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Autore: Marinaoceano    05/03/2016    3 recensioni
STORIA KLAROLINE AU - TUTTI UMANI – Nuovi personaggi – Diversa ambientazione
***
«…Si tratta della più ingente evasione di massa nella storia degli Stati Uniti d’America…» ci informò la voce fuori campo della conduttrice.
Guardai la nonna afferrare il telecomando e spegnere il vecchio televisore, che emise un suono acuto, squittendo.
« Moriremo tutti » commentò.

***
Raggiunto il lato opposto e solitario della strada, voltandomi appena, cercandolo per la prima volta, infine lo trovai: là dove lo avevo lasciato, immobile tra i bidoni lucenti; le braccia così aperte, tese a sforzarsi di raccogliere il gelo e la neve nell’aria. Le palpebre chiuse, chiarissime, il volto quasi cristianamente rivolto al cielo nuvoloso - Klaus (che nome strano!), assurdamente, inspiegabilmente, silenziosamente rideva.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Elijah, Klaus, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Storia nata qualche mese fa, a lungo dimenticata nel pc. Revisionata da Angel51, che come sempre ringrazio!
Sarà di quattro capitoli + epilogo, che ho già scritto. Pubblicazione a scadenza settimanale.
[Quando avrò finito Peaceful, riprenderò la Bambola, visto che mi sento ispiratissima! Il potere di una telefonata...].

Buona lettura,
Marina

 





0.

Anni prima

(La festa e la ragazza)


 

Bonnie sorrise oltre il vetro della libreria, indicò l’orologio dorato al proprio polso ed incrociò le braccia.

Appoggiati una pila di libri allo scaffale di legno scuro, guardai Pilgram seduto comodamente alla cassa sfogliare l’ultimo numero del Times.

« Non c’è più nessuno ».

« Se vuoi andare a prepararti, Caroline, non devi fare altro che correre a casa. Ho saputo da fonti nonnesche che sei a capo del ballo scolastico, quest’anno. Ti faccio i miei più sentiti ed entusiastici complimenti ».

Pilgram chinò appena il capo, guardandomi da sopra gli occhiali sottili. 

« La nonna…? »

« Trabocca d’orgoglio come una pentola a pressione di vapore acqueo. A domani, Caroline. E salutami la giovane Bennett » mormorò Pilgram, lanciando a Bonnie un’occhiata. 

« Si può sapere perché quel vecchio mi odia tanto? »

La strada cittadina era bagnata dal sole primaverile, e c’era un buon odore. Qualche turista - avevano già iniziato ad invadere Peaceful nei fine settimana, ed oggi era venerdì: il venerdì perfetto - camminava lungo i marciapiedi sottili su cui si affacciavano le vetrine lustre dei negozi.

« Non ti odia, Bonnie! »

« Mi guarda sempre. Lui sa. Non capisco come, visto che non poteva vedermi mentre mangiavo ».

« Fa parte delle sue regole d’oro: nessuno può ingerire cibo di qualsivoglia genere o forma nelle sacrali prossimità di un libro. Come va con il cielo stellato? »

« Regge alla perfezione, capitano Forbes! »

« E le lanterne? »

« Pronte ad essere accese a mezzanotte meno un minuto ».

« Musica? »

« Oh, cavoli. Chi aveva il compito di ritirare i CD? »

« Cosa? » dissi, bloccandomi sul marciapiede.

Bonnie rise. « Scherzavo, tranquilla. Musica affidata a Matt Donovan che, tra parentesi, ho appena visto provare uno smoking divino. Sarete il Re e la Regina più votati di sempre… ed al primo anno, assurdo! »

Cercai di fare mente locale. Tutto sembrava soddisfare gli obbiettivi prestabiliti. 

« Spero che… »

« Sì, Caroline. Credimi: un mese come tuo Secondo in Comando e posso affermare con certezza che tutto andrà bene ».

« Lo so, lo so. In fondo lo so ».

La lugubre notizia raggiunse l’addobbata palestra scolastica intorno alle undici e trenta, subito dopo l’incoronazione. Io e Matt stavamo ballando, circondati da altre coppie in vestito elegante, adornati entrambi da due corone di cartoncino dorato. Non era mai accaduto nulla del genere, non a Peaceful, né si sarebbe mai ripetuto negli anni a venire - nessuno ne avrebbe davvero parlato. Era colpa dei turisti, niente aveva a che fare con la buona gente locale. 

L’accaduto serpeggiò ed esplose sopra la musica, rischiando di rovinare la mezzanotte. Gli insegnanti si raccolsero in un angolo, gesticolando e scuotendo con forza il capo. Per un attimo non capii.

« Ma che succede? »

Matt s’informò, poi disse:

« Una turista è morta in spiaggia. Dicono sia affogata ».

Solo più tardi scoprimmo che la notizia era arrivata in modo frammentario, e che la verità nascondeva una seconda faccia ben più inquietante. La lessi il mattino seguente sulla prima pagina del giornale gettato da Pilgram nel cestino ed iniziai ad intuire perché il libraio non avesse domandato nulla del ballo, chiudendosi in una muta, pallida solitudine nel gelido deposito retrostante il negozio.

Una ragazza di diciassette anni, in vacanza con la famiglia, era annegata la sera precedente. Una fotografia in bianco e nero inquadrava il suo volto sorridente ed un frammento bagnato della lettera che le avevano rinvenuto in tasca. Leggendo collegai le due cose, senza davvero comprendere: quella ragazza, di pochi anni più grande di me, si era tuffata nelle acque gelide di Peaceful. Per la prima volta incontrai un particolare termine, in forza del quale l’articolo sembrava dare già per accreditata l’agghiacciante ipotesi del suicidio: depressione clinica.

 

 

 

1. 

Tornare a Peaceful

(E restarci)

 

 

Alla deriva in mari deserti
facevo del mio meglio per sorridere
fino a che le tue dita e i tuoi occhi ridenti
non mi hanno attirato verso la tua isola
e tu cantavi:

[…]

 

Ho sempre odiato i viaggi in autobus.

Per prima cosa, a differenza dei treni, il tragitto di un autobus contiene una media di curve decisamente superiore. Si è poi costretti a considerare il traffico come una variabile; per quanto, durante quel viaggio, l’idea di fare tardi non mi disturbasse affatto. Ma è il panorama ciò che più detesto: nelle trasferte di media lunghezza si ha una non trascurabile probabilità che sia l’autostrada, a farti compagnia. Con i treni questo non capita quasi mai.

