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Autore: martaparrilla    09/02/2016    5 recensioni
Henry ha 8 anni e non parla più da diciotto mesi. Sua madre, Regina, è convinta che quella sia la giusta condanna per non essere riuscita a proteggerlo dal dolore per la perdita del padre. Un giorno, le loro vite incrociano quelle di Emma che, cauta e silenziosa, riuscirà a conquistare la fiducia del piccolo Henry.
E forse, anche quella di sua madre.
Basterà questo a farlo parlare di nuovo? Henry odia davvero sua madre come essa afferma?
Anche stavolta ho dovuto alternare il punto di vista dell'una e dell'altra, è una cosa che non riesco a evitare per riuscire a spiegare al meglio le decisioni prese da entrambe e come queste influenzino positivamente la crescita del rapporto dei tre protagonisti.
La storia è puramente frutto della mia fantasia, nonostante si tocchino argomenti che troppo spesso le donne sono costrette ad affrontare da sole e in silenzio.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dopo diverse settimane di pedinamenti per capire quali siano le abitudini di quella donna di cui ancora ignoro il nome, decido di farmi avanti. Ultimamente ho preso molti permessi in ospedale ma con la scusa di Henry i miei colleghi mi lasciano spazio, che ovviamente ricambio coprendo turni scomodi, concedendomi così quelle due o tre ore di permesso.

E' un giusto compromesso.

La nuova “amica di Henry”.

Non so come altro definirla.

Ovviamente non posso lasciare mio figlio da solo con una sconosciuta.

Ne sono consapevole, è una cosa da maniaci psicopatici, ma per quanto mi riguarda la maniaca psicopatica può essere lei e voglio avere la certezza di non mandare mio figlio nelle mani di una carnefice.

Il primo giorno di pedinamento era un martedì, primo riposo settimanale per quel mese.

Scoprii poco dopo dove abitava, una casetta alternativa, di certo da ristrutturare, con un grosso cortile molto più curato della casa e un maggiolino giallo che mi aveva fatto rabbrividire. In effetti sembrava una casa dell'orrore, tutta di legno consumato. Speravo per lei che fosse solo una questione di facciata.

Alla fine della giornata avevo già capito una cosa: aveva una vita noiosa tanto quanto la mia. Si alzava, sistemava cortile e la casa probabilmente, poi andava a portare a spasso i suoi cani e tornava a casa.

Ovviamente nel tempo ho effettuato altri pedinamenti, sei per la precisione. Una volta l'ho vista interagire con un uomo, un vicino di casa che ci ha spudoratamente provato e a cui lei ha detto di no; un'altra è andata dai suoi genitori, o almeno sembravano i genitori, due personcine a modo e iper appiccicose, molto affettuose e comprensive con lei; in un'altra si è incontrata con una sua amica diciamo particolarmente accaldata e quindi poco vestita.

Infine, al sesto tentativo, quando ormai avevo perso le speranze di poterci parlare in solitudine, avevo trovato quello che cercavo: il suo posto segreto.

É lì che ho intenzione di braccarla e spremerla come un limone. O un'arancia. Insomma come un agrume qualsiasi, ed è lì che mi dirigerò questo pomeriggio.

Mia madre è particolarmente allegra questa domenica. Ciò rende le cose molto semplici visto che la domenica si accomoda in pianta stabile per tutta la giornata e sopportarla con le sue solite critiche proprio non è possibile.

Il pranzo come sempre silenzioso (con un bambino come Henry non può che essere altrimenti) termina velocemente.

«Tesoro ultimamente stai sempre in giro, devi dirmi qualcosa?».

Chiede mia madre con finto interesse. In realtà vuole solo trovare un appiglio, un motivo per darmi contro, criticarmi e farmi a pezzetti.

Mia madre. Cora Mills, 165 cm di finta cortesia, capelli neri raccolti in una enorme e antica crocchia, poche rughe sul viso, tailleur di circostanza ovunque vada. Ha fatto di me il bersaglio delle sue frecciatine, dei suoi insulti e dei sogni che lei non ha realizzato costringendomi a sposare un uomo che non amavo, da cui ho poi divorziato per sposare quello che credevo fosse l'uomo della mia vita. Ovviamente alla sua morte invece di un abbraccio e di sostegno ho ricevuto solo accuse su come mi fossi fatta sfuggire anche Robin, sottolineando come non fossi riuscita a tenermi nemmeno quello. Definirla madre è un'offesa per questa figura.

Però è di certo una nonna eccezionale. Probabilmente avrebbe voluto un figlio maschio quindi riversa su Henry tutto l'affetto che non ha mai dato a me e questa è l'unica cosa per cui la ringrazierò in un futuro, se mai capiterà.

