Frammenti
di primavera
Aveva
contato altri fiori.
Tanti
altri nuovi fiori si erano aperti al sole di primavera.
E
lui li aveva contati.
Lo
faceva ogni volta che passava davanti a quel campo, era come tenere il conto
dei quotidiani momenti di stupidità che lo portavano ogni mattina a procedere
lungo lo stesso percorso.
Stupido e patetico.
Si
sentiva dannatamente patetico, nemmeno fosse stato un adolescente in preda a
squilibri ormonali.
O
era la primavera?
La primavera… stupido e
patetico!
Ne
aveva contati dieci alla destra del solito posto in cui si fermava, ventidue
alla sinistra, e trentaquattro proprio di fronte a lui, ma quella mattina non
ne era sicuro: erano prettamente bianchi, ma ne aveva scorti anche di rossi e
alcuni di un timido giallo come un sole che sbadigliava all’orizzonte.
Ogni
mattina, quando scendeva dal letto, si ripeteva che non sarebbe tornato là, a
guardare quel prato e a percorrere quelle stradine, ma ogni volta i suoi passi
seguivano quelli del giorno prima e del giorno prima
ancora, come se una qualche magia avesse cancellato in un attimo tutti i suoi
ragionamenti.
Ah, quale magia!
Facendo
un conto di tutti i fiori che erano sbocciati, la sua stupidità era aumentata
di parecchio, soprattutto perché il rischio di essere scoperto cominciava a
farsi concreto, la sua era più una sensazione, perché le accortezze che aveva
preso, rendevano parecchio difficile l’essere
smascherato.
Quelli
erano altri petali appena aperti?
Al
diavolo quello stupido campo!
In
quel momento lo avrebbe bruciato volentieri, ma si limitò a sistemarsi la
giacca e riprendere a camminare.
Il
profumo della primavera era tutto lì.
Una
leggera brezza lo portava dal campo a lì, sguarnendolo di aromi, come se avesse
voluto lasciare la bellezza visiva tra i fiori e lo spettacolo dei vari profumi
lontano da essi, per portarli sempre con sé.
Le
fragranze di primavera erano in quei vasi dai mille colori al centro di ogni
tavolo, erano nel caffè di prima mattina o nel burro dei biscotti; erano nelle
bocche di ogni uomo e donna che passava di lì, di ogni bambino che allungava le
mani verso una torta esposta in vetrina.
Primavera
era nella sua bocca.
E
assaporare a pieni polmoni quello che anche lui avrebbe assaporato, era un
bacio ad ogni molecola della vita fino alle sue labbra, un bacio d’invisibili
costrizioni, era stringere ciò che non poteva stringere attraverso gli atomi
del mondo, come polline portato da un’ape di fiore in fiore, e lui non
aspettava altro che un qualche piccolo insetto gli portasse il suo sapore nel proprio respiro.
Primavera
era quel bacio non dato.
Un
bacio desiderato.
Era colori in festa
e una vita immobile.
Quella
mattina, al suo tavolo, lo accolse un piccolo mazzo di margherite bianche.
Si
guardò intorno e vide che solo lì ce n’erano, gli altri vasi contenevano altri
fiori di diversi colori, ma nessuno di essi aveva dentro di sé margherite.
Gli
sembrò strano, ma non ci badò più di tanto.
Le
margherite non erano il fiore per lui, del vero
lui.
Purezza
e innocenza le aveva perse da molti moltissimi anni e niente
avrebbe potuto ridargliele, tantomeno un fiore raccolto in un campo, né avrebbe
mai chiesto gli fossero restituite, era stato lui a barattare entrambe con un
barattolo di sogni infranti e nient’altro che malvagità.
Era
il prezzo che aveva pagato ed ora di bianco gli
rimaneva solamente la pelle.
L’anima
era stata un fiore di primavera che era sbocciato colorato e profumato e in
poco tempo era morto lasciando nient’altro che marcio sulla terra.
Era
una margherita dallo stelo nero di sensi di colpa e dai petali rossi come il
sangue che gli aveva macchiato le mani disegnandogli la parola “peccato” sulla
pelle come un indelebile tatuaggio che niente avrebbe mai potuto cancellare.
Era
una primavera corrotta.
Ah, l’amore fedele!
In
un certo senso era stato fedele, no?
Aprì
l’unico bottone allacciato della giacca e, sospirando amaramente, si mise
seduto al medesimo quotidiano posto.
