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Autore: Mary P_Stark    04/03/2016    4 recensioni
Una serie di OS dedicate ai personaggi della Trilogia della Luna. Qui raccoglierò le avventure, i segreti e le speranze di Brianna, Duncan, Alec e tutti gli altri personaggi facenti parte dell'universo di licantropi di cui vi ho narrato in "Figli della Luna", "Vendetta al chiaro di Luna", "All'ombra dell'eclissi" e "Avventura al chiaro di Luna" - AVVERTENZA: prima di leggere queste OS, è preferibile aver letto prima tutta la trilogia + lo Spin Off di Cecily
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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Note: ho pensato che tornare indietro nel passato e dare voce ai personaggi che diedero inizio a tutto fosse interessante, perciò ho dato la possibilità a coloro che diedero il via alla stirpe, di presentarvi il loro primo incontro, il modo in cui Fenrir - e la sua belva - vennero ammansiti da una semplice (per modo di dire) mortale. Buona lettura!
 
 
 
Dove tutto ebbe inizio -1- (3500 a.C.)
 
 
 
 
Il suo passo era leggero quanto elegante e la foresta si inchinava a lui, che era un dio su quel pianeta, profeta di sventure e signore dell’assoluta distruzione.
 
Nessuno poteva dirgli cosa fare, come comportarsi, a che leggi sottostare. Neppure il grande Odino, che tanto lo temeva e odiava, poteva nulla contro di lui. Perché il Signore del Crepuscolo degli Dèi non poteva essere canzonato, deriso, o irritato.
 
Nessuno poteva ordinare a Fenrir cosa fare della sua vita, né suo padre Loki, che tanto agognava a veder scorrere fiumi di dolore e morte a causa sua, né gli dèi tutti, che parimenti lo detestavano.
 
Naturalmente, non avrebbe soddisfatto i desideri del padre, poiché lui si divertiva troppo per distruggere ogni cosa, ma non avrebbe neppure dato alcuna soddisfazione agli dèi, perché essi non la meritavano.
 
Era divertente vagare per i mondi, incutendo timore e rispetto nelle genti e negli altri dèi, sentire sulla punta della lingua il sapore della loro paura e del loro sospetto.
 
Più di tutti, gli umani di Midghard gli piacevano perché erano un popolo ancora giovane, che stava crescendo per potere e numero, e sapevano bene a chi inchinarsi e a chi no.
 
Avevano un che di crudele e perverso, in loro, e ammirava il modo in cui si combattevano, uccidendosi gli uni con gli altri. Nessuno veniva risparmiato, di fronte alla loro sete di dominio o vendetta.
 
Neppure i fratelli o le sorelle che paradossalmente, a volte, venivano usati come scudi umani, o come merce di scambio.
 
Pensare a sua sorella Hell lo fece sorridere, e le sue zanne brillarono candide sotto il sole del meriggio.
 
Lei, sicuramente, non avrebbe esitato a barattarlo per i suoi beceri scopi, se solo avesse avuto un qualche interesse da soddisfare.
 
Non che lui gliel’avrebbe permesso, s’intende. L’avrebbe divorata, piuttosto.
 
Quanto a Jor… beh, di lui non aveva mai capito un accidente di nulla, perciò non aveva davvero idea di come si sarebbe comportato in una situazione simile.
 
Un refolo di vento si incuneò nell’oscura foresta distraendo i suoi pensieri e subito, il suo naso sopraffino, colse un aroma diverso dal solito.
 
Fattosi attento, levò il muso enorme per meglio saggiare quell’aroma nell’aere umido e ricco di profumi boschivi.
 
La curiosità giunse a solleticarlo, quando infine riconobbe in quell’aroma un odore che non sentiva da tempo. Quello di una donna umana.
 
Più volte aveva giaciuto con quelle creature mortali, godendo delle loro carni calde e morbide, mentre prendeva da loro tutto ciò che potevano dargli.
 
In seguito, aveva cancellato loro la memoria e le aveva rispedite ai loro villaggi, così che non potessero raccontare di aver copulato con un dio. Non voleva che si spargesse la voce che Fenrir poteva anche essere piacevole, sotto certi aspetti.
 
Lui doveva soltanto essere temuto, non bramato.
 
Lesto, perciò, mutò forma per non farsi cogliere nell’atto di avvicinarsi alla creatura umana e, raggiunto che ebbe il limitare di una radura, osservò incantato e curioso.
 
