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Autore: Stella cadente    01/03/2016    5 recensioni
– Eliza – la chiamò, quasi in un sussurro. – Tu lo diresti se ci fosse qualcosa che non va, vero?
La piccola sollevò lo sguardo. Una lacrima le rotolò sulla guancia morbida.
– Cosa vuole sapere?
– Vorrei sapere... – non trovava le parole. Come si faceva a chiedere ad una bambina di sei anni se avesse assistito ad un omicidio?
– Vorrei sapere che cosa sai di quello che è successo – disse infine, mantenendosi sul vago.
[…]
– È stata lei. Lo so.
L’ispettore provò un brivido di inquietudine.
– Lei chi?
Ci fu un attimo di esitazione, poi la piccola rispose:
– Samara.
Pausa.
– Vuole ucciderci tutti. Me lo ha fatto vedere.
– Chi è Samara?
[…]
– Allora posso andare a parlarci – tentò.
La bambina si fece seria, poi disse:
– No. Le diranno che sta dormendo. Ma non è vero, signor McDoyle. Lei non dorme mai.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Samara Morgan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Ring - Samara Morgan'
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1977
Febbraio

 
 
 
– Ciao, Samara.
La bambina era seduta sul letto, con il viso rivolto verso la finestra. Guardava le gocce di pioggia che scivolavano lente sul vetro.
– Chi è lei? – chiese, senza guardarla.
La donna indugiò. Si ritrovò, inspiegabilmente, a non voler dire il suo nome; preferì mantenere un certo distacco dalla bambina che si trovava davanti.
– Una... beh, diciamo che sono una specie di supervisore; devo controllare che sia tutto a posto – disse poi. – Sono qui perché – indugiò ancora.
Samara si voltò lentamente e la guardò circospetta.
– Per sapere come stai tu.
La bambina continuò a fissarla, e nella stanza calò il silenzio.
 
 
 
