Lovecraft
scrisse una volta che la cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della
mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Per anni ho creduto
che fossero vaneggiamenti di un novelliere troppo assorto nei suoi mostri
interiori, convinto com’ero che il sapere fosse alla base della sopravvivenza
della nostra specie.
Ma aveva
ragione lui. Non c’è nulla di munifico nella conoscenza. L’illusione benevola
che i grandi dotti saranno in grado di battere nuove strade e condurre l’umanità
a un prossimo stadio evolutivo è una fiaba che non abbiamo ancora trovato il
coraggio di abbandonare perché troppo rassicurante rispetto alla realtà. Quando
saremo davvero pronti per spingerci in quegli itinerari inesplorati, gli orrori
che troveremo ad attenderci saranno tanto agghiaccianti che capiremo perché i
nostri capostipiti hanno preferito le tenebre. Ho validi motivi per ritenere che
quel che io ho rinvenuto non sia che un ciottolo sulla riva, e non ho alcun
desiderio di indagare da quale ignota architettura sottomarina esso provenga.
Non mi
toglierò la vita, perché nonostante tutto non sono un codardo. Ma tremerò per
tutta la sua durata al pensiero di ciò che accadrà quando finalmente giungerà
l’era dell’illuminazione.
Phil me lo
diceva sempre. «Raoul» cominciava, e mi guardava negli occhi «Tu sì che sai
leggere le persone». Usava sempre la stessa frase e lo stesso tono. Non mi
spiegò mai cosa intendesse nello specifico, ma credo volesse dirmi che ero in
grado di interpretare le sfumature delle parole, i loro significati reconditi.
Non ci credevo allora e non ci credo adesso. Ma suppongo che dietro il luogo
comune si celasse un fondo di verità, perché quando Phil mi informò che sua
madre era morta intuii al volo l’inespresso senso di colpa che lo tormentava.
Ai tempi
vivevo a Nantes, nel cuore della Loira Atlantica, e Phil e io eravamo fidanzati
non conviventi. Più avanti fui costretto a lasciare la Francia e mi trasferii
negli Stati Uniti, nella regione dei Grandi Laghi, e premetto subito che non
potrò essere più preciso circa il mio domicilio per ragioni che presto vi
saranno chiare. Sembra un’eternità da quando non potevo entrare nel bar sotto
casa senza essere deriso per il mio accento da maître, eppure sono trascorsi
solo tre anni. È incredibile quanto la mia vita sia cambiata dopo la morte della
signora Bellerose.
Fu solo dopo
alcune reticenze che Phil accettò di parlarmi del suo rapporto con la madre. La
donna, una conservatrice incallita, non aveva mai accettato l’omosessualità del
figlio, e aveva accolto il suo coming out a sedici anni scagliando un bicchiere
di vetro contro il muro. Di lì in poi erano stati gli zii di Phil a fungere da
genitori surrogati, sostenendolo negli studi universitari che l’avevano condotto
alla cattedra di filosofia presso il Lycée Clemenceau di Nantes. Phil aveva nel
frattempo lasciato casa alla prima occasione, e dopo il decesso del signor
Bellerose la moglie aveva deciso di trasferirsi a Saint-Martin-sur-Loire, nella
casa che era appartenuta a suo padre. Proprio lì, nella notte di quel sabato, la
vecchia era stata pizzicata da un infarto miocardico acuto all’età di
sessantasei anni, e tanti saluti. A Phil la notizia era giunta con una
telefonata della zia appena dopo il pranzo domenicale, in piena pennichella, e
il suo primo istinto era stato venire a casa mia per dirmelo.
Il senso di
colpa che avevo osservato in precedenza era dovuto al fatto che, seppur
Saint-Martin-sur-Loire distasse da Nantes poco più di venti minuti d’auto, Phil
non aveva più fatto visita alla madre. Francamente, e credo la penserete come
me, mi pareva il minimo per come era stato trattato. Ma non credo che in cuor
suo il mio ragazzo fosse in grado di odiare genuinamente qualcuno. Dopo tutto
quello che la madre gli aveva fatto, dopo che gli aveva reso l’adolescenza un
inferno con continue battute su viti e bulloni, dopo che gli aveva rovinato
anche il rapporto con il padre trascinando quest’ultimo insieme a lei nella
propria spirale di bigottismo, Phil non riusciva comunque a serbare rancore nei
suoi confronti. Forse anche per questo lo amavo. E forse anche per questo il suo
primo pensiero fu di mettersi all’opera per offrirle una degna sepoltura.
La sua idea,
nel tipico agire spontaneo che lo contraddistingueva, fu di prenderci insieme
una vacanza a Saint-Martin-sur-Loire, nell’appartamento in cui sua madre aveva
alloggiato in isolamento, e di organizzare il funerale nel paese. Viste le
tempistiche necessarie pensò di sfruttare il fatto che mercoledì avesse la
giornata libera al Lycée Clemenceau per sommarla alle tre assenze retribuite per
lutto, ottenendo un permesso effettivo di quattro. Io non avevo quella fortuna:
nel laboratorio di elettronica dell’azienda per cui lavoravo ero richiesto dal
lunedì al venerdì, e non essendo io e Phil sposati non avevo neppure diritto a
congedi per decessi di affini. Deciso però di usufruire dei miei permessi di
vacanza ordinari per stare vicino al mio ragazzo in quella situazione.
D’altronde è così che si fa quando si tiene a qualcuno, giusto? Preparammo le
valigie domenica sera stessa e il giorno dopo, già alle otto di mattina,
cavalcavamo quello che un tempo era un ramo della Route Nationale 23, le
automobili che ci sfrecciavano ai lati come uccelli in uno stormo migratorio.
Uno strato di brina giaceva sui prati del cantone in quella grigia giornata
d’ottobre, l’ultima normale della mia vita.
Indirizzo a
parte, Phil era all’oscuro dell’ubicazione della casa di sua madre, e potete
immaginarvi quanto ne sapessi io; nelle strade desolate di Saint-Martin ci
attendevano dunque un paio di sorprese. In primo luogo il numero 3 di Place de
la Confrérie non si trovava affatto in una piazza, bensì nella prima via che si
incontrava entrando nella cittadina; e in seconda battuta la zia di Phil non
aveva biascicato e non c’era stata alcuna interferenza telefonica: il luogo
faceva di nome Villa Charbonneau. Villa
per davvero, con mura dagli affreschi scrostati, torrioni mezzi erosi e un
giardino con serpeggianti viali di ghiaia.
Per diversi
minuti credetti sul serio che il mio ragazzo avesse ricevuto in eredità un
edificio rinascimentale, e penso ne fosse convinto anche lui. Quando ci
accostammo al cancello e scendemmo dalla macchina, una donna tracagnotta che mi
sarà arrivata a metà busto comparve senza preavviso dall’altra parte
dell’inferriata. Mi immaginai che fosse la custode, e in effetti le sue mani
bitorzolute tremanti per il freddo stringevano un mazzo di chiavi. Rimanendo a
un paio di metri di distanza dalle barre d’acciaio ci domandò chi fossimo, e
quando Phil si identificò come il figlio della signora Bellerose la donna
assunse una smorfia inintelligibile, a metà tra il rammarico e la pietà.
Borbottò qualcosa che non riuscii a sentire, aprì il cancello e spinse via la
parte destra con un cigolio quanto bastò perché la Renault Wind di Phil potesse
sgusciare dentro la villa.
Parlandoci
dopo aver parcheggiato nel cortile interno scoprimmo che il nome della vecchia
era Floriane Favager, ben oltre i settanta e una pelle irta di rughe a
dimostrarlo, ed era stata a suo tempo infermiera alle dipendenze del dottor
Hermitage. Quest’ultimo era stato padre della signora Bellerose e nonno di Phil,
anche se era morto troppo presto perché suo nipote riuscisse a conoscerlo.