Là, nel bel mezzo di un verde prato ricco di fiori, Fenrir scorse una giovane fanciulla di piccola statura, dalla corporatura minuta e morbida. Non poteva avere più di quindici, sedici anni, a suo avviso.
 
Indossava abiti ingombranti, di tessuto grezzo e, sicuramente, dovevano essere stati risistemati molte volte, viste le evidenti pezze in svariati punti e il tessuto pressoché sgualcito in ogni sua parte.
 
Una contadina, forse, o comunque non la figlia di un capoclan della zona, in ogni caso. Nessuna di loro avrebbe indossato abiti così dimessi, o sarebbe uscita senza scorta.
 
Sogghignando, se ne compiacque.
 
Non amava le figlie dei nobili. Erano così noiose e petulanti!
 
Silenzioso, continuò perciò ad ammirarla nel suo lento divagare per la radura.
 
I lunghi capelli rossi erano legati sommariamente in una crocchia sulla nuca, ma alcune ciocche sfuggivano selvagge al fermaglio di corno.
 
Fenrir desiderò infilarvi le mani e stringerle tra le dita per saggiarne la morbidezza. Immaginò fossero simili alla seta più fine e, dentro di sé, rabbrividì di aspettativa.
 
La vide piegarsi diverse volte per raccogliere delle erbe, studiarne con attenzione la tipologia per poi poggiarle in un ampio cesto che portava sul braccio.
 
Una guaritrice, forse, o un’apprendista di quell’arte.
 
A sorpresa, sul lato opposto della radura, un timido daino si approssimò proprio in quel momento e la giovane, bloccando i suoi passi, lo osservò quieta.
 
Fenrir annullò la propria aura per non farlo fuggire, incuriosito dalla reazione che avrebbe avuto la ragazza di fronte a quella creatura.
 
Come sperava, lo sorprese ancora.
 
Non solo si accucciò a terra per apparire meno pericolosa, ma iniziò a intonare una calda nenia con la sua voce di contralto.
 
L’animale fece vibrare le orecchie, forse stupito da quel suono imprevisto e per lui assai strano.
 
Per Fenrir, invece, fu come ascoltare le ancestrali voci degli elfi chiari di Alfheimr, o le musicanti con cui era solito intrattenersi Odino alla sua corte.
 
Lui non era mai stato gradito ospite, in quei lidi, e non aveva mai potuto godere di simile bellezza e candore, ma sapeva apprezzarne la bellezza, e quella voce non aveva nulla da invidiare alle artiste con cui si intratteneva Padre Tutto.
 
Non che volesse davvero crogiolarsi su un divano e piluccare acini d’uva come quel vecchio barbuto, però… però, era piacevole ascoltare una simile melodia, per una volta, senza che alcuno lo disturbasse con qualche commento aspro.
 
Era difficile essere il detentore di un potere distruttivo come quello che stringeva tra le mani, ma non aveva scelto lui di essere così. La Madre aveva decretato il suo futuro quando era venuto al mondo.
 
Naturalmente, per suo padre era stato un immenso piacere saperlo così potente e oscuro, mentre sua madre si era scagliata contro Loki, reo di averla ingannata sulla sua reale identità.
 
Sdegnata, aveva lanciato maledizioni all’indirizzo del dio che l’aveva ingravidata mentendo sulla sua reale identità e, lasciatasi alle spalle i figli, non aveva più voluto vederli.
 
Avere per madre una titanessa voleva dire non aspettarsi torte di more per il proprio compleanno, o il bacio della buonanotte durante le notti di tempesta. A maggior ragione se ella era stata ingannata su chi avrebbe messo al mondo.
 
Tornando a concentrarsi sulla giovane umana, tralasciando le sue memorie di cucciolo, sorrise quando vide il daino avvicinarla e prendere dalla sua mano alcuni steli d’erba.
 
Oh, sì, quella giovane era l’incarnazione stessa del candore virginale e della bontà. Nessun’altra mortale avrebbe potuto fare ciò che ella stava facendo!
 
Doveva essere sua a qualsiasi costo! Quelle carni sarebbero state deliziose, ne era sicuro!
 
Fu così che rese nota la sua presenza, facendo invariabilmente fuggire il daino e mettere in allerta la giovane.
 
Ma a lui non interessava. Non avrebbe potuto fuggire, o rifiutarlo.
 
