Frederick
Martin giurò solennemente di tenersi lontano dal mare per il
resto della sua
vita.
Era
sbarcato a Napoli e comunicare era stata una bella impresa,
perché lui
conosceva la lingua che sua madre, toscana, gli aveva insegnato, e
pareva che
in quella città parlassero in maniera assolutamente diversa;
tra l’altro tutti
parevano indaffarati e trovare qualcuno disposto ad ascoltarlo era
difficile. Qualcuno
gli si era avvicinato, per la verità, ma aveva pure tolto il
disturbo dopo aver
capito che quel pallido ragazzo non aveva soldi da spendere.
Era
il mese di agosto del 1870 e Fred non ricordava d’aver mai
avuto tanto caldo;
stanco, si sarebbe anche seduto così, per terra, ma
c’era troppa gente attorno
a lui e non riusciva a respirare. Dunque decise di allontanarsi un
po’ e
passeggiare, nella speranza d’incontrare un’anima
pia disposta a parlargli lentamente.
Camminava
da un quarto d’ora circa quando un uomo non troppo alto e
grassottello, che
poteva avere una quarantina d’anni, richiamò la
sua attenzione: si stava
affogando (con del vino, straordinariamente, ma Fred sapeva che spesso
i
liquidi erano più pericolosi dei cibi) e il ragazzo non
poté fare a meno di
avvicinarglisi anche se, in quel caso, non erano richieste
chissà quali
competenze: bastò assestargli delle potenti pacche sulla
schiena.
«Grazie,
guagliò.»
Fred,
che aveva capito solo il “grazie”, rispose con un
“prego”.
«Mò morivo, se non era
pe’ te! Mi hai
salvato!»
Fred
sorrise, sostenendo che l’affermazione fosse alquanto
esagerata, e si presentò.
L’uomo, che si chiamava Gianni, stabilì
però che quel nome straniero fosse troppo
complicato e prese a chiamare il ragazzo semplicemente
“Fred”.
«E
quindi sei venuto dall’Inghilterra!»
esclamò, cercando di parlare in maniera
comprensibile. «E bravo! E cerchi lavoro a Napoli?»
«No»
spiegò l’altro, «mi aspettano in un
paesino vicino Caserta… in realtà non so
quanto vicino… ho pochissime informazioni. So solo che
questo paese si chiama
Valle, e che è su una montagna. Io devo andare a lavorare
dal conte Ranieri.»
«Pensa
tu! E io lo so dov’è, vivo sotto a quella
montagna! Puoi venire con me, poi
sempre lo troviamo qualcuno che sale a Valle e ti porta dal conte, che
ci
vuole?!»
Durante
il viaggio in carrozza - che non fu corto - Gianni raccontò
a Fred tante, forse
troppe cose.
«Questa
carrozza mica è mia, eh. No, è dei baroni. Io
lavoro dai baroni Gaetani. Mi
hanno mandato a ritirare dei vestiti, quelli ci tengono a queste cose,
ricorrono solo alle migliori sartorie! Sono dei signori, veramente. Io
mi ci
trovo bene a lavorarci, se ti devo dire la verità. Non
è male, non è male.»
Il
medico inglese – che di essere un medico non lo disse
– ascoltò Gianni con
attenzione e seppe così dove questi era nato,
com’era la sua famiglia, quando
si era sposato, quanti figli aveva e persino quali erano le
festività più
importanti dalle loro parti. «Noi facciamo festa grande a
giugno, per il
patrono. Però pure a maggio non si scherza, eh: ci stanno le
processioni per
altri santi. A Valle invece è festa ad agosto, ma mò è
già passata, quindi devi aspettare un anno. Eh
vabbé mi dispiace.
L’inverno invece non si fa niente, anche perché di
solito nevica e si muore di
freddo.»
Dovevano
essere le otto di sera, più o meno, quando arrivarono al
paese ai piedi del
monte in cui Gianni viveva e di cui Fred non scoprì
– o non intese - il nome. E
poiché era tardi il baldanzoso signore insistette
perché il ragazzo si fermasse
a riposare e gli trovò alloggio presso amici di amici, o
parenti di parenti, il
medicò non capì bene: comunque, quelle persone
furono gentilissime e lo nutrirono
molto più del necessario.