Hermitage era stato in passato il più noto medico di Saint-Martin e dintorni, e
aveva abitato proprio in un appartamento di Villa Charbonneau. Qui i sogni miei
e di Phil stramazzarono: la villa era al momento soltanto un condominio
particolarmente elegante. Il mio ragazzo aveva ereditato uno dei tanti alloggi
tra quelle mura dall’intonaco color baguette. Poco male, dodici minuti da
presunti possessori di una villa erano meglio di niente.
La signora
Favager ci aggiornò poi su ciò che era stato della signora Bellerose, spiegando
che la salma era stata affidata a un impresario di pompe funebri di Carquefou,
che l’avrebbe ospitata nella sua camera mortuaria fino al funerale. Fu allora
che Phil le illustrò i piani per le esequie e l’intenzione di soggiornare nella
casa di sua madre, e fu anche allora che Floriane cambiò del tutto
atteggiamento. Avete presente la smorfia che ho menzionato poco fa, quella di
rammarico e pietà? Dopo le parole di Phil questa diventò l’espressione fissa
della vecchia. Non ci rivolse alcuno sguardo diverso mentre ci spiegava con
gesti rapidi del braccio dove si trovava l’appartamento, né mentre aggiungeva di
“ricordarci di aprire le finestre”, né mentre spalancava quasi con forza la mia
mano e vi infilava le chiavi poi allontanarsi e tornare nel suo alloggio.
Prima mi
sono sbagliato. Vi ho detto che la mia vita è cambiata per sempre dopo la morte
della signora Bellerose. Ora, mentre rammento me e Phil che incedevamo nel
cortile interno, aggirando il salice appassito che troneggiava nell’aiuola al
centro, e mentre sento di nuovo i miei scarponi affondare nella ghiaia fino a
fermarsi davanti alla porta nascosta da una persiana, mi rendo conto che non è
esatto. Finché non facemmo scattare quella serratura, finché non mettemmo piede
all’interno dell’abitazione, il nostro destino non era affatto segnato. Lo
divenne solo al fatidico clack, senza
che noi ne sapessimo niente.
Sapete che
la tragedia letteraria, per essere definita tale, richiede che la malasorte che
affligge il protagonista sia una conseguenza diretta delle sue azioni? L’Edipo
Re è una tragedia in quanto Edipo si impegna attivamente per scoprire
l’assassino di suo padre, spinto dal suo desiderio di giustizia, solo per
rendersi conto che il colpevole non è altro che lui stesso. Eppure oggigiorno il
termine tragedia indica un avvenimento fuori dal nostro controllo, una
sciagura che si abbatte sulla vittima senza che questa possa reagire. Il fatto
che gli uomini abbiano esorcizzato la sola parola che suggeriva una loro
colpevolezza negli eventi dice molto sull’incapacità che abbiamo di assumerci le
nostre responsabilità.
La prima
cosa che notai quando entrai nell’appartamento fu l’odore, un’esasperazione
inedita del fetore umido tipico delle vecchie case. Il consiglio della signora
Favager non era stato casuale: lì le finestre non venivano aperte da molto
tempo.
Rimediare a
ciò divenne indispensabile quando le mie dita scivolarono sull’interruttore sul
lato del davanzale, trovando le luci guaste. Io e Phil ci scambiammo uno sguardo
perplesso appena prima di sganciare le persiane e lasciare che il malaticcio
sole d’ottobre filtrasse attraverso il vetro e le sottili tende color limone.
Niente elettricità e l’aria era così stantia? Non sembrava per nulla una casa
abitata fino a un giorno prima.
Un
sopralluogo iniziale mi consentì di tracciare una mappa sommaria
dell’appartamento. La stanza da cui eravamo entrati era con pochi dubbi una
camera da letto e la presenza di lenzuola pulite suggeriva che almeno quella
fosse stata utilizzata di recente. Una stufa era installata a ridosso del muro
laterale destro; viste le tre pile di ceppi accatastate su un fianco, essa
doveva essere parte integrante della routine della signora Bellerose. Phil
ipotizzò fosse un sostituto della caldaia termoautonoma, che senza corrente non
poteva funzionare.
Erano poi
presenti due bagni in cui grazie al cielo l’acqua corrente era funzionante, e
anche quelli riportavano residui relativamente freschi di impiego. Le toilette e
la prima stanza erano connesse da un corridoietto che fungeva da punto
d’incrocio dei locali con uno sgabuzzino e una seconda camera da letto. In
questi due, a differenza degli altri ambienti, un lenzuolo di pulviscolo gravava
su ogni centimetro di arredo esposto. Le imposte esterne di tutta l’abitazione
erano sigillate proprio come all’ingresso prima dell’intervento mio e di Phil.
C’era però
un aspetto ancor più strano in quel recesso di Villa Charbonneau: una porta
chiusa. Era posizionata in corridoio, dal lato opposto rispetto alla prima
camera da letto. A differenza delle altre sue compagne, di medie dimensioni e
del naturale color beige del legno, questa era alta almeno due volte me, larga
al punto che io e Phil avremmo potuto attraversarla fianco a fianco e tinta di
un bianco leggermente scrostato verso gli infissi. A occhio sembrava che fosse
ben più antica del resto dell’appartamento, forse addirittura dell’epoca in cui
la villa era stata edificata, e come già detto era serrata. Della chiave, era da
aspettarselo, non c’era alcuna traccia, e non riuscimmo a rinvenirla neppure
setacciando ogni cassetto dei mobili e ogni ripiano degli scaffali. Pensammo di
passare dall’esterno, poiché dall’altro lato della residenza si trovava un
secondo accesso che aggettava sul cortile posteriore dell’edificio; tuttavia su
quella facciata le persiane erano sostituite da coppie di spessi scuri, nessuno
di quali rispondeva alle chiavi che avevamo ricevuto in dotazione. Un’intera
stanza dell’abitazione della signora Bellerose era inaccessibile.
Non ero tipo
da arrendermi così facilmente. Mentre Phil rimaneva nell’alloggio a spacchettare
ciò che avevamo portato con noi da Nantes per la vacanza, io ero già in marcia
verso l’abitazione della signora Favager, che ricordavo da prima essere in cima
a una piccola rampa di scale, non lontano dalla stradicciola d’accesso della
villa (dimora adatta a una custode, logicamente). La vecchia mi accolse sulla
soglia con un paio di sopracciglia aggrottate che per nulla tentò di nascondere,
e tale broncio rimase incollato sul suo volto fino a quando non menzionai la
stanza sigillata. Per un po’ rimase in silenzio; poi si assentò per due minuti
buoni e tornò con una chiave argentea lunga quanto il mio indice e appena
scurita ai bordi. Di primo acchito mi parve che l’oggetto fosse graffiato
sull’impugnatura, ma uno sguardo più accurato rivelò che si trattava di un
intarsio di linee ondulate in bassorilievo. La signora Favager mi spiegò che la
madre di Phil gliel’aveva affidata una settimana dopo il suo arrivo a
Saint-Martin-sur-Loire senza dirle a cosa servisse, ma secondo lei doveva essere
collegata alla porta di cui parlavo. A posteriori sembrò parecchio insistente su
un punto in particolare: lei non aveva idea di cosa ci fosse là dentro.
Quando
tornai nell’appartamento, Phil mi accolse sbrigativo con un «Vieni un attimo»
senza nemmeno chiedermi se la missione fosse andata a buon fine. Lo seguii nel
corridoio e di lì nello sgabuzzino, che aveva deciso di esplorare con la torcia
del suo smartphone per cercare il quadro elettrico (confesso che mi ero scordato
del problema dell’elettricità). Come mi mostrò subito lo aveva trovato, ma
nessuno degli interruttori pareva dare risposta quando attivato. Diffidente come
sono feci un paio di tentativi analoghi, e mentre mi scervellavo su quale fosse
il guasto notai che le viti di chiusura erano state allentate in precedenza. Non
servì che una moderata forza per sganciare il coperchio.