Ed il fatto che quel giorno di novembre fossi salita su un autobus per tornare in New Hampshire tra le braccia di mia nonna, nella minuscola città natale dal nome tanto ridicolo da risultare grottesco per la sua fedeltà, moltiplicava il mio nervosismo per molte decine di numeri. 

Avevo fallito. Senza mezzi termini, senza scusanti, senza la minima possibilità di costruirmi una difesa decente: a poco più di un anno dalla mia partenza in pompa magna, ecco che facevo ritorno all’ovile tra i volti di chi mi aveva augurato buona fortuna, con la testa bassa e la coda tra le gambe. E ciò che più disprezzavo di me stessa in quelle ore di viaggio era che, a riprova del mio scarso valore come persona, non riuscivo ad esentarmi dall’immaginare ciò che avrebbe detto la gente. “Caroline Forbes! Ma sì, quella che è tornata da New York.” Tremavo all’idea che sarei per sempre stata un eterno ritorno. Nonostante le bugie che avrei potuto inventarmi per addolcire la mia sconfitta, una cosa che non sarei mai riuscita a cambiare era il tragitto di quell’autobus. 

Tornare. Dio, come me lo ero immaginata diverso! La settimana della partenza, l’insegnante di lettere del liceo che era venuta a salutarmi si era detta malinconicamente sicura che, negli anni a venire, casa sarebbe stata per me una modesta via di fuga dalla celebrità. Avrei reso famosa la sconosciuta cittadina di Peaceful, New Hampshire! Mia nonna ci aveva creduto. La vicina di casa, il panettiere, il postino, i miei amici, lo zerbino davanti alla porta: tutti avevano creduto che sarei presto stata una grande scrittrice. E tutti meritavano di essere odiati per aver fomentato la mia insana fissazione - se non altro, per la solitaria durata di quel viaggio in autobus. 

Al college ero una di quelle che i professori definivano “con carte in regola per emergere”. A quanto pareva, emergere si era concretizzato nel diventare qualcuno senza più un soldo in tasca e con un sogno accantonato: proprio il genere di personaggi di cui solitamente scrivevo. 

“I suoi racconti sono molto interessanti, signorina Forbes.” “Grazie.” “Sì, ma, ecco... vede, il problema è che quest’anno le azioni sono andate a ribasso e la nostra casa editrice non se la sente di rischiare. Lei è giovane, capirà.” “Non capisco, invece. In otto mi hanno già…” “Per lo stesso motivo! Apra un giornale: il mercato è crollato. Tutti ne risentono.” “Ed io cosa dovrei fare?” “Non si deve abbattere! Ritenti tra un anno o due, mi creda. Andrà meglio. Resti a New York, si trovi un lavoro sporco. Aiuta molto con tutta la faccenda dell’ispirazione.” “Io non ho problemi d’ispirazione, signore. Ho problemi di soldi.” Discorsi simili ne avevo sentiti a decine, finché non ero scesa a più modesti esempi di editoria che parlavano di auto pubblicazioni di cui mai mi sarei potuta sobbarcare. 

A New York, durante quell’anno, avevo lavorato come cameriera: la paga non era male, ma l’affitto stellare di quel tugurio che spacciavo per appartamento prosciugava quasi tutte le mie entrate. In più, stavo cercando di saldare il debito universitario, di cui certamente non avrei permesso a mia nonna di farsi carico. E quando ad ottobre il locale aveva operato tagli consistenti al personale, sempre per colpa di quel marcato in crollo, io mi ero ritrovata senza lavoro, con le rate del prestito da saldare ed un rifiutato, pesantissimo manoscritto di cinquecento pagine nello zaino. 

Riuscivo già ad intravedere la mia lapide: Caroline Forbes, zitella con sei gatti e scrittrice mancata. Che riposi in pace. E tutta Peaceful avrebbe gorgogliato: Amen

Fortunatamente, parte di quel viaggio in autobus ebbe luogo di notte; sognai sensi di colpa e struzzi con la testa sotto la sabbia umidissima della spiaggia che costeggiava Peaceful. Poi, alle otto e trenta del mattino, dopo una serie di fermate intermedie nelle città più popolose del New Hampshire che svuotarono l’autobus, arrivai a destinazione. Riconobbi i colori che amavo, il profumo di salsedine e di freddo, le prime case dai tetti con le assi di legno bianche e dalle verande spaziose e accoglienti e dai giardini curatissimi. Riconobbi la tranquillità eterna e irreale che cullava l’aria di Peaceful, e l’asfalto lucido di pioggia. Infine, quando il conducente aprì le porte, riconobbi mia nonna. 

Scesi i pochi scalini di metallo, trascinandomi sotto il peso di borse e valigia. Mi sembrò che la nonna si fosse vestita come il giorno della partenza. 

« Tesoro! Come stai? Vieni, andiamo. Devi avere fame, sei così spropositatamente magra. Ma a New York hanno il cibo? »

« Ciao, nonna. Sì, a New York hanno il cibo ».

« Ne dubito, guardati. Ah! Dobbiamo subito rimediare, Caroline. Ti cucino una bella torta di mele, eh? Ti va, tesoro? »

« Non ho molta fame, nonna. Magari domani ».

« Hai cenato ieri sera, giusto? » chiese. « Ho letto un articolo su TheDream, qualche settimana fa, sulle donne di New York. L’ottanta percento, c’era scritto, mangia insalata. Insalata, capisci? Per pranzo, un’insalata. Tu mangiavi insalata, Caroline? »

« Cosa? Non lo so, nonna; qualche volta, forse. Non credi che dovremmo parlare del fatto che abbia fallito con la storia del romanzo? »

« Fallito, fallito! Che parola inutile. Te l’hanno insegnata a New York, scommetto. Ah, ma ora ti cucino una torta di mele di quelle che fanno invidia alla signora Perkins. E la smetterai all’istante di mangiare insalata. Sei depressa, tesoro? »

Eravamo ormai arrivate alla sua automobile. Caricammo la valigia e le borse nel bagagliaio, ci sedemmo e lei mise in moto, senza partire.

« Sei depressa, Caroline? »

Appoggiai la fronte al vetro gelido del finestrino e chiusi gli occhi. Ero depressa? Non ancora, forse; ma lo sarei divenuta presto. Sentivo la tristezza adombrare pian piano tutti i colori della mia vita. « Ho solo sonno ». 

« Scommetto che a New York non avevi un buon materasso. Vero? I materassi sono enormemente importanti per il rendimento giornaliero ».

