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Autore: Euridice100    22/02/2016    5 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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XXII - Avrei trovato molte più risposte
(Se avessi chiesto a te, ma non fa niente)
 
 
 
“Nothing's gonna hurt you, baby,
as long as you're with me

you'll be just fine.
Nothing's gonna hurt you, baby,
nothing's gonna take you from my side.”

“Nothing’s gonna hurt you, baby” - Cigarettes After Sex
 
 
 
Uno sparo risuonò nell’aria.
Un altro lo seguì all’istante.
 
Sull’edificio calò un silenzio spesso come il sipario di un teatro. Un silenzio pesante, denso, che si chiuse sui presenti paralizzandoli.
Era passato un istante o una vita? Non se ne rendeva conto. Aveva chiuso gli occhi quando aveva udito il primo colpo, quando il suo stesso proiettile era partito.
Non voleva vedere. Non poteva vedere. No.
Finché non avesse saputo, tutto sarebbe andato bene.
Ma doveva sapere.
Perché, se nulla fosse andato bene, avrebbe sparato ancora e ancora, ma avrebbe risparmiato l’ultimo colpo.
L’avrebbe risparmiato per sé.
Quando riaprì gli occhi, quando vide Rebecca riversa sul pavimento lordo e Belle caduta ginocchioni, Gold perse la padronanza di sé.
Al rumore degli spari, i suoi tre uomini più fidati erano irrotti. Stavano obbedendo a un ordine già ricevuto, ma lui non se ne accorse. Non gli importava nulla, se non correre dal centro del suo mondo, inginocchiarglisi accanto e sussultare vedendolo immobile, il respiro lieve, la pelle cerea e sudata e i grandi occhi celesti sbarrati.
Ma vivo.
E in quell’istante solo questo contò.
- Belle, – la chiamò più volte senza ricevere risposta, mentre controllava che sull’abito non vi fossero chiazze scure che l’avrebbero portata via da lui. Non era – non sembrava – ferita. No. Ma allora perché non reagiva, perché non apriva bocca? Gold non fu in grado di controllare la fuga di pensieri. Esitò a sfiorarla di nuovo, quasi temendo di spezzarla.
Al contatto la giovane si voltò verso di lui. Un immenso terrore le dilatava le pupille. Batteva i denti in modo incontrollato.
- È tutto finito, – l’uomo provò a tranquillizzarla – È tutto finito.
Lei annuì appena, gli occhi brillanti di lacrime che non versava.
- Ora torniamo a casa, – Gold lo disse automaticamente, come una macchina, per liberarsi del macigno che gli opprimeva il petto – Torneremo a casa, e dimenticheremo tutto questo. Oggi non esiste.
Ma presto anche lui tacque.
Si guardarono, cercando l’uno nel viso dell’altro il coraggio di riprendersi, di essere di nuovo presenti a sé.
Le frasi di Robert annullavano ogni pensiero in Belle, ma non erano veritiere.
Non dimenticheremo mai oggi.
La donna si rialzò a fatica. Tremava. L’industriale la coprì con la propria giacca prima di guidarla fuori dalla catapecchia, dove li attendeva la carrozza su cui montarono in fretta.
Durante il tragitto non ci furono parole, non si scambiarono altri sguardi.
Ma la mano di Belle stringeva forte quella di Gold mentre scappavano dal porto.
 
 
 
“I stare at my reflection in the mirror,
why am I doing this to myself?
Losing my mind on a tiny error,
I nearly left the real me on the shelf.

(No.)”
“Who you are” - Ed Sheeran
 
 
 
Quando arrivarono a Kensington, il crepuscolo aveva ormai ceduto il passo alla notte. La nebbia fitta si arrotolava attorno ai lampioni smorzandone la luce, ammorbidendo i contorni di ogni cosa. L’aria era fredda; ma, quando mise piede nella villa ben riscaldata, Belle si rese conto che non era la temperatura pur rigida a farla rabbrividire.
Era la paura.
Helena non aveva sentito ragioni: aveva atteso i suoi genitori e, appena li aveva scorti, si era buttata loro al collo, baciandoli e abbracciandoli come se ne andasse della propria vita. Mary Margaret aveva saggiamente mandato a chiamare il dottor Whale, il quale sosteneva che la piccola stesse bene, comprensibile spavento a parte; ma, alla vista degli occhi ancora sbarrati della figlia, Belle si era detta che no – Helena non stava bene. Anche a distanza di anni Helena avrebbe ricordato quel giorno, lo sbaglio compiuto e le conseguenze cui stava per condurla; e per la prima volta sua mamma non avrebbe potuto curare le ferite: i baci tanto efficaci per le ginocchia sbucciate non avrebbero lenito il bruciore di un cuore ferito, e le ninnenanne avrebbero solo allontanato, mai davvero scacciato quelle ore da incubo.
Ma tutte le difficoltà, tutti gli errori e i rimorsi si erano nell’istante meraviglioso in cui Belle aveva riabbracciato Helena. L’aveva stretta forte a sé, premendo la faccia nell’incavo del suo collo, tra i suoi capelli, respirandola forte finché la mente non era stata piena che di lei, della sua bambina, del suo sole personale che nulla avrebbe eclissato e che sarebbe tornato a splendere più luminoso di prima.
Non sarebbe stato facile dimenticare, no, ma i suoi genitori le sarebbero stati accanto, entrambi; e se non avessero potuto curarla l’avrebbero aiutata, quel giorno e sempre nella vita fino all’ultimo respiro.
Gold aveva preteso che anche Belle si facesse visitare, sordo alle sue rassicurazioni: stava bene, il proiettile non l’aveva neppure sfiorata, non aveva senso preoccuparsi.
Non era vero.
Il proiettile l’aveva sfiorata, e lei era stata certa di morire. Ma – paradossalmente – in quel momento non c’era stata traccia della paura che pure le aveva avvelenato il sangue nelle ore precedenti.
In quel momento Belle aveva provato serenità.
Non sapeva se fosse normale, se la sua reazione fosse follia o andasse attribuita alla sorpresa o ad altro: tutto era accaduto troppo in fretta per rendersene conto, e gli eventi erano ancora troppo recenti per essere razionalizzati. La Zelenyy aveva fatto comparire dal nulla una pistola e gliel’aveva puntata contro; e lo scintillio dell’arma, anziché terrorizzare Belle, aveva scatenato un unico, pacato pensiero: se il prezzo perché Helena e Robert vivessero era lei, era pronta a pagare.
Com’era successo tanti anni prima, era pronta a tutto purché i suoi cari fossero salvi.
Non era trascorso più di un secondo tra l’apparizione del revolver e i due spari, ma alla donna era parsa un’eternità. Le gambe le si erano fatte di piombo, spostarle un’impresa impossibile; all’improvviso lontana da sé, estraniatasi, per lei il tempo aveva scorso lentamente, sempre più lentamente, accompagnando con dolcezza il proiettile argentato che la raggiungeva.
Aveva accettato la morte.
Le sarebbe mancato specchiarsi negli occhi di Helena, i suoi baci, gli scherzi e le risate. La prima volta che l’aveva tenuta in braccio… E Dio, quanto le sarebbe mancato Robert, il suo sorriso fiero e insieme incerto, le venature d’argento tra i capelli, il suo amore disperato e il buco nero che un uomo tanto freddo e severo celava dentro di sé.
La sua famiglia.
No, non aveva paura.
O forse non poteva permettersela
Il proiettile le aveva sfiorato la guancia. L’aveva sentito fendere l’aria a pochi millimetri dal volto, conficcarsi nella parete mentre Rebecca cadeva. Non avrebbe mai scordato l’improvviso calore al volto, il fischio all’orecchio e il buio improvvisamente calato su di lei.
Aveva creduto di essere stata colpita, di star esalando gli ultimi respiri. Era strano morire, aveva riflettuto: il sangue non le bagnava le vesti, non provava dolore, affanno, sofferenza – niente. L’unica sensazione era data dal pavimento duro e freddo sotto le ginocchia, lo stesso pavimento su cui Rebecca spirava in un’ultima convulsione.
Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla rivale morente. Come mai era l’altra, e non lei, a morire?
All’improvviso, una voce che ben conosceva l’aveva chiamata, due mani tremanti l’avevano toccata. Un tocco lieve, appena accennato, spaventato – ma non per questo meno intenso.
Le sue mani. La zattera nella tempesta.
Non ricordava come e quando avesse capito di essere viva, non ricordava cosa fosse successo negli istanti immediatamente seguenti. Sapeva solo che a un tratto l’aria le aveva di nuovo riempito i polmoni – assaltandoli, ferendoli, benedicendoli – e che voltandosi aveva incontrato un paio di occhi castani, i suoi occhi castani fissi su di lei.
Da lì si era ritrovata direttamente in carrozza, i loro palmi uniti. Non avrebbe saputo dire chi per primo si fosse avvicinato, forse Belle stessa, ma una cosa era certa: lei non aveva avuto la forza di respingere le dita gentili che s’intrecciavano alle sue. Dopo essere rimasta con lui quel pomeriggio, non l’avrebbe più avuta.
In casa erano stati accolti con calore, ma anche soggezione – quasi temessero il loro rientro, ciò che sarebbe potuto succedere da quel momento. Anche Regina era apparsa per pochi, pochissimi minuti: un tempo neppure sufficiente perché la frastornata Belle se ne capacitasse e le desse le condoglianze. Neanche Ruby si era trattenuta a lungo: aveva accettato il passaggio per Whitechapel offertole da Whale e declinato mesta ogni invito a restare.
- Non devi colpevolizzarti, – la French aveva compreso le ragioni del suo stato d’animo – Conosco mia figlia, e so che non era tua intenzione perderla di vista. Anzi, devo ringraziarti: senza il tuo contributo, forse ora non saremmo qui.
- Ma se fossi stata più attenta, ora non starebbe così, – l’amica aveva accennato alla bambina: troppo spaventata per fare i capricci, Helena aveva spilluzzicato qualcosa con la madre per poi andare docile difilato a letto. Si era addormentata subito, ma il suo sonno era leggero e irrequieto, tanto che le due donne parlavano sottovoce per non svegliarla
La Lucas era uscita dalla camera chiudendo la porta dietro di sé, e Belle aveva sospirato e sistemato le coperte della bimba.
Solo ora riusciva a pensare agli eventi della giornata, a quanto lei ed Helena avessero rischiato. Di se stessa, lo ribadiva, si curava poco; ma della figlia… Per quanto provasse ad allontanare il pensiero dalla mente, la terribile immagine di Helena lontana da chi tanto l’amava, sperduta, spaventata, abbandonata, la perseguitava; l’idea che la bambina sarebbe potuta crescere nella convinzione di essere stata gettata via come una cartaccia le causava uno spasmo nel petto, smuoveva in lei qualcosa di antico e potente, viscerale. La Zelenyy si era dimostrata pronta a tutto pur di portare a termine il folle piano, e con ogni probabilità avrebbe avuto la meglio se non fosse intervenuto Robert.
A ripensarci, c’era un che di ironico: proprio Helena era sempre stata il motore di ogni nuovo riavvicinamento tra i suoi genitori. La fuga di aprile aveva permesso loro di rincontrarsi, la sua sparizione a giugno aveva dato loro il coraggio di ritrovarsi, e ora…
E ora?
Gold pareva scomparso. Sinceratosi delle condizioni della figlia e dell’ – ex? – amata, si era ritirato nelle sue stanze, dando ordine di mandare da lui Hulme, Reed e Blockehurst appena rientrati.
In carrozza non c’era stato altro contatto oltre alle mani unite, ma ciò che li aveva legati era stato più forte di qualunque abbraccio.
Per l’ennesima volta la verità aveva superato le barriere che lei, che lui – che loro si erano imposti. Belle stessa aveva definito Robert codardo in più di un’occasione, ma l’uomo non aveva esitato un secondo ad andare a salvare la loro bambina prima e lei poi. Col potere che irradiava senza neanche sforzarsi e il suo tono calmo, pur di difenderle era stato pronto a un faccia a faccia i cui esiti avrebbero potuto rivelarsi fatali.
Quel giorno Robert Gold si era dimostrato una persona migliore di lei.
Se Helena fosse stata con lui, non sarebbe stata rapita.
Questo non poteva giurarlo. La lucidissima follia di Rebecca non si sarebbe fatta fermare dall’alta cancellata della villa di Kensington: la giornalista avrebbe comunque cercato il modo d’intrufolarsi e attirare Helena nella trappola. Il punto non era questo, ma un altro: il coraggio che Robert aveva tirato fuori nel momento in cui aveva avuto una ragione per cui combattere.
Noi.
L’intensità della considerazione le mozzò il fiato. Le tornarono in mente tutte le preghiere e le dichiarazioni che l’uomo le aveva rivolto anche dopo essere stato crudelmente lasciato in un giardino durante una festa.
Ma nel mio cuore non ne ho avute altre, Belle, capisci? Da cinque anni nel mio cuore ci sei sempre stata solo tu. Solo tu. Perché non riesci a ricordarlo?
(Lo so. L’ho sempre saputo.
Ma non meritavo le tue bugie.)
Il flusso di pensieri venne interrotto da un bussare discreto cui seguì la voce di Mary Margaret.
- Posso? – la governante sussurrò, entrando solo al cenno di Belle – Come state? – l’altra alzò le spalle – Il fatto che si stia riposando è positivo, credimi.
- Spero non abbia gli incubi. Io ho paura persino ad addormentarmi, sai? Se chiudo gli occhi, rivivo oggi.
La più adulta annuì partecipe.
- Poverine, – fece una carezza sul capo di Belle – Per fortuna tutto si è concluso per il meglio, ma tremo al solo pensiero di ciò è successo. Ho intravisto Gold: è ancora sconvolto… So che è di ben poca consolazione, ma vi siamo tutti vicini.
Belle prese un profondo respiro prima di porre la domanda.
- Ora lui dov’è?
Mary alzò le spalle.
- Dov’era. Non si è mosso dalle sue stanze, neanche dopo aver ricevuto Hulme e gli altri. Abbiamo chiesto loro cosa stesse succedendo, se ci fossero disposizioni, ma li conosci – non lo tradirebbero mai. Hanno solo ordinato di non disturbare il padrone perché impegnato. A far cosa, però, non si sa.
Belle deglutì. Era ancora l’omicidio a impegnare Gold? Cosa sarebbe successo ora? I peggiori scenari le volarono nella mente in un istante.
La governante si accorse dell’improvviso pallore: le prese una mano e gliela strinse con affetto.
- Non devi spaventarti: è quel Robert Gold, potrebbe massacrare Londra intera e uscirne con la reputazione intatta. Figurati se avrà dei problemi per quel che ha fatto oggi, considerando anche perché l’ha fatto.
Sì, la giovane avrebbe voluto concordare. Ma non erano solo le conseguenze legali ad angosciarla, ma anche le altre, il modo in cui Robert avrebbe affrontato se stesso ora. Cosa avrebbe potuto fare lei per aiutarlo? Non ne aveva idea, non aveva più idea: già in passato aveva fatto tutto il possibile senza esito alcuno. Restargli accanto e amarlo non era stato sufficiente.
Però non poteva neanche abbandonarlo. Non così, non senza una parola, non tornando ciascuno alla propria esistenza come se quel giorno fosse stato uno tra i tanti.
Belle non lo faceva per qualche malata forma di abnegazione, esagerato spirito di sacrificio o simili. Belle voleva solo capire – capire per scegliere il meglio per sé e prima ancora per loro figlia, per non negarle il padre che tanto l’amava e non negarsi l’unico al mondo che amasse.
Per capire se potessero dare all’amore un’altra possibilità.
Sarebbe voluta andare da lui, parlargli. Si sarebbe anche solo accontentata di guardarlo in silenzio, pur di rendersi conto delle sue condizioni. Ma non poteva lasciare Helena sola, non quella notte; e la piccola aveva la precedenza.
- Va’.
L’invito giunse improvviso e netto. L’ex cameriera si voltò verso la Nolan, che le sorrideva gentile. Aveva intuito ogni suo pensiero.
- Va’ da lui, se è ciò che desideri.
- Ma la bambina…
- Resterò io con lei, e se ti cercherà ti manderò a chiamare subito. Ma se vuoi stargli accanto, qualunque sia la vostra situazione, fallo. È meglio avere rimorsi che rimpianti, dicono. E qui, – concluse indicando la porta – C’è chi ce ne ha già troppi, di rimpianti.
 