Nessuna l’aveva mai fatto.
 
Questa umana sarebbe stata solo l’ultima di una lunga serie, finché non si fosse stancato di lei, rispedendola al suo villaggio per mettersi in cerca di un’altra preda.
 
Lei, nel frattempo, lo fissava guardinga, il cesto ancora sottobraccio e la mano libera infilata tra le falde dell’abito consunto. Sicuramente, stretta a uno stiletto o un pugnale. Fenrir dubitava che fosse uscita senza un’arma, pur se inefficace, su di lui.
 
Le sorrise, levando lentamente le mani per farle capire che era disarmato – almeno all’apparenza – e, con voce carezzevole, esordì dicendo: “Scusami… non volevo spaventare né te, né il daino, ma la tua voce mi ha attirato qui.”
 
La giovane ancora non parlò, accigliandosi e fissandolo con chiari occhi color verde foglia. In quel momento, avevano la stessa durezza delle giade screziate.
 
Fenrir ne fu suo malgrado ammaliato. No, non c’era solo dolcezza, in lei, ma anche forza e determinazione.
 
Un connubio ancor più interessante, a questo punto.
 
“Mi chiamo Wulff, e tu?” le domandò, restando a qualche passo di distanza da lei.
 
Dubitava che potesse avvertire la sua aura divina ma, con alcune donne, era capitato, e preferiva non metterla in allarme prima di averla avvinta a sé con il suo fascino.
 
La ragazza, inspiegabilmente, estrasse l’arma che teneva nascosta tra le falde dell’abito e, puntatala verso di lui, sibilò minacciosa: “Ti sventrerò come un maiale, giovane errabondo, se proverai ad avvicinarti di un altro passo.”
 
“Non è mia intenzione farti del male. Davvero. Volevo solo conoscere la ragazza che ha saputo ammansire un daino con la sua semplice voce” sorrise Fenrir, mettendo miele nella sua voce.
 
La giovane, però, non abboccò affatto e, a sorpresa, sferrò un attacco contro Fenrir, ferendolo di striscio a un braccio.
 
Sibilando per la sorpresa, lui si scostò velocemente per non essere ulteriormente colpito ma la giovane sorrise vittoriosa, come avendo avuto risposta a un suo dubbio personale.
 
Dalla ferita non uscì una sola stilla di sangue, pur se la lama era affondata a sufficienza per lasciare un segno su quella carne ambrata e perfetta.
 
Gli occhi neri di Fenrir scintillarono di rabbia a stento repressa – essere smascherato a quel modo, lo fece irritare – e, passandosi una mano nervosa tra i capelli corvini, lui ringhiò: “Che ti è saltato in mente?! Sei pazza, forse?!”
 
“Affatto, ma le bugie mi irritano” replicò a sorpresa lei, rimettendo a posto il coltello. “E ora che abbiamo stabilito che sei un essere immortale di qualche genere, posso sapere la verità?”
 
Sbalordito dalla sua assoluta mancanza di paura, Fenrir la fissò in quegli occhi sicuri e decisi, pronto a trovarvi il seme della follia più pura. A sorpresa, non trovò affatto questo, ma una sicurezza che le veniva dal passato, da molte vite passate, a dir la verità.
 
La sua anima era antica e saccente, e le conferiva una fiducia profonda in se stessa.
 
Non l’anima di un qualche dio decaduto, che di sicuro sarebbe stato in grado di riconoscerlo come dio della distruzione, ma di una sacerdotessa di qualche culto, forse di un culto così antico che neppure lui conosceva.
 
Ghignando, Fenrir allora rilassò la propria postura e, poggiata una mano sul fianco, asserì divertito: “Sei antica di spirito, pur essendo di carne giovane e mortale. Ne eri a conoscenza, fanciulla?”
 
Annuendo, ella replicò serafica: “Me lo disse il nostro druido, quando fui proposta per i riti di Beltane, l’anno passato. Mi fu vietato di essere tra le Vergini Consacrate perché io dovevo rimanere intonsa e pura; ero destinata a qualcosa di più grande.”
 
Fenrir rise, deliziato da quella sciocchezza. I druidi, a volte, erano così stolti!
 
Lei, però, non rise affatto e, sbuffando, borbottò: “Non trovo affatto divertente il fatto che tu ti sia burlando di me, essere immortale.”
 
“E io trovo esilarante che tu possa essere in mia presenza, senza minimamente provare paura o timore per la tua vita” replicò lui, ironico.
 