« Nonna… perché non partiamo? »

Lei mi appoggiò una mano sulla spalla. « Credevo che volessi piangere. Con tutta quell’aria da patibolo che hai messo su ». 

« Aria da patibolo? »

« Ma sì, ma sì. Tesoro, vuoi piangere? Se vuoi piangere lo sai che non devi farti problemi ». 

« Non voglio piangere! »

Sorridendo, mia nonna mise finalmente in moto. Imboccammo la strada principale che attraversava Peaceful, dirette al limitare ovest della città. 

« Ancora non capisco come tu possa aver mangiato solo insalata. Avrai perso cinque chili, Caroline, a dire poco. Cinque! Ma adesso lo so io, cosa fare… »

Quando incrociammo l’auto dell’unico meccanico in città, l’uomo aprì il finestrino e mi fece un gran sorriso. Iniziai a sospettare che la nonna avesse istruito tutti su come rapportarsi a me dopo il fallimento. Dopotutto, quel meccanico non mi aveva mai sorriso da che vivevo a Peaceful. 

A riprova dei sospetti, la vidi lanciarmi un’occhiata. Controllava che avessi abboccato? Dovevo avere un’aria davvero annichilita, perché lei tornò a guardare la strada gonfiandosi come uno stratega il cui mirabolante piano è andato in porto.

« In città è arrivato un così bel ragazzo, Caroline… » partì all’attacco, mentre io mi chiedevo quale, tra gli abitanti della spensierata Peaceful catechizzati da mia nonna, sarebbe stato il primo a tradire i suoi comandi sbattendomi in faccia l’amara verità.

L’eterno ritorno sarebbe cominciato presto.

 

*

 

In due settimane diedi vita alla mia nuova routine: svegliarsi alle sette e trenta, caffè e tre fette di torta di mele, chiacchierare con la nonna fino alle otto e quindici, riordinare la casa e poi cedere completamente al torpore che avvolgeva il mio corpo e che, giudicai dalla totale incapacità di reagire che dimostravo, necessitava di essere soddisfatto. In parole povere, guardavo la televisione e ascoltavo musica, spesso dormendo. Ero stanca e totalmente confinata nel coma che mi stordiva dal viaggio di ritorno. Non avevo neppure voglia di lavarmi i denti o di pettinarmi, figuriamoci di indossare qualcosa di diverso dal pigiama. Dopotutto, non vi era stata occasione di mettere piede fuori casa.  

Svuotando la valigia, avevo nascosto tutto ciò che avrebbe potuto ricordarmi New York: il computer, il manoscritto, i vestiti che avevo acquistato per tirarmi su di morale, i libri letti negli ultimi mesi. Durante il giorno cercavo con tutta me stessa di non pensare; ebbi talvolta un discreto successo, grazie alla nuova modalità stand-by acquisita dal mio cervello. 

Capii presto di essermi portata l’insonnia da New York, legata a filo doppio con le mie delusioni; la notte, le energie accumulate durante il giorno scoppiavano come fuochi d’artificio mandando a tutto gas i motori intorpiditi dei miei neuroni, che partivano ai cento all’ora verso un’autostrada impolverata di sensi di colpa e attacchi di panico. Di questi ultimi soffrivo ormai da due anni; andavano e venivano, talvolta lasciandomi incolume per mesi interi. Ma non rimasi stupita quando, alle tre di notte del decimo giorno, il cuore mi salì in gola ed iniziai a tremare, impregnando le lenzuola di sudore. La certezza che avevo coltivato in quei giorni, ovvero che la mia vita si sarebbe protesa lenta e insoddisfacente fino alla morte più triste che fossi riuscita ad immaginare - seguita dal funerale più mediocre mai organizzato a Peaceful -, scoppiò come un geyser nel cuore della notte, inondando tutto il mio corpo con la certezza che quella morte sarebbe avvenuta ora. 

Sopravvivere agli attacchi era un sollievo - ma la mattina, se cercavo di chiedermi perché, non trovavo risposte convincenti. Sentivo d’essere addormentata come il panorama che scorgevo dal vetro azzurrino della finestra: la terra intirizzita, infruttuosa, ricoperta di neve. Ero diventata la crescita interrotta degli alberi, gli animali in letargo, il mare così nero da credere impossibile che dentro vi fosse vita. 

Il quattordicesimo giorno lessi la bolletta della luce, dimenticata da mia nonna sul tavolo della cucina. Capii di dovermi trovare un nuovo lavoro: questo significava che avrei dovuto mettere il naso fuori casa e vedere gente, rispondere alle domande dei molti che mi conoscevano, fissarli negli occhi mentre parlavo. Avevo lavorato per Pilgram, l’unico libraio della città, ma scartai subito l’idea. Decisi di provare da Patty&Sue’s, la tavola calda più nota di Peaceful. A New York avevo capito che servire ai tavoli di un locale non lascia molte possibilità di perdersi in riflessioni e, magari, sgobbare mi avrebbe liberata un po’ dall’insonnia.

Questo riuscì a conferirmi una scintilla di energia: lavata e vestita, provai un discorso allo specchio - indugiando peraltro poco sulla parola fallimento - e dissi alla nonna che sarei andata in centro a piedi. 

« Ma fuori si gela, Caroline. Lascia che ti dia un passaggio. Non vorrai ammalarti ».

Ero entusiasta di poter prendere una decisione dopo quindici giorni di stato vegetativo. « Vedi » sventolai un giaccone, « con questo non sentirò freddo ». 

Lei storse il naso; per un attimo temetti che stesse per chiedermi di nuovo se ero depressa. O se volessi suicidarmi alle sette e trenta del mattino, a Peaceful, New Hampshire, rovinando per sempre l’immacolata reputazione degli autoctoni.

« Dove vuoi andare? »

« Da Patty&Sue’s ».

I suoi occhi si illuminarono. « Hai un appuntamento? Così presto? »

« No… » Ci misi un po’ a capire. « No, non ho nessun appuntamento. Vado per un lavoro ».

« Sai che non devi mentirmi, tesoro. Se hai conosciuto uno di quegli uomini che la mattina presto… »

« Mio dio, nonna. E’ una tavola calda, non un motel ».

« Suvvia, non scandalizzarti. Alla tua età ero già fidanzata con tuo nonno e tu sei una splendida ventitreenne. Lui com’é? »

« Chi? »

« L’uomo, Caroline, l’uomo. Sono passati anni dall’ultima volta in cui Matt Donovan è entrato in casa nostra. Che ragazzo educato! Ti ricordi? Chiedeva sempre “permesso”. Molti pensavano fosse gay. Ci portava ogni domenica dei dolci buonissimi… li faceva sua madre, ovviamente, ma che gentile! »

« Avevamo sedici anni, nonna » dissi. « Come fai a ricordartelo? …no, non importa. Non parlarmi di Matt Donovan ».

