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Autore: MissMadHatter    11/02/2016    13 recensioni
Dopo la fine dell'incubo degli Hunger Games, Panem si risveglia e fiorisce di nuovo, ma senza il calore della Ragazza di Fuoco.
Nel pieno di un freddo inverno, Katniss riceve la visita di Gale -ormai capitano del Distretto 2- nel tentativo di riallacciare i rapporti dopo la morte di Prim.
Ma il tempo, non guarisce tutte le ferite.
//Storia partecipante al contest ‘This is a real friendship?’ indetto da LeoValdez00 sul forum di efp,a questa pagina http://freeforumzone.leonardo.it/d/11205553/This-is-a-real-friendship-Multifandom-/discussione.aspx //
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gale Hawthorne, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Empasse


 
 
“I was wondering if after all these years you’d like to meet, to go over
everything”
 
 
Apro gli occhi di scatto, in preda al terrore.
Accanto a me Peeta dorme, ignaro dell'ennesimo incubo che mi strappa alle scarse ore di sonno che riesco a concedermi. Lo guardo e non posso fare a meno di pensare con sollievo che, almeno lui, sembra aver ritrovato una parvenza di serenità.
Vorrei poter dire lo stesso di me: sono trascorsi sei anni da quando il sipario è calato sull'opera di crudeltà della Capitale, duemilacentonovanta giorni da quando ho conficcato la freccia dritta nel cuore corrotto di quella donna.  
Occhio per occhio, brutta stronza.
Ottenere la mia vendetta si era rivelato tanto semplice quanto appagante, al contrario di quel che ne era venuto dopo.
La reclusione volontaria.
La dipendenza dalla stramaledetta morfamina -l'unica cosa che sembrava capace di farmi sfuggire ai continui orrori partoriti dai ricordi. 
I tentativi, più o meno goffi, di porre fine a quel ciclo infinito di sofferenza.
All'epoca non riuscivo nemmeno a decidere cosa farne di quella parvenza di vita che mi era rimasta attaccata addosso. 
Troppo debole per combattere, troppo vigliacca per farla finita.
Vagavo in un limbo senza via d'uscita dove le urla, il dolore e la disperazione non smettevano di intrecciarsi, creando un groviglio di negatività dalla quale non provavo nemmeno a salvarmi.
La verità è una, ed una soltanto.
La Ghiandaia giace morta per sempre, non importa cosa la gente si aspetti da me, ma Katniss Everdeen sa 
━ così come posso affermare di essere figlia di Jacklyn e Thomas Everdeen━ di dovere la mia vita a qualcun altro.  
A Peeta.
Che non si è mai arreso.
L'unico capace di starmi accanto, mantenendo le distanze.
Rannicchiata sul letto, mentre il buoio della notte lascia il posto all'alba, vengo risucchiata da un particolare ricordo.
Era il periodo in cui la linfa vitale aveva ripreso a scorrere nelle vie del Distretto 12, o almeno ciò che ne rimaneva dopo i bombardamenti. Le macerie che prima si spandevano a perdita d'occhio nel pesaggio desolato, avevano lasciato il posto a nuove costruzioni e sempre più famiglie avevano finito per abbracciare il vento della rinascita. Persino il Mercato (non più "nero", vista l'inutilità del contrabbando) era tornato in auge, ripopolandosi di visitari e mercanti. 
Nel giro di quache mese il Distretto contava più di mille anime, compresa la mia, sebbene rimanesse volontariamente segregata all'interno del Villaggio dei Vincitori.
A quel tempo le droghe mi rendevano sorda al mondo esterno, quindi non saprei dire con certezza quando mi resi conto di non essere più sola.
Il primo ricordo lucido, per così dire, è legato al suono della sua voce che mi chiama con insistenza, mentre con movimenti precisi si affrettava a medicare i tagli che mi ero provocata su entrambi i polsi. Il fatto che si trattasse di ferite non abbastanza profonde da rivendicare la mia morte la diceva lunga sulla mia codardia.
Dopo quell'episodio Peeta era tornato a fare parte della mia vita, sebbene l'astinenza da morfamina mi provocasse illusioni talmente vivide da non riuscire più a distinguerle dalla realtà. Tutto ciò che so riguardo quel capitolo della mia
━ nostra━  vita è frutto dei suoi racconti, ma enrambi evitiamo di ricadere volontariamente in meandri tanto oscuri. 
L'inverno dovette cedere il passo alla timida primavera prima che potessi tornare a sentirmi un essere umano, anche se in una forma piuttosto sbiadita. Ogni giorno rappresentava una sfida continua, persino respirare sembrava richiedere uno sfrozo immane. Tutto quel tempo che avevo passato rinchiusa nella penombra aveva reso i miei occhi sensibili e non era raro, soprattutto all'inizio, che Peeta dovesse costringermi a mettere il naso fuori dalle mura de mio personale mausoleo.
Con il senno di poi ho compreso che la mia non era altro che pura paura: con quale coraggio mi sarei potuta arrogare il diritto esistere, o anche solo respirare, quando lei non esisteva più da nessuna parte? Rifiutavo di concedermi un nuovo inizio perchè sentivo di non meritare affatto una vita, felice o infelice che fosse.  
Sarei una bugiarda se non ammettessi di aver rischiato diverse volte, spinta da questi pensieri auto distruttivi, di ricadere nella spirale tossica della droga e la presenza di Peeta fu l'unica costante che mi permise di non smarrire del tutto la via della ripresa.
  