“Sono una suddita fedele degli dèi, perciò non ho nulla da temere da loro.”
 
“Neppure da me?”
 
Così dicendo, riprese le sue sembianze animali, portandola finalmente a gridare spaventata.
 
La ragazza crollò a terra, sgomentata da quell’improvvisa malia e, senza parole, osservò l’enorme lupo candido che la sovrastava con cupa fierezza.
 
Era splendido, e il suo manto niveo brillava dei colori dell’arcobaleno, alla luce del sole. Nessuna bestia avrebbe mai potuto essere al pari suo, né sulle terre emerse, né nei cieli.
 
Quale forza e quale baldanza, erano trattenute a stento da quella forma incredibile!
 
“Ebbene? Sei ancora così tranquilla?” la prese in giro Fenrir, parlando con tono strascicato.
 
Odiava dialogare nella sua forma di lupo, perché le sue zanne e la forma allungata del muso glielo rendevano difficoltoso. Aveva però desiderato con tutto se stesso sgomentarla, e la sua forma animale era temuta da tutti.
 
Lei, comunque, non sembrava terrorizzata, anzi, tutt’altro.
 
Dopo l’iniziale sgomento, ora lo stava osservando come mai alcuno aveva fatto con lui. Come se non avesse mai visto creatura più bella, e ne fosse ammaliata, rapita, non terrorizzata.
 
“Quale… qual è il tuo nome?” mormorò con un filo di voce.
 
“Sono il distruttore dei mondi, colui che darà inizio alla fine di tutte le cose…” iniziò col dire pomposamente Fenrir, sortendo solo l’effetto di farla sbuffare.
 
Indispettito, sbottò subito dopo: “Sono Fenrir, sciocca mortale! Devi temermi, non sbuffare infastidita!”
 
“E perché mai dovrei temerti?” replicò lei, sorprendendolo non poco.
 
“Perché potrei fare di te ciò che voglio, e tu non potresti impedirmelo!” ringhiò il lupo, puntandole addosso i suoi occhi bicolori.
 
“Ebbene?” gli rinfacciò per contro lei, intrecciando le braccia sotto i seni.
 
“Ebbene, cosa?” sbuffò Fenrir. Era mai possibile che non si spaventasse? Che non lo temesse?
 
“Cosa cambia, rispetto a qualsiasi altro pericolo incombente che potrebbe abbattersi su di me?” lo rimbeccò lei, sedendosi meglio sull’erba per poi incrociare le braccia sulle ginocchia.
 
Fenrir riprese forma umana e, fissandola dall’alto al basso, ringhiò: “Non capisco cosa vuoi dire.”
 
“E’ semplice; sono una donna, perciò non ho la forza di battere un uomo, né le capacità tecniche per farlo. Non mi hanno insegnato a difendermi, pur se posso tentare di affettare qualcuno come ho fatto con te, prima.”
 
Nel dirlo, fece spallucce e proseguì.
 
“Le malattie, spesso e volentieri, ci strappano ai nostri cari quando meno ce l’aspettiamo. E, come hai giustamente fatto notare tu, sono mortale, perciò un giorno perirò in ogni caso, anche se io non lo vorrò. Perciò perché dovrei ritenere più terrificante la tua minaccia, rispetto alle altre che ti ho citato?”
 
Fenrir rimase ammutolito da quella dichiarazione inaspettata.
 
Come poteva darle torto?
 
La ragazza accennò un sorriso triste, terminando di dire: “Se tu decidessi di prendermi e usarmi, cosa potrei mai fare, io? Perciò, che senso ha farmi divorare dalla paura? Avrei paura se potessi avere il controllo della situazione, e non mi impegnassi a sufficienza per trovare una soluzione. Ma così? Sarebbe un inutile spreco di energie.”
 
Basito di fronte a tanta saggezza, Fenrir si inginocchiò a terra, fissandola nei suoi occhi color delle foglie e, con un mormorio sommesso, asserì: “Sei una strana mescolanza di innocenza e saggezza ancestrale. E non deriva dalla tua anima antica. Sono pensieri tuoi, del tutto coscienti.”
 
“Riesci a leggere la mia anima?” si incuriosì la ragazza.
 
Fenrir ghignò. Lo stava prendendo in giro, forse? Lui, che poteva smuovere stelle e cielo per distruggerli con un solo colpo di fauci?
 
