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Autore: Blablia87    31/03/2016    11 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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John si lasciò andare nell’acqua fredda sentendola richiudersi sul proprio corpo bollente, balsamica, ogni centimetro di pelle lenito da quel contatto.
Chiuse gli occhi, ascoltando i rumori, ormai familiari, provenienti dalla cucina.
Sherlock lo aveva aiutato a salire fino al loro appartamento e aveva preparato il bagno, facendolo sdraiare sul divano in attesa che la vasca si riempisse a sufficienza.
Non si erano scambiati più una sola parola, dopo quel “sì” a fior di labbra prima di uscire da Waverton Street.
Lestrade aveva guidato personalmente fino a Baker Street, lanciando loro qualche breve occhiata dallo specchietto retrovisore, trovandoli sempre stretti, John contro il petto di Sherlock – occhi chiusi e respiro irregolare – ed il detective voltato verso al finestrino, sul viso un’espressione che l’Ispettore non aveva mai visto prima: un mosaico composito di emozioni, cangiante.
Con delicatezza Sherlock aveva condotto John in bagno, domandando se avesse bisogno di aiuto per svestirsi.
Lui, dopo un attimo di esitazione, aveva mormorato a mezza voce che non ce ne sarebbe stato bisogno.
Il solo pensiero di essere sfiorato, di mostrarsi nudo più di quanto la sua scia non stesse già facendo per lui, lo aveva atterrito, mozzandogli quel poco di respiro che riusciva a spingere fuori dai polmoni. Qualcosa, nel suo sguardo, o nel suo odore, doveva aver convinto Sherlock che fosse meglio non insistere. Così, senza aggiungere altro, il detective era uscito da bagno, lasciando la porta accostata per ogni evenienza.
John sentì dopo poco la voce della signora Hudson unirsi a quella del detective, uno scambio di mormorii dolci, come quelli di chi - sveglio prima degli altri abitanti della casa - smorza la propria voce per permettere ai compagni di continuare a riposare.
Un leggero rumore di stoviglie, poi nuovamente silenzio.
Passi leggeri verso il frigorifero, ancora qualche sussurro, silenzio.
John sentì il petto riempirsi di un ristoro che non aveva mai provato prima.
Era come un dolore, ma dolce, e ne avrebbe voluto di più. Avrebbe volentieri lasciato che gli aprisse il cuore, che lo avvolgesse e mangiasse, pur di continuare a tenerlo con sé, stretto assieme alla scia del detective che – emozionata, fremente e turbata assieme -  filtrava attraverso la porta fino ai suoi sensi.
John aveva già provato dei sentimenti, in passato. Alcuni, pochi, li aveva scambiati per amore e  definiti tale, con se stesso e con chi gli era stato vicino in quei giorni.
Ma solo in quel momento - di fronte al battito violento del proprio cuore in risposta al semplice sapere che l’altro si trovasse così vicino a lui, che esistesse, che fosse vivo, e al sicuro – capì di non aver mai amato tanto, prima.
Il pensiero, un’epifania violenta, totalizzante, esplose tra le sue palpebre chiuse, condensandosi in una lacrima di felicità che John lasciò il bilico ai bordi delle ciglia, senza liberarla.
Qualcosa cadde a terra, in cucina, e la signora Hudson esplose in una risata allegra, mentre Sherlock le intimava con un sibilo di tacere.
John socchiuse gli occhi, abbozzando un sorriso.
“Che state facendo, voi due?” Domandò, senza urlare, ma con voce sufficientemente alta da essere certo di essere udito.
“Niente.” Gli rispose il detective, dopo qualche secondo.
John lo immaginò intendo a fulminare con gli occhi la donna, per impedirle di aggiungere altro.
“Ho sentito un rumore!” Insistette il medico, con il solo scopo di infastidire l’altro in modo giocoso.
“La signora Hudson ha fatto cadere una ciotola.” Spiegò Sherlock, prima che un urletto stizzito della donna sottolineasse il suo disappunto.
“Io avrei fatto cadere la ciotola?!” Disse la donna, con tono oltraggiato.
Le voci tornarono ad essere poco più di un sussurro, e John chiuse nuovamente gli occhi, un sorriso compiaciuto sul viso.
La temperatura si stava abbassando, così come il fastidio provato sulla pelle.
In alcuni punti, dove i vestiti avevano strofinato ed insistito con più forza, si erano aperte piccole piaghe che adesso - a contatto con l’acqua – bruciavano, anche se non eccessivamente.