«No, mamma, devo andare in ospedale a visitare un paziente che è stato operato ieri» rispondo svogliata mentre carico la lavastoviglie «tempo due ore al massimo e sono a casa».

Non alzo nemmeno lo sguardo dal mio compito, conosco perfettamente quegli occhi carichi d'ira e disprezzo. Gli ultimi piatti sono sistemati e con la coda dell'occhio vedo Henry piegare la tovaglia e adagiarla nell'apposito cassetto.

«Grazie tesoro» gli dico. Come consuetudine, nessuna risposta. Raddrizzo la schiena mentre lui raggiunge la nonna accanto al divano. Insieme guardano la tv, in silenzio.

Nemmeno quell'atteggiamento ostile mi blocca dal mio intento. Devo assolutamente parlare con quella donna.

Esco di casa senza salutare, dubito fortemente che quei due avrebbero ricambiato la cortesia.

Il cielo è coperto ma il tepore del sole dietro quelle nuvole si apprezza comunque.

«Certo che poteva scegliere un luogo meno isolato per pensare, dio santo». Il navigatore mi ha già fatto sbagliare strada due volte e i buoni propositi di stamattina mi stanno ormai abbandonando.

Finalmente trovo l'ingresso del parco sperduto. Parcheggio ben lontana dal punto in cui lei come consuetudine ama rilassarsi. Seguo il percorso del ruscello per un chilometro circa, avendo cura di non distruggere i miei tacchi in mezzo all'erba.

Un leggero sfarfallio al petto mi fa rallentare. Non riesco a definire la sensazione di questo momento, sento paura ma anche curiosità e speranza e gratitudine anticipata. Non avrei dovuto mettere i tacchi ma ho pensato di giocarmi anche la carta del fascino che aveva sempre funzionato sia con gli uomini che con le donne, indipendentemente dal loro orientamento sessuale. E l'abbigliamento di quella giovane biondina, osservato durante gli incontri con Henry, mi diceva che avrei fatto colpo, in qualche modo.

La scorgo sdraiata su una coperta, con una gamba accavallata sull'altra e gli occhiali da sole sul viso. Arrivata a pochi metri da lei ancora non alza lo sguardo, magari ha gli auricolari e non mi sente, ma non scorgo alcun filo attorno a lei.

Faccio un bel respiro.

«Buongiorno».

Un movimento impercettibile del capo mi suggerisce che era assopita. Non posso vedere gli occhi, coperti dalle lenti scure ma noto un sincero stupore alla mia vista. Abbozzo un sorriso mentre lei si mette seduta, ricambia il saluto e mi squadra da capo a piedi.

«Come mi ha trovata?».

Ma che domanda banale. Si alza finalmente in piedi e toglie gli occhiali da sole.

«L'ho seguita» come altro avrei potuto trovarla? Di certo non le avevo messo un microchip nell'orecchio come i suoi cani.

Mantengo la borsa di fronte alle mie gambe, timorosa della sua reazione ma pronta a rassicurarla sul motivo della mia improvvisata.

«La cosa mi mette paura...come mai mi ha seguita? E' successo qualcosa a Henry? Che ci fa qui?».

La facilità con la quale pronuncia il nome di mio figlio mi urta e non riesco a controllare l'espressione contrariata che di certo compare sul mio viso.

«No, non è successo nulla a Henry, volevo parlarle di lui e della sua situazione».

«Non poteva farlo in queste settimane quando accompagnava Henry al parco?».

Domanda lecita. Henry mi avrebbe di certo scaraventato addosso il muro che già aveva ostruito tra noi, non volevo peggiorare le cose.

«Non volevo che Henry ci vedesse, è come geloso di lei e se ci vedesse insieme crederebbe che voglia allontanarla da lui ed è l'ultima cosa che voglio».

Quella spiegazione sembra farle capire le mie intenzioni, il viso si rilassa ma continua a giocherellare sistematicamente con la manica della camicia a quadri che indossa.

«Bè, non ho sedie su cui farla accomodare o qualcosa da offrirle, se si accontenta di una coperta sull'erba» indica con la mano il plaid sotto i nostri occhi.

Piano, dopo aver posato la borsa accanto a me, mi siedo un po' di lato, memore degli insegnamenti di mia madre e prendendo fiato, inizio con l'unica cosa che ancora non avevamo fatto.

«Innanzitutto vorrei presentarmi, mi chiamo Regina Mills».

«Oh io sono Emma, Emma Swan» mi allunga la mano che stringo prontamente. Un altro lieve sfarfallio al petto. Di certo delle extrasistoli, dovrei fare un elettrocardiogramma di controllo, dico tra me e me. Con gli occhi chiusi e il naso simile a quello dei suoi cani alla ricerca di qualche carezza, si avvicina a me. Alzo le sopracciglia e piego un po' la schiena all'indietro cercando di capire che diavolo stesse facendo.