Ma no, non v’era derisione, nel suo sguardo, solo sincero interesse.
 
“Sì, posso leggerla. Non è un’anima cosciente come potrebbe essere quella di un dio o di uno spirito guerriero assurto a vita immortale, che quindi potrebbe parlarti e guidarti. Lei è silente, solo un soffio di vita nel tuo corpo di carne. Ma ti ha donato i suoi poteri mistici, oltre a concederti la possibilità di camminare su Midghard” le spiegò Fenrir, allungando una mano a sfiorare uno dei suoi riccioli ribelli.
 
Lei ristette immobile, ma il dio avvertì il suo respiro farsi più veloce, il battito del cuore più affrettato. No, forse non era paura, la sua, ma non era neppure così calma o indifferente come voleva fargli credere.
 
Sorrise nonostante tutto e, dopo aver saggiato la sericea consistenza dei suoi capelli, ritirò la mano. Come aveva immaginato, erano seta pura.
 
“Un dio può incarnarsi in un corpo umano? E che giovamento ne trarrebbe?” domandò lei, sbattendo le palpebre con aria confusa.
 
Fenrir rise. “Non un dio che può usare il proprio corpo per muoversi, ma uno che ha perso corporeità, che non può più respirare con i propri polmoni.”
 
“Divengono… spiriti?” sbottò confusa la giovane, fissandolo scettica.
 
“La Madre li richiama a sé come qualsiasi altra anima abbia perso il proprio involucro di carne e sangue. Solo, l’anima degli dèi è cosciente di sé e può chiedere di tornare. Ogni patto con la Madre è diverso, e ogni dio ha una diversa occasione di sfruttare questa nuova opportunità di camminare nei Nove Regni” dichiarò Fenrir, reclinando su un fianco per poi poggiare un gomito tra l’erba.
 
Da quella posa rilassata, la osservò rimuginare, un dito a picchiettare pensosa il mento mentre gli occhi, accigliati, sembravano rifulgere di intelligenza.
 
“Cosa trasforma una creatura potente come un dio in uno spirito? Non potete bloccare il processo?” gli domandò ancora, suo malgrado affascinata dalle sue argomentazioni.
 
“Mi stai chiedendo il più grande dei segreti, mortale, perciò scantonerò la tua domanda” replicò Fenrir, sdraiandosi sull’erba per poi incrociare le braccia dietro la nuca.
 
Vagamente indispettita, la ragazza si arrischiò a tirargli la manica della tunica di pelle che indossava e, burbera, asserì: “Non puoi uscirtene con un ‘non ti dirò nulla’ e poi fare finta che non esisto.”
 
“E perché mai non potrei farlo, fanciulla? Chi sei, tu, per darmi ordini?” la prese in giro lui, chiudendo gli occhi per assaporare meglio il tepore del sole sulla pelle.
 
Midghardr era sempre stato un pianeta splendido, quasi al pari Elfheimr, e le piacevolezze della Natura che lo circondavano alleviavano per un breve periodo le sue costanti arrabbiature.
 
“Sono Avya, figlia di Thorn, non quel tuo pomposo fanciulla!” sbottò allora la giovane, alzandosi in piedi con aria bellicosa.
 
“Lieto di conoscerti, Avya, figlia di Thorn. Comunque, non mi scalderei poi così tanto, sai? Solo perché stiamo colloquiando amabilmente, non vuol dire che tu possa permetterti di irritarmi” le ricordò Fenrir, aprendo un solo occhio per fulminarla con lo sguardo. “Chiedi altro e, forse, risponderò. Ma non pensare mai, mai, di potermi trattare come un qualsiasi umano di tua conoscenza.”
 
Forse?” ripeté sdegnata la ragazza, ignorando del tutto il resto del suo discorso.
 
Fenrir rise ancora. Era così focosa, così piena di vita e di energia! Emanava quella forza inaspettata come un profumo speziato attraverso i pori della pelle, inebriandolo.
 
Non aveva davvero paura di lui, di indispettirlo, di far affiorare la belva che era sedata nel suo corpo divino. Anzi, forse lo sperava, in fondo in fondo.
 
“Forse” sottolineò Fenrir, levandosi sui gomiti prima di aggiungere: “Siedi con me, giovane Avya, e parla con me. Sarò io stesso a riaccompagnarti sana e salva al tuo villaggio. Parola di divinità.”
 