«Le
porto il solito, signor Oldman?»
«Sì,
grazie.»
Era
diventato un abitudinario, un orologio preciso.
Le
abitudini uccidono, aveva sentito dire da qualcuno, non ricordava chi, ma lui
lo avrebbe ucciso tutto quel guardare e basta, quell’immobilità di sentimenti e
di vita, quel rodersi dentro per un desiderio che non riusciva a buttare fuori
attraverso il respiro.
Era parole silenziose.
Dichiarazioni
vuote.
Pensieri
nascosti.
Di nuovo.
«Ecco
a lei.»
«Grazie.»
Sempre
le stesse poche parole e quel caffè che aveva in sé lievi sentori di cacao
amaro e frutta secca, e un piattino con Chocolate
crackle cookies che spazzolava ogni volta ben volentieri.
Forse
era l’agitazione a farlo mangiare in quel modo, o il fatto che fosse cambiato,
lui sempre così rigido e controllato anche nei momenti peggiori che spesso
riusciva a malapena a mandare giù qualche goccia di vino, mentre in quei momenti
se gli avessero portato un bue intero lo avrebbe
trangugiato tutto sentendosi ancora affamato anche se il suo stomaco non
avrebbe retto.
Non si può amare bene
se non si mangia bene.
Sorseggiò
un po’ di caffè ancora fumante, e tutti i suoi sapori gli invasero il palato.
E
la primavera gli invase il palato.
Era
come se la bevanda avesse assorbito gli aromi intorno a sé, e sperava che lui fosse stato già nelle vicinanze e il
caffè avesse assorbito anche il suo
odore.
L’odore
della primavera in sé.
Un
biscotto tra le labbra, ed era come se le margherite volessero dirgli qualcosa,
come se si fossero per un attimo animate e lo guardavano.
È un piccolo sole
quello che osserva.
Dei
piccoli soli lo stavano osservando e gli sembrava gli stessero
sorridendo.
Erano
delle piccole vite che gli sorridevano.
Portano il sole nella
vita delle persone.
Dov’era
il sole nella sua vita?
Faceva
caldo quella mattina, e si sfilò la giacca continuando a bere il caffè e
mangiare i biscotti.
Prese
l’ultimo biscotto dal piatto e lui
era lì.
Si
avvicinava lento al suo solito posto,
pensieroso, con una vecchia borsa di cuoio scuro a tracolla e un giornale
stretto in una mano.
Lo
avrebbe osservato come sempre, in silenzio, rispettoso e assolutamente maniaco.
Un dannato maniaco!
Avrebbe
voluto ridere, buttarsi a terra e urlare di risa, ma cercò di ritrovare la sua
compostezza nascondendo la bocca dietro alla tazza ormai vuota.
Continuò
a scrutarlo di soppiatto, ma lui
continuò ad avanzare invece di fermarsi al suo
tavolo, e proseguì finché non se lo ritrovò davanti, con quel sorriso sornione
che amava e odiava al contempo.
«Posso
sedermi qui?»
Lo
scrutò per un istante, poi fece vagare lo sguardo al suo tavolo e agli altri tavoli, per poi
tornare a guardarlo, sorpreso. «Ci sono diversi tavoli vuoti, perché qui?»
«Posso
o no?»
«Sa
che è maleducazione rispondere ad una domanda con
un’altra domanda?» ma lui sorrise e
senza aspettare alcuna replica, scostò la sedia dal tavolo e si mise seduto.
Sfacciato!
«Mi chiamo Harry.
Harry Potter» e gli tese la mano, sempre con quel
sorriso stampato in faccia.
«Io sono… sono
John. John Oldman» rispose stringendo la mano di
Harry.
Come
poteva perdere l’occasione di toccarlo almeno per un istante? Un’occasione che
gli era piovuta così, inaspettata, e neppure tutto l’imbarazzo e
l’inadeguatezza del mondo avrebbero potuto fermarlo dall’allungare
le dita e sfiorare quella pelle candida.
Un
leggero alito di vento spostò una margherita dal vaso, e ogni profumo.
La
primavera di Harry era dentro di lui.
Nel
respiro.
Negli
occhi che avrebbe voluto chiudere per assaporare meglio ogni sua essenza.
La
primavera era il sole nella sua vita.
«Ha
letto di quell’incidente?»
«No.»
«Vuole
leggere?»
«Certo.»