«Mi perdoni, ho sentito il suo profumo».

Annuisco un po' spaventata. E' una ragazza davvero strana.

«La ascolto».

«Non è facile parlare a una completa sconosciuta di mio figlio».

Dico subito sulla difensiva.

«Non credo di capirla, non ho figli, ma se mi ha stalkerizzato evidentemente la paura di parlare con me non è grande quanto quella di non riuscire a far nulla per Henry. E poi ora sa il mio nome, se vuole posso darle altre informazioni su di me, a tempo debito insomma».

Questa sua gentilezza mi tranquillizza e mi terrorizza allo stesso tempo. Le persone troppo gentili, affabili, affascinanti e disponibili hanno sempre qualche lato oscuro del loro carattere che mi mette in soggezione. Basta guardare quel lurido del mio ex marito, che dopo avermi stregato e rubato il cuore l'ha gettato nella discarica senza aver la decenza nemmeno di restituirmelo per poterlo curare. No, ha preferito negare l'evidenza, sputando su me, il nostro matrimonio e su nostro figlio, come se nemmeno lui contasse qualcosa.

Continuo a sospirare mentre raccolgo pensieri caotici, ancora incerta sulla possibilità di confidarglieli.

Ma se non lo faccio ora a cosa è servito tutto questo tempo perso a seguirla? Mi sento combattuta. E quando questo sentimento prevale tra gli altri c'è una sola cosa da fare: spegnere il controllo e aprire la bocca. Così inizio a parlare, avendo cura di non alzare mai una volta lo sguardo dalla coperta, torturando e sbriciolando la fogliolina che era finita tra le mie mani, portata dal vento.

In fondo, quando chiudo i sentimenti, dentro il fantasma del mio cuore tutto è più facile. Affrontare mia madre, il lavoro, chi ancora elogia quel “santo” di mio marito, gli psicologi di Henry. L'unica persona con cui non riesco ad avere questo atteggiamento è mio figlio. Ho provato a essere fredda, ho provato a chiudere a chiave l'angoscia che mi accompagna ogni qualvolta gli rivolgo una parola ma la sua ostilità ha il potere di sventrare ogni muro che costruisco per non ferirmi. Eppure ci riesce sempre.

Solo che parlare di lui ha quasi lo stesso effetto che parlare con lui. Lentamente, il cuore martellante e la testa a un passo dalla pazzia, la connessione tra ragione e sentimento torna, prima soffocata da una triste risata, poi dalla gola chiusa e dagli occhi lucidi di lacrime.

«Vorrei solo che capisca che gli voglio bene, e che non volevo separarlo dal padre. Volevo solo che non stesse più nella nostra casa, invece ho dovuto anche piangerlo al funerale, senza poter dire che razza di schifoso bastardo fosse».

Ed è lì che alzo lo sguardo su di lei per terminare il mio discorso fatto di rabbia, frustrazione e delusione.

Di fronte a me uno sguardo attento e contrariato.

«In tutto questo lei ne ha parlato con qualcuno?». Apre immediatamente la bocca per domandarmi qualcosa. Qualcosa che reputo assolutamente inopportuno.

«Ma ha ascoltato quello che ho detto?».

«Con estrema attenzione, ma mi ha parlato solo di Henry e di quello che ha fatto per lui. Per lei ha fatto qualcosa? Ha mai detto a qualcuno del tradimento e via dicendo?».

Ovviamente no. Forse non era così inopportuna.

«Quindi lui è il santo e lei la stronza. A detta di Henry chiaramente».

Annuisco.

«Esatto, ma è stata la sua morte improvvisa ad averlo ferito maggiormente».

«Immagino che qualcuno le abbia detto che quello sia normale. Ma credo sia meno normale che lei viva con questo enorme peso addosso. Il senso di colpa che la schiaccia non le permette nemmeno di avere un comportamento adatto a rapportarsi con Henry».

Non sono io il problema in questo momento, anzi non lo sono mai stata. Quindi perché soffermarsi su quel che provo io? Sento che le lacrime sono lì, pronte a uscire, ma non voglio che escano, non voglio mostrare nulla. Mi tiro i capelli all'indietro con entrambe le mani. Rimango concentrata sul groppo alla gola che sento da qualche minuto.

«Non sono una psicologa, non ci capisco niente di bambini ma le assicuro che non essere in pace con sé stessi porta a dei comportamenti e a delle reazioni assolutamente improprie. Esperienza personale».