La sentii sbuffare mentre imboccavo la porta di casa. 

« Ah, certo che non te ne parlo! Si è sposato, Caroline. Con quella Mandy, la figlia del macellaio. Hanno avuto un bambino. Sai com’è, quando ti sposi incinta… non era poi così gay come si pensava, evidentemente. Aspetta, devo chiederti un’ultima cosa ». 

La nonna abbassò la voce, facendo segno di avvicinarmi.

« Non è che per caso non ti piacciono gli uomini? Ho letto che è tremendamente modaiolo fare outing a New York. Hai fatto outing, tesoro? Sai che puoi dirmelo. O forse ti è capitato al college? Lì si fanno certe esperienze! Sei diventata lesbica al college, Caroline? »

 

*

 

Patty&Sue’s era un locale dalla facciata azzurra, luminosa, con le tendine alle finestre e gli infissi color ostrica. Riproponeva l’eleganza delle tavole calde nelle località vacanziere e d’estate, quando i turisti invadevano Peaceful, era motivo di vanto per le proprietarie: due donne di quarant’anni, figlie delle fondatrici originarie. Le conoscevo da sempre. Quando entrai infreddolita alle otto precise, il locale era già colmo di chi si affrettava a consumare la prima colazione. C’era odore di pancakes, di burro e di bacon. Tutti stavano parlando, tutti si sorridevano a modo loro. La televisione nell’angolo annunciava i centimetri di neve che sarebbero caduti quel giorno e di cui nessuno si sarebbe stupito. Il fatto che Peaceful si fosse concentrata in una stanza - l’agitazione mattutina allegra e non esagerata, l’abitudine tranquillizzante del quotidiano - fece apparire la mia entrata più definitiva e importante di quanto avessi previsto: eccolo, l’eterno ritorno!

« Forbes… ma sei tu? »

Una ragazza paffuta sedeva al tavolo più vicino alla porta. Eravamo state amiche al liceo. Mi chiese se fossi tornata per trascorrere le vacanze a casa. 

« No, mi sto prendendo una pausa ».

Fortunatamente lei non indagò oltre. Una mezza bugia, come inizio, non era poi così male, concordai con me stessa; se qualcuno si fosse davvero interessato a me, non avrei esitato a pronunciare la parola fallimento. Ma contavo che Peaceful ci sarebbe arrivata da sola, quando non mi avesse vista prendere nuovamente il largo.

La fretta che avevano tutti di prima mattina fu dalla mia parte: i saluti si sbrigarono brevemente, le banalità si dissolsero nel profumo della colazione. Cinque minuti dopo ero davanti a Patty. 

« Quindi, vuoi un lavoro ». 

« Sì ».

« Ma in tutti questi anni non hai mai lavorato qui, Caroline. Neppure alle feste di Natale o ai matrimoni. Sei certa che sia adatto a te? »

Mi strinsi nelle spalle. 

« Ho già svolto un’impiego come cameriera di ristorante ». Non specificai volutamente dove e quando. « Qui non può essere molto diverso… »

Patty arricciò la punta del naso e parte del volto floscio, sistemandosi gli occhiali dalla montatura rossa. Sembrava così sicura di sé infagottata nell’uniforme da titolare.

« Caroline, tesoro. Sai che apprezzo la sincerità e che non amo perdermi in fronzoli ». Mi fece segno di aspettare un minuto. Una ragazzina ci passò di fianco reggendo un vassoio. « Per la miseria, Amber, non vedi che il caffè trabocca dalla tazza? » Tale Amber ci fissò terrorizzata. « Una figlia miope mi dovevano dare. Vai a sistemare, stupida! » Patty si stirò l’uniforme con due manate. « Non credo che questo lavoro sia adatto a te, Caroline ». 

« Perché? Voglio dire… » Il cuore iniziò a corrermi dal petto alla gola. « C’è qualcosa che non va? »

Lei smise di guardarmi in faccia. « Insomma, lo sai, tesoro ». 

« No, invece ». 

« Ma sì, ma sì. Sei una scrittrice, no? Con la testa tra le nuvole e tutto il resto ». Avrei voluto chiederle quando, di preciso, avesse diagnosticato la mia presunta incapacità di concentrazione e in cosa consistesse tutto quel resto di cui non sapevo di essere colpevole. « Noi » (lei e Sue? Il locale? I clienti? Tutta Peaceful? Sul momento non trovai risposta), « non facciamo per te, tesoro ». 

Boccheggiai, realizzando subito di essere totalmente impreparata a quel genere di rifiuto. Dio!, tutto si ripeteva. E a Peaceful! Come avrei potuto dirlo alla nonna? Con cosa avrei pagato le bollette e le rate del prestito? 

« Oltre a ciò, ho da poco assunto Vicky Donovan. Hai presente, no? La sorella di Matt. Voi due uscivate insieme secoli fa, se ben mi ricordo ». Patty indicò con un’occhiata il salone, in cui le cameriere - ne contai quattro - sfrecciavano da un tavolo all’altro. « Come vedi, siamo al completo ».

In un flash mi passò davanti il misero curriculum lavorativo che l’anno precedente avevo stilato: decine di mani diverse avevano scritto, le une sopra le altre e coprendo l’intero foglio, la sigla fallimento. I miei genitori, per primi, a seguire Matt Donovan ed il genere maschile, le case editrici, il ristorante. Ed ora Patty.

« Caroline, tesoro! Non c’è bisogno che tu ti metta a piangere ». 

Notando l’espressione stupita di Patty, che si era illuminata come il cielo la notte di capodanno, mi accorsi di avere gli occhi lucidi. 

« Grazie lo stesso » esclamai, girandomi e scappando dal locale.

 

*

 

« Non potrei pagarti più di trecento dollari al mese, Caroline. Sei così disperata? » domandò Pilgram. 

Ci eravamo incontrati in Sunrise Road, la strada di Peaceful occupata prevalentemente da negozi, bar e saloni di bellezza. Mentre mi allontanavo dalla tavola calda di Patty, avevo pensato di entrare e tingermi i capelli, o di comprare il costosissimo vestito esposto nell’elegante vetrina di una boutique. Faceva molto “o tutto o niente” spendere soldi quando si è stati liquidati. 

