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Autore: TheNewFrontiersman    26/02/2016    2 recensioni
Una ragazza come tutte le altre, persa nella Grande Mela. Una ragazza pervasa da una curiosità illimitata e un essere misterioso. Entrambi non possono sopportare la propria immagine riflessa nello specchio. Due vite monocromatiche. Ma c'è chi vede grigio e chi vede bianco e nero...
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rorschach/Walter Kovacs
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Urla indefinite. Suoni storpiati, qualcosa che faceva pensare ad una rissa, rumori sordi di pugni nello stomaco e di ossa fracassate.
Infine, silenzio.
 
Riaprii a fatica gli occhi, costringendo i bulbi ribelli ad uscire dal loro nascondiglio di pelle.
Un lampo sembrò accecarmi. Li richiusi subito dolorante e quando scossi la testa stordita, un lungo fischio simile a un ultrasuono mi trapassò il cranio da parte a parte, rimbombandomi nel cervello. Massaggiandomi le tempie, tentai di schiudere nuovamente le palpebre, questa volta con più cautela, e ci riuscii giusto in tempo per appurare che il lampo di prima non era altro che la flebile luce di quelle stesse quattro finestre che davano sulla strada.
Mi guardai attorno con aria interrogativa. La mia vista era ancora troppo appannata per permettermi di osservare chiaramente ciò che mi circondava.
Ero confusa…terribilmente confusa. Vidi un ombra chinarsi su di me, ma non mi allarmai. Non sapevo dire il perché, ma il mio istinto mi diceva che non era lì per farmi del male. Stravolta, chiusi nuovamente gli occhi e sprofondai in un sonno rigenerante, senza accorgermi della pioggia che aveva iniziato a cadere da pochi secondi e ora mi sferzava la faccia con violenza. Ero appoggiata a un caldo petto e, a chiunque appartenesse, mi donava una piacevole sensazione di sicurezza, molto apprezzata dopo tutta quella fatica e la paura che mi aveva attanagliato così a lungo.
 
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Walter sentì i muscoli delle gambe contrarsi, vittime di un riflesso involontario e avvertì una sensazione odiosamente familiare. Era come un preludio a quel fastidioso fenomeno fisico che era sempre sfuggito al suo controllo e che tornava a tormentare il suo corpo tutte le mattine, da quando aveva iniziato ad avviarsi verso la fase adolescenziale. Lo detestava; lo faceva sentire sporco. Lo faceva sentire umano. Di corpi femminili ne aveva visti fin troppi, lungo le strade, quando la notte avvolgeva New York nel suo manto, più scuro della pece. Ma lei aveva qualcosa di diverso, anche se non avrebbe proprio saputo dire cosa fosse. Perché? Non era diversa dalle altre. Non era diversa da sua madre. E allora cosa, maledizione, COSA diavolo era quella sensazione? Perché il suo corpo reagiva, quando era sempre riuscito a tenerlo a bada col disprezzo, almeno durante le sue escursioni notturne, in cui gli capitava, per forza di cose, di imbattersi in fin troppe "tentazioni", come le avrebbe chiamate uno qualsiasi degli affamati uomini che abitavano i bassifondi della Grande Mela? In lui, alla vista di quella carne esposta così impudicamente, pronta ad essere svenduta, era sempre sopraggiunto un forte senso di disgusto. E allora perché adesso, per la prima volta, alla vista di quelle stesse forme, non riusciva a provare i medesimi sentimenti? No, non era la stessa cosa. In fondo, lo sapeva, quell'ammasso di corpi truccati non era certo paragonabile a ciò che adesso si trovava di fronte. Davanti ai suoi occhi si disegnavano forme flessuose e, allo stesso tempo, purissime. Non poteva credere al fatto che quella donna avesse poco meno della sua età, quando sembrava ancora nel pieno della giovinezza. Forse dipendeva da quello che lei stessa gli aveva raccontato. Da ciò che gli era sembrato di capire, Alex non era mai stata con un uomo, nonostante avesse cercato di guadagnare qualche spicciolo provando a vendersi. La cosa, per fortuna, era morta sul nascere, ed era tutto merito suo, anche se gli scocciava ammetterlo perfino a sé stesso. E ora si trovava lì, imbambolato, con gli occhi fissi su quell'esserino biondo, rannicchiato sul divano logoro. E quel ch'era peggio, non riusciva a distogliere lo sguardo dall'espressione beata che si era dipinta sul volto della ragazza che gli sonnecchiava nel monolocale. Forse lei lo vedeva come un gioco, ma per lui la questione era davvero seria:
 