So che è ancora troppo presto, lo vedo dall’oscurità che scolora il paesaggio fuori dalla finestra, ma non riesco a resistere all’impulso di controllare Prim e Mitch. Un rapido sguardo, giusto per assicurarmi che stiano bene, e mi dirigo in salotto. Sul divano trovo ancora la coperta di flanella e i libri, impilati uno sull’altro a formare una  torre precaria. Non che mi fossi immersa nella lettura, ma almeno ci avevo provato.
Afferro la copertina calda e me la sistemo in grembo per scacciare quei piccoli brividi di freddo che mi fanno costantemente odiare le ore che precedono l’alba. Ho bisogno di un fuoco sempre acceso per non rischiare di spegnermi.     
Col dito indice della mano destra scorro la pila di volumi fino a quando non arrivo al titolo che mi interessa. Solitamente non leggerei mai un fantasy ma Primrose me lo ha “caldamente consigliato”, come le piace ripetere ogni volta. Dopo un paio di richieste ho ceduto alle sue insistenze, con sua grande gioia e sotto lo sguardo stupito di Peeta.
Ritrovo la busta bianca proprio dove l’ho lasciata, tra la fine del capitolo 20 e l’inizio del successivo. Nessun mittente, solo il mio nome, scritto in uno stampatello semplice e netto. Già questo dettaglio avrebbe dovuto farmi capire, avrebbe dovuto azionare il campanello d’allarme. Mi sono pentita di averla letta nello stesso istante in cui ho realizzato la portata dei guai che conteneva in sé. La parte leggermente masochista che dimora dentro di me spinge le dita ad estrarre il foglio sgualcito per rileggerne il contenuto. Non una, non due, bensì tre volte. Ad ogni nuovo inizio sento il cuore affondare sempre più giù, schiacciato da un senso di oppressione.
Mi accorgo troppo tardi del rumore di passi che si sta avvicinando, così che quando Peeta sussurra al mio orecchio la risposta del mio corpo è decisamente troppo eclatante per fare finta di niente.
– Mi hai spaventata a morte, –  lo rimprovero cercando di sembrare credibile. Non so esattamente cosa mi abbia tradito: se la risata isterica che è venuta a seguire, quel pizzico di ansia nel tono della mia voce o il mio goffo tentativo di nascondere la lettera.
– Non hai bisogno di nascondere alcunché, Katniss – interviene lui con tutta calma, – so cos’è che ti ha turbata in questi giorni, ho letto quello che ti ha scritto.
E’ quasi esilarante il modo in cui riesce a capire le cose prima ancora che io me ne renda conto. Deve essere una delle ragioni per cui ora mi ritrovo qui e non sola, magari rinchiusa in un ospedale psichiatrico della Capitale.
Se ha delle domande, queste rimangono all’interno della sua testa, in una dimensione platonica per me inaccessibile. Probabilmente sa che non ho una risposta, ci è abituato. Mi dice solo quello che pensa, ossia ciò che non voglio sentire: la verità.
– Non puoi scappare ancora – la sua inflessione non mi sta colpevolizzando, né tanto meno accusando.
Eppure mi lascia addosso una grande tristezza.
 
