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Autore: Youth_    22/02/2016    0 recensioni
Descrizione dell'attimo immediatamente seguente alla manifestazione di coraggio di Katniss che ha dato inizio alla storia, dal momento in cui si offre volontaria al posto della sorella.
Dal testo: "Dal palchetto sembra tutto diverso. Anch’io sembro diversa, probabilmente, un gradino sopra gli altri, con un cappio attorno al collo. La gente non si distingue. Sono tutti vestiti allo stesso modo, hanno gli stessi occhi persi nel vuoto, alla ricerca del nulla, immersi nell’oblio dell’incertezza, dell’ignoranza dell’avvenire.
Sono numeri nella folla, sono entità erranti. Stelle spente offuscate dalla spietatezza della notte.
Dev’essere così che ci vedono loro."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gale Hawthorne, Katniss Everdeen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voci. Parole. Suoni. Rumore.
Immagino possa essere riassunto in questo modo, tutto ciò che sento in quel momento, tutto ciò che arriva, filtrato dalla profonda incoscienza in cui sono caduta da quando ho spinto via Prim.
Sembra un ricordo di cent’anni prima, invece è accaduto appena qualche minuto prima.
Sento ancora le parole rantolare nella gola. Sono lì, graffiano e mordono, pregando di non essere mai uscite.
Mi offro volontaria come tributo”.
L’ho urlato come se il mondo intero dovesse sentirmi, e l’ha fatto: ha ascoltato ogni singola sillaba, digrignando i denti, desiderando la carne, come mi ha dimostrato nel corso degli anni.
Dal palchetto sembra tutto diverso. Anch’io sembro diversa, probabilmente, un gradino sopra gli altri, con un cappio attorno al collo. La gente non si distingue. Sono tutti vestiti allo stesso modo, hanno gli stessi occhi persi nel vuoto, alla ricerca del nulla, immersi nell’oblio dell’incertezza, dell’ignoranza dell’avvenire.
Sono numeri nella folla, sono entità erranti. Stelle spente offuscate dalla spietatezza della notte.
Dev’essere così che ci vedono loro.
Dal mio posto d’onore posso scrutare ogni angolo di quella piazza. L’avevo calpestata con i piedi nudi, l’avevo osservata con circospezione e ci avevo sbattuto il viso, occasionalmente.
Ora più che mai, sembravamo tutti animali in fila al macello.
Cercai di raccogliere da quella massa informe un viso conosciuto, uno solo che potesse significare qualcosa di più di un paio d’occhi senza luce. Ne intravidi uno, con sollievo.
Gale mi osservava, con la circospezione con cui si approcciava ad una preda, chiedendosi se ne valesse la pena. Mi sentii in qualche modo soggetta alla sua ispezione, messa in soggezione dai suoi occhi, dal suo sguardo di sufficienza. Lo ricambiai con orgoglio, o almeno quello che mi pareva lo fosse.
Ci siamo guardati come fosse stata la prima volta. 
La prima volta che l'avevo scorto tra le fronde degli alberi ad intrecciare corde con un ago di pino tra i denti e la fame che gli divorava le ossa. La prima volta che mi aveva esaminata, decretando che ero troppo debole per aiutarlo, troppo piccola e troppo inesperta; fu la nostra prima litigata, eppure il primo legame.
Il primo filo tra tanti che ci teneva uniti, e che adesso si stava sfilacciando, insieme agli altri, inspiegabilmente, sotto i nostri sguardi freddi ed estranei.
La prima volta che ci dividevamo il cibo e correvamo per i boschi, alla ricerca disperata di un rifugio dai problemi che non ci appartenevano e che ci erano piombati addosso spezzandoci le spalle.
La prima volta che riconoscevo i suoi occhi, le fattezze del suo viso. 
Avrebbe dovuto sembrarmi familiare, eppure non era così. 
Lui era diverso, e come ho già detto, probabilmente lo ero anch’io. Seppur condannati alla stessa sentenza, ci trovavamo in posti diversi. Avrei dovuto avere paura, e tremare.
Lui avrebbe dovuto preoccuparsi, e guardarmi con aria compassionevole.
Ma lui non lo fece, e io non avevo paura.
Mi sembrava un sentimento così estraneo, una realtà così lontana. In quel momento, qualsiasi cosa lo era: dal colore dell’erba selvatica agli occhi delle persone che mi erano state accanto fino a qualche ora prima.
Ero ferma ad un punto di non ritorno, eppure non ero ancora caduta: non mi avevano ancora spinta dall’altra parte, e mi tenevo aggrappata a quell’unico filo che mi faceva rimanere in piedi, allietandomi del beneficio del dubbio, che mi aveva sedata impedendomi qualsiasi reazione concreta, come se stessi guardando la scena dall’alto: come se non fossi io, lì, condannata ad una morte da burattino, da pupazzo sbranato da un cane.
Poi lui mi sorrise.
Un sorriso freddo e falso, con un’occhiata intensa, di complicità e forza.
Tutto crollò improvvisamente.
La realtà mi piegò come il colpo di una frusta, risuonando. Mi parve di urlare, urlare come prima: ma il mondo si coprì le orecchie, e così non uscì un fiato dalle mie labbra.
Solo una lenta, improvvisa coscienza di una sentenza scritta a caratteri cubitali sulla mia fronte, stampata a fuoco sulla mia pelle. Bruciava come fuoco.
Sono una concorrente della settantaquattresima edizione degli Hunger Games. 
   
 
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