Fino a quel
momento avevo pensato che il danno potesse essere dovuto a un cortocircuito o un
innesco errato di un interruttore differenziale, ma mai avrei ipotizzato ciò che
avevo davanti agli occhi. Tutti i cavi elettrici erano stati recisi come steli
di un fiore e penzolavano ora inerti dai rispettivi morsetti. Che il
responsabile fosse la signora Bellerose o qualcuno che aveva fatto visita dopo
la sua morte, di sicuro non era suo desiderio che accendessimo la luce.
Phil mi
propose di tornare a Nantes. Mi disse che non aveva senso restare quando la casa
era in quelle condizioni. Avrete ormai capito che Phil difficilmente riusciva a
nascondermi qualcosa. Del resto ero quello-che-legge-le-persone, no? Ma anche un
paziente affetto da agnosia tonale si sarebbe reso conto che tale offerta
nasceva dal proposito di non essermi di peso. Lui teneva a organizzare il
funerale nel migliore dei modi, e difficilmente ci sarebbe riuscito a chilometri
di distanza dalle uniche persone che avevano avuto contatti con sua madre in
tempi recenti e che, vista l’età, difficilmente sarebbero stati in grado di
maneggiare un cellulare. Gli sorrisi e lo baciai sulla fronte. «Ci arrangeremo».
La serratura
in corridoio doveva essere parecchio malandata, perché faticai a far girare la
chiave al suo interno. La porta si aprì in un cigolio al quarto tentativo e un
tanfo ancora più stomachevole di quello del resto della casa mi investì in pieno
volto. La stanza proibita era immersa nell’oscurità totale, e non era un
eufemismo poiché gli scuri alle finestre erano stati studiati con il preciso
intento di bloccare ogni raggio di sole. Con l’aiuto dei flash dei nostri due
cellulari sbloccammo gli antoni dall’interno, riuscendo così a esaminare alla
luce naturale quello che si rivelò essere un soggiorno.
Era ampio
almeno quanto il resto della dimora e versava in condizioni sproporzionatamente
peggiori. Sul lato destro rispetto all’entrata era organizzato un salotto
completo di camino, due poltrone scarlatte e un mobile a cassettoni in rovere.
Sopra quest’ultimo era appeso lo specchio più deprimente che avessi mai visto:
largo circa quanto le mie spalle e sottilmente sbiadito su tutta la superficie,
presentava in più punti incrostature simili a terriccio sporco e crepe
probabilmente dovute all’umidità. La cornice, per quanto teoricamente elegante
nella sua imitazione dei viticci di un rampicante, era annerita dal tempo e il
rivestimento d’oro aveva perso qualsiasi lucentezza. Appena di lato, nell’angolo
in fondo a destra rispetto alla posizione di me e Phil, era scavata la
portafinestra che avevamo notato dal giardino posteriore.
A sinistra
dell’ingresso si trovavano invece un tavolo da pranzo, una decina di scatoloni
richiusi ammucchiati contro la parete, una riserva di candele mai accese e un
angolo cottura. Quest’ultimo era l’aspetto più curioso del soggiorno: su buona
parte di esso, in corrispondenza di lavello e forno, erano stati stesi dei
larghi plaid come per occultare qualcosa, nonostante non vi fosse nulla di
atipico sotto di essi.
Ogni
centimetro della sala era ricoperto da non meno di due dita di polvere e l’aria
graffiava i polmoni a ogni respiro. Ci sarebbero volute ore per rendere già solo
quell’ambiente vivibile, senza considerare il resto della casa, ma ormai avevo
accettato di restare e non volevo deludere il mio ragazzo.
C’era altro
però che mi dava da pensare. Quel luogo non era solo vittima di noncuranza, era
stato deliberatamente abbandonato, e i
depositi di pulviscolo intonsi indicavano che nessuno vi metteva piede da molto
tempo. Che cosa aveva spinto la signora Bellerose a mettere sotto chiave metà
appartamento?
Io e Phil
fummo indaffarati per tutto il resto della giornata. Come prima cosa contattammo
un elettricista da La-Chapelle-Basse-Mer e fissammo un appuntamento per il
mercoledì della settimana successiva, così da rimettere in piedi l’impianto.
Stilammo poi
due liste, con priorità differenti, comprendenti ciò che ci sarebbe servito per
le quattro albe di soggiorno, passando dagli ovvi viveri e bevande a elementi
meno sottintesi come le posate, di cui la casa era inspiegabilmente priva.
Facemmo altresì richiesta alla signora Favager perché ci permettesse di
utilizzare i suoi fornelli, e devo dire che fui sorpreso dalla cortesia della
vecchia infermiera. Fu solo alcuni giorni dopo che scoprii la reale ragione di
tale disponibilità.
Non
bighellonammo molto prima di riprendere tra le mani il volante e tornare sulla
RN23, svoltando a Rond-point de la Belle Étoile verso la Route Départementale
D37 e giungendo a Carquefou alle undici e un quarto di mattina. Facemmo rientro
a Saint-Martin solo verso le quattro del pomeriggio, dopo un lungo tour
commerciale nel Super U di Avenue du Souchais e un pranzo al Bistrot Italien
sito al suo interno. La sosta nel supermercato fu particolarmente estenuante,
perché non avete idea di quanto sia difficile fare acquisti alimentari sapendo
di non poter usufruire di un frigorifero.
Nel tempo
rimanente prima del tramonto iniziammo a mettere in pratica un’idea che Phil
aveva cogitato tra una forchettata e l’altra del suo risotto ai funghi: rendere
l’appartamento di Villa Charbonneau una sorta di casa vacanze in cui dimorare
nei fine settimana e nei giorni festivi. Era un progetto interessante che ci
avrebbe permesso di convivere malgrado i nostri magri stipendi, quindi lo
accolsi a braccia aperte. Occupammo le sonnacchiose ore pomeridiane a spolverare
i mobili, rimpiazzare le lenzuola dei letti, disfarci dei plaid che ricoprivano
l’angolo cottura e spazzare per terra, il tutto spalancando le finestre di una
camera alla volta cosicché la brezza autunnale che spirava nel paese potesse
scrostare il fetore rancido sedimentato nella casa. Sia io che Phil eravamo
inoltre dell’idea di rimuovere il malandato specchio appeso nel soggiorno, che
tutto trasmetteva meno che sicurezza visto che sembrava sull’orlo dello
sfaldamento; eppure, nonostante numerosi tentativi da più angolazioni, non
riuscimmo a smuoverlo di un millimetro. Sì, fu imbarazzante come ve lo
immaginate.
Le sere
venivano presto, a Saint-Martin-sur-Loire. Dal mio monolocale di Nantes, anche
diverse ore dopo il tramonto persisteva una fiaccolata di lampioni e fari
d’automobili che inondava la mia stanza con la sua scialba luce artificiale. A
Villa Charbonneau, invece, già dopo le diciannove le tinte arancioni
cominciavano a sfumare sotto l’orizzonte, con solo qualche lampada solitaria nel
giardino a sopperire. Dopo la nostra prima cena da campagnoli, sia io che Phil
ci scoprimmo troppo stanchi e satolli per fare altro che dormire. Fummo
giocoforza costretti a ritirarci nella stanza in cui la signora Bellerose aveva
dormito fino al giorno prima, non fosse altro perché la stufa era fissata al
muro e presto ogni altro angolo dell’alloggio sarebbe divenuto una cella
frigorifera. Non mi faccio problemi ad ammettere di non avere mai avuto gusto
per le situazioni romantiche; eppure assaporai fino all’ultimo respiro la
sensazione di calore interiore che provai avvolto tra le coperte con Phil,
mentre le ombre proiettate dalle lingue di fuoco ardenti danzavano tra il
soffitto e la parete dietro di noi. Mi assopii pago come poche volte in vita
mia.
