quasi interamente.
L’unica caratteristica visibile del suo volto era il colore degli occhi.

***

La maschera di cuoio nera che le ricopriva interamente il viso le permetteva di nascondere il pallore innaturale della sua pelle, così da non essere riconosciuta.
Infatti, in ogni terra giravano le leggende sull’assassina di innocenti, ormai ogni uomo, donna, anziano o bambino conosceva quella figura temuta come la morte stessa, dalla pelle bianca e lo sguardo di tenebra.
Nessuno che l’avesse mai guardata in viso era sopravvissuto a lungo.
Chiunque l’avesse vista senza maschera, in quel momento era sotto terra, mangiato dai vermi…
Tutti, tranne lui.
Rivederlo dopo più di sei anni era come ricevere nuovamente un colpo di spada fra le scapole, come quello che le aveva marchiato la pelle anni prima con una slabbrata e orribile cicatrice.
D’inverno, la notte, sentiva ancora quel dolore pungente alla schiena e dritto nell’anima.
E lui non era cambiato, non era cambiato per niente, se non per quel simbolo che aveva alla base del collo, che lo rendeva di proprietà dei Senza Anima.
Revihal, colui che l’aveva fatta diventare ciò che era.
Fu solo un momento, un volto intravisto tra la folla della grande città nell’ora del mercato, dal tetto di un’alta casa signorile, poteva essere chiunque, ma lei era sicura che fosse lui.
Ora che sapeva dove fosse, si promise finalmente di trovarlo e ucciderlo, esattamente come lui aveva ucciso l’innocente e ingenua Yania.

***

“Forza vieni con me” le disse sbrigativo il ragazzino, avrà avuto al massimo un anno o due più di lei, mentre le prendeva la mano tirandola in un angolo.
“Io… cosa vuoi?” chiese spaventata, guardandosi nervosamente attorno, per paura di vedere una delle sue padrone o dei suoi padroni ed essere severamente punita.
Lui le sorrise, senza lasciarle la mano, quasi a rassicurarla.
“Lavoro anch’io qui, di sotto, nelle cucine… abbiamo organizzato una fuga, siamo in tanti e potremmo farcela” rispose guardandola negli occhi “Vieni con noi”
Nessuno lo aveva mai fatto, aveva lo sguardo dell’errore, del peccato, ma a quel ragazzino sorridente non sembrava importare.
Provò a ricordare l’ultima volta in cui avesse sorriso non forzatamente, ma non riuscì a trovare nulla fra i suoi ricordi bui.
“Se riuscissimo a scappare, potremmo rifarci una vita lontano da qui. Capisci cosa significa?” continuò lui guardandola speranzoso.

Perché le parlava? Non sapeva chi era? Non riconosceva la figlia bastarda del Lord di Nirthen? Come non avrebbe potuto, con quel viso dai tratti di ninfa e con quei lunghi capelli neri striati d’argento?
“Lo capisco” mormorò la ragazzina, le labbra lievemente arricciate in quello che poteva sembrare un reale sorriso.
Lui guardò il grande orologio nella stanza adiacente e impallidì.
“Sono in ritardo…” mormorò guardando poi nuovamente la ragazza.
“Mi chiamo Revihal, domani ci incontriamo nuovamente qui, stessa ora, così ti spiego tutto” disse sorridendo e allontanandosi in fretta.
“Mi chiamo Yania” disse lei solamente, osservandolo andarsene verso le cucine.
Lui fece un lieve sorrisetto, accennando un inchino e un occhiolino, per poi sparire fra la servitù.

***

Quella stupida bambina urlava troppo per i suoi gusti, la sua voce stridula e intrisa di terrore la stava innervosendo.
E lei non doveva mai innervosirsi, altrimenti il gioco sarebbe finito troppo in fretta.
All’inizio, quando era solo uno dei tanti sottoposti tra le fila degli Assassini di Sua Maestà, la parte di lei comandata dalla rabbia prevaleva su ogni altra e chiunque si trovasse vicino a lei periva di una morte tanto crudele quanto fastidiosamente breve, rompendo quel dolce incanto che tanto agognava in ogni sua vittima.
Non le piaceva usare i suoi poteri da bastarda di ninfa, ma a volte sembrava essere davvero necessario.
“Sine vox” sussurrò all’orecchio della bambina, la voce come trasformata, non più altera e crudele, quanto vellutata e suadente.
Il corpo steso e legato davanti a lei ebbe un visibile tremito, ma quando la piccola aprì la bocca per urlare nessun suono uscì dalle sue labbra piene e rosee.
A quel punto, il suo dolore era visibile solo dagli occhi azzurri lucidi e spalancati in cerca di aiuto, di sollievo, di vita.
Quel viso innocente che rispecchiava pienamente la più antica e pura emozione, la paura, fece sentire l’assassina talmente soddisfatta da farle per un attimo dimenticare lo scopo di quella tortura.
La bambina però doveva morire, le aveva già detto tutto ciò che voleva sapere.
L’antico pugnale tagliò senza fatica l’arrendevole pelle del collo, mentre la ragazza guardava attentamente la sua vittima, come se si nutrisse del suo dolore, finché quegli occhi azzurri divennero vitrei e senza alcuna emozione.

***

La via della vecchia armeria era nella parte più povera di Jilihad, la capitale della Terra d’Oriente, la città più grande di tutti i Regni.
Ma lei lo avrebbe trovato comunque, ne andava della sua vita, doveva vendicare la piccola Yania.
I pesanti stivali scuri di cuoio non facevano alcun rumore nella vecchia e affollata stradina che scendeva verso il porto, appariva inosservata tra folla con quei vestiti maschili, solo la maschera era riconosciuta come emblema di guerriero.
Quando arrivò al portone di legno grezzo, quello che le aveva indicato la bambina poco prima di iniziare solamente ad urlare, bussò seccamente, aspettando impaziente.
Si trovava sempre più vicina al suo obbiettivo e non voleva perdere nemmeno un secondo.
Un anziano aprì poco dopo e, vista la maschera e l’armatura della Guardia Reale, si spostò per lasciarla entrare, per poi richiudere il portone alle sue spalle.
“Cosa posso fare per lei?” chiese chinando appena il capo in segno di rispetto, mentre la ragazza si guardava attentamente attorno.
Una normale bottega da fabbro, file e file di spade appese alle pareti in cerca di un proprietario, piccoli coltelli dai manici impreziositi e finemente intarsiati, anche se nessuno dei presenti era paragonabile al suo.
“Ha mai conosciuto un certo Revihal?” chiese la ragazza, usando quei poteri che tanto disprezzava per poter modulare la voce affinché diventasse maschile “E’ un mercenario dei Senza Anima”
Il vecchio negò frettolosamente scuotendo la testa e andò a sedersi su uno sgabello, facendo segno anche a lei di accomodarsi.
“Non tratto con quella gente. Sono fedele alla Famiglia Reale, non aiuto i Senza Anima” rispose con serietà, la voce un po’ graffiata dagli anni.
“Potrebbe averlo visto sotto mentite spoglie, non la sto accusando di tradimento. Ha ventisei anni, gli occhi verdi e una cicatrice che gli ricopre la metà destra del volto” continuò la ragazza sedendosi, imponendosi una calma che non aveva mai avuto prima con le sue vittime, sentendosi quasi male nel pronunciare nuovamente quel nome a voce alta.
Non doveva torturare quell’uomo, non ne aveva il tempo, voleva solamente ogni informazione che potesse darle.
Anche la bambina del giorno precedente non doveva subire quel trattamento, ma la parte più oscura di lei aveva preso il sopravvento e ormai quegli occhi azzurri e limpidi avevano visto il suo volto privo di maschera.
“Certo, ora ricordo”
La ragazza guardò il vecchio, gli occhi di tenebra che per la prima volta dopo anni esprimevano un moto di speranza.
“Mi dica tutto quello che sa” ordinò con voce sempre bassa e maschile osservando l’uomo, quasi grata.
“Ieri pomeriggio, al mercato, l’ho visto perché era interessato alle mie armi, sa quelle di scarto che si vendono al banco… Alla fine ha comprato un coltello corto dalla lama dritta, elsa di ferro semplice rilegata in cuoio. So che alloggia alla locanda del porto, poco distante da qui, l’ho sentito parlare con un compagno” rispose il vecchio, gli occhi socchiusi nello sforzo di ricordare.
La ragazza si lasciò andare un lieve sorriso mentre si alzava, la mano appoggiata all’elsa del proprio pugnale.
“La ringrazio, mi è stato di grande aiuto”
Disse con la sua reale voce, di donna, di assassina.
L’uomo si accasciò poco dopo contro il muro scrostato, il sangue che colava lento dalla profonda ferita alla gola, mentre rantolava in cerca d’aria.