La
donna più anziana della famiglia, il mattino dopo, lo
salutò raccomandandogli –
per l’amor di Dio! – di mangiare, perché
così sembrava una spiga di grano; e
dopo essersi congedato anche da Gianni, che ringraziò di
tutto cuore, Fred salì
su un carretto malandato che trasportava viveri a Valle, guidato da un
uomo
anziano e silenzioso.
Fu
quasi peggio dell’esperienza in mare: la strada svoltava
continuamente e,
poiché le ruote si muovevano su sassolini e pietre di
diverse grandezze, il
ragazzo non faceva che rimbalzare, chiedendosi come mai non accadesse
lo stesso
al conducente.
«Sono
abituato» disse quello, come se gli avesse letto nel
pensiero. «Quando fai
questo un giorno sì e l’altro pure, non ci fai
più caso e impari a tenere il
culo attaccato al suo posto.»
Durante
il tragitto, che durò quasi quattro ore ma perché
a un certo punto si fermarono
dato che pareva che Fred stesse per vomitare e non era il caso di
sporcare il
mezzo di trasporto, i due non parlarono molto: il ragazzo si
limitò a dire che
andava a lavorare dai Ranieri e che aveva lasciato
l’Inghilterra per sempre,
accennando vagamente alle sue origini italiane per parte di madre;
l’uomo parlò
invece di Valle, dicendo che era un posto freddo e spiacevole durante
l’inverno,
ma paradisiaco d’estate. «Se vai dal conte
Ranieri stai a posto, perché i
più ricchi del paese sono lui e la famiglia Di Cosmo. Io
proprio a loro sto
portando questa roba» spiegò, indicando con la
testa il carico. «L’altra è
povera gente, quindi buona e onesta. Pure il conte Ranieri è
onesto, eh, per
carità. I Di Cosmo invece… boh, non ci metterei
la mano sul fuoco.»
A
ora di pranzo («Alle due secondo te è ora di
pranzo?», aveva obiettato il
vecchio), più o meno, Fred giunse a Valle. Il posto gli
parve magnifico: il
paese era perlopiù pianeggiante, e circondato da piccole
alture. Piccoli monti
che sorgevano su quella montagna che da Valle era coronata
perché, oltre quel
borghetto, non c’era più niente, non si poteva
salire oltre. Inoltre, vi era
verde ovunque, dappertutto, e faceva da protagonista.
Fred
ebbe l’impressione che la natura ospitasse benevolmente la
comunità che però,
appunto, era ospite, non padrona.
«Tu
devi salire là sopra» lo richiamò
l’uomo, facendogli segno col dito. «Quello
è
monte Janara, lo vedi il castello dei Ranieri?»
Sì,
lo vedeva. Era grande, imponente, maestoso e per questo anche
leggermente
minaccioso e inquietante, visto dal basso.
«Là
ci sali a piedi, dieci minuti e ci arrivi, un quarto d’ora al
massimo. Buona fortuna.»
«Aspettate!»
lo fermò l’altro, deciso. «Vi ringrazio
moltissimo e mi scuso perché mi rendo
conto solo ora di non avervi rivelato il mio nome. Mi chiamo Frederick
Martin…
oh, potete chiamarmi Fred, se preferite.»
«Non
penso proprio che ci rivedremo, veramente.»
«In
ogni caso, voglio che sappiate di poter contare su di me, qualsiasi
cosa vi
serva. Posso sapere il vostro nome?»
«Endrio.
Endrio e basta, il cognome non lo tengo e non mi serve, tanto solo io mi
chiamo
così.»
Fred
sorrise. «Grazie ancora, Endrio.»
***
Lorenzo
Ranieri corse in giardino, non appena gli fu detto che un ragazzo alto,
scheletrico e dal nome incomprensibile fosse giunto con la pretesa
d’essere
assunto.