Non ricordo
se a strapparmi a Morfeo intorno alle due di notte furono i brividi di freddo,
la gola secca o il materasso che somigliava più a un mattone; sono però convinto
che non fu nulla di soprannaturale. Dico ciò perché, come ho spiegato prima, gli
esseri umani hanno la sporca tendenza a scaricare le loro colpe su entità
supreme come il destino. Non ho intenzione di unirmi a questo gioco. Quando mi
alzai dal letto e mi diressi a tentoni in soggiorno lo feci di mia iniziativa.
Nessuno spirito mi mosse la mano mentre accendevo una candela dalla scorta della
signora Bellerose. E non fu un arcano fremito a farmi alzare la testa mentre mi
versavo da bere appoggiato sul lavello, e a farmi vedere ciò che vidi.
Sono sicuro
che almeno una volta avrete provato a verificare l’effettivo ritardo delle
vostre fotocamere nel catturare la luce e inviarla al display. Io di sicuro.
Ogni tanto, quando proprio non avevo nulla da fare, prendevo il mio smartphone,
avviavo l’obiettivo frontale e mi giravo di profilo. Poi, quando ero certo che
l’immagine fosse fissa sullo schermo, mi voltavo di scatto a guardarla. Se fatta
abbastanza in fretta, questa inezia vi permette di sfruttare i ritardi
intrinseci della macchina per guardarvi mentre muovete la testa.
Se anche non
l’aveste mai provato non importa. Lasciate solo che vi dica che, quando lo
stesso evento si verifica mentre guardate uno specchio, non è per nulla la
stessa cosa.
Non ero al
massimo della lucidità, perciò impiegai qualche secondo a elaborare l’accaduto:
inquadrato nella cornice a rampicante dello specchio crepato appeso dall’altro
lato del salotto, il mio riflesso si era mosso in ritardo rispetto a me. Era un
ritardo molto ridotto, meno di un secondo, ma tanto era bastato perché potessi
scorgere per la prima volta la mia immagine specchiata che non mi restituiva lo
sguardo. È una situazione talmente surreale che non c’è modo di non
accorgersene. Ricordo anche ora il brivido che mi si arrampicò sulla schiena in
quell’istante e la susseguente fitta al palato, simile a una forchetta infilzata
nella carne, che avevo sempre associato a simili momenti di sobbalzo. Quella
volta però fu diverso. Quel breve attimo fece appello a ogni paura che avevo
imparato a seppellire nel terreno dell’improbabilità. Era come l’idea di
scostare le tende di una finestra e vedere un maniaco che ti fissa attraverso il
vetro: terrificante, ma talmente inverosimile che non ti preoccupi mai di
buttare uno sguardo fuori dagli infissi.
Una simile
esperienza avrebbe dovuto tenermi sveglio tutta la notte; invece tornai
semplicemente a dormire. Credo fu la condizione di dormiveglia in cui versavo a
convincermi di aver solo sognato. Soltanto verso le nove della mattina
successiva, mentre preparavo a me e Phil una cioccolata calda e riacquistavo la
lucidità propria di chi è sveglio, giunsi alla persuasione di non aver sognato
nulla. Tra le tenebre appena rischiarate dalla candela che avevo acceso in
quella notte, la figura nello specchio si era mossa dopo di me. E nonostante
occhiate guardinghe molto più frequenti lanciate al mio riflesso in soggiorno
che non trovavano anomalie, più pensavo a ciò che avevo provato, più cresceva in
me la sicurezza che non si fosse trattato nemmeno di un’allucinazione.
I giorni
seguenti mi lasciarono poco tempo per meditare sull’episodio notturno. Phil
interrompeva il suo lavoro di organizzazione del funerale solo in occasione dei
pasti e della fisiologica necessità di dormire, determinato com’era a sveltire i
tempi e fissarlo in quella stessa settimana. Dal canto mio, io distribuivo i
miei sforzi tra l’aiutarlo e svolgere i doveri che lui non aveva modo di
adempiere, come fare la spesa e cucinare. I pochi momenti di pausa che ci erano
concessi li passavamo perlopiù a rilassarci in poltrona, oppure a passeggiare
nelle stradine di Saint-Martin e sugli argini della Loira.
Il massimo
che riuscivo a fare, tra una commissione e l’altra, era interrogare nel modo più
disinvolto possibile condòmini e inquilini di Villa Charbonneau per delineare un
profilo contestuale in cui calare la mia esperienza.
Per
cominciare venni a sapere che la signora Favager non era affatto la custode
dell’edificio, bensì la proprietaria di un appartamento come gli altri, anche se
nell’ambiente godeva di una certa autorità perché vi abitava da più tempo. In
secondo luogo, la vecchia pareva essere stata l’amica più stretta che la madre
di Phil potesse vantare, e l’unica a farle visita con una certa continuità.
Dico “farle
visita” perché un secondo aspetto emerse dalle mie inchieste: la signora
Bellerose non usciva praticamente mai di casa. Vi ho già detto che la signora
Favager si mostrò particolarmente disponibile nell’offrirci la possibilità di
cucinare. Ciò, scoprii, era dovuto a forza d’abitudine, perché la signora
Bellerose usava quegli stessi fornelli nell’unica occasione regolare in cui
lasciava il suo alloggio, ovvero per prepararsi pranzo e cena in assenza di
elettricità.
Le anomalie
che circondavano la vita della madre del mio ragazzo non terminavano qui. Ad
esempio io avevo ipotizzato che solo negli ultimi giorni di vita fossero state
serrate le finestre; tuttavia nessuno dei comproprietari rammentava di aver mai
visto scostati gli scuri esterni. Probabilmente la donna apriva solo
saltuariamente all’interno per lasciare che un filo d’aria rinfrescasse
l’ingresso, quanto bastava a non morire di asfissia da anidride carbonica.
Perché fosse barricata dentro, nessuno lo sapeva.
Per quanto
riguarda il soggiorno, tutte le quattro persone con cui riuscii a parlare
sapevano già che era chiuso a chiave. Forse la signora Favager si era lasciata
sfuggire qualcosa e la voce era circolata. Ciò, unito alla segretezza in cui
viveva la signora Bellerose, aveva dato origine alle teorie più inconcepibili.
L’architetto D’Aramitz, un uomo sulla cinquantina tra i più giovani a vivere
nella villa, mi disse che secondo lui la madre di Phil nascondeva qualcuno lì
dentro. «Tipo un prigioniero?», gli chiesi. «Esattamente» fu la sua risposta.
Quando gli feci notare che non avevo trovato nessuno nella casa, precisando che
non c’erano nascondigli verosimili che avrei potuto non notare, tutto ciò che
seppe dire fu che dovevano averlo trasferito alla morte della donna.
Le altre
speculazioni erano di simile tenore: per la Viscontessa Géroux l’alloggio era la
base per traffici di droga, per il signor Lambert vi si praticavano riti
satanici notturni, per la signora Deblanc era un laboratorio per esperimenti di
geoingegneria clandestina. Per quanto disparate fossero queste idee, tutte erano
accomunate dal fatto che vedevano nella signora Bellerose un individuo di cui
non fidarsi, e nella sua abitazione un tugurio con cui avere a che fare il meno
possibile.
Tutto ciò
nasceva dalle informazioni che gli altri condòmini avevano raccolto nel corso
degli anni, e dipingeva un quadro con molte ombre da chiarire. Eppure per il
primo giorno e mezzo mi comportai come se questo fosse tutto ciò che sapevo,
come se non avessi altro a mia disposizione. In realtà eccome se ce l’avevo:
avevo visto il mio riflesso muoversi in ritardo all’interno del soggiorno
proibito. Era un punto critico, e ciononostante, forse anche per un inconscio
sbarramento eretto dalla mia mente, non pensavo praticamente mai in dettaglio
alla vicenda di lunedì notte.