 
 

“You are the snowstorm, I’m purified,
the darkest fairytale in the dead of night,
and let the band play out
as I’m making my way home again,
glorious we transcend

to a psychadelic silhouette.”
“Salvation” - Gabrielle Aplin
 

 
 
Doveva fare in fretta. Gli eventi erano precipitati e tutti i progetti mutati.
Tutti, eccetto uno.
Il solo che porterai a termine.
Non era così che doveva andare. Avrebbe dovuto parlarne con Belle, spiegarlo a Helena. Non comportarsi così, non prendere accordi nel mezzo della notte per fuggire all’alba. Stava sbagliando, ma la consapevolezza non lo fermava.
Hulme e gli altri avevano sistemato ogni cosa: nessuno avrebbe mai ricondotto quel cadavere a Robert Gold. Non era il timore di una pena a imporgli la partenza, ma il timore di un amore.
Rivivere le scene era la tortura più dolorosa cui la mente potesse sottoporlo. A nulla valeva concentrarsi sugli istanti in cui aveva sentito il cuore di Belle battere ancora, su quell’ – È salva. Salva. Salva – che aveva dominato i pensieri: era successo tutto per colpa sua. Come poteva restare lì, fingere che le cose si fossero risolte nel migliore dei modi e magari tornare alla solita routine, permettere a Helena di stare ancora con lui se era proprio suo padre a metterla in pericolo?
Non poteva. Semplicemente non poteva.
Con la morte di Rebecca, la vita pareva essere tornata in ordine, non lo era. Si aspettava di provare gioia, si aspettava che la vendetta cancellasse almeno parte del trauma; e invece non si sentiva alleggerito, ma solo scosso, persino più vuoto di quanto volesse ammettere.
Non aveva mai ucciso nessuno. Minacciato di farlo sì, innumerevoli volte; ma fatto no, mai. Non se ne pentiva: non era certo il senso di colpa a smuovergli la coscienza. La Zelenyy non poteva fuggire impunita dopo quanto fatto alle tre donne più importanti della sua vita. Il sangue avrebbe riscattato ogni malefatta...
Un’altra credenza venuta meno. Il sangue non elimina ciò che è stato.
Qualcuno bussò, ma Gold la ignorò.
Non si voltò nemmeno quando udì il cigolio della porta e i passi leggeri verso di lui.
- Robert?
Malgrado i propositi, l’emozione lo sovrastò. Non poteva non succedere, quando lei gli si rivolgeva.
- Belle.
Il nome gli sfuggì dalle labbra in un sospiro, mentre si voltava verso la donna. Era pallida e si stringeva le braccia al petto; sul volto portava ancora i segni di un’immensa preoccupazione. All’uomo parve così bella e fragile che dovette combattere contro l’istinto di prenderla tra le braccia.
- Come stai? – le domandò, pentendosi subito della stupidità della domanda.
L’altra alzò le spalle.
- Bene. Almeno fisicamente, stiamo bene.
Gold annuì. Non poteva far altro. Cos’avrebbe dovuto aggiungere? Avrebbe dovuto consolarla ripetendo che col tempo tutto sarebbe andato meglio? Non era bravo a rassicurare le persone, a far loro promesse, quel giorno più che mai.
L’uomo schivava il suo sguardo, Belle se ne rese conto subito. Si morse a sangue l’interno della guancia. Da quanto non parlavano da soli, da un mese e mezzo? Il loro ultimo incontro si era concluso con una tazzina rotta e mille recriminazioni. Chiunque, vedendoli, avrebbe decretato la loro storia definitivamente conclusa; lei stessa l’aveva definita spesso tale. Avrebbe dovuto rassegnarsi e accettarlo: lei e Robert si erano amati, tanto, tanto, tantissimo, ma non abbastanza. Si amavano ancora, ma non abbastanza. Forse esistono coppie per cui l’abbastanza non esiste, e loro appartenevano alla categoria.
O forse no: forse loro si amavano abbastanza, ma questo non aveva impedito a Robert di ferirla nel profondo, conscio di farlo. Quanto avrebbe voluto saper andare oltre, chiudere gli occhi e riaprirli pronta a ricominciare daccapo; ma ogni volta che lo incontrava, non riusciva a non pensare anche al modo in cui le aveva nascosto la verità.
Entrare in camera era stato un errore, un errore cui si sarebbe pentita in eterno? Troppe volte aveva spezzato il cuore, troppe volte aveva tradito la sua fiducia. E lei, povera sciocca, non riusciva a staccarsi da quell’uomo che aveva dato il peggio di sé… Il peggio di sé fino a quella sera.
- Io… Volevo solo ringraziarti. Di tutto.
Gold non si mosse.
- Mi sono solo comportato come ti saresti comportata tu. Omicidio a parte.
Cos’avrebbe fatto lei, se fosse stata al posto di Robert? Chiederselo era inutile: per quanto terribile, la risposta era chiara nella mente.
- Rebecca ha cercato di rapire Helena e di uccidermi. Nutro ben poca compassione per lei.
- Fino a poche ore fa non eri dello stesso avviso.
- Sbagliavo. Mi sono sbagliata su di lei.
È una bene che almeno uno tra noi ammetta i suoi errori, la parte più sarcastica in Gold avrebbe voluto ribattere. Ma rimase solo un pensiero tra i tanti, troppi che popolavano la sua mente quella sera.
- Tu come stai?
Una domanda semplice, mille risposte diverse. Non ce n’era una che avrebbe potuto darle a cuor leggero. Quel giorno aveva perso Cora, ucciso Rebecca e sconvolto Belle ed Helena: la vita di quattro persone era cessata o mutata per sempre a causa sua.
E lui stava.
Bene. Male. Indifferente.
Ora non sapeva definirlo.
Dinanzi al suo silenzio, la donna riprese la parola.
- Ce la faremo. Ce la dobbiamo fare. Se non per noi stessi, allora per Helena.
Quanto avrebbe voluto poterle credere.
- C’è chi ce la fa, e chi no.
 L’uomo la guardò con un viso aperto, il più aperto lei gli avesse mai visto, spaventato, esposto, smarrito. Come la sua anima.
- Non è vero, – l’impulso di abbracciarlo era così difficile da vincere – Tu sei convinto di non farcela. Ma tu eri anche convinto di non poter amare, quando da cinque anni dimostri il contrario ogni giorno.
L’uomo trasalì.
- Allora tu sai…
- Io ho sempre saputo che tu mi ami. Ancora. E lo stesso vale per me, ancora, – si maledisse per non essere riuscita a pronunciare la frase di cui lui aveva bisogno – Quanto al resto, però… Quanto al resto io non lo so. Non so nulla.
Gold non era alto, ma in quel momento sembrò persino più piccolo della giovane. Le rivolse il più triste dei cenni.
- Ho dovuto farlo, Belle, io… – le parole si confusero, refoli nel mare di nebbia della mente – Ti ho vista morire. Ti ho vista morire, – ripeté con un filo di voce – Io non posso perderti. Tu mi mantieni umano.
La donna si coprì le labbra con le nocche della mano destra.
Diglielo. Diglielo.
Avanti, vigliacca, diglielo!
Non lo fece. Gli prese una mano, gli occhi fissi sulle dita tremanti. Lui pensò che tra le mille cose che aveva stretto, lei era la migliore.
- Posso… Posso abbracciarti? – la voce di Gold era sottile.
Belle deglutì. Annuì.
Non la stringeva da un mese e mezzo, Gold. Era poco rispetto a ciò che aveva affrontato un tempo, ma un’eternità per lui. Se chinava lo sguardo, se si fissava le mani, vedeva ancora la pistola con cui aveva portato via la vita alla Zelenyy. Ne sentiva il peso, ne ripercorreva il grilletto liscio sotto i polpastrelli, percepiva l’odore acre della polvere da sparo. Quelle immagini l’avrebbero perseguitato per il resto della vita, e neanche avere Belle, la sua Belle, di nuovo tra le braccia riusciva a esorcizzarle.
Non guardare oltre Belle.
Concentrati.
Concentrati sulle piccole cose.
Belle minuta e morbida sotto il suo corpo.
Belle, la pelle liscia e calda del suo collo.
Belle, il suo profumo dolce di tè e miele.
Belle.
Belle.
Affondò il naso nei suoi capelli, ne serrò tra le labbra una ciocca, si aggrappò a lei con tutte le forze.
La zattera del naufrago, il sostegno nella tempesta,.
Se chiudeva gli occhi rivedeva la smorfia che aveva distorto il volto della Zelenyy, ciò che l’aveva preceduta e seguita.
- Sono qui. Ci sono, – ripeté Belle, stringendolo più forte.
Mi tengo a te, amore mio.
Mi tengo a te nella tempesta.
Si staccò appena, lo spazio necessario per carezzarle il volto col proprio, per passarle il pollice sulle labbra, quasi a sentire il timido sorriso che gli dava – sentirlo, ricordarlo. Scorse lungo la schiena con la punta delle dita, perdendosi in quei magnifici occhi azzurri, l’esatto colore di un cielo di maggio senza nuvole, prima di fare ciò che non avrebbe dovuto fare.
Chinarsi a baciarla.