***

Correva, correva a perdifiato, tutto ciò che percepiva era il battere incessante del proprio cuore e la mano di Revihal che stringeva forte la sua.
Era da poco scattato il coprifuoco, il buio iniziava a calare presto su Nirthen, dando un po’ di vantaggio ai fuggitivi della casa signorile del Lord Daryen.
Si era fermata già un paio di volte per riprendere fiato, mentre il resto del gruppo la ignorava continuando ad avanzare, tutti tranne il ragazzo che le aveva parlato due giorni prima.
“Yania… ce la puoi fare, tra poco ci fermiamo, ma devi continuare a correre. Puoi farlo?” le chiedeva lui, preoccupato di essere catturati quanto preoccupato per la ragazzina che si trovava di fronte a lui ansimante.

Lei annuiva e a fatica riprendeva, stringendo la mano dell’altro sempre più forte, sentendo il respiro mancarle ad ogni passo, la gola secca e il battito impazzito.
Solo quando furono al riparo nella foresta del Silenzio, poterono fermarsi.
Tutto ciò che riuscivano a pensare era che c’erano riusciti, erano riusciti a fuggire.
Erano liberi.

***

La piccola stanza che era riuscita ad ottenere era sudicia e squallida come il resto della vecchia locanda, ma non le importava.
Una volta assicuratasi che la porta fosse chiusa a chiave e che finestre fossero sbarrate, si tolse l’elmo con il sigillo regale e sciolse lentamente i legacci della maschera di cuoio, lasciandola ricadere sul materasso di pagliericcio.
Dopo aver chiuso gli occhi, si passò delicatamente entrambe le mani sul viso affilato, le dita che ripercorrevano la pelle bianca fino alle tempie e dietro, verso la nuca.
Le stavano già ricrescendo i capelli, cortissimi filamenti di seta neri e argento, anche se li aveva tagliati nuovamente solo pochi giorni prima.
Si tolse senza fretta tutte le armi che aveva, dallo spadone a due mani assicurato sulla schiena, al sottile laccio di cuoio che teneva nascosto nella manica, lasciando come sempre per ultimo il suo pugnale.
Lo prese fra dita con innata maestria, la lega metallica nera che rifletteva debolmente la poca luce della luna filtrata dalla finestra.
La stessa arma che aveva marchiato la pelle Revihal, sfigurandolo senza riuscire ad ucciderlo.
Questa volta sarebbe stato diverso, questa volta non sarebbe sopravvissuto alla sua stessa lama.
Appoggiò anche quest’ultimo accanto alle armi, slacciandosi e togliendosi poi i vestiti maschili della Guardia Reale, fino a rimanere completamente nuda ed esposta.
Odiava il suo corpo, la sua forma slanciata e le linee marcate dei muscoli sotto la pelle pallida, odiava quel corpo perfetto che le aveva donato sua madre.
Era solo la figlia bastarda di un uomo e di una ninfa, non sarebbe mai stata normale.

***

Il numeroso gruppo di fuggitivi si era sciolto poco dopo l’arrivo nella foresta del Silenzio, chi aveva deciso di andare a vivere nei villaggi più vicini, chi cercava invece di organizzarsi per poter arrivare alle città più grandi.
Tutti tranne Yania, che rimaneva seduta a terra in disparte, la schiena appoggiata alla corteccia di uno degli innumerevoli salici piangenti del fitto bosco, mentre osservava a uno a uno gli uomini, le donne e i ragazzi che decidevano quasi febbrilmente cosa ne sarebbe stato del loro futuro.
Avevano paura, lo percepiva facilmente dai loro gesti, ma c’era nell’aria quella sottile euforia per non essere più considerati schiavi del loro Lord padrone.

La ragazzina era la più piccola della compagnia, non sarebbe nemmeno dovuta scappare con loro, tutti i fuggitivi erano gli addetti alle cucine o ai Barghest, uno dei quali si aggirava lentamente e silenziosamente fra di loro.
Era il primo che Yania avesse mai visto dal vivo, similare ai Lupi delle Selve, solo molto più grande, il folto e lungo pelo completamente nero e incrostato di sangue secco sulle punte.
Non ne aveva paura, non ne ebbe nemmeno quando questo poco dopo si avvicinò a lei fino a trovarsi a pochi centimetri dal suo viso, le labbra arricciate a mostrare i lunghi canini, un ringhio gutturale a vibrargli  in gola, mentre i lunghi artigli scavavano il terreno sotto di loro.
I Barghest erano creature del sottosuolo, anche se pochi ne erano a conoscenza, e vivevano in grandi fosse scavate sotto al terreno per uscire solo di notte a cacciare, ma la riconoscevano per il suo sangue sporco di ninfa, non l’avrebbero mai attaccata.
Allungò lentamente una mano verso il suo muso accarezzandolo delicatamente, mentre questi chiudeva gli occhi bianchi e privi di pupilla, avvicinandosi maggiormente e abbassando la testa.
“Yania! Ma come…?” chiese Revihal con voce stupita e occhi sgranati raggiungendola in fretta, dopo aver parlato con un uomo, probabilmente per farsi dare del cibo o delle coperte.
“Perché non… come hai fatto a tenerlo a bada?” chiese stranito mettendo qualcosa in tasca, osservando il grande lupo, appoggiato placidamente addosso alla ragazzina.
Lei sorrise appena, un velo di tristezza ad adombrarle il volto.
“E’ mio amico” rispose con semplicità, passando la piccola mano lungo tutta la schiena della creatura.