**
 
Tra tutti i giorni della settimana martedì è quello che meno mi piace, vai a capire perché.
Mi sveglio con gli incubi impressi addosso, come tatuaggi indelebili che mi avvelenano il sangue. Ho smesso di considerare gli ansiolitici come migliori amici da quando il loro effetto non ha più fatto presa sulla mia mente. Riesco a malapena a percepire me stessa mentre indosso gli abiti pesanti e infilo gli scarponcini foderati di pelliccia. Sono davvero io quella che si mette il giubbotto davanti alla porta d’ingresso?
Fuori il paesaggio è desolante, non tanto per l’assenza di edifici o di persone quanto per l’uniformità di colore dovuta alla generosità delle nuvole cariche di neve. La terra, le strade, i tetti delle case… tutto è coperto di nevischio bianco. E io odio il bianco. Mi ricorda cose che vorrei tanto dimenticare, come le rose del Presidente – ex, Katniss, ricordatelo.
Come sempre decido di ignorare questo dettaglio e pugni in tasca mi dirigo verso la parte est del Distretto.
Le abitazioni lasciano il posto ad un panorama di macerie e fantasmi senza eco. Ben presto anche questa zona, come la maggior parte del Dodici, verrà travolta dall’entusiasmo di vivere, di ripartire da zero. Quasi mi aspettavo che avremmo vissuto da soli, Peeta e io, nella solitudine degli emarginati. Poi sono arrivate le prime famiglie, spinte da un senso di appartenenza e dalla malinconia. Di lì a qualche anno il numero di anime all’interno del Distretto era arrivato ad un centinaio. Si era ricostruito il necessario, fatto sorgere case dalle loro ceneri, il Mercato – non più nero, ora che non vi era necessità di contrabbandare alcunché – aveva ripreso la sua attività e così anche Peeta. Quando si parla di pane lascio tutto nelle sue mani.
I miei piedi lasciano impronte profonde sullo spesso strato di neve che si è depositato per terra. Smetto di fare attenzione a dove metto i piedi quando sono in procinto di raggiungere la mia solita meta. Una volta questa parte del Dodici era chiamata il “Prato” e il nome rispecchiava esattamente la sua immagine. La Recinzione è sparita, sradicata con le nostre stesse mani avide di vendetta. Se uno sconosciuto guardasse da lontano in direzione del Prato forse non si accorgerebbe di nulla, vedrebbe solo una bianca e immacolata distesa di fiocchi bianchi. Io però riesco a vedere fin troppo bene le lapidi regolari, sebbene nascoste dalla candida coltre, che riportano tutte un nome diverso. Potrei citarle a memoria, se solo volessi. 
Questo è il nostro cimitero, la valle dove diamo corpo alle lacrime che ci scuotono ancora l’anima nelle giornate più buie. L’unico posto che mi è rimasto per non dimenticare che la mia famiglia è veramente esistita. I piedi adesso mi sembrano due macigni, impossibili da smuovere. Sono solo cinque linee ordinate di steli, posso farcela. Passo davanti a Sae, al sindaco Undersee e a sua moglie, oltrepasso i genitori di Peeta fino a quando il mio corpo non si erge davanti a tre nomi: Primrose Everdeen; Jacklyn Everdeen; Thomas Everdeen.
La pietra tombale di mio padre è quella che riporta le date più remote perché è stato il primo a far sentire la sua assenza. Già prima dei Giochi lottavo contro la sua scomparsa e col tempo ho imparato a rassegnarmi. Per gli altri due nomi invece non è stato così semplice. 
– Ciao, paperella – sussurro sfiorando la lapide di Prim con la punta delle dita intirizzite. Bastano queste poche parole per farmi salire l’abituale nodo alla gola. Riuscirò mai ad andare avanti? Sto per lanciarmi in uno dei soliti soliloqui rivolti alle anime dei miei cari scomparsi se non ché un movimento, percepito con la coda dell’occhio, attira la mia attenzione.
Non ci sarebbe niente di male nello scorgere la figura di un ragazzo qualsiasi al confine con i boschi – se quello fosse veramente un qualsiasi ragazzo. Se non avesse i capelli neri, se mi sfuggisse quel particolare modo di incrociare le braccia, se non riconoscessi in lui quello che tempo fa potevo chiamare un amico fidato… se mi voltassi adesso, se solo facessi marcia indietro. 
Mi raggiunge con tutta calma, senza mai levarmi gli occhi di dosso. Rimaniamo in silenzio, specchiandoci uno negli occhi dell’altro: i miei timorosi, i suoi ancora tristi. Sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei dovuto affrontare di nuovo una conversazione reale con Gale, un dialogo che non fosse solo dentro la mia testa o nei miei sogni.
Aspetto che si pronunci perché di certo non sarò io la prima a proferire parola. Tutte le cellule del mio corpo stanno gridando di scappare, di fuggire via lontano da quello sguardo che chiede il mio perdono. Qualcosa che non posso dargli. Non ancora.
Si preannuncia un martedì più difficile del previsto.
 