La mia
situazione di stallo personale si sbloccò nel pomeriggio di mercoledì. I
preparativi per le esequie erano in fase di chiusura e, quasi a sottolineare la
ritrovata calma che mi accolse dopo pranzo, una fitta nebbia era discesa sul
paese, invogliandomi a una camminata nell’umido panorama a ridosso del fiume.
Il giardino
posteriore della villa non si poteva dire un esempio di arte topiaria: il prato
era raso il sabato mattina e, trovandoci a metà settimana, pativa uno sviluppo
irregolare degli steli d’erba e un’occasionale tracimazione di ghiaia dai viali.
I cespugli apparivano come grovigli arruffati di rami e foglie e le fronde degli
alberi, pur non essendo ancora state depredate delle proprie chiome
dall’autunno, erano flaccide e ingiallite. La bruma completava un colpo d’occhio
desolante, che tuttavia trovai conciliante per la meditazione.
Assodato che
era impossibile che il ritardo nel movimento fosse attribuibile a un fenomeno
fisico naturale, che opzioni rimanevano? Di sicuro quello appeso al muro era uno
specchio, e non una meraviglia tecnologica di stampo futuristico. Ma allora come
interpretare ciò che avevo visto? La spiegazione meno illogica era che fosse
stato un gioco ottico, una sorta di trucco di prestigio; eppure tutto nella mia
testa mi suggeriva un’altra teoria.
Che il
riflesso fosse vivo. Che in qualche modo un fabbro demoniaco avesse plasmato uno
specchio all’interno del quale l’immagine di chi vi guarda diventava senziente.
Come poteva
un oggetto simile trovarsi in un posto come Saint-Martin-sur-Loire? Pur non
sapendo in quale luogo o epoca fosse stato forgiato, dati empirici come le crepe
d’umidità e l’usura della cornice suggerivano che la sua età fosse come minimo
misurabile in decenni, forse anche di più. Com’era possibile che nessuno
l’avesse consegnato ad autorità governative una volta accortosi che il riflesso
al suo interno godeva di vita propria?
C’era
un’ovvia conclusione alla quale mi stavo insistentemente rifiutando di giungere:
che la signora Bellerose, una volta scoperta la reale natura dello specchio
rinvenuto nella casa che aveva scelto per il pensionamento, avesse sprangato
l’appartamento per proteggere lui da noi o noi da lui. La prima opzione era
quella rincuorante: implicava che la donna avesse considerato quell’oggetto alla
stregua di un cucciolo da difendere, un tesoro che andava celato perché non
finisse in mani sbagliate. E per quanto ciò riportasse alla mente bei ricordi di
film per ragazzini sapevo che non era una versione plausibile, poiché se
qualcuno avesse voluto nascondere al mondo qualcosa avrebbe fatto tutto meno che
attirare l’attenzione del circondario su di sé.
Rimaneva
dunque la seconda possibilità, ma era un’ipotesi talmente terrificante che non
potevo osare prenderla in considerazione e tentavo in ogni modo di trovare
argomenti che la confutassero. Per quale ragione, se lo specchio fosse stato un
pericolo per l’umanità, la vecchia non l’avrebbe semplicemente distrutto? O, se
anche non fosse stato possibile, perché non seppellirlo metri sottoterra anziché
conservarlo appeso in pieno soggiorno?
Questa
logica mi tranquillizzò per diverso tempo, riuscendo quasi a convincermi che
forse, dopotutto, non avevo granché da temere. La serenità si rivelò tuttavia
assai volatile, dissolvendosi appena ricordai che lunedì pomeriggio io e Phil,
due giovani nel pieno delle loro forze, non eravamo riusciti nemmeno a farne
dondolare la cornice.
Il funerale
si svolse a partire dalle tre e mezzo di giovedì, un’impresa visto lo scarso
tempo per allestirlo, e la signora Bellerose fu sepolta nel piccolo cimitero di
Saint-Martin circa un’ora e mezza dopo. La sola invitata che seguì il corteo
fino al sepolcreto fu l’anziana Favager, che non si mantenne mai a meno di venti
passi da me e Phil che fiancheggiavamo il carro funebre. Gli unici altri a
presentarsi in chiesa erano stati i residenti attuali di Villa Charbonneau, e
tutti si erano dileguati al termine della cerimonia. Nessuno mi disse se lo
fecero perché non si sentivano abbastanza vicini alla deceduta da seguirla fino
alla tumulazione oppure per timore verso i misteri che la avvolgevano, ma oggi
come allora propenderei per la seconda supposizione.
Io e Phil
rientrammo all’appartamento giusto in tempo per iniziare a fare i bagagli. I
nostri quattro giorni di vacanza non erano stati riposanti come speravamo: il
mio ragazzo aveva trascorso gran parte del tempo a organizzare l’estremo saluto
alla madre, e io ero disceso sempre più in uno stato di paranoia costante. Verso
le ultime ore di permanenza nella dimora, le mie occhiate furtive allo specchio
in soggiorno erano divenute un’azione involontaria che quando non avevo nulla da
fare si ripeteva anche a intervalli di dieci minuti. Fu proprio durante uno di
questi scatti del capo che trovai la conferma di non aver avuto alcun abbaglio
in quella nera notte di tre giorni prima.
Successe
mentre stavo organizzando uno scatolone sul tavolo di fronte all’angolo cottura,
mettendo in pratica anni di allenamento su Tetris. Come spesso ormai ero
abituato a fare alzai leggermente la testa e scorsi lo specchio avvolto dai
viticci dorati a qualche metro di distanza.
Fu allora
che colsi il mio riflesso con gli occhi chiusi, nell’atto di battere le
palpebre.
Forse
penserete che è impossibile, che solo con un’astronomica dose di casualità avrei
potuto rivolgere lì il mio sguardo proprio mentre un evento tanto rapido si
verificava. Vi sbagliate. Vi è mai successo di porre due specchi a perpendicolo
e guardare la vostra immagine che viene riflessa due volte? Ciò che ottenete è
che la figura posta oltre zona d’intersezione delle due lastre si muove senza
invertire l’orientazione. Se alzate il braccio destro sarà il suo braccio destro
a rispondervi, non il sinistro come accade negli specchi piani ordinari.
In caso
abbiate condotto un esperimento del genere rammenterete senz’altro l’alienazione
che si prova, il sentimento spontaneo di rifiuto verso il doppione che avete di
fronte, la dichiarazione silenziosa di non appartenenza. Nei decenni in cui
avete stretto familiarità con gli specchi il vostro cervello è stato addestrato
a riconoscere i tratti tipici del riflesso: mai in ritardo, sempre frontale e
sempre ribaltato orizzontalmente. Già dopo il quinto anno di vita siamo
inconsapevolmente in grado di prevedere le azioni del nostro gemello virtuale
con una precisione superiore al miglior calcolatore esistente. È davvero così
sorprendente che qualsiasi variazione rispetto allo schema sia registrata anche
se non prestiamo attenzione?
Fu una
fortuna che fosse Phil a guidare nel ritorno a Nantes, perché durante l’intero
viaggio la mia mente fu impegnata a tirare le somme di ciò che avevo raccolto in
quei giorni. Davanti a una prova tanto inconfutabile come un secondo
avvistamento non avevo più dubbi: tutte le mie deduzioni erano corrette. La
signora Bellerose si era chiusa in casa decenni prima per nascondere quello
specchio funesto al mondo, e di qualsiasi cosa si trattasse noi l’avevamo
liberato.
Non so se
per voi valga lo stesso, ma ho sempre trovato fonte estrema di distrazione il
fatto che nei film dell’orrore i protagonisti si comportino come se, nel loro
ipotetico universo, i film dell’orrore non esistessero. Io di certo non volevo
commettere errori così ottusi. Da quando la Wind di Phil parcheggiò sotto il mio
monolocale in Rue Bellamy, il mio chiodo fisso fu di imbastire un’indagine per
capire fino a quali anfratti sotterranei scendeva la faccenda.