E adesso come avrebbe fatto, con una donna in casa?!
 
Si voltò dalla parte opposta per sottrarsi alla vista di quel corpo, mentre la fronte gli si imperlava di sudore. La situazione era davvero troppo indecente. Come gli era venuto in mente di portarsela in quell'appartamento così spoglio e inadatto ai bisogni di una donna? Lui, com'era ovvio, di vestiti femminili non ne aveva, e adesso la sua camicia migliore (anzi, quella messa meno peggio) era l'unica cosa che copriva l'esile fisico della ragazza. Fin da piccolo era sempre stato di costituzione asciutta, eppure quella donnina era così piccola che spariva nei suoi vestiti. Non aveva nemmeno trovato un paio di pantaloni da prestarle e questo proprio non poteva sopportarlo: era quasi nuda, per Dio! Dio...ma quale dio. Se non ci fosse stato lui...si ricordò che poche ore prima quel corpo era stato a stretto contatto col suo. Ma non ci aveva pensato, in quel momento, non aveva avuto paura. E anche lei non tremava più, ora; aveva ancora i capelli bagnati dalla pioggia torrenziale in cui s'erano imbattuti e lui sperò che non si prendesse un raffreddore. Da quando si preoccupava così tanto per qualcuno? Certo, si era preoccupato per la situazione sentimentale di Dan, e questo perché, in fondo, lo riteneva un caro amico. Forse l'unico. L'unico di cui potersi fidare, ma anche il più ingenuo del gruppo. Ne avevano passate tante insieme e alla fin fine era una specie di fratello minore che doveva imparare a fortificare la sua spina dorsale. Ce l'aveva ancora con lui per aver abbandonato i Watchmen ed essersi piegato così docilmente al Keene Act, ma in fin dei conti teneva a lui più di quanto volesse ammettere. Possibile che Alex gli somigliasse? Che stesse iniziando a provare lo stesso per lei? No, con lei era diverso. Con lei era diverso perché era una donna. Anche se dava l'impressione di essere una ragazzina, quando si erano rifugiati nella sua umile casa,  fradici a causa del diluvio, i vestiti che portava le si erano appiccicati addosso, rivelando un corpo decisamente adulto. Si era subito pentito della sua scelta, le aveva prestato una camicia meno infeltrita delle altre e l'aveva spedita nel minuscolo bagno, cercando di scacciare il calore che gli faceva ribollire il sangue nelle vene. É un po' tardi per imbarazzarsi davanti a una femmina, pensò. Di solito queste cose succedono agli adolescenti. Invece, adesso, lui provava quelle sensazioni per la prima volta. Non l'avrebbe mai detto. E non avrebbe mai detto che una donna potesse interessarsi a lui in quel modo. Con la mente, ripercorse gli avvenimenti di quel giorno. Avrebbe tanto voluto poterla portare a casa di Daniel, lì sarebbe stata anche più al sicuro, ma da quella volta in cui gli era piombato in casa nel bel mezzo di un incontro intimo con miss Jupiter, Dan gliene aveva dette di tutti i colori. Doveva trovare una soluzione, però: la situazione era fin troppo spiacevole, senza contare che la padrona del palazzo non era una donna della quale potersi fidare, e non permetteva agli inquilini di portarsi a casa estranei di notte, soprattutto se questi erano ragazze. Si girò di nuovo ad osservare la sua ospite, alzando un sopracciglio e un angolino della bocca con fare perplesso mentre gli sfuggiva un piatto grugnito. "Grazie. Sei un vero amico"; le sue parole gli vorticavano nella testa a mo' di flashback. "T-ti voglio bene" aveva fatto fatica a pronunciare quelle parole come lui aveva faticato a comprenderle e accettarle. Sul momento era rimasto basito, cercando di metabolizzare il significato della frase appena udita. Poi aveva sentito il rossore impadronirsi dei suoi zigomi taglienti e aveva sgranato gli occhi per un istante. Ovviamente si era subito accorto del suo stato penoso e aveva fatto di tutto per assumere l'espressione più vuota e vacua di cui era capace e a commentare con un suono sordo. Ma ora ci ripensava, e si accorgeva di non sapere davvero il significato di quelle parole. Aveva già sentito la stessa frase, per esempio, ai parchetti, quando i bambini buttavano le braccia al collo delle madri tutti sorridenti. Sua madre non gliel'aveva mai detto. Nessuno, in verità, si era mai rivolto a lui in quel modo. Ora non capiva davvero come avrebbe dovuto comportarsi. I suoi occhi si fermarono su quelli chiusi di lei e si disse che in ogni caso non avrebbe mai lasciato che facesse la stessa fine di Blair Roche. Appena si fosse svegliata e i suoi vestiti sarebbero stati asciutti, l'avrebbe portata da Dan, non gli importava un bel niente delle regole che gli imponeva. In fondo, lui ne aveva mai seguita una? Si era mai fatto dare ordini? Solo l'imbarazzo del momento, per quanto in quell'istante la sua faccia non lo desse a vedere, l'aveva convinto a sottostare al comando di Daniel. Ma era un uomo, e ormai era abituato a queste cose. A dirla tutta, lo era da una vita; ci era stato costretto. E poi, quella creatura che si era ritrovato tra capo e collo, non sapeva dirne il motivo, lo imbarazzava anche più del ricordo di Dan e Jupiter aggrovigliati tra le lenzuola. Sì, Alex doveva essere portata altrove. Non nel suo nascondiglio, nel suo angolino, a invadere il suo spazio privato. Non a contatto con le sue cose, i suoi appunti, il divano sui cui lui si sarebbe seduto. No. A casa dell'unico compagno che poteva davvero considerare tale sarebbe anche stata meglio.
 