Potter
gli passò il giornale, ed iniziò a leggere:
l’incidente era stato drammatico, c’erano stati parecchi morti e si rammaricava
di questo, aveva visto troppe persone passare oltre la vita che sperava
solamente di sentire di uomini e donne morte di vecchiaia dopo un’esistenza
piena e felice.
«Spaventoso»
pronunciò appena, mentre Harry continuava a fissarlo con quel suo strano
sorriso.
«Già.»
Fu il suo unico commento prima di ordinare anch’egli un caffè e un porridge. «Di cosa si occupa, signor
Oldman?» chiese all’improvviso, mentre l’attesa del suo ordine si era fatta
silenzio davvero imbarazzante tra i due, un silenzio condito di vari profumi e
di scenari improbabili.
Troppe domande.
«Io?»
«Sono
al tavolo con lei, a chi altro dovrei domandarlo?»
Sfacciato.
«Io. Io faccio… faccio il farmacista.»
«Davvero? Posso
approfittare di lei?»
Scenari
improbabili che in un attimo si trasformarono in parole indicibili e cercare di
mantenere la concentrazione era dannatamente difficile in quel momento, in più
non poteva nascondersi ancora dietro la tazza perché Harry era troppo vicino e
avrebbe visto che fosse vuota.
«Nel
senso che posso chiederle un consiglio?»
Decisamente troppe domande.
«Se
posso,» rispose, provando ad essere disteso e sicuro
di sé.
«Sono
giorni che ho un forte mal di gola, ho preso vari medicinali, ma nessuno mi ha
dato qualche beneficio, cosa mi consiglierebbe di provare?» E si sporse un po’
in avanti, i gomiti sul tavolo e poggiando il mento sulle mani: i suoi occhi
illuminati dalla luce del sole erano ancora più belli, era perdersi in una
distesa di fresca erba, gettarsi a terra e farsi abbracciare dagli innumerevoli
steli che si muovevano sinuosi al vento.
Era
perdersi senza più il desiderio di ritrovarsi.
«Ha
provato con un in…» si fermò appena si era reso conto di ciò che stava per
dire, quegli occhi lo avevano distratto troppo e non poteva permetterselo. «Un
infuso di erbe officinali» si corresse, e Harry non sembrò turbato da
quell’interruzione, si sistemò meglio sulla sedia e continuò a fissarlo, gli
occhi sempre più vicini e quasi poteva sentire il suo respiro. «Un bell’infuso
di Salvia, Piantaggine, Timo, Sambuco e Anice stellato, è proprio quello che fa
per lei.»
Il
vento mosse un’altra margherita, era la più piccola nel vaso, prima rivolta
verso Harry e poi verso di lui, e il suo giallo aveva per un secondo dipinto
oro nei suoi occhi in piccoli tratti, grano maturo in un bosco rigoglioso.
Un
cameriere portò ciò che Potter aveva ordinato e subito iniziò a mangiarlo con
appetito e con gusto: in tutti quei giorni aveva visto Harry prendere sempre
cose diverse, voleva sperimentare tutto, come aveva detto più volte al
proprietario del Caffè, non era un abitudinario, era un impulsivo, era una
persona che si lasciava trasportare dal tempo o da qualsiasi altra cosa,
decideva al momento.
Era
tutto il contrario di lui.
Eppure
c’erano molte cose che li legavano, soprattutto cose terribili, ed era forse
stato il loro essere solcati da crepe a renderli così uniti, e lo erano stati
in tutti quei mesi, da quando era riuscito a sconfiggere la morte, come
semplici persone che si stavano conoscendo, da quando era
tornato ad Hogwarts, come suo insegnante e da quando
aveva preso la sua strada, come…
Come un maniaco stupido
e patetico.
Nei
sentimenti gli era sempre mancato coraggio, dovette
ammetterlo.
Il
profumo del campo continuava ad arrivare fin lì: chissà quanti fiori si erano
aperti in tutti quei lunghi minuti.
«Sa…
signor Oldman… il suo non è per
niente un consiglio da farmacista» parlò all’improvviso, dopo aver mandato giù
l’ultimo boccone di porridge ed
essersi pulito la bocca. «O forse dovrei chiamarla “professor Snape”?»
Aveva
davvero sentito bene?
Sì,
aveva sentito bene, tanto che per lunghi istanti non riuscì a dire nulla e a
muovere a malapena il viso, e ci volle tutto il suo autocontrollo per far
uscire dalle sue labbra un «Chi?» che sperava lo convincesse.