John si passò la mano destra sul braccio sinistro, ascoltando con i polpastrelli l’epidermide alzarsi e rientrare, escoriazioni ed ulcere, la mappa del suo viaggio per la città impressa nella cute.
Rimase così, immobile, fin quando non ebbe la sensazione che la febbre fosse completamente sparita. Solo allora, con movimenti attenti, tolse il tappo e si sollevò dall’acqua, uscendo dalla vasca.
I rumori provenienti dalla cucina erano svaniti, lasciando come unico suono udibile quello dell’acqua che, vorticosamente, spariva poco a poco attraverso lo scarico.
Si tamponò delicatamente con l’accappatoio, senza indossarlo.
Si guardò attorno, incerto se metterselo addosso il tempo strettamente necessario ad arrivare in camera, per cambiarsi.
L’idea di avvolgere nuovamente qualcosa attorno alle braccia, però, non gli parve accettabile.
La pelle era totalmente irritata, che coprirla avrebbe aperto nuove ferite.
“Sherlock?” Chiamò, accostandosi alla porta.
“John.” Rispose l’altro, la voce inaspettatamente lontana, proveniente dal salotto.
“Ho bisogno di salire in camera mia, ma non posso indossare l’accappatoio.” Iniziò, sentendosi improvvisamente ridicolo. “Saresti così gentile da… non so, scendere un attimo di sotto, o-?” Si affrettò ad aggiungere, cercando di rendere palese di non desiderare che l’altro lo vedesse, almeno che non fosse stata anche sua intenzione.
“I tuoi vestiti sono dietro la porta.” Lo interruppe Sherlock, con voce distaccata. “Biancheria, canottiera e pantaloncini. Spero vadano bene.” Aggiunse, atono.
John, sorpreso, aprì la porta quel tanto da notare il fagotto di abiti ripiegati con cura, adagiati con attenzione sul pavimento.
“Grazie…!” Mormorò, chinandosi per prenderli.
Tornò verso l’interno del bagno, i vestiti stretti al petto.
Con calma, lentamente, lasciò la testa scivolare nella canottiera, stando attento ad infilare le braccia senza toccare il tessuto. Infilò quindi la biancheria ed infine i pantaloncini, anch’essi avendo cura che non colpissero le zone delle gambe coperte dai segni.
Riappese l’accappatoio e radunò i vecchi abiti da una parte, riflettendo un attimo se metterli a lavare o gettarli. Alla fine decise che buttarli sarebbe stata la scelta migliore, ed uscì da bagno stringendoli tra le mani, appallottolati.
Girò nel corridoio, entrando in salotto.
Per un attimo rimase immobile, disorientato.
Il tavolo, solitamente ingombro di carte e documenti, era stato svuotato, coperto con una tovaglia ed apparecchiato per due.
John schiuse la bocca, sorpreso, muovendo gli occhi dalla quantità enorme di cibo al centro della tavola a Sherlock, seduto nella sua poltrona, gambe accavallate e sguardo indagatore fisso sul viso del medico.
“Hai… Hai cucinato?” Sussurrò John, occhi sgranati e voce genuinamente meravigliata.
“Tecnicamente, lo ha fatto la signora Hudson.” Rispose il detective, con tono ovvio. “Io ho tagliato la frutta.” Spiegò poi, indicando distrattamente una ciotola di metallo, piena di una macedonia variopinta.
John si fece scappare una risata soffocata, mordendosi le labbra subito dopo.
“Hai fatto cadere la ciotola.” Disse, allegro, ricollegando quanto sentito poco prima con quanto vedeva sul tavolo.
“La signora Hudson mi è venuta addosso.” Si schermì l’altro, voltandosi verso il caminetto, un’espressione offesa sul viso.
“Non intendevo…” John fece un passo verso il tavolo, sentendo la fame divenire forte, impellente. “È meraviglioso. Grazie.” Aggiunse, voltandosi verso il detective, ancora girato nell’altra direzione. “Ed è apparecchiato per due, per giunta. Avrò l’onore di vederti mangiare?” Gli disse, addolcendo voce e scia.
Sherlock sussultò appena, continuando a mantenersi lontano dal suo sguardo.
Il medico attese qualche secondo un cenno. Quando non li vide arrivare, si diresse verso la porta, i vestiti ancora tra le mani. “Porto questi di sopra e iniziamo, va bene?” Domandò.
“Avevi proposto una cena.” Rispose Sherlock, dopo un attimo, una vaga incertezza nella voce.
“Sì.” Confermò l’altro, aprendosi in un sorriso. “Ma non avrei mai saputo fare tanto.” Aggiunse, sperando che bastasse a far girare il detective nella sua direzione.
Sherlock rimase immobile, ma John lo vide abbozzare un sorriso, le fiamme del camino in festa sul pallore della sua pelle.
 