“Le divinità posso offrire promesse senza aver l’obbligo di mantenerle. Avete i mezzi e il potere per smentire voi stessi” brontolò Avya, pur tornando a sedersi.
 
“Di questa promessa puoi fidarti, mia indisponente e ciarliera fanciulla. Mi incuriosisci, perciò sei al sicuro, con me” replicò il dio, facendo spallucce.
 
“Come posso incuriosire una divinità? Voi sapete già tutto, no?” scrollò le spalle Avya, ancora scettica.
 
Ghignando, Fenrir replicò: “Odino non avrebbe sacrificato un suo occhio da donare a Mimir, se noi dèi avessimo tutta la conoscenza nelle nostre mani. Solo Madre sa ogni cosa, e vede ogni cosa.”
 
Avya ammutolì a quella notizia e Fenrir, allungandosi verso la cesta di lei, afferrò uno dei fiori che aveva raccolto e aggiunse: “Tu cogli questo fiore perché ha effetti sul dolore osseo, ma non sai che può anche servire per far abortire una donna che non desideri il proprio cucciolo. Se dosata con attenzione, può servire anche a questo.”
 
Lei guardò il fiore, fissò il viso ambrato di Fenrir, i suoi neri capelli rilasciati sulle spalle e, sorridendo appena, mormorò: “Mi insegneresti altro, se ti chiedessi di farlo?”
 
Sollevandosi a sedere, le braccia intrecciate sulle ginocchia, Fenrir la squadrò curioso, sorrise malizioso e infine le propose: “Concediti a me, e io ti insegnerò tutto quello che conosco su piante e fiori.”
 
Avya allora si adombrò, gli scaricò in testa il suo cesto di fiori e, piccata, si alzò per andarsene.
 
Sbigottito da quel gesto davvero irrispettoso, Fenrir balzò in piedi con un ringhio ferale, la afferrò al braccio e, con forza, la schiacciò contro di sé.
 
I suoi occhi scuri brillarono di rabbia, mutando poi colorazione per tornare alle loro tinte originali; l’azzurro e il verde.
 
“Non mi si tratta come uno sciocco mortale, ragazza! Te l’ho già detto una volta!” le sibilò sulla faccia, furibondo e ormai fuori controllo.
 
Avya, però, non tremò. Né diede adito di essere spaventata da lui. Non le stava facendo male. Sì, la tratteneva, avrebbe potuto fare di lei quel che voleva… ma non stava usando la sua forza.
 
Avya, perciò, fece la cosa più insensata e folle che la sua mente poté partorire e, levatasi in punta di piedi, lo baciò.
 
Fu solo un bacetto sulla punta del naso, neanche si fosse trovata con i suoi fratelli più piccoli, ma questo gesto inaspettato sgomentò Fenrir, che la lasciò andare immediatamente.
 
Subito dopo, caracollò all’indietro di un paio di passi, fissandola come se fosse stata pazza e, senza sapere bene come esprimere il proprio stato confusionale, esalò: “Che significa?!”
 
“Mi sono scusata. Per averti tirato i fiori in testa. Mi scuso così, quando faccio i dispetti ai miei cuginetti più piccoli” si limitò a dire Avya, scrollando le spalle.
 
Fenrir rabbrividì al pensiero che lei lo vedesse come un bambino e, adombrandosi in viso, borbottò: “Tu sei folle, umana.”
 
“E tu sei suscettibile come un porcospino. Ebbene?”
 
“Un… porcospino?!” sbraitò Fenrir, avvampando d’ira.
 
Avya, però, rise nel vederlo così furioso e, nell’asciugarsi una lacrima d’ilarità, esalò: “Devi ridere un po’ più di te stesso, o finirai con l’esplodere per la troppa boria e, se ho ben capito chi sei, non te lo puoi permettere.”
 
“Boria? Ragazza, tu sfidi la sorte con un dio della distruzione, te ne rendi conto?!” le ringhiò contro, indeciso se prenderla a schiaffi o ridere a sua volta.
 
“Sai già di poter fare tutto ciò che vuoi. Che senso ha tentare di mettermi paura, o volermi irretire con le tue fatue promesse per avere il mio corpo? Non sarebbe meglio se tu fossi semplicemente te stesso?”
 
Me stesso? Avya, hai visto prima cos’è, per me, essere me stesso” le rinfacciò acido. “Questa forma che vedi è un corpo secondario, che io scelgo per camminare tra voi… ma io sono un lupo!”
 