***
 
La porta si aprì lentamente, lasciando il tempo alla ragazza di accorgersi di cosa stesse realmente accadendo, lasciando il tempo al suo cuore di rendersi conto di ciò che sarebbe successo di lì a poco.
La figura di un ragazzo divenne appena visibile, rischiarata debolmente dalla luce del corridoio, mentre entrava nella propria stanza.
Lei rimase perfettamente immobile, il buio che la proteggeva momentaneamente dalla vista dell’altro, i suoni del battere incessante del proprio cuore che assomigliavano a colpi di cannone.
Quando lui riuscì ad accendere la lucerna che teneva sul basso tavolo accanto al letto, la cicatrice che gli deturpava la parte destra del viso venne illuminata e sembrò risplendere sulla sua pelle ambrata.
Doveva attaccarlo alle spalle, quando meno se lo aspettava, lasciare che il pugnale penetrasse nella sua pelle senza pensarci oltre, esattamente come lui aveva fatto con Yania, ma i suoi muscoli sembravano non voler collaborare, facendola rimanere ferma con le spalle al muro, gli occhi di tenebra che osservavano quel corpo che poteva dire di conoscere a memoria, soffermandosi poi su quel viso che non sembrava essere minimamente cambiato.
Mai aveva avuto una qualsiasi remora nell’uccidere qualcuno, una vita non aveva alcun valore.
Quando il mercenario dei Senza Anima si accorse della sua presenza, voltandosi di scatto con lo spadone già in pugno, lesse nei suoi occhi verdi lo stesso smarrimento che si era impadronito di lei.

***

Non avevano niente con loro, mai avevano avuto qualcosa di personale, non c'era alcun oggetto di valore affettivo o reale che avessero portato via dalla casa signorile del Lord Daryen.
Le provviste rubate dalle cucine erano sparite in fretta, divise fra i più forti del gruppo, i primi a partire verso le città.
Erano rimasti in pochi, troppo pochi, così decisero di partire anche loro.
Revihal le sorrise, anche lui con il respiro lievemente affannoso, fermandosi nel bosco dopo ore di cammino, il buio che faceva ancora da padrone nella terra della Notte.
"Credo... che potremmo accamparci qui" le disse lasciandosi cadere stancamente a terra.
La ragazzina non rispose nemmeno, si sedette davanti a lui, quasi grata, riprendendo lentamente fiato, il viso arrossato dal freddo e dallo sforzo, mentre il grande lupo si accucciava al suo fianco, quasi a volerla scaldare.

"Hai fame?" continuò lui, con una punta di preoccupazione.
Lei scosse piano la testa, mentendo a lui quanto a se stessa, stringendo a sé il grande Barghest.
“Tieni” replicò il ragazzino prendendo dalla sua sacca del pane bruciato “Non sono riuscito a prendere di meglio, quando ce ne siamo andati”
Lei allungò cautamente una mano prendendone un po’, divise a metà la sua parte e ne diede un pezzo al grande lupo, che lo accettò avvicinandosi maggiormente a lei.
Revihal fece una lieve smorfia osservandolo.
“Lui sa cacciare, noi no. Non devi nutrirlo, può cavarsela da solo” le disse mangiando lentamente il suo pezzo di pane.
La ragazzina alzò lo sguardo su di lui.

“Non caccerà perché dovrebbe allontanarsi da noi e non lo farà per alcun motivo. Non lo lascerò morire di fame” rispose seria, ma senza guardarlo direttamente negli occhi, come la sua padrona le aveva insegnato a fare.
Lui si spostò lentamente fino a sedersi accanto a lei con un lieve sospiro.
“Va bene… perdonami” mormorò osservandola.

***

“Yania…” sussurrò flebilmente il ragazzo, lo spadone che tremava appena fra le sue mani.
Non aveva indossato la maschera perché voleva che lui sapesse, voleva vedere la consapevolezza sul suo volto mentre la luce abbandonava i suoi occhi.
Allora perché rimaneva ferma? Perché esitava?
“Revihal” mormorò in risposta, la voce fredda ma leggermente spezzata.
Cinque anni con i Senza Anima, cinque anni senza di lei, non sembravano averlo cambiato, se lo guardava riusciva perfettamente a rivedere in lui il ragazzino che l’aveva salvata dalla sua prigione.
“Sapevo che non eri morta…” riprese il ragazzo, abbassando lentamente la lama fino a farla appoggiare al pavimento, tenendo le mani sull’impugnatura.
“Sapevi di non essere riuscito ad uccidermi” sibilò lei in uno scatto d’ira, le labbra lievemente arricciate a far intravedere dei banali denti umani, rimpiangendo per una volta di non averli appuntiti e letali come le vere ninfe del sottosuolo.
Lui ignorò la sua provocazione, osservandola attentamente come a studiarla.
“Sei tu Vihen vero?”
“Sei tu ad avermi trasformato in lei, sei tu ad aver ucciso Yania, ogni morte che ho provocato sporca le tue mani. Per voi Senza Anima è motivo di vanto no? Ringraziami” rispose lei, un lievissimo sorriso di scherno sulle labbra pallide, gli occhi di tenebra che rimanevano specchio del suo dolore, per quanto cercasse di nasconderlo, anni di odio e di disperazione che premevano per uscire in qualche modo.

***

Quando Yania si svegliò, il Barghest era ancora accucciato al suo fianco per scaldarla, ma il ragazzo con cui era scappata non era più addormentato accanto a lei.
La ragazzina mise seduta di scatto, preoccupata, lo sguardo che scrutava nervosamente la piccola radura in cui si erano fermati il giorno prima, mentre il grande lupo aveva aperto gli occhi bianchi osservando lei.
“Revihal?” chiese esitante, il tono di voce spezzato e impaurito.
Dopo qualche secondo di silenzio, si alzò lentamente, la mano appoggiata al coltello che il ragazzo le aveva dato la sera precedente per ogni evenienza.
“Revihal dove sei?” riprovò spaventata, non vedendo o sentendo nulla.
Il Barghest si avvicinò lentamente a lei, la fievole luce del mattino nella Terra della Notte che comunque lo infastidiva.
La ragazzina appoggiò delicatamente una mano fra il suo pelo scuro accarezzandolo lentamente, nel vano tentativo di calmarsi.
Mosse qualche passo incerto ai margini della radura, dove ricominciava il bosco, e camminò lentamente fra gli alberi, stando attenta a non addentrarsi troppo e perdersi.
“Revihal?” chiese nuovamente, la voce bassa per paura che potesse sentirla qualcun altro nella Foresta del Silenzio.
Stava per cedere al panico, quando sentì un lieve tonfo sul terreno non molto distante da lei, seguito da qualche imprecazione.
Riprese a respirare tranquillamente riconoscendo la voce del ragazzo, avvicinandosi cautamente fino a trovarsi dietro ad un salice piangente a pochi metri da lui, rimanendo nascosta.
Revihal si stava togliendo in quel momento la pesante casacca, rivelando la parte superiore del suo corpo, la pelle ambrata che tremava dal freddo.

La ragazzina rimase immobile, il Barghest dietro di lei, mentre osservava il suo compagno di viaggio arrampicarsi sull’albero vicino fino ad appendersi con le gambe ad un ramo basso, la testa rivolta al suolo.
Lo vide prendere un respiro profondo, il petto che si alzava e abbassava regolare, mentre chiudeva gli occhi e iniziava a portare velocemente e ritmicamente le spalle a contatto delle ginocchia espirando rumorosamente.
Si stava allenando.
Yania non si mosse dal suo nascondiglio, lo sguardo che seguiva le linee marcate dei muscoli del ragazzo che si tendevano sotto la pelle tremante, mentre si allenava costantemente, il respiro pesante e le palpebre serrate.
Non credeva di aver mai visto nulla di così bello.