La nipote di Pilgram avrebbe compiuto quindici anni la settimana successiva e l’anziano libraio, come mi disse quando l’incrociai per strada, era alla disperata ricerca di un regalo adeguato. Sembrava felice di vedermi (benché con Pilgram non si potessero mai pronunciare con certezza frasi simili: i suoi occhi azzurri, vividi seppur miopi, davano l’idea che vi fosse uno specchio ribaltato tra ciò che pensava e ciò che lasciava intendere).

« Scommetto che hai già provato da Patty&Sue’s » sorrise, guardandomi da sopra gli occhiali dalla montatura dorata. « Ah, quindi sono solo una seconda scelta ».

« Dubito che tu possa avere bisogno di me, in libreria… cioè, so che non hai bisogno di me. Dio, fa come se non te l’avessi mai chiesto. Trecento dollari non mi basterebbero mai ».

Lui scosse la testa e guardò il soffitto. Chiacchierando, eravamo entrati in un caffè. Aveva detto di voler offrire. Sembrava che sapesse già molto di New York (forse per intuizione, forse grazie alla nonna) e non si era alterato quando gli avevo francamente domandato se sarebbe stato disposto ad assumermi di nuovo. 

« Caroline, Caroline » cantilenò. « Sappiamo entrambi che è un lavoro da liceali. Certo, un lavoro che tu eri molto brava a svolgere ». 

« Quando non rubavo i libri ».

« Vero. Ma ne avevi… com’era? Un disperato bisogno… » Appoggiò il cucchiaino nella tazza ormai vuota. Mi guardò serissimo. « Sei sempre stata bisognosa ».

« Che vorresti dire? »

« Quello che ho detto ». Ridacchiò. « Come un cagnolino, o un gattino. Bisognosa…» 

« E’ la cosa più orribile che tu mi abbia mai detto ».

Si alzò in piedi ed io lo seguii. Quando fummo usciti dal caffè, uno di fronte all’altra sul marciapiede umido di neve, Pilgram mi strinse la mano. 

« Purtroppo, il mondo è fatto di cose orribili. La vita è orribile. Invecchiare con i propri ricordi è orribile. Essere traditi, denigrati, dimenticati, sorpassati. Fa tutto parte dell’orribile, Caroline. Mia nipote compie quindici anni e sua madre mi ha pregato di non regalarle un libro. Orribile ». Sospirò. « Tutto è di per sé orribile. Non è per questo che scriviamo? »

Per la prima volta, sospettai che anche quel vecchio ingrigito e un po’ gobbo fosse stato giovane; possibile che avesse scritto o, non ci avevo mai pensato, che ancora scrivesse? Lo immaginai nascondere centinaia di fogli fitti d’inchiostro nella cassaforte della libreria, proprio dietro allo scaffale - lo sapevo - dei bestseller americani degli ultimi anni. 

« Orribile ».

« Solo quando ci pensi » commentò Pilgram, girandosi ed andando via. Lo sentii ridere come un uomo spensierato. Fu terribile.

 

*

 

Cercai di non abbattermi più del necessario. Come disse la nonna quella sera, Patty era una signora di facili costumi probabilmente analfabeta. Il marito l’aveva abbandonata dopo due anni di matrimonio, scappando (si era poi scoperto) con degli amici sul retro di camion diretto in Messico. La vita era stata sufficientemente meschina con lei da liquidare ogni risentimento. 

Giudicando la mia anima ormai salva dall’odio - era, a detta di tutti, molto importante che a Peaceful le persone non si odiassero -, il giorno seguente la nonna invitò a pranzo Sam Sornoby, cinquantenne a capo delle risorse umane dell’unico studio legale in città. L’argomento lavorativo fece la sua comparsa sapientemente condita e studiata dalla nonna tra l’arrosto e le patate. Sam Sornoby venne ingrassato come i tacchini nel periodo antecedente al Ringraziamento e, alla fine, abbattuto dall’ultima cucchiaiata di dolce. Con l’occhio un po’ smorto di chi vorrebbe concedersi una lunga dormita, mi chiese che facessi al momento. Risposi: « niente ». La nonna aggiunse: « si è fatta venire in mente di voler lavorare! ». Sam Sornoby fanticò ad alzarsi; i bottoni della camicia turchese tremavano. 

Disse: « Ah, i giovani ».

Mi ricordai che il suo unico figlio si era arruolato l’anno precedente nei Navy SEAL e ciò fu sufficiente a bloccarmi la digestione e a desiderare che Sam Sornoby si dimenticasse per sempre di quel pranzo. 

Quando era ormai alla porta, Sam Sornoby mi consigliò di mandare in ufficio il mio curriculum. 

« Ecco, è qui » disse la nonna. 

« Bene, bene, bene… » 

« Dice che può andare? »

« Certo. Non deve fare granché. Fotocopie, roba simile ». Gli scappò un basso rutto che cercò di mascherare. « Ti chiamo domani, Caroline ».

Tre giorni dopo iniziai a lavorare come segretaria. 

La mia vita era ufficialmente finita.

 

*

 

Nei trecento giorni che seguirono feci esattamente tre cose: fotocopiare, mangiare merendine e scrivere. Intascavo una modesta somma di denaro, che fu però sufficiente ad estinguere più di tre quarti del prestito. La stabilità che ne derivò e che avrebbe dovuto spingermi verso orizzonti più rosei, riuscì a confinarmi in un placido angolo di universo fatto di tranquilla apatia. Con calma iniziai ad ingrassare, fortunatamente senza mai raggiungere il modello governante; ero diventata dipendente dal cioccolato. Guardando le altre segretarie dello studio, capii però che era un vizio comune che ognuna di loro rintanava in un cassetto della scrivania. 

Gli attacchi di panico si diradarono, purtroppo lasciandosi dietro l’insonnia. Ad un certo punto di una imprecisata notte recuperai il computer e aprii un nuovo file. Le parole uscirono rapide, benché secche e dure come cortecce di alberi morti. Abbandonai ogni aggettivo di troppo, ogni genere di condimento. Raccontai di un cieco che scappa dal nord del mondo perché non può più sopportare la gentilezza di chi, guardando l’aurora boreale, tenta di descriverla; e di una donna ricchissima schiava della propria infanzia vissuta in una povertà di cui i genitori le dicevano di andare fiera. Immagino che raccontai di me quando narrai l’amicizia tra una giovane ragazza ed un uomo che nessuno, a parte lei, è in grado di vedere. La mia anima, la parte più profonda della mia anima, si chiedeva la ragazza ogni mattina, è destinata a rimanere appannata, silente, infinitamente intrappolata qui dentro? 