“Oh” ammutolì Avya, sinceramente sorpresa. “Pensavo volessi solo impressionarmi. Colpirmi con i tuoi poteri, ecco.”
 
Fenrir rise aspramente, replicando: “Tu sei pazza, ragazza, lo sai? Solo una pazza oserebbe sfidarmi così tante volte.”
 
“E perché, di grazia? Hai detto che tu sei destinato al Crepuscolo degli dèi, ma hai altre funzioni, oltre a questa tua caratteristica piuttosto… definitiva, all’interno della cerchia di divinità?”
 
“No, è ovvio. Nessuno si fiderebbe di me per farmi compiere altro. Io sono temuto da tutti!” esclamò con orgoglio Fenrir.
 
A quel punto, Avya sospirò e disse: “Mi dispiace.”
 
“Cosa?!” ringhiò lui, più che mai sorpreso e irritato.
 
“Un simile potere rende soli, non è vero?” gli fece notare lei, stringendo le mani dinanzi a sé.
 
“Non sai di quel che parli” le rinfacciò Fenrir, pur sapendo che aveva dannatamente ragione.
 
Suo padre lo cercava solo per farlo irritare, sua madre lo ignorava, gli dèi lo disprezzavano e l’unico che parlava con lui era Tyr. Di certo, non doveva sforzarsi molto per contare coloro che avevano un rapporto disinteressato con lui.
 
Avya, a sorpresa, levò la sua manina a sfiorare il viso di Fenrir che, irrigidendosi, sibilò: “Cosa stai facendo?”
 
“Si chiama carezza, Fenrir, e si fa per essere comprensivi e compassionevoli. La si concede per dare pace. Sembra che tu ne abbia un estremo bisogno, in questo momento.”
 
“Io non agogno la pace. Sono un dio di guerra!”
 
“Ma vieni qui per giacere con le donne umane, vero?” gli fece notare a sorpresa la giovane.
 
Lui ristette zitto, sul chi vive, ma non Avya, che proseguì nel suo dire.
 
“Trovi pace tra le loro braccia, giusto? Perché, forse, le dee non sono così… disponibili a donare calore e serenità.”
 
Fenrir si accigliò, fissandola torvo, ma Avya non demorse.
 
“Cercavi pace, quando ti sei avvicinato? Volevi giacere con me?”
 
“Cambierebbe qualcosa, se dicessi di sì?” borbottò contrariato il dio.
 
“Se ti concedessi la mia compagnia, ma non il mio corpo, ti andrebbe bene lo stesso?”
 
“Come?” esalò lui, non comprendendo appieno le sue parole.
 
“Se fossi tua amica, ti basterebbe?” si spiegò meglio lei, arrischiandosi ad afferrare entrambe le mani del dio per sollevarle in mezzo a loro.
 
Fenrir abbassò lo sguardo a scrutarle, così rosea e pallida la pelle di lei, mentre lui era ambrato come un guerriero abituato a stare all’aperto, ad affrontare il mondo a muso duro.
 
Le sue mani erano così minute ed esili, eppure lo trattenevano senza sforzo. Era come se lo tenessero avvinto, imbrigliato.
 
Pur se non stava che tenendo sollevate le loro mani. Non stringeva affatto. Le sosteneva.
 
Come avrebbe fatto un amico in difficoltà. Avrebbe sostenuto l’altro.
 
Perdendo parte del suo livore, Fenrir sollevò una delle sue mani, ne sfiorò il palmo con lo sguardo, notandone le callosità e i piccoli tagli, e infine mormorò: “Sei donna, sei umana, sei mortale… ma queste mani sono forti come quelle di un guerriero immortale, vero?”
 
“Non so.”
 
“Sostengono le mie senza prevaricare. Perciò sì, sono forti.”
 
“Non volevo prevaricarti, infatti. Potevi rifuggire il mio tocco in qualsiasi momento, con o senza poteri divini” annuì lei con semplicità.
 
“Anche tu, se vuoi, potrai rifuggire il mio tocco” mormorò lui, chinandosi verso il suo volto. “Allontanati, o ti darò un bacio per scusarmi.”
 
Lei non lo fece e, quando Fenrir le sfiorò le labbra, seppe di essere perduto.
 
Quella, sarebbe stata la sua ultima donna. Quella sarebbe stata la sua compagna. Che lei lo volesse o no.
  
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