 
“They say that time’s supposed to heal ya, but I ain’t done much
healing”
 
 
«Catnip» – esordisce Gale timidamente, lasciandosi sfuggire un sorrisetto sbilenco  che gli provoca una fossetta sulla guancia. – Ne è passato di tempo. Cerco di sorridere al suo disastroso tentativo di approccio. Purtroppo, non sono mai stata granché brava con le bugie.
– E così ha fatto carriera al Due, Sergente Hawthorne – appuntata al pesante cappotto che indossa posso vedere la targhetta che riporta il suo grado, nome e cognome. Dalla smorfia sul suo viso deduco che non sia entusiasta di questo appellativo. Mi chiedo quale possa mai esserne il motivo. Per un po’ la conversazione sembra procedere senza particolari intoppi, tralasciando il fatto che rimaniamo a debita distanza l’uno dall’altra. Qualche anno fa gli sarei corsa incontro non appena l’avessi visto. Avrei pianto, di gioia, l’avrei sommerso di domande, lo avrei trascinato di nuovo nei boschi per cacciare insieme. Entrambi sappiamo che niente è più come prima: quel legame che ci univa si è spezzato come un filo troppo logoro, indebolito dal rancore e dal rimorso.
Alla sua domanda ‘ti sono mancato?’ ribatto velocemente di sì, forse con troppa poca enfasi. – Bugiarda – una insinuazione proferita a fior di labbra, quasi inudibile.
– Cosa sei venuto a fare, Gale? – il mio interrogativo suona più duro di quello che mi aspettavo e un attimo dopo penso che non mi interessa affatto.
– Non hai mai risposto alla mia lettera, quindi ho pensato fosse il momento giusto per venire – esita giusto una frazione di secondi prima di aggiungere – di persona.
Per quanto cerchi di apparire calma e distaccata, Gale non si fa raggirare. Ogni sua parola mi trafigge come le frecce che ero solita usare. “Perdono” e “colpa” sono termini ricorrenti nel suo discorso ininterrotto. Mi sento come una bambina che non sa nuotare, travolta da un fiume in piena.
So cosa vuole sentirsi dire: che sì, l’ho perdonato.
Che, anzi, non c’è niente da perdonare perché la morte della mia sorellina non è stata colpa sua.
Ma erano una sua creazione – sua e di Beete – quelle bombe incendiarie!
Che possiamo tornare ad essere la Katniss e il Gale del Distretto Dodici.
Come se non fosse già abbastanza difficile sostenere il suo sguardo ferito!
Dubito di poterlo fare davvero. Saranno anche passati sei anni da quel giorno ma il passato non ha mai smesso di aggrapparsi alla mia pelle, conficcando i suoi artigli affilati in profondità. La sua presenza qui al Distretto non fa altro che ricordarmi ciò che ho perso, ciò che mi è stato strappato via. Per cosa, poi? Supremazia. Ribellione. Potere.
Cose inutili, per me. Io volevo solo tornare a casa, quella in cui sono cresciuta, scordarmi degli Hunger Games, della guerra, della Coin, di Snow, degli amici persi in battaglia. Volevo scrollarmi di dosso le ultime piume che ancora facevano di me la Ghiandaia Imitatrice.
Comincio a sentirmi “scoperta”, un facile bersaglio per i cecchini immaginari che mi puntano dal cielo. Guardo Gale, gli occhi sgranati dalla paura. E’ così preso dal suo monologo da non accorgersi che la mia attenzione lo ha abbandonato già da un po’. Solo quando mi giro per tornare sui miei passi si rende conto non gli sto affatto prestando attenzione.
– Dove stai andando? – mi afferra il braccio destro cercando di farmi voltare verso di lui. La voce è sinceramente sorpresa, forse persino spaventata dal mio incessante tentativo di scappare dalla sua presa. Non vedo né sento altro: in testa ho solo il pensiero fisso di tornare a casa, da Peeta e dai nostri bambini. Gale mi intima di fermarmi, di ragionare.
– Dove stai andando? –
Le impronte dei miei scarponi sulla neve disegnano una scia resa sghemba dalla fretta e dall’agitazione che muovono meccanicamente i miei piedi. Mi ripete la domanda un’altra volta.
Katniss, cammina.
Dove stai andando?
Non ti girare Kat, tranquilla.
Maledizione, vuoi dirmi perché non possiamo parlarne? Vuoi davvero che finisca così?Odio le domande. Detesto non riuscire a dare una semplice risposta. Lo voglio? Desidero davvero che questo ragazzo uomo sparisca dalla mia vita?
Mi sembra quasi di sentire la voce di Haymitch dentro la mia testa: devi esserne sicura, ragazza.
Inciampo su una roccia sporgente, celata alla mia vista da un generoso strato di neve, e rimango lì per terra.
– Ti ricordi la prima volta che abbiamo visto la neve, Gale? – esordisco con tono flemmatico, – Era la cosa più bella che avessi mai visto. Invece adesso mi fa pensare a Snow… e alla Coin.
Nel silenzio che aleggia tra noi la mia voce esplode come una granata, sbrandellando i corpi in tanti coriandoli di carta color carne. Sa esattamente cosa sto pensando in questo momento, perciò non ho bisogno di aggiungere altro. Mi rialzo con tutta la calma di cui sono capace, mascherando il tremore dovuto all’emozione. Ho deciso di aspettare qualche istante prima di concedermi il lusso di congedarlo con un sorriso.