***

“Non volevo farlo…”
“Volevi, invece! Ammettilo che già assaporavi il momento in cui mi avresti ucciso, ammettilo che per te non sono mai stata altro che un peso, forse solo una piacevole compagnia quando la notte era troppo lunga per entrambi, ma io sono sempre stata la vittima sacrificale, l’abominio! Non hai esitato a colpirmi Revihal…” replicò la ragazza, la voce bassa e graffiata che lentamente si trasformava, fino all’ultima frase, quasi in un sussurro di dolore.
“Yania, io…” mormorò il ragazzo, ma lei lo interruppe prima di lasciargli dire qualunque cosa.
“Yania è morta! E’ morta quella sera, io non sono Yania!” quasi urlò la ragazza, le lacrime agli occhi che avrebbe tanto voluto fossero solo di rabbia.
Qualcuno poteva averla sentita dopo quello scatto, se non il proprietario della locanda almeno qualche altro ospite, non poteva permettere che qualcuno la vedesse.
Si guardò attorno e poi un ultimo sguardo al ragazzo, carico di odio, di dolore e rancore, per poi scappare dalla finestra e sparire in fretta nella notte calda di Jilihad.

***

Yania aveva freddo, il Barghest non era lì a scaldarla e mai più ci sarebbe stato.
Si raggomitolò lentamente su se stessa, le lacrime che premevano per uscire e il corpo scosso da violenti brividi, mentre allungava piano la mano verso il piccolo fuco che aveva acceso Revihal prima di dormire.
“Terrà lontano gli animali” le aveva detto, prima di augurarle la buona notte e addormentarsi, una mano fermamente appoggiata all’elsa del coltello.
Ma lei non riusciva a dormire, senza la presenza confortante del Barghest al suo fianco si sentiva ancora più persa.
Si mise lentamente seduta, le braccia strette attorno a sé per mantenere più calore possibile, gli occhi lucidi e il respiro pesante, mentre guardava il compagno di viaggio che sembrava riposare tranquillo.
Tornò ad osservare il fuoco basso davanti a lei, aggiungendo qualche ramo sottile e tenendosi vicina, quasi rischiando di bruciarsi.
“Yania…” mormorò piano il ragazzo vicino a lei, gli occhi che si aprivano appena e l’espressione assonnata “Perché non dormi?”
Lei si asciugò sommariamente le lacrime e cercò di mantenere la voce ferma, senza distogliere lo sguardo dalle fiamme.
“Ho troppo freddo” rispose a bassa voce sfregandosi le mani una sull’altra.
Revihal si girò su un fianco osservandola e si spostò appena dal fuoco, facendole spazio sull’erba.
“Vieni qui, magari ci scaldiamo un po’ di più” sussurrò lui con un lieve sorriso comprensivo, mentre la ragazza sentiva il sangue affluire alle guance.
Annuì appena e si avvicinò lentamente a lui, un po’ intimorita, sdraiandosi lì accanto, vicino al piccolo fuoco, mentre il ragazzo le circondava delicatamente la vita con un braccio, tirandosela più vicina.
Lei si irrigidì istintivamente, ma lui non allentò la presa gentile sul suo fianco.
“Sta tranquilla, lo sai che non voglio farti del male…” mormorò il ragazzo dietro di lei “Prova a dormire un po’”
Yania chiuse gli occhi prendendo un profondo respiro, quasi a farsi coraggio, e si strinse a lui facendosi piccola fra le sue braccia.
“Mi dispiace per quello che è successo oggi, davvero, ma ricordare e soffrire non ti servirà a nulla” sussurrò Revihal, stringendola con delicatezza.
La ragazza non rispose e cercò di non pensarci, ma il suo sonno era popolato da orrendi e sanguinari mostri e dal corpo inerme del suo Barghest, steso a terra privo di vita.

***

Il grido che abbandonò le sue labbra fu di puro dolore, la testa reclinata indietro e i muscoli tesi fino allo spasimo.
Sentiva il sapore del veleno impregnarle la bocca come sangue marcio, sentiva come del fuoco nelle vene, che sembrava volerla annientare dall’interno.
Smise di urlare solo per riprendere dolorosamente fiato, i polmoni che bruciavano, il corpo vittima di brevi spasmi, gli occhi rovesciati indietro.
Erano anni che non faceva più una cosa simile, aveva smesso da quando il suo corpo era diventato finalmente un’arma letale, ma in quel momento ne aveva un bisogno viscerale.
Doveva sapere di essere forte e poi, quel dolore che la stava facendo silenziosamente implorare di morire, era come manna per lei, l’unico modo per non pensare.
Si accasciò senza forze nel bosco, il respiro affaticato e le dita strette ad alcuni fili d’erba sradicati dal terreno.

***

Quando vide le mura di Erlend, quasi non riusciva a crederci, come se solo in quel momento si fosse resa veramente conto di essere libera, di poter avere una vita.
“Siamo arrivati…” mormorò Revihal, perso quanto lei nel contemplare le lunghe mura di ossidiana della città più popolosa della Terra del Notte.
“Mio padre mi aveva raccontato com’era… ma non avrei mai immaginato…” mormorò il ragazzo avvicinandosi fino a posare il palmo sulla superficie nera e lievemente frastagliata.
Yania lo raggiunse, osservando le mura e sfiorandole solo con la punta delle dita, quasi potessero farle del male.
“Tuo padre lavora ancora da sua signoria?” chiese la ragazza voltando il viso per guardarlo, mentre questi scuoteva piano la testa senza distogliere lo sguardo dalla pietra.
“E’ morto prima dell’inverno… lui era tra i costruttori delle mura prima di essere fatto schiavo” rispose Revihal in un sussurro a malapena udibile, come se stesse parlando tra sé e sé più che con lei.
La ragazza si avvicinò a lui prendendogli delicatamente il polso fra le dita e strattonandolo piano.
“Su, entriamo… magari troviamo da mangiare” mormorò camminando fino ad una delle porte, quasi trascinando l’altro, che non sembrava lucido in quel momento.
Appena furono dentro, i cappucci delle vesti tirati su a coprirli per non essere riconosciuti, Yania credette di star sognando.
Non aveva mai visto così tanta gente ammassata insieme, così tante abitazioni concentrate e, soprattutto, non aveva mai sentito tanto rumore.
Arretrò appena, appoggiandosi a Revihal con la schiena, guardandosi attorno spaesata, la gente che le passava accanto e che parlava come se loro non esistessero.
“Stai calma…” mormorò il ragazzo al suo orecchio, mentre faceva scivolare piano una mano sulla sua, intrecciando le loro dita “E stammi vicina… non voglio perderti in giro…”

Yania annuì appena, il cuore che le batteva forte per la paura ma anche perché la mano del ragazzo era stretta alla sua e le piaceva da morire quella sensazione.
Il suo compagno di viaggio sembrava essersi ripreso e osservò attentamente la piazza, prima di tirarla verso le abitazioni, stando rasenti ai muri delle case per evitare di perdersi di vista.