Faith era stata chiamata d’urgenza, dal momento che un episodio risalente a qualche mese prima aveva gettato scompiglio al King County Orphanage. La notizia era stata scioccante: una giovane coppia era morta. L’uomo era fuggito, morto inspiegabilmente e trovato a terra con il viso deformato in una smorfia di paura, mentre la donna si era gettata dalla finestra.
In mezzo a quello scenario, aveva trovato la bambina che ora la guardava.
Samara, si chiamava.
Era pallida e bellissima. Di una bellezza tenera e inquietante al tempo stesso. Una bellezza infantile, acerba, innocente, ma cupa e in qualche strano modo malinconica. Lunghi capelli neri le incorniciavano il viso tondo e contrastavano con la pelle diafana. Le guance morbide le davano un aspetto dolce.
L’unica cosa che in tutto quello stonava erano gli occhi.
Penetranti.
Osservatori.
E troppo seri per appartenere ad una bambina di appena sette anni.
L’avevano chiamata perché i bambini che quel giorno giocavano in cortile erano rimasti traumatizzati, ed anche Samara, che in prima persona aveva assistito alla scena.
O almeno, si presumeva che fosse così.
Ma Faith, che si era aspettata di trovare una bambina impaurita, in realtà notava che le descrizioni riportate dalla balia di Samara non corrispondevano affatto alla realtà.
Sembrava che quello che era successo non l’avesse toccata nemmeno da lontano.
Faith si perse per un attimo a guardarla, senza accorgersi che non le aveva nemmeno risposto; era come se quella bambina la ipnotizzasse.
E non ne capiva il perché.
Dopo qualche secondo si riscosse.
– Samara – la chiamò.
Lei la guardò con quegli occhi indagatori, antiestetici sul viso di una bambina così piccola; la giovane non poté fare a meno di trovarla vagamente sinistra.
– Sì?
La sua vocina angelica solcò l’aria.
– Vorrei che tu mi dicessi come stai.
Si sforzò di concentrarsi e si rivolse a lei, cercando di mantenere il contatto visivo – anche se era impossibile, perché non riusciva a sostenere quello sguardo. Comunque ci provò.
Fortunatamente la bambina voltò di nuovo la testa verso la finestra, e disse solo:
– Normale.
Silenzio.
Faith mise mano, senza farsi sentire, ad un piccolo registratore, e lo nascose sotto la sedia.
– Gli altri dicono che sono strana.
Aggrottò le sopracciglia, stupita; non pensava che Samara si sarebbe confidata così presto.
– Pensano che li abbia uccisi io.
La giovane donna rimase interdetta. Samara sembrava essere perfettamente consapevole della situazione. Lei si era già preparata una sorta di schema mentale per arrivare a toccare l’argomento senza urtare la sua delicata sensibilità – quel tipo di sensibilità che in genere hanno i bambini piccoli – ma a quanto pareva lei aveva già capito tutto.
– Dicono che sono un’assassina. Mi chiamano strega e fantasma. Non vogliono giocare con me.
Faith, per una frazione di secondo, fu tentata di abbracciarla, ma si trattenne.
Sembrava talmente fragile che aveva suscitato la sua compassione, ma c’era qualcosa che la faceva indietreggiare.
– Anche lei pensa che io sia un’assassina? – chiese poi, voltandosi.
Faith rimase di sasso di fronte a quella domanda. In un momento di lucidità, si accorse che doveva essere lei a tenere la seduta, e non la bambina.
Eppure sembrava che fosse proprio così, come se si fossero invertiti i ruoli.
– No, Samara – disse. – Penso che tu sia come tutti gli altri... solo che ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La piccola sorrise leggermente, poi inclinò la testa da un lato in un gesto interrogativo.
– Allora perché mi sta facendo queste domande?
Faith si sentì in soggezione per l’intelligenza e l’intuito che stava dimostrando quella bambina. Concluse che senza dubbio non era uguale a tutti gli altri. Era nettamente superiore.
Ma non sapeva se in bene o in male.
– Non le sto facendo solo a te – mentì. – Le sto facendo a tutti. Mi hanno assegnato questo caso, ed ora me ne sto occupando. Sono passata anche dalla bambina che sta di stanza accanto a te, Eliza, se ti può interessare.
A Samara quella spiegazione sembrò bastare, perché annuì con la testa.
– Vedi – proseguì la psichiatra. – Il punto è che sono tutti molto preoccupati, e tu sei stata l’ultima persona che ha parlato con loro, per cui è ovvio che i bambini pensino che sia colpa tua. Io sono qui per mostrare la verità.
Silenzio.
– Ovviamente non dirò a nessuno quello che verrà fuori in questa stanza; serve solo che io abbia prove sufficienti per smentire il fatto che sia colpa tua.
Samara annuì.
Faith rimase impressionata. Davvero aveva capito tutto quello che aveva detto? Conosceva il significato di “smentire” a sette anni?
– Sai che cosa vuol dire “smentire”? – le chiese, per accertarsene.
– Sì – replicò la bambina, serissima. – Nel suo caso, vuol dire dimostrare che una cosa detta da altre persone non è vera. Ma può voler dire anche deludere, oppure affermare che una persona ha mentito.
La psichiatra si trattenne per non spalancare la bocca dalla sorpresa. Perché Samara parlava in quel modo? Quanti bambini di quell’età parlavano così?
Era semplicemente una cosa assurda, fuori dal normale. Ma non era solo il modo di esprimersi: anche l’impostazione della sua voce stonava con il suo aspetto, e soprattutto con la sua età. Sembrava che dietro a quel corpicino di bambina si nascondesse qualcosa di più profondo... di più maturo.
Una maturità ultraterrena, una maturità che sembrava non avere niente di umano.
– Giusto – disse, sforzandosi di fare un sorriso accomodante. – Proprio così.
Pausa.
– Quindi, tornando a noi... vorresti raccontarmi cosa è successo davvero? Ti prometto che qualunque cosa tu mi dica, rimarrà qui.
Samara sembrò prendere in considerazione l’idea, perché la guardò, interessata.
– Va bene – disse poi. – Che cosa vorrebbe sapere?
– Beh... – tentennò Faith. Come si poteva fare ad una bambina una domanda del genere?
Guardò Samara.
Forse lei non è una normale bambina.
Si ripromise di studiare meglio il caso, ma intanto doveva sapere la verità su come erano andate le cose quel giorno.
Prese un bel respiro.
– Samara – si avvicinò a lei. – Vorrei sapere chi c’era, quel giorno. Chi ha ucciso Nate Embry, quel pomeriggio?
Silenzio.
– È qui nell’orfanotrofio, lo so. Samara, chi è? Una balia, o... un bambino – la raccapricciava sapere che un bambino avesse potuto ridurre un uomo in quello stato, ma doveva riconoscere che anche quell’ipotesi dovesse esser presa in considerazione. – Uno dei ragazzi più grandi... Devo saperlo.
La piccola la guardò in un modo che non seppe decifrare. Come se alludesse a qualcosa. Come se qualcosa fosse emerso da lei.
La possibilità che fosse stata quella strana bambina ad uccidere l’uomo attraversò il cervello di Faith, ma non voleva credere che fosse stata proprio lei.
– Io lo so chi è stato – sussurrò Samara.
Faith sentì il cuore palpitare insopportabilmente, e la gola farsi improvvisamente secca.
Attese che lei parlasse di nuovo.
– È stato il buio.
Nella mente di Faith fu tutto chiaro. Samara si rifiutava di aver visto – o compiuto – un atto del genere, ed identificava il colpevole con qualcos’altro. Restava solo da scoprire se il buio di cui parlava fosse qualcuno dell’orfanotrofio... o lei stessa.
La psichiatra rabbrividì di nuovo a quella prospettiva.
– Che cos’è il buio? – le chiese con prudenza.
Lo sguardo di Samara si perse nel vuoto.
– Mi promette che non lo dirà a nessuno?
Faith annuì, ma se ne pentì subito. Provò la sensazione improvvisa di non voler ascoltare quello che la piccola aveva da dirle.
Ma ormai era troppo tardi.
– Il buio non viene visto da nessuno, e mi fa fare le cose brutte.
La donna sentì del sudore freddo inumidirle le mani.
Sono stata io ad ucciderlo – sussurrò Samara.
Si sentì rabbrividire: come aveva fatto?
Non si era accorta che era rimasta in silenzio e che non aveva risposto a ciò che la bambina le aveva appena detto.
– Dottoressa.
Si riscosse all’istante quando sentì la sua voce. Quella voce che era delicata come un fiore e dolce come il canto di un usignolo; ma allora perché le sembrava come avvolta da un’oscurità impenetrabile? Perché le suscitava preoccupazione, perché le provocava paura?
– So cosa sta pensando. Lo sento.
– Cosa sto pensando? – chiese, con un filo di voce.
La bambina per un po’ guardò a terra, come se si stesse concentrando. I lunghi capelli neri che le ricoprivano parzialmente la faccia la facevano apparire ancora più inquietante.
Quando sollevò gli occhi,  Faith ebbe come l’impressione che la stessero trafiggendo.
– Lei ha paura, Faith Nichols.
Non le aveva detto come si chiamava.
Ma lei lo sapeva lo stesso.
 