Da principio
mi documentai sui trucchi noti per superfici lucide, non trovando però nessun
caso noto di un illusionista in grado di ritardare le movenze di un riflesso.
Per la verità non vi profusi nemmeno troppo sforzo, poiché dentro di me sapevo
che dovevo cercare altrove. Non avevo assistito ad allucinazioni, avevo
assistito a fatti empirici. Dovevo andare molto più a fondo.
Ingenuamente
ero convinto che un pomeriggio di ricerche su Internet sarebbe stato sufficiente
a chiarire i miei dubbi; ovviamente non lo fu. Approfittando degli impegni di
Phil al liceo, sabato mi recai di buon’ora alla biblioteca municipale di Nantes,
presso la Médiathèque Jacques-Demy, e vi trascorsi la mattinata a frugare tra i
volumi più disparati, esaminando tanto testi di ottica quanto romanzi di
finzione dai temi affini. Verso l’ora di pranzo iniziai a prenderci la mano e
tratteggiai una linea conduttrice per i libri che andavo cercando: se davvero
ero convinto che questo specchio risalisse a un tempo moderatamente remoto,
avrei dovuto cercare informazioni nelle opere in cui avvenimenti bizzarri come
un riflesso che batte le palpebre sarebbero stati annotati. Le mie ricerche si
focalizzarono quindi sempre più sulle cronache, prima del Novecento e Ottocento
e poi ancora più indietro, verso il Rinascimento e il Medioevo. Sicuramente il
mio specchio non risaliva a epoche tanto distanti, ma chi poteva garantirmi che
il mio fosse l’unico del suo genere?
Già per le
quattro del giorno stesso iniziai a rendermi conto che, pur essendo
discretamente fornita, la biblioteca della mia città non sarebbe bastata a
risolvere i miei problemi. Specie nei confronti del periodo storico che mi
interessava, ovvero quando la superstizione era ancora parte integrante della
vita delle persone comuni, la Médiathèque non sapeva offrirmi nulla più che
qualche trascrizione poco dettagliata. Quanto avevo rinvenuto, però, era
abbastanza interessante da convincermi ad andare oltre, a spingermi nei meandri
di questo mistero. Se fossi vissuto nell’esecrabile Regno Unito, sicuramente mi
sarei rivolto alla British Library. In Francia,
andare oltre implicava una sola cosa:
la Bibliothèque Nationale de France, a Parigi.
Non fu una
decisione facile. Anche salendo sul treno all’alba di domenica, le
investigazioni che intendevo condurre nella capitale erano troppo estese per
essere limitate a un solo giorno, quindi avrei dovuto consumare altri permessi
per assentarmi dal laboratorio. Ma soprattutto partire significava dover mentire
al mio ragazzo, perché per quanto tra noi vigesse fiducia reciproca non potevo
raccontargli che avrei saltato il lavoro per indagare sullo specchio di sua
madre. Alla fine gli sprofondamenti del torace che mi assalivano quando
ripensavo alle mie due esperienze ebbero la meglio, e mi morsi la guancia mentre
scrivevo a Phil via messaggio che dal lunedì al mercoledì della settimana
entrante sarei stato a Parigi per un evento aziendale. Codardo com’ero, non ebbi
nemmeno il coraggio di dirglielo a voce.
Al tempo
stesso mi stavo imponendo una direttiva: se in quattro giorni di ricerche non
avessi trovato nulla di rilevante, sarei tornato a Nantes e avrei lasciato
perdere definitivamente i miei sospetti. Sempre più spesso vorrei che fosse
andata così.
Quella
domenica, sotto una cappa plumbea che rendeva l’acqua del Bras de la Madeleine
simile a mercurio liquido, salii a bordo del TGV presso la Gare de Nantes alle
nove di mattina e giunsi alla Gare Montparnasse di Parigi circa alla undici e
mezzo. Durante la mia permanenza nella metropoli alloggiai in un piccolo albergo
in prossimità del Jardin du Luxembourg. La maggior parte del tempo,
compatibilmente con gli orari di apertura, lo trascorrevo tra Quai
François-Mauriac e il Quadrilatero Richelieu, le due sedi più importanti della
biblioteca, immerso in libri antichi fino ad arrossarmi gli occhi per la
polvere. La sera, quando rientravo nella mia camera d’hotel, integravo le
ricerche cartacee con approfondimenti online fino alle due di notte inoltrate,
accettando solo i colpi di sonno come legittima interruzione degli studi. Il mio
riposo notturno era ridotto a meno di tre ore, la mia salute fisica spinta agli
estremi, i miei pasti sempre più brevi e magri a ogni loro iterazione, e
ciononostante i crampi della fame diminuivano in frequenza e intensità man mano
che dissotterravo un mosaico di orrori che era stato ricomposto solo da pochi
individui prima di me.
Riuscii a
rintracciare via Internet solo quattro o cinque di questi sventurati, basandomi
su indizi invisibili ai più, in messaggi apparentemente innocui su comunità
virtuali, che lasciavano intendere una loro più profonda competenza nella
materia ben al di là di stupide superstizioni sui riflessi. Come me adesso anche
queste persone si nascondevano nell’ombra, preferendo non parlare di ciò che
sapevano, e solo grazie alla maggiore disponibilità di due di loro fui in grado
di riordinare il caos nella mia testa e ricostruire la genealogia e le
implicazioni di tali mostruosità.
Non fornirò
una bibliografia dei volumi che ho consultato, perché non voglio che
l’ossessione che mi divorò in quei quattro giorni a Parigi mieta altre vittime.
Accettate ciò che vi sto per dire come il cortese riassunto di secoli di
cronache, di culti e di dottrine che vi atterrirebbero più della verità stessa.
Il primo
indizio rilevante venne da un trattato sulle religioni nordiche che mi trovai a
sfogliare quasi per coincidenza mentre ero ancora a Nantes. Il particolare che
mi interessò riguardava la divinità lappone Beywe, nient’altro che il Sole, e
più precisamente i suoi servitori. Questi, denominati
jorsunkarr, erano presentati come demoni antropomorfi che si
manifestavano come riflessi tra i giunchi che emergevano da una rientranza
segreta del lago Fjørvatnet, pronti ad avvinghiare e trascinare con sé gli
avventurieri meno cauti.
Di per sé
era una leggenda di poco valore, ma ciò che inquietava era che non era sola.
Lungo tutto l’arco dell’esistenza umana, una quantità impressionante di
idolatrie minori avevano come oggetto misteriose creature che vivevano negli
specchi, anche ben prima che gli specchi stessi entrassero in circolazione
nell’uso comune. Se i culti precedevano indicativamente quel periodo, tali
oggetti erano sostituiti da piani riflettenti come bacini d’acqua dolce o lastre
di metallo lucido.
Ogni tanto
certe dissertazioni teologiche che esaminavo annotavano a piè di pagina
somiglianze tra i credi sparsi sulla Terra: scoprivo così che esistevano
centinaia di ramificazioni dello stesso concetto di fondo che avviluppavano ogni
angolo del pianeta. Per ciascuna di esse era fornito anche il nome utilizzato
dai rispettivi popoli per indicare tali empietà: molti erano noti, come Belfagor
o Tzitzimitl, ma alcuni non erano nemmeno trascrivibili nel nostro alfabeto. Non
potei esimermi dal pensare che fossero avanzi di culti primitivi che nel
riflesso di superfici di pietra levigata avevano stabilito i primi contatti con
queste atrocità.
Altro punto
in comune tra tali religioni era che i demoni in questione non comparivano
dovunque. Ogni credenza era dotata di propri siti diabolici dove questi esseri
dimoravano, generalmente zone non più ampie di alcuni metri quadrati: solo qui i
riflessi delle persone venivano sostituiti o trasformati nei mitologici mostri
immondi. Soltanto i folli e gli eroi in cerca di gloria ardivano di
avventurarvisi, e non c’erano resoconti scritti circa individui che vi fossero
sopravvissuti.