***

Il Sangue di Drago era letale, specie per le ninfe, ma, essendo solo una bastarda, non era abbastanza tossico da ucciderla.
Solitamente ne prendevano una goccia i guerrieri umani prima di una battaglia, perché aumentava le capacità muscolari, la reattività, l’agilità e migliorava la vista notturna.
Vihen aveva già tutte queste qualità superiori ai comuni esseri umani, era più forte di una qualunque Guardia Reale o Senza Anima, ma doveva essere sicura.
Doveva essere certa di non fallire, perché quando aveva incontrato il suo sguardo le era sembrato come di morire un’altra volta, come se per pochi attimi lui l’avesse fatta tornare quella ingenua ragazza che era Yania.
Non poteva permetterlo, doveva ucciderlo, doveva fargli provare tanto dolore da farlo pregare per morire, doveva vederlo supplicare prima di togliergli la vita con la sua stessa lama.
La ragazza fece fatica ad alzarsi, i muscoli tesi che dolevano ad ogni passo, mentre si copriva il viso con la maschera e il cappuccio, prima di tornare entro le mura di ambra della città di Jilihad.

***

Yania avvicinò le mani allo scarno camino della grande stanza, una vecchia casa in periferia abbandonata, dove erano riusciti ad entrare e sistemarsi.
Le piaceva il calore del fuoco sulla pelle, specie dopo i giorni passati nel bosco al freddo, così si avvicinò ancora.
Revihal era uscito da qualche ora per cercare del cibo, ma le aveva detto di non seguirlo perché aveva paura si potesse perdere per la città.
La ragazzina spostò lo sguardo dalle fiamme alla porta, un’ombra di preoccupazione sul viso, chiedendosi quando sarebbe tornato.
Non era mai stata sola in tutta la sua vita, alla casa signorile del Lord Daryen condivideva le stanze con le altre serve e da quando erano scappati aveva sempre avuto il Barghest o il compagno di viaggio al suo fianco.
Stare sola le faceva paura, si sentiva osservata, inutile e indifesa.
Non riusciva più a tenere il tempo, iniziava a pensare che gli fosse successo qualcosa, che le guardie del Lord lo avessero trovato e che lo stessero riportando alla casa signorile o, peggio, che lo stessero torturando per sapere dove fossero gli altri fuggitivi.
Allora sì che sarebbe rimasta sola, in un posto sconosciuto, senza sapere cosa fare per non essere trovata.

Quando la porta si aprì ed entrò Revihal, carico di cibarie, la ragazzina sentì distintamente sciogliersi il nodo che aveva nel petto all’altezza del cuore e si lasciò andare ad un sorriso, al quale l’altro rispose, anche se lievemente in imbarazzo.
“Scusa se ho fatto tardi, ma queste dovrebbero durarci per almeno qualche giorno” le disse sedendosi accanto a lei e tirando fuori dalla sacca del pane e alcuni pezzi di carne essiccata.
“Ho preso anche questi” continuò mostrandole due maglie munite di cappuccio, delle calze e una coperta, il tutto di lana.
La ragazzina si avventò sulla coperta stringendosela addosso.
“Grazie…” mormorò con un lieve sorriso, lasciando anche a lui lo spazio per coprirsi.
“Di nulla” le rispose avvicinandosi piano per scaldarsi “Tu stai bene vero?”
La ragazzina annuì e appoggiò delicatamente la testa alla sua spalla, sentendosi finalmente al sicuro.

***

Con un ultimo affondo, la lama di metallo nero perforò la tenera carne del ragazzo sotto di lei, sporcandole di sangue anche il viso privo di maschera.
Un urlo smorzato, un rantolo indistinto, di chi è troppo debole per lottare per rimanere in vita, di chi si è arreso alla forza soverchiante della morte.
E lei era la morte.
Vihen riprese lentamente fiato, un amaro sorriso a incresparle le labbra pallide e sottili, il corpo senza vita sotto di lei che si dissanguava lentamente dopo tutte le ferite inferte, mentre lei si sentiva pienamente soddisfatta del proprio operato.
Si passò piano la lingua sulle labbra, sentendo il sapore ferroso del sangue invaderle la bocca, il suo odore amaro a stordirla.
Lo sapeva, sapeva che quegli occhi verdi privi di emozioni erano solo un blando palliativo per ciò che il suo cuore bramava, ma veder scomparire la luce, la forza, da quel corpo, l’aveva fatta sentire potente.
Di nuovo invincibile e di nuovo pronta a terminare ciò che aveva iniziato.

***

Erano passate quasi dieci lune da quando si erano stabiliti nella vecchia abitazione abbandonata e Yania iniziava a capire davvero il significato di ‘casa’.
Casa era il piccolo focolare dove lei e il suo compagno di viaggio si addormentavano abbracciati ogni sera, erano quelle coperte bucate che dovevano condividere litigandosele per scherzo, era il tornare lì dopo una giornata di faticoso lavoro per entrambi.
Casa, per lei, era semplicemente Revihal.
Quasi
non sapeva cosa stesse facendo, ma era certa di non aver sbagliato nulla quando sentì le labbra calde del ragazzo posarsi incerte sulle sue, quando qualcosa dentro di lei le impose di non ritrarsi e di cingergli il collo con le braccia per avvicinarlo ancora, fino a trovarsi abbracciati.
Yania in quel momento non riuscì a pensare ad altro che a lui, che l’aveva salvata e sostenuta e aiutata ogni volta che ne aveva avuto bisogno, a lui, che le era sempre accanto.
Sorrisero entrambi, una lieve risata imbarazzata che riempiva la stanza insieme ai crepitii del fuoco, mentre la ragazzina si avvicinava ancora appoggiando la guancia nell’incavo del suo collo, chiudendo gli occhi e respirando il suo profumo.
Da quando lavorava nella miniera di ossidiana, aveva sempre addosso quel profumo particolare, che aveva iniziato a riconoscere e ad amare.
Sentì le braccia del ragazzo stringerla con dolcezza ed inaspettata fermezza, quasi volesse impedirle di andarsene.
Yania sorrise al pensiero, non sarebbe andata proprio da nessuna parte, non senza di lui.

***

Osservarlo rimanendo nell’ombra, vederlo parlare tranquillamente con quel ragazzo mentre lei pianificava il suo omicidio, quella sensazione di tradimento, la stavano uccidendo.
Il pugnale tremava fra le sue mani, la vista offuscata dalle lacrime, il respiro troppo pesante.
In un mondo ideale sarebbe uscita dal suo nascondiglio e lo avrebbe abbracciato cercando il calore confortante del suo corpo, in un mondo ideale lo avrebbe baciato dimenticando qualunque cosa avesse fatto in passato.
Ma in un mondo ideale lui non avrebbe cercato di ucciderla e lei non sarebbe diventata un’assassina per vendicarsi.
In un mondo ideale lui l’avrebbe accettata per ciò che era.
“Allora ci vediamo domattina, Feryo” disse il ragazzo con un sorriso aperto, salutando l’altro che usciva dalla stanza.
Revihal si credeva al sicuro solo perché aveva cambiato locanda, credeva di essere salvo solo perché c’erano alcune guardie nel suo corridoio, era troppo ingenuo per essere un Senza Anima.
Il ragazzo con gli occhi verdi sembrò avvilirsi di scatto non appena il compagno d’armi uscì dalla stanza e si passò distrattamente una mano sul viso, le dita che sfioravano appena la cicatrice biancastra, mentre si sedeva sul letto.
“Quella cicatrice è il mio più grande rimpianto, se solo fossi stata più forte sarebbe tutto finito anni fa” mormorò Vihen, lottando contro se stessa per mantenere la voce ferma.
Revihal sorrise amaramente, senza nemmeno voltarsi a guardarla.
“Ti stavo aspettando, Yania”