Era così sbagliato, Belle si redarguì all’istante. Con mille cose ancora da discutere, non avrebbe dovuto lasciarglielo fare. Lo amava anche se non riusciva a dirglielo, ma non l’aveva raggiunto per concederglisi quasi fosse il premio del vincitore,: in un simile frangente non poteva permettergli, non poteva permettersi certe libertà, ne era convinta.
Nulla era risolto, tutto ancora in bilico. Non…
Ma ora, ora, tutto ciò che le importava era il modo in cui la lingua di Robert scivolava sulla sua bocca schiudendola, il modo in cui i denti affondavano nel labbro e le mani si aggrappavano al suo corpo.
La mente era svuotata da ogni pensiero per la prima volta da settimane.
E ricambiò il bacio.
Le labbra di Belle bruciavano, come una scottatura. Gold avrebbe voluto baciarla per sempre, per sempre avrebbe voluto sentire le sue dita leggere sul collo, i baci che posava su quella stessa scia, le braccia che si chiudevano attorno a lui. Avrebbe dovuto maledirsi, ripetersi di aver compiuto la scelta più errata possibile – lui sapeva, entrambi sapevano che non sarebbe finita bene –, ma non ci riusciva. Non sapeva pentirsi.
Un ultimo bacio, si promise, solo un ultimo; ma l’ultimo diventò il penultimo, poi il terzultimo, poi perse il conto. Un bacio, un altro, e un altro e un altro ancora, finché le ginocchia non tremarono, finché i respiri non si seguirono rapidi e affannati e nulla ebbe più importanza; nulla, se non il modo in cui Belle gli succhiava la lingua, gli mordeva le labbra tenera e feroce assieme, lo afferrava alla nuca e lo carezzava.
Quando alla fine si separarono ansimanti, fu lui a prenderle il volto tra le mani e a guardarla negli occhi.
Non vi fu bisogno di parole.
Continuarono a baciarsi sul letto su cui caddero insieme, come due ragazzini che sentono crescere in loro la voglia di stare assieme, di essere uno e non più due nei gesti più antichi del mondo. Si toccarono attraverso i vestiti, si morsero, leccarono, si lasciarono dei segni che i giorni avrebbero cancellato dalla pelle, ma non dalla mente.
Segni che erano un inizio, o una fine, Belle non sapeva.
Non voleva sapere.
Sarebbe stato bello restare per sempre lì, in questa stanza in cui non serviva coraggio, non esistevano timori. Esistevano solo loro, e questo bastava.
Fronte contro fronte, viso contro viso, labbra contro labbra.
Le dita intrecciate.
No, ora Belle lo sapeva. Non voleva – non poteva – lasciarlo. Era già successo troppe volte. Non l’avrebbe più permesso.
Sapeva che, se avesse parlato, Robert si sarebbe scusato. Per quello che era stato, per quello che stava succedendo, per mille altri motivi che solo lui conosceva. Ma non ha senso scusarsi. Belle l’aveva imparato sulla propria pelle: non si chiede scusa – lo si dimostra. E non si chiede scusa per qualcosa che entrambi volevano, per un desiderio che pure secondo alcuni non avrebbe dovuto provare e per cui lei per prima non intendeva scusarsi.
Non si era mai scusata per la prima volta che l’aveva accolto in lei, goffa, spaventata e innamorata; non si era mai scusata per la sera in biblioteca in cui lui l’aveva spinta contro un tavolo e le aveva ripetuto coi gesti e le parole quanto fosse sua. Perché era così – era sua. Apparteneva a Robert quanto Robert apparteneva a lei; si appartenevano, e questo le piaceva, le era sempre piaciuto.
E voleva viverlo, ancora, ancora e ancora.
Ogni bottone della camicia era un bacio, ogni bacio un laccio dell’abito, finché non si ritrovò vestita dei suoi soli capelli. Le dita scivolarono tra le gambe, come le bocche. Robert la osservava a lungo, lentamente, attentamente, come un pittore studia il paesaggio che riprodurrà – come a volerla imparare a memoria. Con la punta delle dita seguì ogni dettaglio del suo corpo, ogni segno, ogni particolare; si riempì di lei i sensi e la memoria mentre assaporava la sua pelle, mentre tenero e incessante la carezzava dal ventre al seno, che baciava senza requie.
L’uomo premeva con forza le labbra contro le sue, cercando di divorarne il sapore un’ultima volta – la volta definitiva.
Lo stai provocando tu.
Il pensiero gli attraversò la mente rapido come una stella cadente.
Ogni prezioso istante che passava era un istante in meno.
Tutto questo, lo stai provocando tu.
- Ti amo, – le giurò – Ti amo.
Non glielo disse per placare la mente, per giustificare le azioni e l’indomani; lo disse perché aveva in gola quella frase, perché non poteva fermarla. Perché quella frase era come lei – un barlume di luce in un oceano d’oscurità.
Belle sentì un groppo alla gola. Perché, non riuscì a fare a meno di chiedersi, perché glielo ripeteva ora, così, all’improvviso, e soprattutto perché lei non riusciva a dirglielo?
Quanto avrebbe voluto farlo, quanto. Era l’unica verità, qualunque cosa blaterasse la ragione, e il fatto che ora stesse lì, sotto di lui, a ricambiare i suoi tocchi e i suoi baci, a non desiderare altro che lui – lui, la sua passione, il suo respiro su di lei, lui, sentirlo perdersi e ritrovarsi in lei, lui, timido, diffidente, vulnerabile com’era sempre stato, lui, lui, lui – lo provava.
Io ti amo.
Amo tutto di te.
Anche le parti più oscure.
F u l’unico istante in cui Belle chiuse gli occhi, per non cogliere la tristezza nel suo sguardo mentre lei non parlava.
- Stringimi, – gli chiese invece – Più forte.
Lui obbedì.
Il suo tocco gli fermava il cuore.
La prese senza pensare alle conseguenze, senza pensare più che non poteva, che non doveva. Che la mattina le avrebbe ancora sfregiato il cuore, che si sarebbe vista solo sfruttata, che l’avrebbe odiato. Non pensò più a niente, se non al desiderio disperato con cui il suo corpo lo accolse, al modo in cui lo stringeva tra le gambe e gli scostava i capelli ogni volta che gli ricadevano sul volto. Lo guardava in volto, come se anche lei avesse voluto memorizzarlo, come se avesse capito. Non si chiese se fosse la realtà o una sua impressione: guardarla era anche suo bisogno. Stavolta doveva guardarla, dal primo all’ultimo istante, doveva essere presente a se stesso e l’unico posto in cui perdersi dovevano essere le sue braccia, la sua pelle, la sua carne morbida e diafana che lo incatenava e inghiottiva.
Belle era delicata, e lui avrebbe preferito non lo fosse. Voleva che lasciasse l’impronta delle mani, delle labbra, dei denti sulla pelle, per fargli ricordare quella notte, per non fargli credere di aver sognato quando si sarebbe ritrovato solo, lontano da tutto e tutti – lontano da lei.
- Non ti odio, – Belle gli mormorò all’orecchio – Non ti ho mai odiato.
Dalla prima volta che lo aveva visto non l’aveva sopportato, lo aveva detestato, ma non gli era mai, mai, mai stato indifferente. Quanto tempo avevano perso per la testardaggine, per il loro stupido orgoglio… Ma non avrebbe mai voluto tornare indietro e ricominciare daccapo, correggere i mille errori.
Erano tutti preziosi: tutti li aveva condotti qui.
Gold nascose il volto nell’incavo del suo collo. Il tempo doveva fermarsi, non era giusto scorresse, non era giusto – doveva fermarsi, doveva fermarsi ora, mentre il suo nome le esplodeva sulle labbra tra i gemiti e le carezze più intime, mentre le sue spinte perdevano ogni ritmo, mentre –
L’orgasmo esplose nello stesso istante, un impeto che li lasciò senza respiro. Si morsero la bocca a sangue per non urlare, soffocando l’urlo in un bacio; restarono avvinghiati a riprendere fiato, il capo di lui sul seno di lei, le labbra di Belle socchiuse, i capelli sparsi come un’aureola attorno alla testa.
Non sapevano quanto tempo fosse passato. Il tempo aveva perso ogni importanza, ormai. Quando alla fine Gold si allontanò, ricadendo al suo fianco, Belle sentì un vuoto che non aveva nulla a che fare col sesso. Doveva essere palese sul suo volto: l’uomo si riavvicinò e le posò un bacio delicato, leggero, a fior di labbra. Lei gli mise una mano sul petto, ascoltando il battito veloce del suo cuore.
Ancora una volta, nessuno parlò. Non c’era bisogno di parole.
Gold rimase immobile a guardarla finché non sentì il suo respiro diventare pesante, finché non fu sicuro che stesse dormendo.
- Non lasciarmi, – all’improvviso Belle mormorò nel sonno.
- Mai più, – le carezzò una guancia con un dito dicendolo.
Ma il suo sussurro fu appena udibile.
 