Verso le
undici di mattina del terzo giorno della mia esperienza parigina giunsi a
formulare un’ipotesi che sostengo tutt’ora e che si rivelò poi analoga a quella
elaborata da uno dei pochi esperti dell’argomento che rintracciai su Internet,
un’ingegnera polacca con la passione per l’occulto. La teoria era la seguente:
che il nostro pianeta fosse e sia ancora disseminato di “nodi di contiguità”,
come li battezzò lei, aree di ridotte dimensioni dove gli uomini dietro lo
specchio possono entrare in contatto con noi. Uso il termine
uomini per semplicità di espressione: crediamo entrambi si tratti di
bestie silenziose la cui forma trascende l’apparenza fisica, orrori in qualche
modo affini alle idee della dottrina platonica che assumono le nostre apparenze
per poter interagire con il mondo sensibile. Siamo convinti che l’esistenza di
questa specie risalga a molto tempo fa, pur non essendo in grado di offrire
stime precise, e che le loro ingerenze nelle vite di innumerevoli popoli nella
storia ne abbiano provocato l’inserimento nei folklori locali in qualità di
servi del Diavolo. Ora come allora non ho idea di cosa vogliano, quale sia il
loro scopo e perché cerchino di entrare nel nostro mondo, ma tutti coloro che vi
si sono imbattuti si sono detti certi che siano creature malevole. Quando ci
imitano con minime imperfezioni mentre passiamo davanti a uno specchio si stanno
mimetizzando per studiarci, pronti a prendere il nostro posto.
Questa
versione combaciava con ciò che sapevo sull’appartamento di Villa Charbonneau.
Lo specchio sulla parete era inamovibile per una questione fisica: quando
qualcuno cercava di rimuoverlo, il demone dall’altro lato poteva esercitare una
forza opposta senza destare sospetti. Quando la signora Bellerose si era resa
conto del pericolo, aveva installato gli scuri per bloccare la luce esterna e si
era barricata in casa per impedire a chiunque di entrarvi. Aveva intuito che nel
buio non vi sono riflessi, e di conseguenza i mostri non avrebbero avuto libertà
di movimento. Questa era la ragione del soggiorno chiuso a chiave.
Ciò che
avevo scoperto aveva però altre, ben più cupe implicazioni: i nodi potevano
essere ovunque. Viste le loro dimensioni era anche possibile che si trovassero
in case già abitate ma in cui, per pura fortuna, non erano ancora stati
posizionati specchi nell’area nefasta. Per quanto esiguo il loro numero potesse
forse essere, la minaccia della loro presenza era sempre in agguato. E non osavo
immaginare cosa sarebbe potuto succedere se anche solo uno di essi fosse
riuscito a compiere il passo successivo e uscire dalla cornice.
Ammesso che
non fosse già successo.
Ecco, credo
che stessi riflettendo proprio su questo quando giovedì, alle dodici e
quattordici, mentre stavo riponendo i miei ultimi indumenti in valigia prima di
pagare l’albergo e avviarmi alla Gare Montparnasse, ricevetti la telefonata di
Phil. Appena vidi il suo nome sul cellulare la gola mi si inaridì. Di colpo
tutte le garanzie che avevo usato con me stesso per assicurarmi che la mia
sortita parigina non sarebbe stata scoperta mi parvero fragili e idiote. Mi
sedetti sul materasso e accettai la chiamata. Potevo solo pregare che mi avrebbe
perdonato.
«Pronto?»
sussurrai nel microfono con il tono più normale che seppi ostentare.
«Raoul…».
Il modo in
cui pronunciò il mio nome mi tranquillizzò. Non seppi dire che sentimento
tradisse, ma non era rabbia. «Phil?».
«Mi sta
guardando».
«Cosa?».
«Sono andato
alla casa di mamma, per, per l’elettricista». Fui perplesso per un istante dalle
sue parole, poi rammentai che l’appuntamento fissato per riparare l’impianto a
Saint-Martin era per l’una del mercoledì di quella settimana. In altre parole
entro una mezz’oretta. «E non so come… Lo specchio del soggiorno…».
Tacqui. La
mia cara forchettata al palato da nervosismo tornò a farmi visita, e io iniziai
a capire.
«Mi sta
guardando. Il mio riflesso sorride e mi guarda e, e non si muove. So che è
assurdo, ma––».
«Ascoltami.
Ascoltami». Lo ripetei anche se già aveva smesso di parlare, prendendo tempo
mentre mi imponevo di mantenere l’autocontrollo. «Calma e ascoltami. Hai aperto
gli scuri?».
«Io…».
«Per favore,
devo sapere tutto». Li avevamo chiusi nuovamente alla partenza nel timore che
dei ladri potessero provare a entrare nell’appartamento. Il fatto che la luce
non potesse penetrare in salotto finché non fossimo tornati era stato il mio più
grande conforto mentre dissotterravo la verità in biblioteca. «Li hai aperti?».
Quando parlò
nuovamente, Phil sembrò aver recuperato a forza un po’ di sangue freddo. Era
nelle sue corde. Anche questo mi piaceva molto di lui. «Sì. Perché doveva venire
l’elettricista».
«Devi
chiuderli». Phil tentò un’obiezione, ma lo anticipai secco. «No, per favore, non
c’è tempo. Devi chiuderli».
«Okay. Okay,
prendo le––».
Vi fu un
rumore metallico che identificai come chiavi cadute sul pavimento. Il silenzio
che seguì mi fece scattare in piedi dal letto dell’albergo. «Phil? Ci sei?». Un
respiro pesante e rapido mi rassicurò che il mio ragazzo era ancora in linea, ma
al contempo mi atterrì il pensiero di cosa lo stesse trattenendo dal parlare.
«Porca puttana, Phil, rispondi!».
«È contro il
vetro».
«Come?».
«Il mio
riflesso è…». Phil faticava a nascondere il tremolio nella sua voce, ma ci stava
provando comunque. «Quella cosa ha messo la faccia contro il… vetro dello
specchio, non so come spiegarlo. Sta premendo la faccia contro il vetro e
continua a sorridere come un maniaco!».
L’immagine
che si formò nella mia mente fu sufficiente a farmi arretrare fino all’armadio
che avevo alle spalle, il quale traballò quando mi ci appoggiai contro. «Phil,
vattene».
«Quelli non
sono i miei denti, non, non sono io!».
«Vattene».
«Cosa cazzo
è, Raoul?».
«Phil,
vattene!». Strinsi il telefono nella
mano sudata ed eruttai nel ricevitore tutta la rabbia e la paura accumulate in
quattro giorni di orrore. «Non fare il coglione!».
«Se mi volto
mi prende».
Mi bloccai.
Ve l’ho detto: non ci credevo allora e non ci credo adesso, di essere bravo a
leggere le persone. Ma quando Phil mi disse quella frase in quel tono trascinato
vidi al suo interno un sospiro di rassegnazione. Era una dichiarazione di resa.
«Cosa?».
«Lo fa
apposta. Appena mi volto esce di lì e mi ammazza». Il suo respiro era affannoso
come il boccheggio di una locomotiva in viaggio. «Le crepe…».
Fui spaesato
dall’ultima parola menzionata finché con orrore non compresi il riferimento:
parlava delle crepe nello specchio. Quelle incrinature che avevo imputato
all’umidità e che ora assumevano un aspetto del tutto diverso. La lastra era
screpolata come un muro in procinto di cadere.
Come se
qualcuno l’avesse presa a sprangate dall’interno nel tentativo di distruggerla.
Nel tentativo di passare attraverso.
«Ora ha
messo le mani sul suo lato dello specchio». Phil era ormai più intento a
informarmi che non a cercare di salvarsi. «Morirò, vero?».
«No. No,
tu––».
«Mio Dio,
morirò».