Storie brevi, senza finale. Un modesto risultato che giudicavo inutile, non utilizzabile, da liceale. Che amarezza! Che delusione ero diventata! Tutta quell’assenza di sogni, di orizzonti, ed un’àncora arrugginita ben affondata nella sabbia a tenermi ferma, in apnea sott’acqua. 

Era tornato l’inverno. Durante l’anno avevo recuperato qualche amicizia, benché la maggior parte avesse lasciato Peaceful (troppo tranquilla, civilizzata, omogenea, circondata dalla natura e dai pregiudizi della gente di paese, con i prati tagliati all’altezza giusta - non favorevole all’ispirazione, alla frenesia giovanile, allo sballo alcolico da Beat Generation). Camminando sulla spiaggia grigia, sempre umidissima in quella stagione, tentavo di soffocare ogni reflusso d’infelicità. Mi sarei adeguata a Peaceful. Magari domani, o il giorno dopo; tra un anno o due, nella peggiore delle ipotesi. Come mia nonna, e sua madre prima di lei; come il vecchio Pilgram. Mi si stava chiedendo solo di sopportare. Ci sarei riuscita, giusto? A ridimensionarmi, a diventare come tutti gli altri spensierati cittadini ridenti, soddisfatti, lavoratori agiati, che vedevano nei propri sogni giovanili un ricordo buffo, un’assurdità che…

Peaceful mi depurerà, pensai. Un vento freddo e sferzate mi graffiava le guance, mentre sprofondavo i piedi nudi nella sabbia gelida. A qualche centinaio di metri da me, tre uomini stavano ormeggiando un piccolo peschereccio all’estremità del pontile. L’alba non si era vista quel giorno, e la nebbia colorava tutto di un bianco lattiginoso. Mi sembrò un miraggio. Eppure, eccoli là! Pescatori, marinai semplicissimi. Dovevano essere felici, qualche volta. Per forza. Si erano abituati, loro

Uno lanciò due funi ai compagni scesi a terra. Assicurarono il peschereccio. Le corde, le boe e persino la vernice della barca mi sembrarono ricoperti di brina. Rimasi ferma a fissarli, incurante che mi potessero notare. Probabilmente li conoscevo. Eravamo tutti gente comune, gente di Peaceful. Dopo una decina di minuti li vidi percorrere il pontile, poi risalire la spiaggia, verso la città. Trascinavano del pesce in due grosse reti. Dissi “Buongiorno” quando mi raggiunsero, ma non udii risposta; dovevano essere sordi per la stanchezza della notte trascorsa in mare. Proseguirono.

« Buongiorno ».

Una persona stava camminando verso di me. Un uomo, a giudicare dalla voce. 

« Buongiorno » ripeté, quando mi raggiunse. 

« Buongiorno ». 

« Ma non ha freddo ai piedi? »

« Un po’ ».

« Già. Mi scusi, non volevo spaventarla ». 

Negai con la testa. Non ero spaventata. 

« Lei è di qui? »

« Di Peaceful? Sì, certo ». 

Indossava un giaccone lucido, imbottito, con il cappuccio a proteggerlo dalle folate di vento, ed un passamontagna rosso sportivo che lasciava scoperta una parte del naso, gli occhi. Un ciuffo di capelli. 

« Posso aiutarla in qualche modo? »

« Sì, lo spero. Sono arrivato stamattina… » 

« Oh ». Mi sforzai di sorridere. « Non capita molto spesso, in questa stagione… »  

« Che arrivi qualcuno? »

« Già ». 

Parve soppesare l’informazione, guardando il panorama. Deglutii, infilai le mani in tasca e mi dondolai sulle piante dei piedi mentre mi osservava. Fu un esame rapido. 

« Devo raggiungere… » Estrasse il cellulare da una tasca del giaccone. « Concorde Road, numero otto. Ma il mio navigatore pare essere inutilizzabile. E il telefono… »

« Non sempre c’è internet, qui ». 

« Sta scherzando? »

« No, no. Magari. Purtroppo capita. Assurdo, eh? »

« … » 

« Comunque. Per Concorde Road deve proseguire lungo la costa, da quella parte, poi prendere la prima a sinistra e raggiungere Market Street… e… sì, poi giri vicino alla chiesa e vada avanti finché… saranno cinquecento metri, al massimo. Finché sulla destra non incrocia un ferramenta dalla facciata rossa. Imbocchi quella strada e… mmm ».

« Ha qualche dubbio? »

« Sì, mi dispiace. Non ricordo se a quel punto si debba svoltare a destra o a sinistra. Scusi. Ha davvero interpellato la persona meno adatta a fornire indicazioni. Ma, per quanto riguarda il resto, può tranquillizzarsi, credo sia corretto ». 

« … »

« Troverà qualcuno a cui chiedere, a quel punto. Ne sono sicura. Peaceful pullula di persone cordiali, che non aspettano altro se non l’ora di poter aiutare uno sconosciuto smarritosi in città… mio dio, mi scusi. Però è la verità ».

« Lei è una ragazza sardonica, vedo » ridacchiò.

« Sarcastica ».

« No, no. Sardonica. Ha presente? »

Accusai la sua sicurezza come si accusano le sorprese. 

« Ho presente, sì. Forse ha ragione lei. Sardonica ».

« … »

« Non che mi piaccia, come aggettivo ». 

« Ah, no? »

« No ».

Non gli vedevo davvero la bocca, ma il contorno, l’ombra e la carne delle labbra erano lasciati intuire dal sottile passamontagna rosso. Mi stupii scoprendo che le parole non vi uscivano ovattate, bensì forti e piene.

Mi chinai ad infilare le scarpe, osservandolo di sfuggita mentre controllava il telefono. La conversazione era giunta al termine ed io sentivo il bisogno di tornarmene a casa. 

« Perché è qui così presto? »

« Come, scusi? »

« In spiaggia, la domenica mattina. Sono appena le sette. Non mi sembra in tenuta sportiva ». 

« Ma senti un po’… » 

« Non volevo dire che non ha il fisico da sportiva ». 

« Meditavo. Sì, stavo meditando. Intensamente ». 

« Ecco spiegati i piedi nudi ».

« Poi è arrivato lei e… » Feci un gesto con le mani, mimando una bomba che esplode. « Addio trascendenza ». 

« Sta scherzando. Bene. Mi era sembrata così seria ».

« … »

« Mentre guardava i pescatori. Stavo solo cercando di capire se era una persona o una statua » disse. « Non volevo spiarla ». 