***

Le labbra di Revihal si impossessarono delle sue, le sue braccia le strinsero i fianchi avvicinandola, mentre lei sentiva la lucidità abbandonarla e i pensieri svanire.
“Ti amo…” sussurrò piano il ragazzo senza allontanarla, un sorriso aperto che gli illuminava il volto.
Yania sorrise accarezzandogli delicatamente le guance, lo sguardo di tenebra riflesso in quello verde brillante dell’altro.
“Anch’io” mormorò in risposta cercando nuovamente quel bacio che sapeva farle dimenticare ogni cosa, mentre lui la prendeva in braccio, sostenendola come fosse priva di peso.
La ragazza rise sommessamente senza smettere nemmeno per un secondo di baciarlo, come se non riuscisse a farne a meno.
Revihal si lasciò cadere sulle coperte ammucchiate accanto al piccolo focolare, tenendola stretta a sé, le mani che le accarezzavano lentamente la schiena al di sotto della maglia di lana.
“Hai le dita fredde” sussurrò lei divertita, mordendosi appena il labbro inferiore e cercando di avvicinarsi a lui ancora di più, in cerca di calore.
Il ragazzo spostò piano le mani fino a solleticarle i fianchi, con un sorriso divertito in viso.
“No! Smettila!” esclamò Yania ridendo incontrollabilmente, cercando invano di scappare da quella stretta ferma e gentile.
Solo quando il ragazzo la lasciò libera, ridacchiando soddisfatto, lei riprese fiato e si lasciò cadere sdraiata addosso a lui.
“Questa me la paghi…” mormorò senza riuscire a nascondere un enorme sorriso, accucciata al suo petto.

“Sicura?” sussurrò lui guardandola negli occhi, per poi portarsi sopra di lei con uno scatto, intrappolandola fra sé e le coperte sul pavimento.
Lei rise sommessamente incrociando le braccia sotto il seno, guardandolo curiosa.
“Che vuoi fare, Revihal?”
“Ti fidi di me?” chiese il ragazzo senza distogliere lo sguardo dal suo.
“Mi fido solo di te”
rispose Yania con una sicurezza che non credeva di avere.

***

La presa della ragazza sul pugnale si fece più stretta, le nocche sbiancarono e le dita le dolevano, il respiro era pesante e irregolare.
“Sapevo che saresti tornata…” sussurrò Revihal ostinandosi a non guardarla, un sorriso amaro ad increspargli le labbra “Lo sapevo che non te ne saresti andata finché non mi avessi ucciso”
Vihen tremò appena, avvicinandosi lentamente al letto dov’era seduto, senza riuscire ad allontanare lo sguardo da lui, dai suoi occhi, dalle sue labbra e dalla sua cicatrice, fino ad appoggiare la punta della lama sulla sua gola, senza però esercitare alcuna pressione.
“Guardami” mormorò lei pianissimo, sbattendo appena le palpebre per non lasciarsi sfuggire nemmeno una lacrima.
Ogni volta che era con lui, si sentiva debole, tirava fuori la parte più umana di lei ogni volta, non importava tutto il male che le avesse fatto.
Revihal si decise a guardarla, riluttante, senza abbandonare quel lieve sorriso rassegnato.
“Perché?” chiese la ragazza in un sussurro “Non ti ucciderò finché non mi darai una spiegazione per quello che hai fatto”
Sentiva la voce tremare pericolosamente, come se tutto il suo coraggio e la sua determinazione fossero bloccati alla base della gola, lasciandola lì sola, inutile e indifesa.
Solo allora il ragazzo tornò con un’espressione seria, gli occhi che si liberavano dalla presa di quelli di lei, fissando un punto indefinito alle sue spalle.
“Mio padre e mia madre” rispose solo, pronunciando quelle parole come se avesse il peso dei sensi di colpa a gravargli sul petto.
“Tuo padre è morto prima dell’inverno dell’anno in cui siamo scappati…” mormorò lei guardandolo confusa, la lama del pugnale nero che tremava, graffiandogli appena la pelle.
“Dovevo vendicarlo… dovevo vendicare entrambi…” sussurrò il ragazzo con la voce carica di dolore.

***

“Revihal? Sei già tornato?” chiese la ragazza con un sorriso, entrando in casa e guardandosi attorno.
Non vide nessuno, così si sedette accanto al fuoco per scaldarsi, lavorare al freddo tutta la giornata le aveva intorpidito i muscoli.
Riposò sdraiandosi tranquilla, aspettando il ritorno del ragazzo, sperando che arrivasse presto visto che non le piaceva stare sola.
Si sentì enormemente sollevata quando, un paio d’ore più tardi, Revihal entrò in casa, un’espressione indecifrabile sul viso.
La ragazza si alzò sorridente, raggiungendolo in fretta fino a posargli un lieve bacio sulla guancia e abbracciandolo, ma lui rimase fermo e scostante.
“Com’è andata la giornata? Ci sono stati problemi alla miniera?” chiese in un mormorio, preoccupata dal suo strano comportamento.
“Bene, tutto bene Yania, non preoccuparti” rispose freddamente andando a sedersi accanto al focolare.
“Non è vero… Revihal che succede?” sussurrò la ragazza sedendosi accanto a lui, osservandolo come a cercare di capire dal suo volto cosa gli fosse accaduto.
“Lasciami stare, per favore. Ne… ne riparliamo domani” rispose il ragazzo, la voce insicura e spezzata, senza azzardarsi a guardarla in viso.
Si sdraiò dandole le spalle e appoggiando accanto a loro un piccolo pugnale di ossidiana, che lei non aveva mai visto.
Yania guardò il ragazzo ferita, ma rimase in silenzio e si coricò vicino a lui, senza toccarlo.
“Buonanotte” disse solo, qualche secondo dopo, senza ottenere alcuna risposta.