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Quando, finalmente riposata, mi destai dalla dormita, una fredda luce intervallata da strisce d'ombra regolari mi accarezzava il viso e realizzai che proveniva dalle fessure che una veneziana affissa allo stipite superiore di una finestra lasciava aperte. Doveva essere notte fonda, perchè l'unica fonte di illuminazione pareva essere la luna. Avevo di sicuro un bel bernoccolo sulla testa, perché anche se era immersa in un cuscino morbidissimo (di chi era?), mi doleva ancora. Ripensai alla botta che mi ero presa rovinando sull'asfalto e mi ricordai del fatto che poco tempo prima me ne stavo stesa su una strada a faccia in giù. No! Non era così! Prima…prima c'era stato Walter! Cosa ci faceva lì? Vaghe immagini sfocate mi tormentavano la mente. "Grazie, sei un vero amico…ti voglio bene". Arrossii rifiutandomi di credere ai miei ricordi. Davvero avevo detto una cosa del genere? Perché!? Dovevo essere proprio rintronata per accettare di prendere in prestito i suoi vestiti senza dire una parola. Ora non ero decisamente più nell'umile appartamento di Walter, ma mi trovavo piuttosto in una camera da letto ordinata, sovrastata da lenzuola che profumavano di pulito, adagiata su un comodo materasso. Scostai con delicatezza il tessuto che mi copriva, notando che un paio di pantaloni da notte, molto più raffinati, mi fasciavano la vita. Erano di un tenue color tortora e avevano tutta l'aria di essere in pura seta. Pur essendo chiaramente stati studiati per un corpo maschile, quelli di sicuro non erano dell'ometto rosso che, come sapevo, se ne andava a zonzo per New York con la stessa giacca tutta buchi per mesi, ma scoprii con imbarazzo che indossavo ancora la sua camicia. Un calore improvviso mi colorò le guance con violenza, come dimostrava lo specchio appeso ai piedi del mio giaciglio. Lo raggiunsi gattonando e notai che, persa nei miei pensieri, non mi ero accorta di un cerotto grande più o meno quanto mezzo palmo della mia mano che mi torreggiava sulla fronte, tenuto su da una benda leggera che mi fasciava il cranio. Dovevo avere una bella ferita. Un po' di sangue era filtrato attraverso la garza, ma di certo non era il livido che mi preoccupava. Se osservavo la mia immagine riflessa per più di qualche secondo mi si incrociavano gli occhi, e non era un buon segno.
 