Sì, questa storia deve finire.
Percepisco il contatto delle sua mani ancora prima che si chiudano sulle mie. Sono fredde e allo stesso tempo calde, proprio come ero solita ricordarle. Mano grandi, gentili.
Sussurra il mio nome una, due, tre volte e ad ogni nuova ripresa il tono della sua voce si riempie di sconforto. Non posso aiutarti, Gale. Non questa volta. 
Senza che io riesca a fare niente per evitarlo, le lacrime traboccano copiosamente sulle mie gote arrossate dal freddo.
– Tu mi odi, non è vero? – più che una domanda suona come un’affermazione.
Come posso dirglielo? Che tipo di persona è quella che volta le spalle ad un amico in questo modo? Eppure la risposta è eloquente, persino nel mio rifiuto di pronunciare quel semplice ‘sì’.
– Gale ne abbiamo già parlato ­– controbatto con una mezza verità.
Il nostro ultimo incontro aveva quel retrogusto amaro di chi ha perso la fiducia nei confronti dell’altro. Poche parole sono bastate per renderci conto che era troppo presto per cercare di rimettere a posto i pezzi. Che forse non ci saremmo mai riusciti davvero.
Adesso ne ho la prova: l’uomo che mi sta di fronte non è più Gale Hawthorne, figlio di Hazel. Non è più il ragazzo che mi accompagnava nelle escursioni di caccia clandestina e nemmeno l’audace giovane che si è fatto fustigare dal nuovo capo dei Pacificatori. Il ricordo del suo bacio si è perso nelle urla strazianti dei miei incubi notturni.
Davanti a me ho solo Prim, la mia tenera sorellina. Sento le sue risate mentre gioca con Ranuncolo, ricordo con quanta maestria riusciva ad aiutare nostra madre come io non ho mai saputo fare. La rivedo raggiante e determinata mentre mi sussurra che presto diventerà aiuto infermiera. Ne scorgo la figura in mezzo al bagno di folla, a Capitol City, mentre assiste i primi feriti davanti ai cancelli del palazzo di Snow.
Dopodiché tutto rallenta. Come in un film dalla pellicola difettosa mi passano davanti gli ultimi fotogrammi della sua vita: io che la chiamo, la sua espressione stupita, quei piccoli pacchetti che cadono giù dal cielo come una manna. Esplosioni. Il caos totale.
– L’hai uccisa, – riprendo con freddezza – è l’unica cosa che conta.
Nessuno meriterebbe parole simili. Razionalmente riesco a comprendere la sottile differenza che sta cercando inutilmente di farmi capire da molto tempo. Il fatto che le bombe fossero una sua invenzione – sua, e di Beetee – non significa per forza che debba essere lui il colpevole. In fin dei conti, siamo stati tutti usati dalla Coin.
Per questo l’ho uccisa, penso con una punta di sarcasmo. Volevo mettere fine alla sua miserabile e arida vita, proprio come lei si era arrogata il diritto di toglierla a mia sorella.
Purtroppo questo non cambia nulla. Siamo ancora qui, uno di fronte all’altra, e ci sentiamo dei perfetti estranei.
– Katniss – incalza, – Il ruolo di un amico è quello di essere al tuo fianco quando sbagli.
Esita per un istante, in attesa che io finisca la sua frase: perché chiunque sarà accanto a te quando hai ragione. Uno dei tanti insegnamenti di vita che mio padre mi ha lasciato prima di morire nelle miniere.
Se solo potesse essere possibile. Se potessi illudermi di riuscire a guardarlo negli occhi senza rivedere quelle subdole bombe che planano su tutti quegli indifesi. Sui bambini. Su Prim.
Impossibile. Il solo pensiero mi contorce le viscere e un brivido profondo mi scuote da capo a piedi. 
– Non riesco a perdonarti – scuoto la testa per scacciare le lacrime che tornano prepotentemente a farsi sentire, – sarà sempre così.
Ormai la decisione è stata presa. Mi ci sono voluti diversi anni per accettare anche solo l’idea di doverlo perdere, ma eccomi qui. Senza dire una parola, Gale si avvicina e mi circonda con le sue braccia forti. Per un attimo respiro ancora la fragranza che lo contraddistingue, quel sapore di buono che mi fa tornare indietro nel tempo. Per una frazione di secondi siamo di nuovo Katnip e Gale, amici legati da un’amicizia forte come il diamante.
Avevi detto che le avresti protette.
Mi stringo forte a lui, cercando di aderire totalmente alla sua persona al di sopra degli strati di tessuto.
Me lo avevi promesso.
Catnip e Gale.
Everdeen e Hawthorne.
La presa si allenta e lui scivola via come se il vento lo stesse risucchiando in un vortice. Presto sarà lontano, e con lui tutte le sofferenze di questa giornata.
Rimango ad occhi chiusi abbastanza a lungo da supporre di non poterlo più scorgere nel mio campo visivo. Quando trovo il coraggio di tornare alla realtà, di lui rimangono solo le impronte sulla neve.