***

“Che cosa centravo io in tutto questo?” mormorò piano lei, scuotendo la testa, convincendosi che il ragazzo stesse solo cercando una scusa per sfuggirle, la lama del pugnale che lasciava un lungo graffio alla base della sua gola, lasciando cadere sulla sua pelle ambrata piccole gocce di sangue.
“Mio padre si è lasciato morire, perché dopo anni ancora non si era ripreso dalla morte di mia madre…” rispose Revihal, la voce leggermente arrochita dalla paura, ben visibile anche nei suoi occhi “Ma non avevo mai saputo cosa le fosse successo, ero troppo piccolo per ricordarmelo”
La ragazza rimase in silenzio senza capire, ricacciando indietro le lacrime, perché averlo lì davanti a sé la stava facendo impazzire dal dolore.
Lui prese un respiro profondo, ignorando l’ennesimo graffio che la lama gli lasciava sulla pelle a quel gesto, quasi gli servisse per farsi coraggio.
“La mia famiglia era povera, mia mamma era andata nel bosco per cercare bacche selvatiche o qualunque altra cosa da poterci portare per sopravvivere, ma non sapeva di essere entrata nel territorio delle ninfe del sottosuolo” sussurrò Revihal, la voce che gradualmente si abbassava, quasi si vergognasse a pronunciare quelle parole.
Un lampo di comprensione attraversò lo sguardo di tenebra della ragazza, che sgranò gli occhi allontanandosi di scatto da lui.
“Mio padre la ritrovò poche ore dopo, sgozzata alla maniera delle ninfe, il sigillo del casato impresso a fuoco sul suo braccio e il pugnale di ossidiana del capo appoggiato al suo petto” continuò Revihal, senza riuscire a guardarla “Il casato e il pugnale di Leiph”
Vihen lasciò la presa sull’arma, che cadde a terra con un tonfo leggero, che però nella sua mente rimbombò come un terremoto.
Il ragazzo si decise a guardarla, prendendo un altro respiro, come non credesse di essere riuscito a dirlo davvero.
“Leiph, tua madre” mormorò infine, il tono di voce talmente basso da poter essere udito a malapena.

***

Yania sentì le coperte frusciare lentamente alle sue spalle, ma tenne gli occhi ancora chiusi in un leggero dormiveglia, pensando che il ragazzo dietro di lei si stesse solo girando nel sonno.
Rimase rilassata accanto al fuoco basso, chiedendosi ancora una volta cosa gli potesse essere successo per farlo comportare così, mentre si accorse a malapena che il ragazzo si era alzato.
Forse l’avevano frustato di nuovo alla miniera e non voleva mostrarsi debole ai suoi occhi, forse lo avevano cacciato, forse aveva conosciuto un’altra ragazza e voleva andarsene…
Yania vagliò ogni ipotesi, anche inverosimile, che le passasse per la mente, avrebbe fatto qualunque cosa per capire il ragazzo, per aiutarlo, ma lui sembrava non volerla nemmeno vedere.
Si raggomitolò piano, stringendosi nella coperta per mantenere il calore, respirando regolarmente.
Quando sentì il rumore di alcuni passi e il raschiare metallico di una lama tolta dal fodero, era troppo tardi, sentì un dolore atroce spandersi per la schiena mentre la spada le trafiggeva la carne facendola urlare di dolore.
A salvarla fu solo l’istinto di ninfa, che le permise di sottrarsi al colpo successivo e afferrare il pugnale che la sera prima aveva visto appoggiato accanto al focolare.
Stava per gridare qualcosa a Revihal, una richiesta di aiuto o un semplice avviso a scappare, prima che riuscisse a voltarsi e a ferire il suo assalitore, aprendogli un grande taglio sulla guancia.
Ma il gemito di dolore che sentì era del ragazzo che l’aveva salvata anni prima e questa consapevolezza la distrusse.
Il ragazzo si teneva una mano sul viso, a cercare di fermare il sangue, mentre la guardava con odio, le lacrime agli occhi.
“Revihal…” sussurrò lei atterrita, sentendo le forze scemare mentre la ferita fra le scapole le provocava talmente tanto dolore da farle temere di svenire da un momento all’altro, guardandolo senza riuscire a credere che l’unica persona di cui si fidasse avesse potuto farle una cosa simile.
“Una vita non ha alcun valore, Yania” mormorò il ragazzo, quasi avesse imparato quelle parole a memoria per imprimerle a fuoco nella sua mente “Di certo non la vita di un abominio come sei tu e
tutta la tua stirpe”
Lei non riuscì a replicare, la vista che si oscurava lentamente e il cuore che cedeva a quelle parole.

***

“So che non potrai mai perdonarmi e che queste parole per te non valgono nulla, ma mi dispiace. Ho sbagliato, so di aver sbagliato tutto, ma capiscimi Yania! Ero accecato dal dolore per la perdita dei miei genitori e dal terrore che tu non fossi la persona che credevo, che fossi come loro e mi stessi solo usando e…” disse il ragazzo abbassando lo sguardo “Facciamola finita, fai quello che sei venuta a fare, probabilmente mi farà sentire meglio. Perché tu non puoi capire i sensi di colpa che mi hanno afflitto in questi anni e cosa mi abbia spinto a diventare un mercenario”
Vihen non riuscì a dire nulla, il pugnale della madre che giaceva ancora a terra, mentre lei si sentiva crollare addosso tutte le sue convinzioni.
“Mi fidavo di te” riuscì solo a sussurrare, avendo voglia solo di piangere ma impedendoselo fino a star male.
“Lo so…” mormorò Revihal, alzando lo sguardo per incrociare il suo “Non avrei mai voluto farti del male, Yania… volevo solo starti accanto e proteggerti e cercare di vivere una vita normale insieme a te… ma sono stato fuorviato dal passato e dall’odio, ho distrutto tutto ciò che avevo faticato a costruire… non merito nulla e vedere cosa ti ho fatto, fidati, è la mia più grande punizione”
“Hai ucciso tutto quello che c’era di buono in me, quella sera. Hai distrutto ogni mio sogno e ogni mia più profonda convinzione, mi hai ferita come mai nessuno era riuscito a fare e non sto parlando della cicatrice che avrò per sempre sulla mia pelle. So cos’è l’odio, lo so meglio di te, l’ho covato per anni nei tuoi confronti aspettando solo di poterti far soffrire come tu hai fatto con me!” sbottò la ragazza, trattenendo a stento la voce per non essere sentita dalle guardie nel corridoio.
“Eppure ancora non ti capisco. Mi conoscevi, Revihal, sapevi ogni cosa di me, mi conoscevi meglio di quanto io conoscessi me stessa, come hai potuto pensare che io potessi essere come lei?” sussurrò Vihen, una vena di dolore nella voce, quel’lei’ pronunciato con disgusto.
“Avevo paura” rispose lui, guardandola in viso “Paura di soffrire, paura che dopo essermi fidato e affidato completamente a te, mi avresti tradito e usato. Il vero nemico è la paura, si pensa che sia l’odio, ma è la paura, Yania… e decidi che non vuoi più niente dalla vita, solo per timore di perdere ciò che ti viene donato”
“Non ti ho mai dato motivo di dubitare di me, mai… sapevi quanto odiassi la razza di mia madre e quanto odiassi lei in particolare e mi dispiace per i tuoi genitori, ma tu mi hai ucciso per paura Revihal? Paura di me?” chiese la ragazza guardandolo ferita, la rabbia sembrava averla completamente abbandonata insieme al coraggio e alla determinazione, lasciandola sola con il suo dolore.
“Paura di amarti” rispose lui “Paura di quanto potere avessi su di me e scoprendo ciò che ha fatto tua madre io… non capivo più nulla”
“Rifiutarsi di amare per paura di soffrire è come rifiutarsi di vivere per paura di morire”* sussurrò piano la ragazza, ripetendo le esatte parole che Revihal stesso le aveva detto anni prima, convincendola una volta di più a fidarsi di lui.
Il mercenario non riuscì a trattenere un abbozzo di sorriso, lo sguardo basso.
"Sei sempre riuscita a ritorcermi contro ogni cosa che dicessi, Yania... sei incredibile"
Vihen spostò lo sguardo dal suo viso al pugnale, ancora abbandonato sul pavimento, senza riuscire a fare o pensare a nulla.
"Il mio nome non è più Yania..." sussurrò piano, la voce tremante.
"Puoi decidere di farti chiamare Vihen, o in qualunque altro modo tu voglia, ma rimarrai per sempre la mia Yania"