 
 
****
 
 
 
– Faith, che cosa vuol dire che non vuole più occuparsi di lei?
– Non voglio più occuparmi di quel caso, punto e basta. Sono una psichiatra da due mesi, Cristo santo, non posso affrontare quella cosa.
Il signor McDoyle la guardò con uno sguardo eloquente.
– Se proprio non vuole, non voglio costringerla, signorina Nichols. Ma deve argomentare, almeno. Lei è stata chiamata al King County Orphanage per il suo primo caso, e lei ha voluto mettersi alla prova. Ed ora vuole smettere. Perché?
Silenzio.
– Mi dica la verità: si sta prendendo gioco di me?
– Assolutamente no – replicò Faith. – Ma quella bambina...
Restò per un po’ con gli occhi persi nel vuoto.
– Sì? – la incalzò McDoyle.
– Mi fa paura.
L’uomo scoppiò a ridere.
– Non dirà sul serio? – fece, retorico.
Ma la faccia della signorina Nichols era pallida e tesa. Esprimeva angoscia, e non accennava al benché minimo sorriso.
Si ricompose, poi chiese:
– Che vuol dire?
Faith si limitò a tirar fuori dalla borsa il piccolo registratore.
– Ascolti.
– Signorina Nichols...
– La prego. Ascolti – lo interruppe lei.
E mise in play.
 