 
Mi alzai dal letto e mi guardai attorno di nuovo per capire meglio dove mi trovavo. Non era l’ospedale e non era nemmeno la stanza nel retro della tavola calda.
Quella stanza apparteneva a una casa che non avevo mai visto prima d’ora, una casa piuttosto carina e accogliente.
Qualche minuto e il mal di testa decise che la tregua concessami era finita. Di nuovo, una fitta rinnovata dal brusco movimento che avevo fatto per alzarmi. La testa prese a girarmi vorticosamente e mi costrinse a tornare a sedermi sul materasso.
 
 
Provai a mettere una mano sulla fronte.
 
No, niente febbre...almeno quello. Però…sembra che la testa mi debba esplodere da un momento all’altro, non ci voleva proprio. Sono in casa di qualcuno che nemmeno conosco e sono pure conciata abbastanza male.
 
Dato che indossavo gli stessi vestiti di quella sera non doveva essere passato molto tempo da quando ero sprofondata nel sonno. Un pensiero fisso mi tormentava: avevo dormito da Walter! Solo per qualche ora, vero, ma era comunque successo. E per di più, senza pantaloni, dato che i miei erano fradici! Sì, la camicia era abbastanza lunga da fungere da vestito, ma…! Nascosi il viso tuffandolo nelle mani mentre arrossivo di nuovo. Non ci ero affatto abituata. Mi chiesi se il suo sguardo si fosse soffermato sulle mie gambe e presi a guardarle distratta. Non avevo ancora ben chiaro che tipo di uomo fosse. Di sicuro, però, non mi aveva nemmeno sfiorata, me ne sarei accorta; come avevo sempre pensato: potevo fidarmi di lui.

Volendo capire meglio dove mi trovavo, mi diressi verso la porta, ma mi fermai immediatamente non appena sentii delle voci.
"Dan, vado a darmi una rinfrescata…ok?”
"Ah…si, Laurie...vai pure."
Il rumore dei tacchi di “Laurie” rimbombava dal corridoio nella stanza silenziosa.
Dove accidenti ero finita?
 
 
Che disastro.
Questi due chi sono … amici di Walter?E da quando lui ha … amici?
Mi trovo in una casa di perfetti sconosciuti, sono ferita e lui è sparito senza dar spiegazioni … di nuovo.
Diamine.
 
 
Con prudenza, cercai di sbirciare attraverso la fessura della porta semiaperta: scorsi un uomo robusto, provvisto di occhiali, avvolto in una vestaglia color prugna dall'aria molto comoda.
 
 
Walter … Walter aveva dei pantaloni color prugna, a righe verticali, tipo gessato; li avevo visti nel suo appartamento. Dove cavolo si è cacciato? Mi ha portato veramente al sicuro?
 
 
L'uomo, dedussi, doveva essere "Dan" ed era impalato davanti a quello che sembrava l'ingresso principale dell'abitazione, intento a fissare un punto indefinito ad altezza ombelico nella penombra dell'appartamento.
 