« Ah ».

Mi strinsi nella giacca. La conversazione che stava portando avanti e che sembrava tentare di avermi come oggetto mi disturbava - mi imbarazzava - più di quanto avessi desiderio di fargli notare. Sperai che se ne andasse. Volevo essere lasciata in pace. Le chiacchiere con uno sconosciuto non si adattavano affatto, non si mischiavano minimamente, erano olio con acqua; quindi dissi:

« Spero che trovi la strada. Ora devo tornare a casa, è stato… »

« Sì, certo. Grazie dell’informazione » mi salutò. 

Mentre lo sentivo allontanarsi in direzione del parcheggio asfaltato retrostante la spiaggia, fui tentata di spiarlo. Mi ero ridotta ad osservare la vita da lontano! Un’incapace, inabile, inadatta. Eppure, mi voltai.

L’uomo si stava effettivamente dirigendo verso il parcheggio e manteneva un’andatura cadenzata tra la camminata e lo scatto. Sembrava uno sportivo, sì. Un’auto nera metallizzata era tutto ciò che riuscivo ad intravedere. Riluceva nonostante l’assenza di sole. Poi, mentre scompariva con lui all’interno lenta e silenziosa, svoltando lungo la costa, intravidi il bagagliaio al di là del vetro: vuoto, nessuna valigia in vista. Chissà cos’era mai venuto a fare, in gennaio, a Peaceful.

Inventando improbabili ragioni e conclusioni come da mia abitudine, percorsi la spiaggia per la sua placida e morbida lunghezza, diretta verso casa.

 

*

 

« Nonna, sono qui. Hai già fatto colazione? »

Mi sfilai le scarpe, ricercando con le piante dei piedi il calore del riscaldamento che intiepidiva il pavimento dell’intera casa. Sentii la televisione mormorare. C’è puzza di fumo, pensai.  

« Nonna? »

« Oh, Caroline, sei qui! Finalmente, stavo per mandare qualcuno a cercarti… »

Una brace ormai morta, ingrigita e fumosa, giaceva abbandonata a spegnersi nel caminetto. 

« Hai lasciato che il fuoco… »

Non ci fu risposta, se non uno “shh”. La nonna sembrava mummificata su di una sedia in cucina; di rado permetteva che la televisione la ipnotizzasse. 

«…Sono evasi ieri sera dal carcere di… Successivamente ad una forte esplosione che ha investito l’edificio centrale… La stima dei latitanti è ancora da confermarsi… Informiamo tutti i cittadini della massima pericolosità di alcuni tra questi individui e chiediamo collaborazione… Le unità di tutto il Paese sono state avvertite e sono pronte ad intervenire… Purtroppo, si crede che la maggior parte abbia già lasciato lo Stato… Si stanno monitorando le frontiere con il Canada… Non indugiare nel caso… Chiamare il numero… Ogni informazione in vostro possesso potrebbe rivelarsi utile…»

Il volto truccato della conduttrice sfumò nello schermo, mentre la telecamera si lanciava ad inquadrare decine e decine di primi piani, alcuni in bianco e nero. Uomini, ragazzi, vecchi, poche donne; di fronte, di profilo. Con quei cartelli.

«…Le fotografie segnaletiche sono disponibili sul sito internet… Le trasmetteremo nuovamente ad ogni servizio… Un evento senza precedenti…»

« Nonna. Ma cosa…? Mio dio. Dove… qui? »

« No, vicino a Boston ».

Si crede che la maggior parte abbia già lasciato lo Stato… 

Il Massachusetts, realizzai. Mi appoggiai al tavolo, incapace di commentare, i pensieri sfilacciati ma elettrici. Quante miglia tra Boston e…? 

Un evento senza precedenti… 

« Quanti… quanti sono? »

« Non lo hanno ancora comunicato con certezza. Pensano intorno al centinaio, Caroline ».

La brace del camino sparse l’ultima, calligrafica linea di fumo. Infine si spense e la cucina, l’intera casa, Peaceful tutta fu percorsa da un brivido ghiacciato.

«…Si tratta della più ingente evasione di massa nella storia degli Stati Uniti d’America…» ci informò la voce fuori campo della conduttrice.

Guardai la nonna afferrare il telecomando e spegnere il vecchio televisore, che emise un suono acuto, squittendo.

« Moriremo tutti » commentò.

 

*

 

Il mattino seguente mi fu possibile constatare quanto, per tutta la vita, avessi in realtà sottovalutato la pacifica cittadina in cui vivevo, che si stava di colpo rivelando un più che preparato centro di addestramento militare - quasi pensai di tornare a New York. In poche ore si organizzarono pattuglie, scorte, raccolte di fondi per finanziare pattuglie e scorte, e veglie (il cui senso e utilità sfuggivano proprio a tutti, ma a cui nessuno si mostrò meno che ben disposto a prendere parte), mentre nell’aria friggeva costantemente la futuristica domanda: sono già tra noi?

« Un branco di deficienti ».

« Caroline » disse Pilgram, da sopra la propria tazza di caffè. « Parla a bassa voce. Nutro il sospetto che siano perfettamente in grado di organizzare un rastrellamento… »

« Non ridere. Mia nonna è a casa che cucina torte di mele, come se burro e zucchero potessero fermare un’orda di criminali. Cristo ».

Il vecchio Pilgram, seduto al bancone del bar, scrutò attentamente la sala gremita alle sue spalle. 

« Stanno organizzando una marcia ». 

« Perché sembri così entusiasta? Patty sta… aspetta. Ha appena citato Ufficiale e Gentiluomo? Non posso crederci ».

Pilgram alzò le spalle, quasi giovialmente. 

« Capisco » dissi. « Io ne ho abbastanza. Telefonami se iniziano a imbracciare torce e forconi ».

Smontai dallo sgabello e mi diressi alla cassa. Due minuti dopo, finalmente lontana dal caos locale, respirai l’aria pulita dell’esterno. C’era ancora molta neve sui marciapiedi asfaltati ed il freddo penetrava frizzante nel cappotto. Iniziai a camminare, scoprendo Peaceful simile ad una città fantasma. Ogni attività era stata sospesa e chi non stava palesemente perdendo la ragione nei luoghi di ritrovo sembrava essersi rintanato in casa. Senza accorgermene, iniziai ad imitare il divertito sorriso di Pilgram.