 
 

“You cry out in your sleep,
all my failings exposed,
and there’s a taste in my mouth
as desperation takes hold.
Just something so good
just can’t function no more.”
“Love will tear us apart” - Joy Division
 

 
 
Dicono che il bacio più difficile non sia il primo, ma l’ultimo.
Come si saluta un pezzo di cuore? Come si fa a voltare le spalle e proseguire per la propria strada,  quando a pochi passi c’è chi si ama più della propria vita, chi è ignaro – o forse solo non ancora del tutto consapevole – che si risveglierà in un letto vuoto? Una lettera non basta a neutralizzare la confusione in testa, a colmare l’assenza dopo che le mani si sono cercate con tanta urgenza.
Non avevano fatto l’amore per fermare il tempo e ritardare l’addio, Gold se lo ripeteva fino allo spasimo. Era successo perché si amavano. Serviva altra giustificazione?
Era stato un momento di verità, l’ultimo che la vita regalava loro. A Gold non piaceva dire che ne avevano approfittato – che strano, dopo vent’anni trascorsi a coltivare la finanza con la stessa dedizione che avrebbe dovuto riservare ai rapporti umani, improvvisamente la parola profitto lo disgustava. Belle non era profitto. Belle non era definibile.
Belle era – punto. Gli aveva spezzato la vita in due. Robert Gold prima di Belle, Robert Gold dopo di Belle.
Non le aveva mai raccontato del tempo in cui si stendeva sullo stesso letto su cui si erano amati, fissava il soffitto e la immaginava respirare accanto a sé. Non le aveva mai detto del modo in cui i polmoni gli si erano allargati dolorosamente in cerca d’aria, del modo in cui il mondo era esploso davanti ai suoi occhi quando mesi prima aveva capito che lei era viva, era reale.
Non le aveva mai detto un sacco di cose, e questa era la causa della loro situazione; e altre cose le aveva dette, ma non dimostrate, e anche questo li aveva condotti sin lì.
Lasciò il foglio e si diresse verso la porta.
La tentazione di voltarsi era sempre più pungente.
Un ultimo sguardo, un’ultima volta, un’ultima volta…
Non lo fece. Se si fosse fermato, se si fosse voltato, non sarebbe più stato in grado di proseguire.
Strinse forte il metallo della maniglia, forte, più forte, fino a provare dolore.
Cosa sto facendo?
Poggiò la fronte alla bussola. Il freddo del legno non rischiarò i pensieri, come tanto avrebbe voluto.
Ma non posso non farlo.
Le lacrime non versate gli offuscavano la vista, un velo perlaceo calato davanti agli occhi.
Perché non so amarti senza sporcarti.
Aprì l’uscio.
Non svegliarti.
(Svegliati, amore mio, non lasciarmi andare via.
Svegliati!)
Uscì nel corridoio e richiuse piano la porta dietro di sé.
Grazie.
 
 
 

“You've got my eyes, 
we can see what you'll be,

you can't disguise,
and either way, I will pray,

you will be wise,
pretty soon you will see the tears in my eyes.”

“My eyes” - Travis
 

 
 