Il
medico inglese, meno pallido del solito, se ne stava seduto su una
panca all’ombra
di un albero e osservava ammirato la vegetazione. Il conte
ordinò che nessuno
si avvicinasse loro e lo raggiunse, chiamandolo amichevolmente per nome.
«Andato
bene il viaggio, vecchio mio?»
«Mi
ha fatto capire di non voler più lasciare
l’Italia» tagliò corto
l’altro, a
disagio. Sapeva che non sarebbe stato semplice parlargli, non all’inizio, almeno.
Lorenzo
sospirò, teso. «Ti ringrazio per esser venuto,
Fred. Sono convinto che Lisa si
riprenderà, con te qui. Lei non sospetta nulla…
pensa che sorpresa sarà per
lei! Forse dovrei prepararla… non vorrei che
l’emozione le giocasse brutti
scherzi…»
Fred,
che era seduto, alzò lo sguardo verso il conte, che stava
ritto accanto a lui.
«Io
sono un medico, lo sai. Per me è umiliante e degradante
divenire il capo dei
tuoi camerieri.»
«Lo
capisco.»
«Ma
rinuncio volentieri ai miei sogni, se è per la salute di
Lisa.»
«Lo
so.»
Era
vero che Valle era molto fresca: a fine agosto si stava bene, lontano
dal caldo
afoso di Napoli. Del resto, era anche logico, vista
l’altitudine.
«Lorenzo,
perché un uomo sposato chiama presso di sé colui
che ritiene essere innamorato
di sua moglie?»
Il
conte fu infastidito dal quesito, ma se lo aspettava ed era preparato a
rispondere.
«Perché
Lisa è in uno stato pietoso e voglio aiutarla.
Fred… io so che tra voi esiste
un legame profondo e credo che mia moglie non sarà mai
legata a me quanto lo è
a te. Tuttavia è sempre mia moglie ed è una donna
onesta e so che non mi
tradirebbe mai. Mai e per nessuna ragione. E se ti ho chiamato qui, lo
ammetto…
è soprattutto perché so di potermi fidare. Non mi
fa onore dirlo, forse, ma… io
sono convinto che tu non toccheresti mai Lisa, ora che è
sposata. Questo mi
rassicura. Sei libero di disprezzarmi, a me non interessa: ci tenevo a
chiarire
la mia posizione e l’ho fatto. Ora seguimi, perché
voglio dire a Lisa che sei
qui e, se reagisce bene, potrai incontrarla subito.»
Lisa
si accarezzava l’enorme pancione, mentre ascoltava Lorenzo:
udire il nome di
Fred le causò inizialmente dolore, ma quando seppe che egli
era partito per
vederla, per restarle accanto come sempre aveva fatto, accettando di
vivere in
quella casa come dirigente della servitù… allora
il dolore scomparve e gioia ed
egoismo si fusero: non le importava nulla di quanto significasse tutto
ciò per
Fred, né di quanto la situazione potesse imbarazzare
Lorenzo. Il suo amico era
lì, era lì per lei e non sarebbe andato via, mai
più, e di certo l’avrebbe
anche aiutata nel parto.
Lorenzo
non uscì dalla camera da letto. Voleva osservare la scena.
Quando
Fred fece timidamente capolino e poi, piano, entrò, Lisa
scoppiò in lacrime. Rideva
e piangeva e allargò le braccia, singhiozzando, chiamando il
nome del ragazzo.
Lui,
lentamente e con molta accortezza, perché il pancione era
davvero ingombrante,
si avvicinò e la strinse a sé. Rimasero
così per dieci minuti almeno, lei in
lacrime, incapace di dir qualcosa che non fosse
“grazie”, lui composto ma
felice e, comunque, emozionato.
Lorenzo,
in piedi a un angolo del letto, con le braccia dietro la schiena,
udì Fred
giurare a Lisa che non l’avrebbe mai, mai più
lasciata.
Erano
gli ultimi giorni di agosto e il parto era previsto per la prima
settimana di
settembre.