Sherlock osservò John portarsi un altro pezzo di pie alla bocca, guardandolo masticare lentamente, calmo.
“Non sono molto attaccato alle buone maniere, John. Mangia come senti di fare.” Gli disse, portandosi a sua volta la forchetta alle labbra, carica di un minuscolo pezzo di sformato.
“Se dovessi dar retto al mio istinto, starei mangiando con le mani.” Rispose l’altro, continuando a girarsi il cibo tra i denti. “Ma non ho nessuna intenzione di farlo.” Terminò, deglutendo e prendendo un altro boccone.
“Come ho detto, non è un problema.” Ripeté il detective, gettando uno sguardo nauseato al proprio piatto, ancora pieno.
“Lo è per me.” John bevve un sorso d’acqua e si voltò verso di lui. “Fin quando avrò la capacità di governare i miei istinti e pulsioni, lo farò.” Spiegò poi, affondando nuovamente la forchetta nel piatto.
Sherlock annuì appena, spostando gli occhi dal viso del medico al suo braccio, teso davanti a lui nel tentativo di raggiungere la teglia al centro del tavolo.
Piccoli segni rossi ne costellavano la pelle, come tante punture di insetto.
In alcuni punti, tagli e lacerazioni più profonde arrivavano a mostrare il sangue rappreso tra i  lembi alzati.
Sherlock sentì una furia accecante montargli dal petto, arrampicandosi su di lui come un incendio. Chiuse gli occhi, cercando di normalizzare il respiro, ma la sua scia – ancor prima che potesse rendersene conto - esplose in un fuoco di odori che fecero attaccare il medico allo schienale della sedia, i sensi all’erta ed il fiato mozzato.
“Cosa…?” Balbettò John, girandosi verso di lui con occhi sgranati, il braccio congelato in un movimento interrotto.
Sherlock si alzò velocemente dal tavolo, diretto in cucina, nella necessità di allontanarsi il più possibile da John e dalla paura che sentiva farsi strada nella scia dell’altro.
Il medico rimase immobile qualche secondo, poi lasciò cadere forchetta e tovagliolo sul tavolo e seguì il detective nell’altra stanza.
“Sherlock?” Provò, rimanendo nel limbo tra i due ambienti.
Il detective, viso alla finestra, non diede segno di averlo sentito.
“Sherlock.” Tentò nuovamente, facendo un passo all’interno della cucina.
La scia dell’altro, forte, alta, aveva già saturato la stanza, tanto che il medico ebbe l’istinto di cercare riparo, di allontanarsi.
Combattendo la rigidità delle proprie gambe, si mosse ancora un po’ in direzione del detective, cercando sostegno con una mano sul tavolo della cucina.
“Che succede?” Domandò, cauto, tentando di mantenere il proprio odore su un tono neutro, rassicurante, non dominato dalla paura che fino a pochi attimi prima l’aveva colmato.
“Per favore.” Insistette. “Parlami.”
Sherlock, dopo qualche attimo, si voltò verso di lui, sul viso una commistione di tensione, paura e ansia.
“Non saprei cosa dirti.” Iniziò il detective, facendosi uscire a forza le parole dalla bocca, il respiro stretto in gola. “Non so come spiegarlo a me, tanto meno sarei in grado di farlo con te.” Aggiunse, scuotendo la testa, lo sguardo perso a tentare di mettere a fuoco un’emozione che sentiva esplodergli nel petto ma che non era in grado di esprimere compiutamente.
“Sei arrabbiato.” Constatò John, inclinando la testa da un lato. “È colpa mia?” Azzardò, incerto.
“Certo che è colpa tua!” Sherlock schiuse la bocca in accenno di ringhio, ma vuoto di astio. “Sei arrivato in questa casa, hai…” Il detective si morse il labbro superiore, continuando a non trovare le parole. “Hai… “ Tentò ancora, vanamente. “Saresti potuto morire!” Lo accusò allora, posando su di lui uno sguardo spaventato. “O peggio. Sai cosa succede agli Omega in Calore che girano da soli?!” Sherlock ondeggiò una mano davanti a sé, in un gesto meccanico. “Ne hai…” La voce del detective si frazionò, scheggiandosi assieme alla sua scia. “Sei pieno di ferite.” Mormorò poi, incapace di aggiungere altro.
“So cosa accade a quelli come me se escono soli nelle mie condizioni, Sherlock. E se dicessi che non ho rischiato un attacco ti mentirei.” Iniziò John, con voce calma, sentendo la scia di Sherlock esplodere alle sue parole, per poi farsi bassa, timorosa.
“Ma…” Continuò il medico, chiudendo gli occhi e facendo appello ad ogni parte della sua volontà. “Se ti avessi perso per codardia, per non aver tentato… Non sarei stato in grado di…” Si bloccò, incerto se terminare o meno la frase. Dire che non sarebbe stato in grado di continuare a vivere con quel peso, era ai suoi occhi una confessione nuda dei propri sentimenti. Li aveva già espressi, in altri modi, ma le parole davano una concretezza a quell’emozione che non era certo l’altro desiderasse.