«No, Phil,
no, ascolta, non morirai». Camminai di qualche passo in avanti, come se ciò
potesse in qualche modo migliorare la situazione. «Devi chiamare aiuto. Cerca di
attirare l’attenzione di qualcuno nel giardino. Agitati, fai––».
«Non c’è
nessuno nel giardino, io… Mi dispiace, sono solo. Io––».
Il silenzio
che seguì fu in assoluto il più esasperante. Ancora oggi non so dire quanto durò
effettivamente, ma mi parvero ore. «Phil?».
Quando il
mio ragazzo riprese a parlare, le lacrime entrategli in gola distorcevano la sua
voce in un gorgoglio irriconoscibile. «Sta facendo di no con la testa. Sorride e
fa di no con la testa. Cosa vuol dire?».
Il cervello
umano sa lavorare a velocità inimmaginabili quando si trova in una situazione di
pericolo. In pochi istanti balenò davanti ai miei occhi una carrellata di
immagini: le nuove posate in metallo acquistate a Carquefou, il forno e il
lavello prima coperti dai plaid, i nostri mazzi di chiavi, e una per una tutte
le superfici riflettenti che avevamo introdotto nel soggiorno laddove non ce
n’erano state prima. Mi domandai, nel momento meno opportuno possibile, come
nessuno di noi due si fosse accorto dell’assenza intenzionale di qualsiasi
oggetto lucente in quella stanza prima del nostro arrivo.
Il mostro
nello specchio stava correggendo Phil. Lo stava informando che non era solo come
affermava. Il nodo di contiguità era l’intero salotto, e noi con invidiabile
ingenuità lo avevamo dotato di tanti piccoli varchi da cui altri della sua
specie avrebbero potuto riversarsi sulla Terra. La signora Bellerose aveva fatto
di tutto perché quelle orrende bestie rimanessero confinate nel loro piano di
esistenza, e noi avevamo smantellato il suo lavoro. Adesso, come nell’antica
tragedia greca, era il momento di pagare.
Si udì un
rimbombo di vetri infranti.
Come potete
immaginare non tornai mai più a Saint-Martin-sur-Loire. Ridussi la mia sosta a
Nantes al minimo sindacale: seppur non sapessi esattamente cosa fosse successo a
Villa Charbonneau, non era difficile dedurre che il riflesso di Phil era
sfuggito alla sua prigione rompendo lo specchio e ora vagava a piede libero nel
nostro mondo. Io sarei stato ovviamente il suo prossimo bersaglio, e la mia
città natale era il primo posto in cui sarebbe venuto a cercarmi. Il rientro al
mio monolocale durò meno di un quarto d’ora, il tempo di apportare poche
modifiche al contenuto del mio trolley e di recuperare dai vari nascondigli
quanti più gioielli possibili. Ad alcuni di essi ero molto affezionato, essendo
ricordi della mia gioventù in famiglia, ma avevo poco tempo per riflettere con
il cuore che minacciava di sfondarmi il torace. Temevo che da un momento
all’altro la porta sarebbe stata abbattuta, o una finestra mandata in frantumi,
e il mio inseguitore ultraterreno mi avrebbe assalito.
Vendetti ciò
che avevo racimolato a un compratore d’oro in Rue de Savenay e usufruii del
gruzzolo ricavato per fuggire dalla Loira Atlantica, seguendo un itinerario che
preferisco non rivelare per evitare di essere individuato a causa di tracce
lasciate in quel periodo che sicuramente ho dimenticato di cancellare. Avvertii
la polizia con una telefonata anonima due giorni dopo l’accaduto, appena reputai
sufficiente la distanza guadagnata sul mostro che mi braccava. Gli inquirenti
rinvennero il cadavere del mio ragazzo in un appartamento vuoto e senza impronte
estranee, e potete immaginare chi divenne il principale indiziato. Non ho
intenzione di descrivere le orribili condizioni in cui Phil fu ritrovato, ma i
quotidiani locali furono ben meno pudici e sono certo che con qualche sforzo
potrete recuperare i dettagli da qualche archivio pubblico.
Gli agenti
non furono in grado di trovarmi e suppongo che il caso fu ufficiosamente
archiviato, ma il fatto di essere ricercato a livello nazionale mi fornì un
ulteriore incentivo a lasciare la Francia. Cinque mesi dopo, una volta
accumulati abbastanza soldi, abbandonai definitivamente la mia amata patria e
salpai in direzione degli Stati Uniti d’America, dove come vi ho detto
all’inizio di questa testimonianza vivo tutt’ora. Concordai la mia nuova
residenza con l’ingegnera polacca di cui parlavo prima, la quale seppe
garantirmi con buona accuratezza che non avrei trovato nodi di contiguità nei
paraggi. Ad oggi è l’unica a sapere dove abito, e confido in lei abbastanza da
pensare che non mi tradirà se mai, Dio non voglia, gli uomini dietro lo specchio
dovessero rintracciarla.
Non ho il
coraggio di telefonare a casa per scoprire che ne è stato di mia madre, di mio
padre e delle mie due sorelle. Mi mancano. Mi mancano quasi quanto mi manca
Phil. Mi mancano i loro abbracci e l’odore dei loro capelli. Ci sono notti
solitarie, qui nei Grandi Laghi, in cui avrei un disperato bisogno di udire la
loro voce, ma non potrei sopportare la certezza della loro morte per mano di
quelle immonde bestie. Quante potevano passarne dai varchi agibili
nell’appartamento della signora Bellerose? Questo neppure la mia amica polacca
fu in grado di dirmelo. E del resto nessuno dei due voleva conoscere la
risposta.
Non possiedo
più specchi. Non per prevenzione, perché qualsiasi cucchiaio sufficientemente
lucido può essere un punto di passaggio valido, bensì per ipocondria mentale. So
che non riuscirei più a guardare il mio riflesso per aggiustarmi il colletto
della camicia. Ci sono esperienze da cui non ci si riprende: anche in assenza di
nodi di contiguità, con uno specchio in casa vivrei per sempre nel terrore che
un giorno la mia immagine faccia un passo falso.
Purtroppo io
so che la copia di Phil non è la sola in circolazione. Fu lei stessa a
confermarlo al mio ragazzo appena prima di ucciderlo, svelandogli che non era
solo lì dentro. Ed è altrettanto evidente che il secondo demone non può che aver
assunto una forma: la mia. Anche mentre scrivo queste righe so per certo che,
sperso chissà dove nel mondo, il mio doppione due volte ritardatario mi dà la
caccia. Non so quanto sia vicino o se abbia una pista da seguire, ma è là fuori.
Proprio come nel romanzo di Mary Shelley, prima o poi aprirò la porta di casa e
il mio mostro di Frankenstein sarà lì ad attendermi. Chissà cosa farò a quel
punto.
Nel
pomeriggio nebbioso di quel mercoledì di tre anni fa, nel giardino posteriore di
Villa Charbonneau, una domanda non aveva cessato di ronzarmi per la testa. Gli
esseri umani sperperano in media tre anni della loro vita a guardare uno
specchio. Siamo circondati da una Terra che è solo una piccola sfera del sistema
solare, che è solo un frammento della Via Lattea, che è solo una briciola
dell’universo osservabile, che è poco più di uno sbuffo d’aria nel perpetuo
ansimare del cosmo. Eppure preferiamo scrutare la nostra immagine riflessa.
Perché ci guardiamo allo specchio?
Per vanità,
certo, o per sapere se siamo presentabili; questo però solo quando
decidiamo di guardarci. Gran parte
delle occasioni in cui ci specchiamo sono però casuali. Una volta il finestrino
di un’auto, un’altra lo schermo di un televisore, un’altra ancora la vetrina di
un negozio. Quando notiamo una superficie riflettente proviamo l’istinto di
osservare noi stessi, di scostare i capelli, di sistemare la cintura.
Perché ci
guardiamo allo specchio?