Quando Gold entrò nello studio, si sorprese nel non trovarlo deserto.
La sua poltrona era occupata da una ragazza assopita dalla lunga treccia scura.
Non dedicava un pensiero a Regina da ore, solo adesso se ne rendeva conto: l’aveva completamente ignorata, persino una volta rientrato in casa. Ma anche per lei era stato un giorno terribile…
Forse, si disse, era destino che la trovasse lì. A prescindere dai propri fini, intendeva cercarla e parlarle: perdere un genitore è sempre un incubo e perderlo quando, malgrado i contrasti, lo si ama tanto forse è peggio.
Non lo stupiva il fatto che la ragazza si fosse rifugiata da lui: Kensington, in fondo, era l’unico porto sicuro che le rimanesse. A quanto pareva, purtroppo ormai entrambi lo sapevano più che bene.
- Regina, – la scosse piano per svegliarla – Regina, sono io.
La giovane mormorò qualcosa prima di aprire le palpebre. Sulle guance aveva i solchi di lacrime secche.
- Zio, – borbottò infine, passandosi una mano sul volto. Pareva disorientata, come se non capisse cosa ci facesse acciambellata su una poltrona di casa Gold in piena notte; e Gold sperò che quella beata ignoranza durasse, durasse ancora, e proteggesse una bambina cresciuta in fretta dal volto terribile che la realtà aveva mostrato.
Ma l’oblio durò un battito di ciglia.
- Scusatemi per essermi addormentata qui. E scusatemi se mi presento così… Disordinata, – fece cenno alle ciocche sfuggite al nastro e all’abito che indossava, assai lontano dai fasti di un recente passato.
- Non devi scusarti di nulla.
Entrambi tacquero per lunghi minuti.
- Come… Come stanno Helena e Belle?
- Bene, – l’adulto fu grato che l’interlocutrice avesse parlato per prima – Sono molto spaventate, ma stanno bene.
- Forse dovrei salire in camera. Se Helena mi cercasse senza trovarmi, potrebbe angosciarsi di più.
L’adolescente si alzò, e Gold la lasciò fare. Si conficcò le unghie nel palmo di una mano. Non avrebbe dovuto chiudersi in un silenzio definitivo, stante i motivi che lo spingevano a cercare la ragazza. Non poteva lasciarla andare via così, come se non si curasse di nulla – lui, lui che forse era suo padre. C’erano troppe questioni irrisolte tra loro, ma se lei fosse uscita dalla stanza – ora, col suo sguardo improvvisamente inespressivo, il volto contratto e gli occhi arrossati di chi ha pianto ogni lacrima –, lui avrebbe ottenuto l’agognata solitudine, ma non se lo sarebbe mai perdonato.
- Mi dispiace per tua madre.
Regina si fermò di colpo. Tentò invano d’impedire alla frase di pungerle il cuore.
Com’è la vita senza Maman?
La stava già vivendo da mesi, ma ora tutto era diventato definitivo.
- Chi l’ha uccisa?
Gold osservò la figura ferma della ragazza, il modo in cui si manteneva dritta nonostante il peso che le gravava addosso. Le spalle di Regina forse non erano larghe o robuste, ma erano forti abbastanza per reggere la verità.
- La stessa donna che ha portato via Helena.
L’adolescente fremette, la mente ora del tutto lucida. Sua madre non aveva un’anima candida: le ingiustizie di cui si era macchiata, anche nei confronti della sua stessa figlia, erano innumerevoli. Forse qualcuno, per qualche perversa ragione che guida la mente umana, avrebbe anche potuto considerare la sua morte una giusta vendetta. Regina non accettava il ragionamento, ma poteva capirlo.
Ma l‘idea che la stessa persona – la stessa bestia che aveva infierito su Cora avesse fatto del male a un’innocente, a Helena, alla sua Helena era al di là di ogni possibile giustificazione.
- Voglio vendetta, – furono le sue uniche parole; e lei per prima non seppe a quale atrocità si riferissero.
- L’abbiamo già avuta.
Regina si voltò verso lo zio. Il modo in cui egli ricambiò incrollabile lo sguardo rispose a ogni silenziosa domanda.
- Allora avete fatto ciò che era giusto.
Questione di punti di vista.
- Come… Cosa devo fare io, adesso?
- Non dovrai preoccuparti di nulla, – l’industriale la rassicurò con prontezza – I miei avvocati ti contatteranno e risolveranno qualsiasi problema. Quasi sicuramente sarò io il tuo tutore, e sarà mia premura accettare. È mia intenzione lasciarti libera: quando sarai maggiorenne potrai emigrare in America, andare a Parigi o da qualsiasi altra parte. Oppure potrai restare qui e iscriverti alla Scuola di Medicina, se è ciò che desideri. Ma in tal caso, – aggiunse rapido – Permettimi di pagare le rette. Permettimi questo.
La ragazza non nascose lo stupore.
- Perché?
Gold non rispose.
Perché le voleva bene, anche troppo, in un modo che era impossibile definire.
Perché era sorella di Neal e di Helena, o forse no, ma questo non cambiava nulla: lui e quella ragazza dagli occhi grandi erano legati da sempre, forse da prima ancora che entrambi esistessero, e lo sarebbero sempre stati. Come zio o nipote o come padre e figlia, come maestro e allieva o forse al contrario, non importava: ciò che contava era il filo tra loro, il filo logoro, consumato, ma resistente che raccoglieva le loro esistenze.
- Ti affido Belle ed Helena, – dichiarò all’improvviso, senza procrastinare ulteriormente – Sto partendo.
Regina aggrottò la fronte, un nodo di stupore che le chiudeva la gola.
- Cosa?
- Hai sentito bene. Sto partendo, e non so se e quando tornerò.
- Ma… Belle ed Helena? – nominò sgomenta – Non verranno con voi?
Gold chinò il mento. Ammettere la verità fa sempre male, e lui lo sapeva fin troppo bene.
- Sarà meglio per loro non incontrarmi più.
- Cosa state dicendo? – Regina scattò, tutto d’un tratto dimentica di ogni residuo di buone maniere. Lo zio era ubriaco o cosa? Stava ascoltando le sue stesse parole, o le pronunciava senza curarsene? – Belle e vostra figlia vi amano. Nell’ultimo mese e mezzo io le ho viste e so come e quanto siano state male per voi, quanto voi siate mancato loro. Come potete anche solo pensare non vogliano vedervi?
L’imprenditore riportò lo sguardo su di lei.
- Proprio perché soffrono a causa mia, per loro sarebbe meglio non vedermi più.
La nobile scosse il capo incredula e furiosa: solo un estraneo o un folle avrebbe accettato impassibile simili confessioni, e lei non era né una, né l’altra. Da anni era coinvolta in quel turbine di avvenimenti non come mera spettatrice, ma come personaggio principale, alle volte come antagonista. Se lo zio intendeva comportarsi come il tragico protagonista di un melodramma di terz’ordine, prego, facesse pure; ma se si fosse aspettato la sua comprensione o peggio, la sua commiserazione, ebbene, non avrebbe ottenuto ciò cui anelava.
- Non ha senso. Credetemi, Belle lo accetterà ancor meno, e vostra figlia non lo accetterà proprio. Glielo avete detto? Come hanno reagito?
Il silenzio dell’imprenditore valse più di mille parole.
- Perché dovete partire? Per… – abbassò inconsciamente la voce – Per la vendetta?
 Mentire sarebbe stata la soluzione più semplice; ma in quel momento Gold non ne fu capace.
- Quella è una questione risolta. No – devo farlo perché è giusto così. Perché con me accanto Belle non sarebbe libera di decidere se vuole davvero restare con me.
L’altra digrignò i denti. Non aveva mai udito l’uomo pronunciare certe frasi. Avrebbe dovuto provar imbarazzo dinanzi a simili ammissioni, sdrammatizzarle o cosa? Non ne aveva idea. Capiva solo che nel suo delirio lo zio si arrogava l’assurdo diritto di non amare nessuno, credeva di meritare la solitudine, riteneva la sua presenza dannosa per chi avesse di sua volontà deciso di restargli accanto, e…
Non è un delirio.
Queste cose, lo sai, le pensi anche tu.
Ma lei non aveva più nessuno che la smentisse, che le ricordasse di essere importante nonostante tutto.
Lui, invece, aveva il mondo e se lo faceva scivolare dalle dita.
- Sottovalutate Belle, – diede voce al pensiero che da settimane non l’abbandonava.
- No. Lei è migliore di me, e per questo le mie scelte le si ritorcono sempre contro. Per questo te la sto affidando – sto affidando a te mia moglie, e mia figlia, – disse senza esitare, mentre la guardava dritta in volto – Perché tu sei migliore di me e sai come funziona il mondo. Tu puoi farcela.
Sto affidando a te mia moglie e mia figlia.
Perché tu sei migliore di me e sai come funziona il mondo. Tu puoi farcela.
Regina sapeva che una signora non doveva mai indossare i diamanti di mattina, né estromettere qualcuno dalla conversazione o mangiare in pubblico. Ma questo non significava saper prendersi cura di due persone, sapere come funziona il mondo, potercela fare.
- Non potete pagarmi le rette in cambio di un compito simile, – strinse i pugni ribellandosi – Ho quindici anni, non so niente del mondo. Non posso farcela.
Il suo tono era adirato e implorante assieme, Gold non mancò di notare. Quel compito poteva apparire – era – gravoso, era il primo a riconoscerlo; ma c’era un motivo se incaricava lei.
- Non le pagherò per questo motivo, credimi, – una sua promessa ora sarebbe valsa ben poco, ma tra sé e sé promise – E tu sai cosa è davvero importante da quando hai dieci anni. Te lo ripeto – io credo in te.
Il cuore gli si capovolse in petto dinanzi agli occhi lucidi, all’improvviso sgombri di qualsiasi accusa, di Regina. Aveva trascorso anni interi considerandola la causa dell’estrema rovina; eppure ogni volta, se solo si soffermava, i sentimenti affioravano.
Anche Regina, chiunque fosse, era migliore di lui. Negarlo era vano. Dicono che prima di raggiungere il Paradiso bisogna passare dall’Inferno; e Gold sapeva, era sicuro che lei ce l’avrebbe fatta, che quel cielo lei l’avrebbe conquistato. Non era come lui: aveva sbagliato, ma si stava impegnando per un riscatto e lo stava facendo senza scorciatoie, senza scegliere sempre e solo la strada facile. Come Belle, avrebbe colmato i buchi nel cuore, ne era sicuro: insieme le due donne avrebbero saputo aiutarsi e sostenersi.
Aveva affidato Belle a Regina, ma era vero anche il contrario: anche Belle aveva il tacito, ma non per questo meno importante compito di stare a fianco alla giovane, di aiutare lei tanto quanto avrebbe aiutato Helena.
E, mentre si dirigeva verso la porta, Gold ebbe la certezza che nessuna delle due sarebbe venuta meno all’incarico.
- Zio, – il richiamo lo trattenne – Sapete se mia madre ha lasciato qualcosa per me? Mi riferisco a una lettera, a un biglietto… A qualcosa di simile.
Gold scrollò le spalle.
- Tua madre non immaginava di stare per morire, – fu l’unica replica onesta.
- Va… Va bene – Regina gli dedicò una smorfia che lui ben conosceva, il sorriso di chi desidera qualcosa e sa che non la otterrà.
Forse, se Cora avesse previsto ciò che sarebbe successo, avrebbe cercato di ricucire i rapporti con la figlia, di chiederle scusa per gli errori e le recriminazioni ingiuste.
Forse.
O forse anche in tal caso avrebbe perseverato fino all’ultimo nella propria idea.
Stabilirlo era impossibile, e comunque vano.
- Partirete ora?
- A breve. Prima devo salutare una persona.
La nuova Contessa annuì.
- Fate buon viaggio, zio.
L’uomo la guardò per un’ultima volta prima di annuire.
- Grazie.
 
 
 
Hey there, Delilah,
don’t you worry about the distance,
I’m right here if you get lonely,
give this song another listen,
close your eyes,
listen to my voice, it’s my disguise,
I’m by your side.”
“Hey there, Delilah” - Plain White T’s
 
 
 