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note dell'autrice
 
Dal vocabolario Treccani:
impasse ‹pàs› s. f., fr. [der. di passer «passare»; voce proposta e adottata da Voltaire nel 1761 in sostituzione di cul-de-sac]
1. Vicolo cieco, strada senza uscita; usato in Italia solo in senso fig.: trovarsi in una i., in una situazione difficile, da cui non si sa come uscire (anche di trattative, contrattazioni, tentativi d’accordo, spec. in campo politico o sindacale, rimasti bloccati da qualche difficoltà e di cui non si preveda una facile o prossima soluzione).
 

Innnazitutto, cari lettori, questo pippone è per voi, giusto per farvi comprendere -spero- il motivo dietro il titolo di questa one-shot.

Dopo anni di assenza mi sono chiesta - un po' alla Bilbo Baggins- perché no? Perché non dovrei leggere questa mia vecchia fiction, trovarla orrorifica e riscriverla da capo? 
Mi sono sempre immaginata cosa ne sarebbe stato di Catnip e Gale, una volta finito l'incubo della tirannia di Capitol e della Coin. Mi sono basata sulla percezione che ho avuto di Katniss, leggendo i libri, ovvero di una ragazza testarda che finge di essere forte, ma che in verità nasconde la testa sotto la sabbia e fugge dalle aspettative altrui. Non me ne vogliate, la adoro anche nei suoi difetti. E diciamoci la verità, a conti fatti, per molti di noi sarebbe altrettanto impossibile perdonare Gale.
Sempre vostra,
Cappelaia.


 
   
 
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