Proseguii per circa due miglia, scrutando le saracinesche abbassate dei negozi vuoti. C’era una pace. A Peaceful non si superano i seimila abitanti, eppure, come è ovvio, avevo trovato molta più tranquillità la mattina presto in certi vicoli stretti e sgombri di New York. Iniziai a giocare con l’idea che a Peaceful, dopotutto, la gente avesse paura del silenzio. 

« Lei sta rischiando la vita ».

« Ma che… » Tra i bidoni argentati che ingombravano il lato destro del supermercato cittadino, un uomo, in piedi, sembrava pacificamente intento a fumare. Ci separavano pochi metri d’asfalto bagnato.

« Non si ricorda? » disse. « Devo presumere che sardonica non sia l’unico aggettivo in grado di definirla, dunque ».

« Oh… buongiorno ».

Fu lui a raggiungermi. 

« Credevo di essere sola ». 

« Dove sono tutti? »

« A blaterare di marce, rastrellamenti e ronde. Sa com’è ». 

L’uomo arricciò il naso, lanciando una rapida occhiata alla strada deserta. Del passamontagna rosso non c’era più traccia, per cui mi attardai ad osservargli il volto. Scoprii che non aveva il genere di viso, tratti somatici e tutto il resto, che capita talvolta d’incontrare alla fermata di un autobus, in coda alle Poste o che so io. 

« Come sta? » esordii.

« Bene ». 

« Presumo che abbia trovato Concorde Road, alla fine… » 

Non ero esageratamente felice di averlo rincontrato. La mia voce suonava più entusiasta e scherzosa di quanto avrei voluto. Cercai di dare un senso a quella conversazione; lui non doveva conoscere quasi nessuno, in città, dopotutto.

« È stato più facile di quanto pensassi. Non è un tale disastro come crede, nel dare indicazioni ». Si portò la sigaretta alle labbra. Aspirò a lungo, gustandosi quel veleno come si gustano le caramelle. « E lei, mi dica, perché non è al sicuro a casa? »

« Non crederà veramente che cento detenuti si stiano dirigendo qui! » 

Ridacchiò. Aveva un modo naturalmente inaspettato di farlo.

« Potrebbero essere già arrivati. Qualcuno, se non altro ». 

« A Peaceful? »

« Perché no? Dopotutto è una città sull’oceano ». 

« Solo un pazzo potrebbe sperare di attraversare l’oceano in pieno inverno, con le barche che abbiamo a disposizione. E » dissi, interrompendo le sue rimostranze « le coste, se non sbaglio, sono controllate… »

Annuì, poi mi guardò negli occhi. I suoi erano chiari e privi della minima traccia di sangue nella sclera bianchissima. Ebbi l’intuizione che volesse giocare.

« Quindi, secondo lei li prenderanno tutti ». 

« Lo spero. Devono farlo. È gente ignobile ».

« La maggior parte » disse. Gettò in un bidone argentato la sigaretta, poi ne estrasse un’altra dalla tasca esterna del giaccone. « Vuole? »

« No, no ».

« Mmm… »

« Cosa? »

« Nulla » asserì. « I giudizi morali e i suoi occhi ».

« Che vorrebbe dire? »

« Non si offenda, avanti ».

Scossi la testa. « Non mi piace fumare, tutto qua… »

« … »

« In verità, ho intenzione di morire senza aver mai preso in bocca una sigaretta ».

L’uomo parve colpito, ma non come avrei voluto. Non sorrise né niente.

« Rimarrà tanto a Peaceful? »

« Un paio di settimane ».

Lo guardai rimettere la sigaretta nel pacchetto. Sembrava pensieroso.

« Sono qui per lavoro ».

« Capisco… »

Aspettai che esplicitasse che “genere” di lavoro come tutti si mostrano sempre ben contenti di fare, ma l’attesa si dimostrò infruttuosa e precipitò la conversazione in una voragine gelida. Sorrisi, infilando le mani in tasca, pronta a lasciarlo tra i bidoni. Ero la prima a saper apprezzare la solitudine.

« Mi chiamo Klaus ».

« …come? »

« Klaus ».

« Oh! »

« Sta per dire che nome strano? »

« No, no. Cioè, un pochino… » 

« La vedo in difficoltà ». 

« … »

« Posso farle lo spelling, se preferisce… »

« È norvegese? Europeo? »

Lui mi squadrò.

« Sa, i lineamenti del suo viso… »

« I miei genitori » spiegò. « Ma io sono nato in America ».

« Capisco. Suona… interessante ».

Un ragazzino in bicicletta ci sfrecciò di fianco, incurante del ghiaccio lungo la strada. Lo seguiva un vento freddo. Avrà avuto tredici anni e sembrava divertirsi più di chiunque altro in quella insperata e anarchica solitudine. 

« Lei non ha intenzione di dirmi come si chiama, vedo ».

« Caroline » dissi, ma lentamente. Guardavo ancora il ragazzino, ormai una sagoma lontana e colorata.

« Caroline ».

« Caroline, sì… nome proprio di persona, femminile, singolare ».

« Sardonica come sempre ».

Sorrisi senza guardarlo, perché quel gioco iniziava a piacermi più di quanto desiderassi fargli notare.

« Ora devo andare » dissi, retrocedendo di un passo. 

« È stato un piacere ».

« Arrivederci, allora… »

« Arrivederci ».

Mi voltai decisa, lasciandolo alle spalle. Decisi improvvisamente di entrare nel supermercato e, per farlo, dovetti percorrere il lato destro dell’edificio, verso l’entrata sul davanti. Cercai di controllare l’andatura: non volevo mettermi a correre né procedere troppo lentamente o ingobbire le spalle. Santo cielo, pensai. Che ragazza di provincia! Eppure mi sentivo così leggera. Da quanto non succedeva? Cosa, poi, non avrei saputo dirlo.

Perdendomi in quei pensieri giocosi e di una consistenza che sapevo essere invisibile, non mi accorsi neppure della neve che, come spesso accade in quella stagione, senza preavviso era tornata a cadere. Uscii oltre le porte scorrevoli del supermercato deserto con un misero acquisto nella borsa di plastica: dentifricio.

Raggiunto il lato opposto e solitario della strada, voltandomi appena, cercandolo per la prima volta, infine lo trovai: là dove lo avevo lasciato, immobile tra i bidoni lucenti; le braccia così aperte, tese a sforzarsi di raccogliere il gelo e la neve nell’aria. Le palpebre chiuse, chiarissime, il volto quasi cristianamente rivolto al cielo nuvoloso - Klaus (che nome strano!), assurdamente, inspiegabilmente, silenziosamente rideva.





 

   
 
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