Gold mandò via Mary Margaret senza far rumore. Helena stava dormendo: era un bene. Il sonno l’avrebbe ristorata, cancellando le ombre che durante il giorno avevano imperversato sulla sua vita; o almeno, sperò, le avrebbe allontanate.
La osservò dormire: i capelli finalmente pettinati lasciavano scoperto un visetto pallido e agitato anche nel sonno. Quella notte non era sgusciata nel letto di Regina come suo solito, e la cosa non era certo da imputare alla vigilanza della governante. Ci sarebbe voluta ben più di una manciata di ore per dimenticare quella maledetta storia…
Sfiorò il volto della bimba e lei, gli occhi ancora chiusi, si voltò e si allungò verso di lui, come per trattenerlo.
No: non come. Per trattenerlo.
Ancora una volta gli tremò l’anima per la gioia, o per il dolore. Il confine tra certe emozioni è sempre tremendamente sottile.
La bambina aprì gli occhi e rivolse al padre con un sorriso strano, insieme assonnato e triste.
Quando sarebbe tornato il suo sorriso birichino, di chi è colto con le mani nella marmellata?
E lui, lui, almeno allora ci sarebbe stato?
- …pà?
L’uomo le sfiorò la guancia con un bacio.
- Helena, – si sedette sul letto – Scusa se ti ho disturbata. Torna a dormire.
La piccola scosse il capo.
- È ancora buio, puoi dormire quanto vuoi, – disse più volte, pur conscio che se sua figlia avesse deciso di svegliarsi l’avrebbe fatto, incurante di tutto.
Alla fine si arrese.
- Ieri non abbiamo parlato. Come stai? – domandò, incerto di star facendo bene.
La bimba si stiracchiò. Aveva dei lividi sui polsi, là dove la Zelenyy l’aveva stretta. Veleno riempì la bocca di Gold alla vista di ciò che quella strega aveva inflitto a sua figlia: ammazzarla non era stata l’unica possibilità stante la situazione.
Era stato dovere.
E lui l’avrebbe rifatto dieci, cento, mille volte se ci fosse stato bisogno.
- Ho sonno. Però resta! – aggiunse precipitosa. Lo sbirciò, temendo le conseguenze della sua ammissione; e lui sentì un fiotto di colpa dal cuore. Solo Helena sapeva fargli provare tutto quell’odio per se stesso.
Tacque.
Helena, Helena, amore mio, non fare lo stesso errore di tua madre.
Se vi amo, non posso restare.
- La mamma?
- Sta riposando. Anche per lei questa è stata una brutta giornata. Helena, – si risolse di chiederle – Perché l’hai fatto?  Perché ci hai disobbedito e hai seguito quella… Quella donna?
Helena distolse lo sguardo. Non voleva ricevere un rimprovero, anche se sapeva di essersi comportata male. Era lei la prima a dirsi che non avrebbe dovuto dar retta a una sconosciuta, ma Rebecca le era parsa così gentile, così buona; e poi, come scordare la sorpresa che le aveva promesso?
- Perché la zia mi doveva portare da te, – Gold si fece più attento – E mi ha detto che dovevamo andare in Scozia.
- L’hai seguita perché ha detto che ti avrebbe portato da me?
- Sì, e che la mamma veniva con noi! Pensavo che stavamo di nuovo assieme, come adesso!
Sua figlia aveva rischiato la vita per il desiderio di riavere una famiglia unita. Aveva dato fiducia a una pazza, era stata rapita, e tutto per colpa loro; e ora che ai suoi occhi cuccioli la situazione pareva essere risolta, lui stava per dirle che sarebbe presto…
Solo il pensiero era difficile. Come spiegare la sua decisione? Non ne aveva idea, ma doveva farlo. Helena non meritava che suo padre sparisse dalla sua vita senza preavviso, lasciandole solo domande e paure. Non meritava le fosse inflitto ciò che lui per primo conosceva bene…
- Helena, – mormorò infine – Devo dirti una cosa.
La piccola inclinò il capo fiduciosa, e Gold dovette lottare contro le lacrime che gli pungevano gli occhi. Non poteva lasciarle vincere. Se l’avesse fatto, Helena si sarebbe spaventata e lui doveva risparmiarle almeno questo, oggi e sempre.
La carezzò con tenerezza, come per alleviare il peso di quanto stava per dirle. 
- Sono qui per salutarti. Tra poco partirò.
La bambina non parve risentita. Annuì prima di chiedergli: – E dove vai?
Una parte di Gold ebbe l’ardire di pensare che forse tutto si sarebbe risolto meno drammaticamente del previsto.
- In Scozia.
- Ah, – un’ombra attraversò lo sguardo di Helena, come se all’improvviso il viaggio a lungo sognato non la interessasse più; ma il tono di voce le si ammorbidì subito – Cosa mi porti? Tu mi porti sempre qualcosa quando vai da qualche parte.
Gold rimase immobile.
La sua furbetta, con le sue richieste nette, inesorabili. Belle la rimproverava quando si comportava in questo modo, lui sorrideva. Gli piaceva che sua figlia non gli somigliasse – che non fosse pavida, timorosa persino di respirare.
All’improvviso gli sorrideva, attendendo speranzosa la risposta. Come avrebbe fatto lui a non spezzare quel sorriso luminoso come sole liquido che prima tanto aveva agognato?
- Helena, – misurò le parole con grande lentezza – Potrei non tornare presto da questo viaggio.
Il sorriso della bambina era svanito alla stessa velocità con cui era apparso. Il suo posto era stato preso da uno sguardo corrucciato, inchiodato al volto paterno in attesa di spiegazioni.
- Tu torni tra una settinana. Noi ci vediamo sempre dopo una settinana.
- Forse stavolta passerà più di una settimana.
- Due settinane?
 Non ebbe il cuore di mentirle.
- Un po’ più.
Helena gli piantò in viso due occhi colmi di rimprovero che egli non riuscì a sostenere. In quello stesso istante fu sorpreso da una piccola furia che gli balzò addosso e iniziò a prenderlo a pugni sul petto con tutta la frustrazione che provava. Lui la strinse a sé.
- Tu mi avevi promesso! – la udì ululare – Mi avevi promesso che non te ne andavi! Perché te ne vai? Perché sono stata cattiva e non mi vuoi più bene? Ma non lo faccio più, te lo prometto, papà, te lo prometto, però resta! Resta!
Gli occhi di Helena si riempirono di lacrime. L’uomo chinò il capo per appoggiarle la fronte sopra la testa. Conosceva lo sguardo che la figlia gli dedicava: era quello che per anni lui per primo aveva avuto ogni giorno, che alle volte ancora incontrava nello specchio.
Lo sguardo di chi ha vissuto sulla propria pelle l’abbandono.
Era uno dei motivi per cui certi giorni ascoltava ancora incredulo le dichiarazioni di Belle. Lui era stato gettato via tante volte: com’era possibile che qualcuno amasse chi tutti gettavano via? Chi non era stato desiderato nemmeno dal proprio stesso padre?
Conosceva quello sguardo, e sapeva quanta forza fosse necessaria per spingere in là il vuoto che dominava il cuore a certi pensieri, per soffocare il senso doloroso di colpa e rabbia che era il loro compagno prediletto.
Ma lui amava Helena.
Non la stava abbandonando,
E lei non avrebbe mai, mai dovuto conoscere simili pensieri.
- Helena, Helena, no! – prese tra le mani il visetto della figlia, lo sollevò perché ella lo guardasse dritto in volto – Non è vero, non devi mai pensare una cosa simile! Io ti voglio bene, te ne voglio da sempre e te ne vorrò sempre. Nulla potrà mai cambiare questo, nulla: qualsiasi cosa succeda, sarai sempre la mia bambina e ti amerò sempre. Ricordi cosa ti ho detto la prima volta che sei venuta qui? – le rammentò, pur intuendo la vanità del tentativo – Tu sei il mio tesoro unico e specialissimo, non potrei non amarti. Ricordi? Ricordi, amore mio?
La bambina continuava a singhiozzare convulsamente.
- E allora? Allora perché mi lasci?
- Helena, – gli mancò la voce chiamandola – Sarò sincero con te. Ti parlerò come un’adulta perché so che mi capisci, perciò per favore, sta’ attenta. Amore mio, – le baciò la fronte prima d’iniziare – Sempre la prima volta che sei stata qui, ti ho detto che tu mi consideri buono, ma che non lo sono. Tu non sai quante cose io abbia sbagliato negli anni… Tante, tantissime. E, cosa peggiore, – aggiunse – non ho mai imparato dai miei errori.
- Oggi tu hai scoperto che alcuni mostri non vivono solo nelle fiabe e d’ora in avanti sarai più attenta, più furba; io, invece, quando sbaglio non imparo: faccio sempre le stesse pessime scelte e me ne pento quando ormai il danno è fatto. Finora le persone hanno avuto pazienza e mi hanno perdonato, anche se i miei errori le facevano star male; ma la pazienza, Helena mia, non è infinita.
La piccola interlocutrice lo fissò scettica.
- Non è vero, – tirò su col naso – La mamma dice che con me ci vuole infinita pazienza. Se ce l’ha per me ce l’ha anche per te!
- La mamma ha tanta pazienza, è vero. Solo che… – l’uomo sospirò. La piccola aveva indovinato all’istante i protagonisti della vicenda – Helena, chi ci ama ci perdona, è giusto. Ma se tradiamo tante volte chi ci ama, se gli mostriamo sempre e solo la parte peggiore di noi, allora tutto cambia. Per quanto possa essere profondo un sentimento, il legame s’indebolisce e si spezza. Ed è giusto così: non succede per cattiveria o per egoismo, ma perché arriva il momento in cui o si sceglie se stessi, o si impazzisce. Si può provare a ricostruire il legame, certo, – concesse – Ma più esso era forte, più è difficile rimettere assieme i pezzi. Ci vuole tempo. Tanto, alle volte tantissimo tempo. Mi capisci?
Helena si passò il dorso di una mano sugli occhi.
- No, – ribadì – Io capisco solo che tu vai via!
Gold la cullò contro di sé. Era naturale che la bambina non lo capisse. Per quanto fosse intelligente, era troppo piccola, e queste erano cose che ciascuno deve imparare da solo.
Gli occhi scuri di Helena erano identici a quelli di Neal. Quando gli aveva comunicato di dover emigrare nella capitale, il suo primogenito non aveva pianto o strepitato, ma i suoi occhi si erano tinti della medesima tristezza. Si somigliavano tanto, quei due: erano forti, loro, e questa cosa rendeva il loro papà allegro e triste nello stesso tempo. 1
- Helena, tua mamma è arrabbiata con me perché io le ho fatto del male. Le ho raccontato tante bugie, non l’ho trattata bene come avrei dovuto, e non immagini quanto me ne penta ogni giorno. So che vorrebbe perdonarmi, ma so anche che non è pronta a farlo. Non ancora, anche se non lo ammetterebbe. Andandomene per un po’, lei potrà riflettere meglio, e magari… Magari farcela.
- E se non ci riesce?
L’industriale le rassettò i capelli dietro le orecchie.
- Che lei riesca o meno, ti faccio una promessa: le cose tra noi due non cambieranno. Resteremo sempre in contatto, sempre, e ci rivedremo. Non ti sto abbandonando, Helena – io ti amerò sempre e comunque. Su questo non avere dubbi. Non averli mai.
Era sincero. Non avrebbe accettato compromessi. Non avrebbe permesso a nessuno – nessuno, neanche a se stesso o a Belle – di portargli via la bambina. Era la sua unica certezza.
Helena riposò il capo contro il petto paterno. Una parte di lei non riusciva a capire ciò che le era appena stato spiegato: anche lei litigava con gli amici, ma non aveva mai avuto bisogno di andare in posti lontanissimi per dimenticare i torti fatti o subiti. Perché papà aveva questa necessità, cosa cambiava? E mamma non poteva riflettere alla svelta? Chissà quanto tempo avrebbe impiegato per fare la sua scelta, sempre se avesse scelto.
Ma… Ma se lei e papà l’avessero, come dire… Aiutata?
- Fammi venire con te. Così alla mamma manco, ci ripensa e ti perdona subito!
Gold sorrise all’ingenuità della sua piccolina, ai piani folli che sempre architettava. La strinse più forte a sé.
- Non funziona così. A tua mamma mancheresti e ci raggiungerebbe, certo, ma la sua non sarebbe una scelta serena, e questo non va bene. Le persone sono libere: non possiamo obbligarle a fare o non fare qualcosa, a provare o a non provare certi sentimenti. E io e tua mamma questo lo sappiamo più di tutti.
In passato Gold si era ripetuto spesso che sarebbe stato meglio non innamorarsi di Belle. Anche quando ormai era troppo tardi, l’aveva amata in silenzio, senza aspettarsi nulla in cambio, senza neanche credere di poter essere ricambiato. Era stato convinto che lei lo avrebbe lasciato affogare  nel suo passato, perdersi nei rimpianti e nei rimorsi di un’anima cupa; ma la sua Sweetheart aveva guardato oltre il mostro e aveva rifiutato di lasciarlo andare. Lui non aveva imparato, ma lei gli aveva insegnato così tanto sulla fiducia e sull’amore…
Un altro forse sarebbe stato capace d’ignorare sin dall’inizio quelle emozioni; sarebbe stato più accorto e furbo – migliore. Ma lui non aveva mai voluto essere più accorto, più furbo, migliore. Lui aveva sempre e solo voluto lei.
Perché senza di te sarei perso, perché senza di te non avrei Helena.
E per questo ti amo, per questo devo lasciarti libera.
No, malgrado tutto non riusciva a pentirsi di essersi innamorato di Belle.
- E poi, – provò a consolare la bimba – Ora tu hai dei compiti importantissimi. Tu sei…Sei la mia assistente. Significa che devi essere attentissima a quel che succede nel Castello e riferirmelo appena ci rivediamo. Per questo, mi raccomando, devi restare qui e non andartene. Non devi uscire da sola o con chi non conosci. Capito? – a quanto pareva, ripeterglielo alla nausea non era stato sufficiente – E poi, il compito più importante… Proteggi la mamma, – affidò Belle a Helena senza esitazioni, certo che ancora una volta la bambina non sarebbe venuta meno al compito che aveva sin da quando era nata – Si sforza tanto di essere forte, ma anche le persone forti hanno i loro punti deboli. Con te accanto lei starà meglio. Me lo prometti?
Helena annuì seria.
- Solo se tu prometti che torni. E che mi porti davvero in Scozia, a conoscere la persona importante. Abbiamo un accordo?
- Abbiamo un… Abbiamo un accordo, – quasi gli costò fatica pronunciare una frase per  lui tanto usuale. Sentì la bimba rilassarsi per la prima volta da quando era iniziata la conversazione; ma il suo cuore no, non poteva chetarsi al pensiero dei suoi bambini.
Anche oggi hai protetto tua sorella dal fango del mondo?
Prima ancora che se ne rendesse conto, le parole gli scivolarono dalle labbra.
- Tuo fratello meritava di conoscere un tesoro come te.
Helena batté le palpebre stranita.
- Che?!
Gold si chiese se facesse bene. Già in passato era stato sul punto di raccontarle di suo fratello maggiore, che se fosse stato vivo l’avrebbe amata da impazzire; e sempre si era trattenuto, temendo che la triste fine del suo ragazzo potesse intristire la piccola. Sarebbe potuto succedere anche stavolta; ma non se ne sarebbe andato senza dirglielo.
- Tu avev… Tu hai un fratello.
L’altra si portò le manine alla bocca.
- Un fratello?! Come Anna ha Elsa?
- Sì, – confermò, ricordando vagamente un aneddoto su due ragazzine straniere – Si chiama Neal ed è più grande di te.  È lui la persona importante che vorrei presentarti.
- Sì! Voglio conoscerlo anch’io! – il tono era allegro, ma il sorriso si spense presto. Quando riaprì bocca, c’era una scintilla di strano timore incastonata tra le parole – Perché la mamma non è con lui?
Parlare di Neal a Helena era un conto. Poteva raccontarle di quel bambino bello come il sole e altrettanto luminoso e della sua insaziabile curiosità, dirle che aveva chiuso gli occhi troppo presto e che da allora lui non faceva un respiro senza il dolore per la sua morte; poteva spiegarle ogni cosa, ma non Milah.
Perché lui per primo non capiva il comportamento della prima moglie, come avesse potuto chiudere la porta di casa lasciandosi alle spalle un bambino della stessa età di Helena.
Non è quello che stai facendo anche tu stanotte?, gli ghignò all’orecchio una voce malefica.
No, la scacciò via risoluto.
Io ci sarò sempre per mia figlia. Sempre.
Cos’hai detto prima? Che non impari dagli errori? Questa ne è la dimostrazione.
No. Non sto abbandonando mia figlia. E Belle non mi impedirebbe mai d’incontrarla.
- Tua mamma non è… Tua mamma non è la mamma di Neal. Sai che io sono più vecchio della mamma, e prima di conoscerla io… Per un po’ di tempo io ho voluto bene a un’altra persona. La mamma di Neal, appunto.
- Ah! E allora lui sta con la sua mamma! Voglio conoscere pure lei!
Gold non rispose subito.
- Vedremo, – le lisciò le coperte con cura, perché non prendesse altro freddo, perché fosse protetta, perché le attenzioni la distraessero dalla sua espressione – Ora però devi riposare, o domattina sarai troppo stanca persino per giocare. Ci siamo intesi?
La bambina ridacchiò, ma obbedì e serrò le palpebre, salvo riaprirle l’istante seguente.
- Anche se devi partire resti con me? – lo pregò. Malgrado il tentativo giocoso, nel suo tono c’era una tale preghiera, una tale urgenza che al padre mancò la voce –  Solo fino a quando dormo!
- Sì, amore mio, – Gold le baciò la fronte – Anche se devo partire, resto con te. Sempre.
 