Harry
sorrise, afferrò la piccola margherita e se la rigirò tra le dita, guardandola
come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto e continuò a muoverla
anche quando il suo sguardo si alzò per incontrare il suo: erba che ricopriva
una grotta buia e umida ostruendone il passaggio, era quella la sensazione che
aveva provato in quel frangente.
«Puoi cambiare il
tuo aspetto, diventare John Oldman, ma il tuo modo di alzare le sopracciglia
sarà sempre il tuo, il modo in cui parli, il modo in cui pieghi appena la testa
e corrucci la fronte quando qualcosa di negativo attraversa i tuoi pensieri, il
modo in cui muovi le mani o rilassi le spalle o le irrigidisci. Il modo in cui
disegni ogni volta la linea delle tue labbra, ad ogni
espressione. E posso continuare, se vuoi?»
John,
o meglio, Severus rimase spiazzato da tutte quelle affermazioni: lo conosceva
davvero così bene? O era lui ad essere diventato oltre
che patetico anche un incapace?
Tutti quei dettagli.
«Quello
che non capisco è perché hai inscenato questa farsa.»
Perché sono innamorato
di te.
Perché sono innamorato
di nuovo di chi non posso avere.
Perché mi accontento di
vederti anche solo da lontano.
Perché per vederti da vicino,
devo diventare un’altra persona per non sembrare un maniaco patetico.
Perché vorrei lasciarti
andare, ma non ci riesco.
Perché non riesco a
dirti tutto questo e allora mi limito al silenzio e a guardarti da estraneo.
Perché vorrei non essere un estraneo.
Perché vorrei alzarmi
da questa sedia e baciarti.
Perché tu porti il sole
nella mia vita.
Perché vorrei che lo
portassi per sempre.
Severus
indugiò in quel silenzio che sapeva di mille parole urlate in una stanza vuota,
e abbassò lo sguardo, non riuscendo più a sostenere quegli occhi né quel
sorriso.
Scostò
la sedia e si alzò, desiderando solo allontanarsi da lì, dal vaso di margherite
che continuavano ad osservarlo, quasi a giudicarlo,
allontanandosi da Harry e da quella margherita che ancora stringeva nella mano.
Prese
un foglio dalla giacca, sussurrò qualcosa d’incomprensibile, lo lasciò cadere
sulla sedia e se ne andò a grandi passi, lasciandolo ancora seduto e ancora sorridente.
«Sai
che la margherita è anche simbolo dell’amore fedele?»
Lui,
però, non rispose.
Era
di nuovo lì, davanti a quel prato, ma stavolta non aveva contato nient’altro.
Non
voleva aggiungere altri momenti stupidi e patetici a quelli che già aveva avuto.
Il
profumo della primavera era rimasto su quelle sedie, lì c’era solo la bellezza
dei colori.
C’era
il profumo di Harry.
C’era
Harry.
Harry
che mise nella tasca della sua giacca la margherita che aveva ancora tra le
dita.
Quel
piccolo sole che irradiava raggi bianchi.
La
adagiò lì, con i profumi della primavera e della sua anima, e ci posò anche un
pezzo di carta.
Gli
sfiorò appena una mano e lo lasciò lì, di nuovo da solo, di nuovo
a contemplare la primavera.
Minuti.
E
ancora minuti.
E
il sole saliva mentre il cielo si faceva sempre più azzurro.
E
le mani aprivano quel foglio.
Perché
sono innamorato di te.
Perché
sono innamorato di nuovo di chi non posso avere.
Perché
mi accontento di vederti anche solo da lontano.
Perché
per vederti da vicino, devo diventare un’altra persona per non sembrare un
maniaco patetico.
Perché
vorrei lasciarti andare, ma non ci riesco.
Perché
non riesco a dirti tutto questo e allora mi limito al silenzio e a guardarti da
estraneo.
Perché
vorrei non essere un estraneo.
Perché
vorrei alzarmi da questa sedia e baciarti.
Perché
tu porti il sole nella mia vita.
Perché
vorrei che lo portassi per sempre.
Perché vorrei essere per sempre il
sole nella tua vita.
Perché vorrei che tu fossi per
sempre il sole nella mia vita.
Primavera
era quel bacio che avrebbe dato.
Un
bacio desiderato.
Era colori in festa
e una vita mutevole.