“Mi dispiace.” La voce di Sherlock, tanto fine da non sembrare sua, raggiunse John come un alito di vento. “È ridicolo.” Continuò il detective. “Mi sto rendendo ridicolo.” Specificò meglio, mordendosi le labbra, lo sguardo a terra, sconfitto. “Mi comporto come se fossi il tuo Alpha, anzi, peggio. È…” Si interruppe, cercando le parole adatte. “Ingiusto nei tuoi confronti. Non ne hai bisogno. E neanche io.” Terminò, staccandosi dalla parete, diretto all’uscita laterale che dava sul corridoio.
“Dove vai?!” John lo seguì in salotto, e poi lungo le scale, verso il piano terra.
“Non ho ancora tenuto fede alla promessa.” Sherlock scese l’ultimo gradino e girò a sinistra, verso la porta del seminterrato.
“Fermati un attimo, per favore.” John scivolò dietro di lui, prima sul pianerottolo e poi oltre la porta del sottoscala, che si richiuse con un gemito dietro di loro.
“Sherlock.” Lo chiamò, con tono supplichevole. “Ti prego.”
L’altro, già seduto oltre la scrivania, alzò uno sguardo perso su di lui.
“Mi sembrava fosse anche una tua priorità…” Iniziò, corrugando la fronte.
“Sì. Dio, sì.” Gli concesse John, annuendo, le dita della mano sinistra strofinate con forza tra loro, tese. “Ma adesso la stai usando come scusa, e…”
“Scusa?” Sherlock diede una piccola spinta al microscopio, per sistemarlo correttamente.
“Sì, stai scappando. E non ho intenzione di lasciartelo fare.” John si portò in posizione eretta, nella perfetta rappresentazione del suo miglior rigore militare.
“Non so di cosa tu stia parlando. Avevamo un patto, e-“ Iniziò l’altro, con tono distaccato.
“E? Troverai la cura, azzererai la mia scia e faremo finta che tutto il resto non sia mai successo?” Chiese il medico, alterato.
“Sì.” Confermò Sherlock, cercando con gli occhi il vetrino. “Perché è questo che vuoi, anche se non te ne rendi conto, nella tua condizione.” Aggiunse, osservando con disappunto la piastra rovesciata sul tavolino.
“Nella mia…” John emise una risata soffocata, scuotendo la testa, incredulo. “Sono in proestro, Sherlock. Sono ancora ben fermo sulle mie gambe, e nelle mie capacità mentali.”
“No, sei sconvolto dagli ormoni, e la dimostrazione sta nel fatto che hai percorso mezza città solo per venire a cercarmi.”
“Dio!” Esplose il medico, furioso. “Sono un Omega, Sherlock! Non dovrebbero essere i miei ormoni a spingermi per mezza città! Aspetta…” John socchiuse la bocca, lasciando lo sguardo vagare per la stanza, improvvisamente senza meta. “Tu non vuoi che abbia una scia! Certo, come ho fatto a non capirlo?” Il medico abbozzò una risata, triste. “Tu non lo vuoi, un Omega in casa!”
“IO - rispose Sherlock, alzando la voce, nella scia un insieme di paura e rabbia -  NON VOGLIO QUALCUNO CHE MI GIRI INTORNO PER BISOGNO!” Sbatté un pugno sul tavolo, alzandosi appena dallo sgabello.
“SEI RIDICOLO!” John, gambe tremanti e respiro corto, si impose di rimanere immobile. “STAI SCAPPANDO! HO SENTITO LA TUA SCIA, IN QUELLA CASA!” Continuò, sforzandosi di continuare a tenere il tono di voce elevato. “ED IO NON SONO IN ESTRO, MALEDIZIONE!” Gridò, avvampando per lo sforzo e la tensione. “Non sono in estro, Sherlock.” Ripeté, sfinito, abbassando la voce.
Rimasero immobili a fissarsi, il detective chino in avanti, sulla scrivania, e John al centro della stanza, i pugni chiusi lungo i fianchi.
Con il respiro mozzato e il petto in fiamme, in medico attraversò la stanza, avvicinandosi a Sherlock fin quando non rimase a dividerli solo la scrivania.
“Sono padrone dei miei pensieri e delle mie scelte.” Soffiò il medico, gli occhi legati a quelli dell’altro. “Lo sarò fino al primo giorno di estro, e poi di nuovo, appena sarà finito.” Continuò, sottolineando ogni parola con lentezza e forza.
“Lo so.” Sherlock espirò le parole assieme al proprio respiro. “Lo so.” Ripeté, abbassando gli occhi.
John lo osservò mordersi le labbra, teso, incapace di trovare un modo per abbandonare i propri timori.
Con delicatezza, lento, gli portò due dita vicino alla guancia, sfiorandolo.
“Non sono certo che domani potrò affermare con la certezza che non sia il Calore a parlare.” Iniziò John, sentendo il cuore disarticolarsi nel petto. “Ed è per questo che è importante che lo faccia oggi.” Chiuse gli occhi, il tempo di prendere coraggio e di un battito di ciglia, di sentire la scia di Sherlock cambiare, diventare spaventata, piccola, indifesa.
“Non ho mai voluto un Alpha in tutta la vita.” Gli sussurrò sul viso, rafforzando la pressione delle dita su di lui. “Non lo voglio neanche ora.” Sherlock vibrò appena, sconfitto.
“Ma vorrei l’uomo che ho di fronte, se per lui va bene.” John appoggiò la fronte a quella del detective, sentendosi tremare al ritmo dello stesso timore.