 
 
“Please forget me, you were right, dear,
I am cold and self-involved,
and though I'll miss you, recent lover,
I am weak and therefore fold.

I get distracted by my music,
think of nothing else but art,
I'll write my loneliness in poems,
if I can just think how to start.”

“Small hands” - Keaton Henson
 
 
 
Bell si risvegliò con un mal di testa fortissimo. Non che se ne stupisse: malgrado il riposo, le conseguenze di una simile giornata non potevano non farsi sentire. Sperò che almeno Helena stesse meglio di lei; decise di andare a controllare. Si sentiva in colpa per averla lasciata sola, magari costringendo Mary Margaret a una notte di veglia, mentre lei…
Già. Mentre lei cosa? A mente lucida non sapeva definire la notte appena trascorsa. Non era stato solo sesso – con Robert non era mai stato solo sesso –, ma le ammissioni prima così spontanee ora erano tornate a essere ardue, impossibili da pensare tanto quel “Ti amo” era stato impossibile da pronunciare.
Eppure era l’unica verità, l’unica certezza nonostante tutto. Era così da quando lui aveva iniziato a rivelarle la sua anima: ogni volta che accadeva, lei si innamorava ancora un po’. Era una cosa normale, o succedeva perché in fondo avevano trascorso così poco tempo insieme?
Avevano deciso di non lasciarsi soli, non quella notte almeno, di pensare ai demoni l’indomani; ma ora che l’indomani era diventato oggi, cosa sarebbe successo? Cosa intendeva fare Robert? Chiederle l’ennesima possibilità?
O lei gliel’aveva già concessa restando con lui?
Non poteva più lasciarlo, dopo essersi detta pronta – ed era vero – a morire al suo fianco. Ma al tempo stesso, era davvero pronta a riprovarci?
Domande, domande senza risposta. Robert stesso ne era una.
Belle tastò il materasso alla ricerca del calore del suo corpo accanto al proprio; si voltò di scatto incontrando solo i margini freddi e asciutti di un foglio.
Si sollevò sui gomiti: sì, quella era inequivocabilmente una lettera. L’identità del mittente era indubbia; lo stesso non poteva dirsi sul perché le avesse scritto.
Ma in fondo, non era stata lei a consigliargli di scrivere, quando avesse avuto difficoltà a esprimere a voce i pensieri? I suoi interrogativi erano vani, o almeno molto meno importanti di qualsiasi cosa Robert le avesse indirizzato.
Con dita rapide spiegò il foglio e iniziò a leggere.
Ma quando capì il contenuto, era già troppo tardi.
 