Per non essere una psicologa faceva dei ragionamenti degni del mio professore di psichiatria all'università. Solo allora mi ricordo della rabbia incontrollata di due giorni prima, quando Henry si era rifiutato di mangiare perché avevo alzato la voce. Rifugiatosi in camera sua avevo sferrato due colpi violenti al muro e il risultato era un ematoma sulla mano sinistra (la destra l'avevo protetta, a lavoro non sapevo fare nulla con la mano sinistra) più escoriazioni su due nocche. Da vera teppista insomma. Mentre ripenso all'episodio sul mio campo visivo compare la sua mano che con cautela sfiora la mia. Poso lo sguardo su di lei. Nessuna parola, solo comprensione nei suoi occhi.

«Henry è un bravo bambino e non credo che la odii».

Sorrido tristemente. Certo che mi odia, dico.

«Un giorno mi ha chiaramente detto che voleva parlare con lei, ma non ci riusciva, e non sapeva come fare per tornare indietro».

No. Non può averle detto anche questo. Non può averle detto questo dopo solo un mese di conoscenza mentre in due anni nessuno gli ha saputo estorcere una sola sillaba.

«Ho cercato di farmi dire altro, ma lui si è alzato e ha portato Shila a fare un giro, e quel giorno non ha più aperto bocca e io come al solito non l'ho forzato. Credo abbia qualcosa di estremamente pesante da dire, qualcosa che lo schiaccia e...».

«Lo so, è la stessa cosa che mi hanno detto gli altri psicologi, solo che nessuno ha capito cosa sia o se l'è fatto dire e nessuno ancora riesce a leggere nel pensiero».

Ma lei ha fatto molto di più. Senza un titolo e una preparazione adeguata ha fatto capolino nel mondo in cui Henry si è rinchiuso.

«Lei in due settimane è riuscita a fare molto più di quanto abbiano fatto loro in due anni di terapia, pagando fior di quattrini».

É arrivato il momento di chiederle di badare a Henry, di essere la sua educatrice, psicologa, amica, tutto quello che Henry vuole. Tutto quello di cui mio figlio ha bisogno. Quanto mi costa non essere io la salvatrice di mio figlio. Quanto mi fa soffrire sapere di non avere alcun potere su di lui, ma ora ho una chance. Una vera chance, palpabile, reale, non parole al vento. Non soldi buttati, saranno soldi spesi più che bene. Darò un lavoro serio a questa ragazza e aiuterò mio figlio. Smetterò di usare i soldi dell'eredità di suo padre per pagare gli psicologi e andrà tutto bene.

Continuo a ripetere questo nella mia testa mentre tento di convincerla usando parole, gesti, tono della voce, tutto. Perdo quasi le speranze nel momento in cui si alza e si bagna il viso tra le acque del ruscello.

«Non mi sta aiutando per niente. Mi sono appena disintossicata da una ex fidanzata per cui mi preoccupavo 24 ore al giorno, non voglio tornare a stare male per qualcosa che non posso controllare».

Alla fine il mio sentore sulla sua sessualità era vero. Ed è vera anche la sua paura. Non può controllare Henry o il suo malessere come non lo posso controllare io ma forse insieme possiamo fare qualcosa. Non avrei lasciato tutto sulle sue spalle, l'idea è creare un ponte tra me e lui e lei può essere questo ponte.

Alla fine, dopo un'ora di conversazione, accetta.

Il mio umore cambia.

Percorro la distanza tra lei e la macchina con una nuova consapevolezza.

Tornare a casa mia non è nemmeno così brutto ora. Vedere mia madre non mi sconvolge più di tanto, nemmeno le sue battute.

Sono soddisfatta della conversazione, ma da madre, la paura di aver fatto la cosa sbagliata comunque è presente. Ma in fondo cosa ho da perdere? Al massimo le cose rimarrebbero esattamente come sono ed Henry avrebbe una nuova amica. Certo, non è normale che abbia un'amica più che maggiorenne ma è pur sempre una persona con cui riesce a comunicare, e forse la sua presenza lo aiuterà ad aprirsi con persone della sua età.

Per la prima volta vedo il lato positivo della faccenda. Sotto le coperte del mio letto ripenso alla conversazione con lei, alla delicatezza del suo silenzio, alla sfrontatezza delle sue convinzioni dettate dall'esperienza e la paura di prendersi una responsabilità grande come un bambino di 8 anni. Ha la testa a posto. Almeno per quel che serve a me.

Avremmo fatto capitare tutto per caso, lei sarebbe entrata a casa nostra e anche nel mondo quotidiano di Henry.

Sarebbe andato tutto bene.

Doveva andare tutto bene.

 

 

Note dell'autrice: Lo so, anche questo capitolo risulta ripetitivo per certi versi. Dal prossimo vedremo uno sviluppo più rapido della storia, con nuove scene e nuovi pensieri in ogni capitolo.

Grazie come sempre a Susan e a Nadia per le correzioni :)

  
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