“Vorrei davvero tanto che la persona davanti a me mi scegliesse.” Sussurrò.
Sherlock sentì un dolore mai provato dar fuoco ad ogni parte del suo corpo, incendiandogli le labbra, i polmoni, gli occhi. Circondò con una mano quella di John, e portò l’altra attorno al viso del medico, sorprendendosi per il tepore di quel contatto.
John piegò la testa di lato, dolcemente, poggiando le labbra su quelle del detective con delicatezza, carico di timore.
Per un attimo si respirarono solamente, i volti chiusi tra le mani e le bocche socchiuse, immobili, reverenti.
Fu John, dopo un tempo che parve ad entrambi troppo breve, a posare la mano libera su petto dell’altro, scostandolo appena, morbidamente.
La stanza era ormai carica di loro, del loro odore, delle loro scie sature di commozione, amore, passione, necessità di stringersi di più, più vicini, più forte.
“Vorrei…” Iniziò John, sentendo il proprio corpo reagire in risposta al suo pensiero ancora prima di averlo espresso. “Non vorrei…” Tentò di nuovo, e Sherlock si mosse verso di lui, staccando i loro corpi per aggirare il tavolo ma mantenendo gli occhi uniti, legati.
“Vorrei davvero non fosse sotto la spinta dell’estro… Chiedertelo sapendo cosa sto facendo, intendo…” Provò ancora il medico, muovendo gli occhi liquidi sul viso di Sherlock, adesso a pochi passi da lui.
Il detective non rispose, ma finì di avvicinarsi e si chinò su di lui, unendo di nuovo le loro labbra. Rimasero così per attimi interi, assaggiandosi, cercandosi e riconoscendosi sotto una nuova forma, su altre strade, in altri suoni.
“Andiamo, vuoi?” Gli soffiò Sherlock sulle labbra quando riuscirono a riemergere da quel contatto totalizzante, sentendo l’altro tremare in risposta.
A fatica, impacciati, uscirono dalla stanza, muovendosi verso il loro appartamento con passi scomposti, i corpi vicini, i respiri mozzati.
Sherlock chiuse la porta con un movimento brusco, sconnesso, e tornò da John, immobile a pochi passi da lui.
Fu un attimo - il tempo di un respiro vibrante ed una lacrima - prima che, senza parlare, decidessero di lasciarsi andare, liberando corpi, scie ed anima.
Con attenzione, spauriti e disorientati, scoprirono l’uno il corpo dell’altro, a piccoli passi, con gesti delicati e dita tremanti, la pelle del divano a sostegno delle loro.
Con stupore si scoprirono incapaci, impacciati, ognuno perso dalla meraviglia di trovarsi in un ruolo mai coperto prima.
Una prima volta scomposta, spaventata, carica di desiderio e tenerezza, a tratti goffa, dolce.
Sherlock rimase ogni attimo con gli occhi su John, senza riuscire a staccarsene.
Non aveva mai avuto nessuno da proteggere, non aveva mai desiderato averne.
Ma mentre lo osservava - occhi chiusi a labbra socchiuse sotto di lui, disarmato, indifeso come solo un uomo forte può essere – riuscì unicamente a pensare che avrebbe potuto uccidere, per lui.
Che lo avrebbe potuto fare senza alcun rimorso, solo per tenere chiunque lontano da quel miracolo che adesso lo guardava con occhi grandi, carichi di ogni cosa non aveva mai avuto sognato di poter chiedere, immaginato di desiderare.
Quando, stremati, si staccarono, Sherlock si spostò di lato, facendo spazio al medico, che si mise su un fianco, appoggiando il viso al petto dell’altro.
“Grazie.” Sussurrò John, muovendosi appena, ancora percorso da brevi scariche elettriche.
“Per cosa?” Domandò Sherlock, confuso, abbassando gli occhi su di lui.
“Per non avermi morso.” Rispose l’altro, a metà tra uno scherzo ed una genuina gratitudine.
“Mai.” Gli sospirò Sherlock tra i capelli.
“Mai.” Ripeté, chiudendo gli occhi.
“Sarà difficile, con l’estro conclamato.” Continuò John, la voce labile, stanca.
“Il piano per l’estro è sempre lo stesso. Penserà la signora Hudson a te.” Rispose il detective, sentendo John muoversi appena, al suo fianco. “Ma troverò qualcosa, te lo prometto.” Aggiunse, posando incerto una mano sul braccio dell’altro.
“Non mi importa molto, in realtà.” John alzò il viso verso l’alto, incrociando gli occhi di Sherlock. “Certo, sarebbe meraviglioso poter tornare a girare liberamente per le scene del crimine. Ma posso farlo anche da Omega, a Calore concluso.” Aggiunse, con una vena di insicurezza appena percepibile nella voce.
“Troverò qualcosa.” Ribadì Sherlock, sicuro. “Ad ogni modo, non sei un Omega.” Aggiunse, alzando il viso verso il soffitto.
“No?” Domandò John, confuso.
“No.” Confermò il detective, sicuro. “Sei il dottor John H. Watson. La persona che ho la fortuna di poter definire coinquilino, collega ed amico.” Chiuse gli occhi, sospirando.
 