 
 
****
 
 
 
Henry McDoyle tenne a lungo lo sguardo fisso sulla porta da cui era uscita la signorina Nichols, prima di prestare davvero attenzione al piccolo registratore. L’aggeggio fece i capricci per qualche secondo, poi la voce della giovane divenne udibile in un suono che sembrava inscatolato.
 
 
– Salve, sono Faith Nichols[bzz] e questo è il mio primo report clinico [bzz] Il caso coinvolge la morte di un uomo e una donna, Nate Embry e Victoria Neal, che si trovavano in procinto di [bzz] adottare una bambina, S [bzz] m [bzz] ra.
 
 
McDoyle si avvicinò di più; ma perché il segnale era così disturbato? E perché, perché proprio sul nome della bambina?
Non ci stava capendo nulla sin dall’inizio.
La registrazione si interruppe.
 
 
– Gli altri dicono che sono strana. Pensano che li abbia uccisi io.
Pausa.
– Dicono che sono un’assassina. Mi chiamano strega e fantasma. Non vogliono giocare con me.
Pausa.
– Anche lei pensa che io sia un’assassina?
– No, Sam[bzz] a. Penso che tu sia come tutti gli altri... solo che ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
– Allora perché mi sta facendo queste domande?
– Non le sto facendo solo a te. Le sto facendo a tutti. Mi hanno assegnato questo caso, ed ora me ne sto occupando. Sono passata anche dalla bambina che sta di stanza accanto a te, Eliza, se ti può interessare. Vedi, il punto è che sono tutti molto preoccupati, e tu sei stata l’ultima persona che ha parlato con loro, per cui è ovvio che i bambini pensino che sia colpa tua. Io sono qui per mostrare la verità.
Silenzio.
– Ovviamente non dirò a nessuno quello che verrà fuori in questa stanza; serve solo che io abbia prove sufficienti per smentire il fatto che sia colpa tua.
Pausa.
– Sai che cosa vuol dire “smentire”?
– Sì. Nel suo caso, vuol dire dimostrare che una cosa detta da altre persone non è vera. Ma può voler dire anche deludere, oppure affermare che una persona ha mentito.
Silenzio. McDoyle poté sentire lo stupore di Faith anche dal registratore, nel sentire parlare la piccola in quel modo sicuro.
Riascoltò la sua voce: andando ad orecchio, non doveva aver più di sei, forse sette anni.
Com’era possibile?
– Giusto. Proprio così.
Pausa.
 
 
C’era qualcosa di sbagliato nella voce della bambina. In più, non si riusciva a capire come accidenti si chiamasse; sembrava che il registratore stesso fosse animato di vita propria e non glielo volesse far sentire.
Andò avanti, con una strana sensazione di oppressione al petto.
 
 
– Quindi, tornando a noi... vorresti raccontarmi cosa è successo davvero? Ti prometto che qualunque cosa tu mi dica, rimarrà qui.
– Va bene. Che cosa vorrebbe sapere?
– Beh...
La signorina Nichols prese un respiro. Un respiro che suonò terribilmente tremolante, amplificato dal registratore. Stava entrando nel panico, si sentiva.
– Sam[bzz] a... Vorrei sapere chi c’era, quel giorno. Chi ha ucciso Nate Embry, quel pomeriggio?
Silenzio.
– È qui nell’orfanotrofio, lo so. Sam[bzz] a , chi è? Una balia, o... un bambino... uno dei ragazzi più grandi... Devo saperlo.
Silenzio.
– Io lo so chi è stato.
 
La registrazione si interruppe di nuovo, ma riprese quasi subito.
Ci fu un lunghissimo silenzio, che fece stare Henry con i nervi tesi. Adesso cominciava a capire perché la signorina Nichols non volesse più dedicarsi a quella bambina – chiunque fosse e comunque si chiamasse.
Quando sentì il pezzo finale della registrazione, non ci furono più dubbi.
 
– Dottoressa.
Silenzio. Come un inquietante sottofondo, si sentiva il lieve respiro di Faith, roco e ansante.
– So cosa sta pensando. Lo sento.
– Cosa sto pensando?
Un silenzio interminabile.
– Lei ha paura, Faith Nichols.
 
 
Il caso doveva chiudersi.
Ma non prima di averne saputo di più.

 
  
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