***

La ragazza non si addormentò quella notte, rimase sveglia, abbracciata a lui, il viso appoggiato nell'incavo del suo collo.
Revihal aveva un profumo diverso, estraneo, ma la sua stretta confortante non sembrava essere cambiata.
Vihen lo guardò attentamente, studiando i suoi tratti, le linee marcate dei suoi muscoli, la sua pelle ambrata, così scura rispetto alla propria.
Le sue labbra, le sue mani che la stringevano...
La ragazza si spostò lentamente, fino a trovarsi seduta al suo fianco, le loro dita ancora intrecciate.
Gli accarezzò delicatamente il dorso della mano, quasi a voler imprimersi nella memoria la sensazione di averlo accanto.
Avvicinò piano il viso al suo, fino a sfiorargli l'orecchio con le labbra.
"Somnus..." sussurrò con voce fievole, tremante, come se una parte di lei non riuscisse ancora a capacitarsi di ciò che stesse facendo.
Il ragazzo continuò a dormire tranquillo, come se non fosse successo nulla, e non si svegliò neppure quando lei si alzò dal letto, rabbrividendo per il freddo e per la paura.
Gli era mancato così tanto.
Vihen prese la propria giacca della Guardia Reale per coprirsi, e cercò nella tasca destra la piccola fiala di Sangue di Drago.
Il veleno aveva un colore verdastro, malato, marcio.
La ragazza si voltò verso il ragazzo addormentato, il cuore stretto in una morsa di dolore.
Una goccia e Revihal avrebbe continuato a dormire.
Due e il suo viso si sarebbe contratto in una smorfia, ma il suo incantesimo avrebbe retto.
Tre e lui avrebbe urlato di dolore svegliandosi di scatto.
Oltre la quarta goccia, non sarebbe sopravvissuto.
Vihen si rigirò la fiala gelida tra le dita, con estrema e innaturale lentezza, quasi studiandola.
Da quando era entrata in quella stanza, aveva avuto innumerevoli possibilità per ucciderlo, esattamente come aveva programmato, esattamente come voleva.
Ma non ci era riuscita, non dopo ciò che le aveva detto, non dopo essersi convinta che, dopotutto, fosse ancora lo stesso ragazzo che l’aveva salvata e amata.
Prima regola, una vita non ha alcun valore. Seconda regola, chiunque veda il mio viso deve morire. Terza regola, devo uccidere in qualunque modo sia possibile” si costrinse a ripetere per l’ennesima volta, un sussurro a malapena udibile, mentre le dita continuavano a vezzeggiare la piccola fiala di liquido verde scuro.
“Il veleno è un’arma da codardi” mormorò pianissimo, sentendo il respiro spezzarsi, mentre apriva la fiala con mani tremanti, riavvicinandosi al letto.
Era bello, Revihal, addormentato e con quel sorriso appena accennato sulle labbra carnose, con i capelli troppo lunghi e spettinati, con quegli occhi luminosi che lei riusciva ad immagine perfettamente anche se il ragazzo aveva le palpebre chiuse.
Si sedette lentamente al suo fianco, la fiala in una mano, mentre l’altra sfiorava e accarezzava il suo viso con impensata delicatezza, seguendo la linea dello zigomo e scendendo sulla guancia, fino a passargli piano il pollice sul labbro inferiore, schiudendolo appena.
Avvicinò il piccolo contenitore di vetro al suo viso, rischiando di farlo cadere per colpa dei brividi che le percorrevano tutto il corpo.
“Il veleno è da codardi” sussurrò con un filo di voce “E io ho paura”
Accostò la fiala alle sue labbra, la mano libera appoggiata alla sua guancia carezzandola appena.
“Yania è morta, sono Vihen ora” mormorò piano, la voce incerta “E non posso permetterti di uccidere anche questa parte di me”
Una goccia di veleno sparì nella sua bocca, senza che il ragazzo avesse alcun tipo di reazione, mentre lei sentiva il cuore mancare qualche battito.
“Non mi ucciderai di nuovo” sussurrò in un mugolio di dolore “Non distruggerai la mia vita un’altra volta”
Ma la sua poteva essere considerata vita? Cosa avrebbe fatto una volta ucciso Revihal? Quale sarebbe stato il suo scopo? Uccidere per soldi, per sopravvivere?
La seconda goccia scivolò sulle sue labbra e il ragazzo iniziò a respirare affannosamente, il viso contratto in una smorfia e le dita strette leggermente.
Vihen allontanò di scatto la boccetta da lui, gli occhi spalancati e leggermente lucidi.
“Non posso… non posso” ripeté stringendo con forza tra le mani la piccola fiala, mentre lui si agitava nel sonno.
Cos’altro avrebbe potuto fare? Era troppo tardi, aveva iniziato e ormai doveva finire.
La ragazza si avvicinò lentamente, fino a poggiare delicatamente le labbra sulle sue, il sapore amaro del veleno che la stordiva.
“Ti amo” sussurrò pianissimo, prima di avvicinare nuovamente la boccetta di vetro e lasciare cadere tutto il contenuto nella sua bocca.
Revihal aprì gli occhi di scatto con un urlo di puro dolore, il corpo che si contorceva in brevi e atroci spasmi, dando inizio alla tortura più crudele cui Vihen avesse mai assistito.
La ragazza si coprì gli occhi con le mani per non essere costretta a guardare, ma nulla impediva alle sue orecchie di sentire le urla agonizzanti di Revihal, che sembravano frantumarle il cuore ogni secondo di più.
Gridava e gridava, ma l’unica parola riconoscibile tra i singhiozzi dolorosi era soltanto il suo nome, invocato come una preghiera, la preghiera di un condannato.
L’implorazione stentata di chi sa di non essere pronto a morire.
“Yania!”
Vihen non azzardò a muoversi, rimanendo raggomitolata su se stessa, le mani a coprirsi il volto e il respiro spezzato, finché le urla di dolore non si trasformarono i rantoli, lievi mugolii disperati, fino a spegnersi del tutto.
Solo allora la ragazza non riuscì più a trattenersi, il cuore che sembrava irrimediabilmente lacerato e le lacrime che, dopo anni, finalmente avevano la possibilità di scivolare via indisturbate, rigandole le guance pallide.
Si era sbagliata, Yania non era morta quella sera, una parte di lei era sopravvissuta in Vihen, aveva continuato a crescere senza farsi notare, conservando un minimo di umanità, spesso ignorata ma presente.
Solo quando voltò il viso verso il corpo privo di vita di Revihal, le lacrime che le offuscavano la vista senza accennare a volersi fermare, capì di essere morta davvero.



#AngoloDiLeo
Ecco il mio primo sbarco su questa sezione, con una storia un po' fuori dal comune per un conest che personalmente reputo stupendo.
Che dire? Spero proprio che possa essevi piaciuta e mi piacerebbe sapere cosa ne pensiate con qualche recensione ;)
Grazie in anticipo!
-LeoValdez00

 
   
 
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