“L’uomo tanto coraggioso da aver scelto me.”


Angolo dell’autrice:
 
L’uomo.”
Volevo che fosse questa l’ultima sensazione a rimanere, della storia.
Un uomo e la sua scelta.
È stato un viaggio enorme, lunghissimo, ed è tutto lì, in quelle parole ed in un John al quale non importa poi più così tanto, che la gente sappia che è un Omega.
Perché si è trovato e ritrovato e, in fondo, può andar bene così.
 
 
 
Alla fine, anche questa storia ha trovato la sua conclusione.
Ammetto di essere ancora spaesata all’idea che non ci saranno altri capitoli.
È una sensazione strana, agrodolce, e penso che mi accompagnerà a lungo.
 
I miei ringraziamenti più sentiti a tutti voi.
A gli oltre cento che hanno “seguito”, agli innumerevoli che hanno letto, a chi mi ha dato la gioia di vedere la storia tra i preferiti, a chi ha commentato, sostenuto, indirizzato, gioito con loro, e con me.
 
È stato un viaggio incredibile, e credetemi se vi dico che ho il magone.
Senza di voi nulla di tutto questo sarebbe stato possibile (o comunque avrebbe avuto senso), quindi
 
GRAZIE
 
Non avrei potuto chiedere nulla di più, siete stati meravigliosi.
 
Un abbraccio forte.
B.
 
 
 
“See You Space Cowboy”
 
 
 
PS: loveart7 mi ha detto che il capitolo le ha fatto venire in mente il "Divenire" di Einaudi. La cosa mi ha commossa, ed il pezzo è davvero meraviglioso, quindi vi allego il link per poterlo ascoltare:

https://youtu.be/X1DRDcGlSsE



PPS: come al solito vi lascio con un’immagine. Non è del tutto uguale alla posizione di Sherlock e John sul divano, ma…
La amo alla follia.


 
   
 
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