Belle,
Questa è la lettera più difficile della mia vita. Non importa quante volte ci abbia pensato, l’abbia iniziata anche negli scorsi giorni: scriverti queste righe mi è quasi impossibile, ma devo farlo perché se non posso darti altro, ti darò almeno una spiegazione.
Gli addii li odio, forse perché ne ho dovuti dare tanti nella vita, e non riuscirei a pronunciare queste parole guardandoti in faccia. Ecco perché una lettera: perché tutto il coraggio del mondo non basterebbe ad affrontare questo.
Sono un debole, Belle. Ancora una volta mi comporto da codardo e scappo da una cosa bella come voi. Posso immaginare la tua espressione mentre leggi queste righe: sconsolata, affranta, delusa. O forse rassegnata, perché ti ho delusa talmente tante volte che oramai non te ne sorprendi più. Ti deludo da sei anni, eppure non immagini quanto vorrei renderti orgogliosa di me.
Ho iniziato a pensare di allontanarmi da Londra già prima che ci lasciassimo, ma non te ne ho mai parlato perché l’idea era vaga, ancora confusa. Avrei voluto ritirarmi in Scozia con te ed Helena, dedicarmi molto meno al lavoro e molto più a voi. Sono stramaledettamente ricco proprio perché finora ho trascurato tutto ciò che conta davvero; ma tu meriti un uomo che non ti ignori per settimane intere perché ha un affare in corso, e nostra figlia non deve ricevere solo briciole d’attenzione. Ironia della sorte, il mio progetto si è concretizzato proprio dopo la nostra separazione; e ho decido di portarlo a termine perché qui a Londra non mi resta niente. Sono niente senza di voi.
Non me ne vado per quanto successo oggi. Rebecca ha ucciso Cora, che comunque resterà sempre una parte fondamentale del mio passato, ha cercato di portarci via Helena e di negarle tutta la felicità che merita, e ha cercato di fare del male a te: non mi pento di averle sparato, lo farei di nuovo. Era la mia sola scelta, o lei ti avrebbe ucciso. Io ti ho persa una volta e ho capito di non poterti perdere di nuovo, perché non sono abbastanza forte per vivere in un mondo in cui non ci sei tu. La sola idea mi è insopportabile. Se fosse successo io ne sarei stato responsabile, come responsabile mi sono sentito per tutto il tempo in cui ti ho creduta morta. Ma tu sei viva, sei viva e respiri qui accanto a me; e nulla mi renderebbe più felice che restare al tuo fianco per sempre.
Ma non posso, perché stare con me è difficile e pericoloso, e gli errori che ho commesso sono talmente tanti e talmente gravi che devo porvi rimedio. Devo espiarli, e per farlo devo essere da solo. Restando, vi farei solo del male, come è già successo fin troppe volte.
No, amore mio, – com’è difficile non chiamarti così, non rivolgermi a te nell’unico modo che la mia mente considera possibile – non temere: non ho intenzione di commettere sciocchezze. Ancora una volta è il caso di ringraziare il folle attaccamento alla vita che già mi ha impedito di suicidarmi quando più l’avrei desiderato, quando ho perso Neal e te. Aver dato ascolto all’istinto di sopravvivenza mi ha permesso di incontrare te prima e la nostra Helena poi; e credimi, non vorrei perdere un vostro istante più di quanti abbia già perso.
E allora, ti chiederai, perché parto?
Perché se restassi qui, non riuscirei a essere l’uomo che vorrei essere per voi. Io voglio amarti come non ti ho mai amata e come meriti, Belle, con onestà e coraggio, e voglio essere il padre perfetto per nostra figlia; ma io non sono mai cambiato, sono sempre l’uomo che prende le decisioni sbagliate e, sebbene tu mi smentisca sempre, in fondo sai che persino oggi ne hai avuto prova. Tu cerchi di salvarmi, e io te ne sono grato più di quanto le parole possano esprimere, ma i miei demoni sono sempre in agguato e hanno sempre una scusante: ogni volta che sbagliavo, che mentivo mi dicevo che era per voi, per proteggervi. Malgrado le mie migliori intenzioni, però, vi ho fatte soffrire in un modo ingiustificabile, e non posso più permettermelo.
Per questo c’è chi definirebbe un errore stanotte; ma io sono stato un errore per te, mai il contrario. Pur sapendo che non avrei dovuto, ti ho amata senza remore, con l’anima e col corpo; ma ancora una volta mi sono rivelato un egoista, ho pensato solo al mio bisogno di stringerti e non al tuo di pensare. Non mi hai allontanato, e te ne sono grato, ma questo significa davvero che tu voglia ricominciare con me? Se restassi qui – in questa casa, in questa città, in questo pezzo di mondo –, tu avresti davvero la possibilità di riflettere sul da farsi? O qualsiasi cosa riporterebbe me a te e te a me? Averti accanto mi farebbe l’uomo più felice dell’universo, ma non posso accettare che tu stia con me perché “costretta” e non per tua reale volontà. Tu sei libera – lo sei sempre stata, sempre lo sarai; e se per assicurarti questo io devo compiere un passo indietro, sono pronto a farlo.
Ogni miglio tra noi mi spezzerà il cuore ancora un po’, ma tutto ciò che mi importa, Belle, è la vostra felicità, tua e di Helena. Nient’altro. Voglio solo il meglio per voi.
Immagino la tua rabbia, la tua confusione, ma per favore, leggi oltre. So di non essere nella posizione di pretendere, ma te lo chiedo lo stesso.
Ti prego, parla di me a nostra figlia. Non lo merito, forse sarebbe meglio farla tornare alla vita prima di conoscermi; ma so che non è possibile, e in tutta franchezza – ecco, vedi il mio egoismo? – non lo voglio. Amo Helena e non accetto di perderla. Le ho promesso tante volte che, vicino o lontano, per lei ci sarei sempre stato, e ho intenzione di tener fede almeno a questo. Per questo ti supplico: non permettere che un giorno, guardando la nostra fotografia, la bambina arrivi a vedervi un estraneo. Non permetterlo, Belle, non fare in modo che accada: ripetile che suo padre non l’ha abbandonata, che l’ama e l’amerà sempre e che se le fosse stato accanto sin dal primo respiro non avrebbe potuto amarla di più. Di lei ricordo ogni minuto da che la conosco; questi cinque mesi mi hanno fatto sentire di nuovo uomo.
È questa l’unica cosa che ti chiedo, Belle, e non ho il diritto di farlo. La nostra piccolina non dovrebbe avere un papà a intermittenza; se tu decidessi di lasciare che in Helena il mio ricordo sfumi sempre più, una parte di me ti darebbe totale e incondizionato appoggio. Tanti anni fa anch’io avrei voluto che Neal dimenticasse Milah.
Ma tu non sei come me. Tu sei migliore di me.
Tu sei buona, e questa è la tua forza. In tanti ti avranno detto che devi essere più dura, più cattiva, forse anche crudele per sopravvivere in questo mondo. Alle volte te l’ho consigliato anch’io, ti ho chiamata ingenua, e nel prenderti in giro c’era un fondo di verità, un avvertimento.
Ma tu non stare a sentire gli altri. Non stare a sentire me.
Tu sei perfetta così come sei. Tu sei la persona più forte, più coraggiosa, più tenace e saggia che io abbia mai avuto l’onore di incontrare, e se sei così è anche merito della tua dolcezza. Non perdere mai la tua spontaneità, la fiducia che riponi nel mondo, la luce che porti nel cuore, Belle mia. Non permettere a niente e a nessuno, a nessuno, neanche a me o a nostra figlia di spegnerla. Tu devi splendere, tu sei nata per questo; e io ti ringrazio per aver illuminato anche la mia vita.
Lo sai, ma te lo ripeto: il giorno in cui sei precipitata nella mia vita l’hai cambiata per sempre. “Non sono in cerca di amore”, ti ho offesa subito: in cinquant’anni non ho ancora capito che le cose si trovano quando non le si cerca.
Sei irrotta nella mia vita, ma sin dalla prima volta che mi hai scoperto triste hai saputo sostenermi senza prepotenze. Credevo che tu non potessi capirmi, ma tu sei l’unica che può capirmi; e anche per questo mi pento dei silenzi in cui mi sono chiuso e delle cattiverie che ti ho fatto. Ogni volta che ti ho avuta accanto ho conosciuto la vera gioia, ma sono stato così stupido da non rendermene conto.
Per questo ti sono grato, e per questo voglio tu sia felice, anche senza di me. Magari imparerai ad amare qualcun altro, anche se ora ti pare impossibile. Sapevo che alla fine sarebbe successo, e se la mia previsione dovesse rivelarsi esatta, sarei stato io a spingerti in questa direzione. Me ne pentirei; ma non mi pentirei della tua felicità.
Siete in pochissimi a sapere del mio trasferimento: i miei avvocati, e ora tu. Mi sono occupato dei domestici, ho trovato loro – a tutti loro – dei nuovi impieghi. Non l’ho ancora annunciato: sarai tu, la padrona della villa, a farlo per me. Trovi ogni informazione nei fogli che allego. Perdonami se ti assegno l’ennesimo compito gravoso.
Sto portando via con me ben poco: le uniche cose di vero valore sono il tuo – perdonami se lo considero ancora tale – anello e la nostra fotografia, quella in cui siamo tutti e tre insieme. Isaac Heller conserva le lastre e te ne farà un’altra, se la vorrai. Io non potevo non portare con me il ricordo di uno dei giorni più felici della mia vita.
Quanti ne avremmo potuti avere, quanti. Ma a volte dobbiamo prendere batoste per capire ciò di cui abbiamo davvero bisogno, e spesso le batoste arrivano quando è troppo tardi.
Scriverò a Helena, e attraverso quelle lettere farò sapere dove mi trovo. Non ti chiedo di raggiungermi, non ti chiedo di promettermi che un giorno verrai; però sappi che, qualunque sarà la tua decisione, io ti aspetterò.
Ti amo,
R.
 
 
 
 
 
1: Adattamento di “Si somigliavano tanto, quelle due: erano forti, loro, e questa cosa gli dava nello stesso tempo allegria e tristezza”, da “Colla” di Irvine Welsh – leggete il divin Irvine, leggetelo, L E G G E T E L O.
 
Citazioni sparse dalla 5x10 e da altri episodi di OUAT!
 
Il titolo del capitolo viene da “Ti ho voluto bene veramente” di Marco Mengoni.
 
 
 
N. d. A.: ¡Hola! ♥
Che si dice? Avete trascorso un buon Carnevale? Quest’anno io mi sono vestita da ansia, ma alla fine i miei sforzi sono stati premiati e l’11 mi sono laureata. Non per questo sono diventata una persona seria – fangirl si nasce, fangirl si muore! XD
Passando a noi… Questo è l’ultimo capitolo della storia, ma non temete: ci attende l’epilogo, che pubblicherò mercoledì 23 marzo – cercherò di rispettare la data, ma tutto dipende dagli impegni in studio. Per andare sul sicuro, rizzate le antenne a partire dal 22!
Spero che quest’aggiornamento vi sia piaciuto malgrado il finale. Lo so, avreste preferito una riappacificazione rose e fiori, ma secondo me non poteva non succedere qualcosa di simile: anche nel telefilm Rumpel ha sempre dato all’amata lo spazio per riflettere, anche quando tutto sembrava risolto – vedi 5x10! Ho cercato di descrivere la confusione di Belle senza renderla bipolare come nella serie, ma temo di aver miseramente fallito. Aspetto il vostro parere, anche critico: non temete, esprimetevi senza riserve! :)
Stavolta sono venuta meno alla tradizione “una-sola-canzone-per-capitolo”: ho trovato i testi dei vari brani tutti più o meno perfetti, perciò alla fine non ho scelto! :D
Un immenso grazie a chi legge, recensisce e/o aggiunge la fanfiction a una delle categorie, e agli splendori che delirano con me, mi sostengono e mi minacciano amorevolmente sulla pagina Facebook Euridice’s World – un “mi piace” è sempre gradito! Un ringraziamento speciale va a V. che ha realizzato un carinissimo e tenerissimo lavoro di grafica a tema Neal-Gold-Helena – lo trovate in pagina, forza, dategli un’occhiata! *_* – e una menzione all’ “altra” V., che anche stavolta mi ha impedito di sostituire le parti a rating – relativamente – più alto con “e si dedicarono allo spic&span, però io mi vergogno a scriverlo”. Dearie, ormai te lo prometto da anni, ma prima o poi la BegbieXLacey arriverà. Giuro! ♥
Ci si rilegge tra un mese – per allora OUAT sarà ricominciato, e malgrado “chi di speranza vive, disperato muore”, io spero in bene. Non cambierò mai! XD
Bacioni, giUoie! :) :***
Euridice100
 
   
 
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