Cercai di aprire ancora un po' la porta, stando attenta a non farla cigolare, per capire meglio cosa stesse facendo: era visibilmente assorto, immerso in un vortice di pensieri che solo lui poteva sentire, intento a grattarsi la nuca.
Improvvisamente, sospirò: “Eh, si… è decisamente colpa sua. Se non lo conoscessi, sarebbe da denunciare… e adesso chi lo trova uno della Gordon disponibile alle undici di sera?”
 
Continuavo a non capire ma poco importava, il vero problema era riuscire ad andarsene da quella casa. Non volevo essere un peso, e non mi fidavo di nessuno, soprattutto di due sconosciuti di cui non potevo constatare precisamente l'identità. E se non fossero stati amici di Walter? Avevo perso conoscenza parecchie volte in poco tempo, quella notte, ed ero più fuori di un balcone. Chi poteva dire cosa mi fosse successo nei buchi di coscienza che pesavano sulla mia memoria? Colsi l'occasione quando Dan girò i tacchi per seguire Laurie nel bagno. Forse erano dalla mia parte, ma in ogni caso tutta quell'intimità mi infastidiva e mi sentivo una sorta di terzo incomodo. Non vedevo l'ora di sparire, di cercare l'unica persona che avessi davvero voglia di vedere, una persona con troppe lentiggini sulla faccia, una persona coi pantaloni a righe color prugna.
Cercando di fare meno rumore possibile nell'uscire dal mio nascondiglio, tentai di svignarmela e appena raggiunta porta capii a cosa si riferisse Dan, poco prima. Qualcuno aveva distrutto la serratura della porta, il pomello era completamente divelto e penzolava come il cadavere di un impiccato, appeso alle schegge di legno scuro, in bilico.
 
Sarà stato un ladro? No, non penso…in fondo, Dan parlava come se lo conoscesse. Walter? Non mi sembra il tipo, però.
 
Un flash.
Un flashback assurdo, un gorilla che viene scaraventato fuori da una finestra, spargendo pezzi di vetro ovunque. Rorschach e i suoi modi burberi. Un collegamento forzato, uno stupido pensiero nella testa di una ragazza fissata.
Pantaloni color prugna, gessato. Coincidenze. Il pensiero assurdo di un uomo in maschera con una ragazza svenuta tra le braccia, che spacca una serratura con un calcio, che per qualche motivo si fida abbastanza dei proprietari della porta appena abbattuta. Non proprio un gesto carino, c'è da dirlo, ma è guidato dalla fretta.
Un rossore improvviso causato dalle fantasie immotivate di una donna sconvolta, che ne ha vissute di tutti i colori, che cerca protezione nell'unica persona che abbia mai definito un eroe. Ma chi è? Il confine è nebuloso. Walter? Rorschach? Non un uomo qualunque. Quelli se li mangia come niente, lei, che ne ha vissute di tutti i colori, lei che sa badare a sé stessa, anche se non sembrerebbe affatto. No, lui è l'unico del quale si possa davvero fidare, l'unico da cui cercherebbe protezione, l'unico che l'ha tirata fuori dai guai quando davvero non sapeva dove sbattere la testa, quando lo scontro non era equo, quando si sentiva debole, schiacciata dalla tristezza di un passato buttato all'aria, di amicizie infrante, di fede mal riposta.
Ma lui chi?
 
Sarebbe molto più facile, se fossero la stessa persona. Nah.
 
Come al solito, la mia mente galoppa più del dovuto. Resta coi piedi per terra, Alex. Non è il momento di farsi dominare da stupide, inverosimili supposizioni.
“Ehi tu!”
Trasalii, i polpastrelli appena appoggiati sul legno lucido della porta, attenta ad evitare le schegge.
 
Accidenti, mai una buona volta che mi vada bene qualcosa.
   
 
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